I fattori di
incertezza
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Nelle società tradizionali uno status elevato era sì incredibilmente difficile da conquistare ma, per fortuna, era anche molto difficile da perdere. Smettere di essere lord richiedeva più impegno che smettere di essere un lavoratore manuale. Contavano più i diritti di nascita che i risultati ottenuti nella vita grazie alle proprie capacità. Contava chi si era, non tanto che cosa si faceva.
La grande ambizione delle società moderne è stata invece quella di ribaltare completamente la situazione, eliminando sia i privilegi sia gli impedimenti ricevuti in eredità in modo che il rango e le conquiste personali (cioè, perlopiù, il successo economico) andassero di pari passo. Raramente nella nostra epoca la posizione sociale è legata a un’identità immutabile, trasmessa di generazione in generazione; di solito lo status dipende dalle funzioni che l’individuo svolge nel sistema economico, che si evolve in maniera rapida e inesorabile.
A causa della natura stessa di questo sistema, l’incertezza è il dato più evidente della lotta per la conquista dello status: quando meditiamo sul futuro siamo consapevoli che potremmo essere battuti dai colleghi o dai rivali, talvolta ci accorgiamo di non possedere le doti per raggiungere gli obiettivi prefissati o, ancora, che potremmo essere travolti dalle crisi del mercato. E che il nostro insuccesso può decretare il successo di un nostro pari.
L’ansia è una parente molto stretta dell’ambizione moderna, dato che la sopravvivenza e la stima dipendono da almeno cinque fattori imprevedibili, o meglio da cinque buone ragioni per le quali non dovremmo fare troppo affidamento sulle possibilità che abbiamo di acquisire o di mantenere la posizione desiderata nella scala gerarchica.
1. L’instabilità del talento
Se lo status dipende dai successi che otteniamo, per realizzarci dobbiamo avere il talento e, sempre che per noi la serenità sia un’esigenza prioritaria, la capacità di controllarlo con una certa sicurezza. Spesso, però, non è possibile gestire a nostro piacere il talento, che si manifesta per un determinato periodo e poi scompare inaspettatamente, con gravi conseguenze per la carriera. Ne siamo così poco padroni che persino i successi che abbiamo già riscosso possono sembrarci a volte il frutto dei fattori esterni dai quali dipendono la nostra vita e i mezzi per ottenere i beni di cui disponiamo.
La Musa degli antichi greci è la rappresentazione forse più pregnante della nostra mutevole relazione col talento. Secondo la mitologia greca esistevano nove Muse, ognuna delle quali controllava e conferiva con molta incostanza un determinato dono: c’era la Musa della poesia epica, della storia, della poesia lirica, dell’arte del flauto, della tragedia, della pantomima, della danza, della commedia e dell’astronomia. Chi si distingueva in questi ambiti era perfettamente consapevole che il talento non era suo, ma che gli era stato donato e che poteva essergli tolto di nuovo, se solo le divinità, così suscettibili, avessero cambiato idea.
Secondo la tradizione, i campi in cui le Muse operavano erano molto diversi da quelli oggi più ambiti, eppure, ancora oggi, queste creature mitologiche ci dicono molto del labile controllo che esercitiamo sulle nostre capacità di realizzarci e dell’atteggiamento pavido e ansioso col quale guardiamo al futuro.
2. L’instabilità della fortuna
Lo status dipende anche da una serie di condizioni favorevoli che, con una certa approssimazione, potremmo chiamare «fortuna». Spesso dobbiamo alla fortuna il nostro lavoro e il possesso delle capacità giuste nel momento giusto, e forse è solo per sfortuna se ne siamo privati.
Eppure, al giorno d’oggi, sembra inconcepibile attribuire alla fortuna l’andamento della propria vita. In epoche tecnologicamente meno progredite, quando gli uomini temevano il potere degli dei e i capricci della natura, l’idea che non si potesse esercitare alcun controllo sul destino era molto comune: biasimo e gratitudine ricadevano normalmente su entità esterne quali demoni, folletti, spiriti e dei. Nel Beowulf (ca. 1100 d.C.) apprendiamo, per esempio, che il successo dell’uomo dipendeva dalla volontà del Dio cristiano: nel descrivere la sconfitta inferta alla madre di Grendel, Beowulf dice: «Il combattimento sarebbe subito finito senza l’assistenza di Dio».
Più imparava a prevedere e a controllare le manifestazioni dell’ambiente in cui viveva, meno l’uomo credeva nella fortuna e nelle divinità protettrici. Perciò, se in teoria oggi riconosciamo che la fortuna può influenzare l’andamento di una carriera, in pratica ci riteniamo gli artefici del nostro destino. Attribuire un successo alla «buona sorte» può sembrare eccessivamente modesto, oltre che un po’ sospetto; ma prendersela con la sfortuna per i nostri fallimenti – visto che siamo in tema – serve solo ad attirarci la pietà altrui. Essere vincenti significa costruirsi da sé il proprio destino, dice un mantra moderno che, senza alcun dubbio, avrebbe sconcertato gli antichi romani, adoratori della dea Fortuna, e i fedeli eroi di Beowulf.
Sapere che le nostre conquiste dipendono da situazioni contingenti è ancor più angosciante in un mondo così legato all’idea del controllo razionale in tutti i campi da aver bandito la «sventura» quale spiegazione plausibile della sconfitta.
3. La variabile del datore di lavoro
A rendere tutto più complicato c’è il fatto che molto probabilmente la carriera non dipende da noi ma dal nostro datore di lavoro.
Nel 1907 uscì un libro, intitolato Three Acres and Liberty, che colpì l’opinione pubblica statunitense. Partendo dal presupposto che è imbarazzante dover lavorare per altri, Bolton Hall esortava i lettori a riprendersi la propria libertà lasciando uffici e fabbriche per acquistare a un costo ragionevole quel po’ di terra sufficiente a produrre il cibo necessario per sfamare una famiglia di quattro persone e a costruirsi una casa semplice ma accogliente, senza più essere costretti a adulare colleghi e superiori. Seguivano istruzioni dettagliate per imparare a seminare verdure, realizzare una serra, preparare un orto e comprare bestiame (per avere latte e formaggio a sufficienza una mucca sarebbe bastata, e comunque, precisava Hall, le anatre erano più nutrienti dei polli). L’autore esprimeva un’idea che, da dopo la metà del diciannovesimo secolo, si stava facendo strada nell’opinione pubblica americana ed europea: per condurre una vita serena bisognava liberarsi della tutela dei superiori, lavorare per sé e seguire i propri ritmi in vista della propria felicità.
Questo perché, per la prima volta nella storia, gran parte della popolazione abbandonava le fattorie e le piccole attività famigliari mettendo intelligenza ed energie al servizio di terzi e ricevendone in cambio un salario. Nel 1800 il venti per cento della forza lavoro americana svolgeva un lavoro dipendente; nel 1900 la cifra era salita al cinquanta per cento e nel 2000 al novanta per cento. Nel 1800 i lavoratori americani impiegati in strutture con cinquecento o più dipendenti erano meno dell’un per cento, nel 2000 erano il cinquantacinque per cento.
In Inghilterra il passaggio da una nazione di piccoli produttori agricoli a una di lavoratori salariati fu accelerato dalla scarsità di proprietà comuni, che in passato avevano contribuito alla sopravvivenza della popolazione: questa, infatti, coltivava i campi e vi lasciava pascolare i propri animali, di solito una mucca o una capra a famiglia. Dal diciottesimo secolo in poi gran parte dei campi inglesi «aperti» furono cintati da muri e siepi dai potenti proprietari terrieri. Tra il 1724 e il 1815 un milione e mezzo circa di acri di terra furono chiusi. Secondo la teoria marxista – fortemente contestata dagli storici, ma pur sempre rivelatrice – questa prassi preannunciò la nascita del moderno proletariato industriale, cioè di una classe di lavoratori che, non avendo mezzi propri di sussistenza, dovette vendersi a un imprenditore e a condizioni di gran lunga più vantaggiose per quest’ultimo.
All’incertezza della durata dell’impiego si aggiungono le umiliazioni delle dinamiche lavorative. La struttura piramidale della maggior parte delle aziende, che a partire da un’ampia base di dipendenti si eleva progressivamente al vertice ristretto dei dirigenti, pone un interrogativo assillante e alimenta ulteriormente le nostre angosce. Chi sarà ricompensato? E chi invece resterà senza nulla in mano? Spesso ci riesce difficile valutare con precisione la nostra riuscita in ambito lavorativo; perciò la strada della promozione, o del licenziamento, non sempre parte dai risultati ottenuti. I più abili scalatori delle piramidi aziendali non sono necessariamente i più competenti sul piano professionale, ma sicuramente eccellono in quelle abilità politiche che di solito la vita non insegna.
Può darsi che, di primo acchito, le aziende moderne non abbiano nulla in comune con le corti del passato, ma i consigli forse più efficaci per sopravvivere oggi nel mondo del lavoro ci vengono dalla perspicacia di alcuni nobili vissuti in Italia e in Francia tra il quindicesimo e il diciassettesimo secolo. Ritiratisi a vita privata, raccolsero i loro pensieri e scrissero pagine a volte ciniche, a volte pervase da un’ispirazione aforistica e pungente che sfidano continuamente l’idea che ci siamo fatti del prossimo. I suggerimenti di Machiavelli (1469-1527), Guicciardini (1483-1540), La Rochefoucauld (1613-1680) e La Bruyère (1645-1696) ci danno un’indicazione delle misure di prudenza che, al di là del ruolo che gli compete, un lavoratore deve adottare.
Sulla necessità di guardarsi dai colleghi:
«L’uomo è tanto fallace, tanto insidioso, procede con tante arti sì indirette, sì profonde, è tanto cupido nello interesse suo, tanto poco rispettivo a quello di altri che non si può errare a credere poco, a fidarsi poco.»
GUICCIARDINI
«Vivere coi nemici come se dovessero un giorno esserci amici, e con gli amici come se potessero diventarci nemici non è cosa secondo la natura dell’odio né secondo le regole dell’amicizia: non è affatto una massima di morale, ma di politica.»
LA BRUYÈRE
Sulla necessità di mentire e di esagerare:
«Il mondo ricompensa più di sovente le apparenze del merito che non il merito stesso.»
LA ROCHEFOUCAULD
«Chi è in maneggi grandi o tende a grandezza, cuopri sempre le cose che gli dispiacciono, amplifichi quelle che gli sono favorevoli. È una spezie di ciurmeria, e assai contro alla natura mia; ma, dipendendo el traino di costoro più spesso della opinione degli uomini che dagli effetti, el farsi fama che le cose ti vadino prospere ti giova, el contrario ti nuoce.»
GUICCIARDINI
«Lei è una persona dabbene, non si preoccupa né di piacere né di dispiacere ai favoriti, devoto solo al suo signore e al suo dovere; lei è perduto.»
LA BRUYÈRE
Sulla necessità di minacciare:
«È molto più sicuro essere temuto che amato [...] l’amore è tenuto da uno vinculo di obligo, il quale, per essere gli uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai.»
MACHIAVELLI
«Essendo la più parte [degli uomini] o poco buoni o poco prudenti, bisogna fondarsi più in sulla severità.»
GUICCIARDINI
Perciò è possibile imparare a usare il guanto di velluto e il pugno di ferro come un uomo di corte, e a destreggiarsi con i colleghi come abili marinai lungo una costa irta di scogli, ma in questi casi è difficile sentirsi sereni. Nell’ottica del lavoro d’ufficio o in fabbrica è facile capire la profonda attrattiva di tre acri di terra, di qualche anatra e della libertà.
4. La produttività del datore di lavoro
L’affidabilità di un datore di lavoro non è legata soltanto alle strategie aziendali ma anche alla capacità che ha un’impresa di continuare a ottenere profitti su un mercato in cui è sempre più difficile mantenere le posizioni conquistate e imporre prezzi competitivi. Se la ferocia della concorrenza getta molti lavoratori in preda a un’ansia simile a quella che proverebbe chi si trovasse su un banco di ghiaccio galleggiante in fase di fusione, ciò accade perché il metodo più rapido ed efficace utilizzato dalle aziende per migliorare la redditività è quasi sempre la riduzione del personale.
Le imprese sottoposte a pressioni finanziarie tendono a licenziare i propri dipendenti nei paesi in cui i salari sono elevati per assumerne altri in paesi dove la forza lavoro costa molto meno. Ma possono anche essere tentate di aumentare la redditività fondendosi con aziende concorrenti per poi eliminare il personale in esubero o, ancora, rimpiazzarlo coi robot. Il bancomat fu inventato nel 1968 e installato per la prima volta in una filiale della Manhattan’s Chemical Bank. Dieci anni dopo, nel mondo intero, si contavano cinquantamila sportelli, nel 2000 un milione. Ma questo miracolo della tecnologia non fece fare salti di gioia agli impiegati delle banche: come risultò dalle statistiche, un singolo apparecchio poteva svolgere il lavoro di ben trentasette persone (e per di più non si ammalava quasi mai). Negli Stati Uniti cinquecentomila persone, quasi metà degli addetti agli sportelli di tutto il paese, persero l’impiego tra il 1980 e il 1995, in parte a causa dell’invenzione di queste macchine suadenti e funzionali.
I dipendenti temono, inoltre, le conseguenze della pressione a cui sono sottoposte le aziende che devono lanciare prodotti sempre nuovi e migliori sul mercato. Per lunghi periodi i cicli vitali dei beni e dei servizi sono stati più lunghi di quelli degli esseri umani che li producevano e li consumavano: in Giappone il kimono e il jinbaori sono rimasti immutati per quattrocento anni, nella Cina del diciottesimo secolo uomini e donne portavano abiti della stessa foggia di quelli indossati dai loro avi nel sedicesimo secolo, la forma dell’aratro nell’Europa settentrionale restò invariata fra il 1300 e il 1600. La longevità degli oggetti contribuiva significativamente a rassicurare artigiani e operai sulle prospettive future del loro mestiere. Poi, dalla metà del diciannovesimo secolo, i cicli vitali dei beni durevoli si sono drasticamente accorciati, e questo ha minato le certezze dei lavoratori.
In quasi tutti i settori economici si rilevano casi di prodotti e servizi che hanno subito un rapido declino, come è stato per i canali dopo l’avvento delle ferrovie, i transatlantici dopo la scoperta del motore a reazione, il cavallo dopo l’introduzione dell’automobile, la macchina da scrivere dopo l’invenzione del personal computer.
La smania di cambiamento del mercato contagia le aziende, e a volte i costi di produzione sono così elevati che dal successo di un singolo articolo può dipendere la loro sopravvivenza. L’industria è un po’ come un giocatore d’azzardo al quale non sia permesso di ritirarsi prudentemente dopo una mano fortunata: deve rischiare continuamente le sue fortune e i suoi dipendenti in poche puntate, o magari in una sola, accumulando grandi ma effimere ricchezze o autodistruggendosi.
5. L’andamento dell’economia
La sopravvivenza delle aziende e dei loro dipendenti viene ulteriormente minacciata dagli equilibri complessivi dell’economia.
La storia economica delle nazioni occidentali è stata caratterizzata sin dall’inizio del diciannovesimo secolo da cicli ripetuti di crescita e di recessione. Di solito, a quattro o cinque anni d’espansione seguono uno o due anni di crisi, e magari altri cinque o sei anni di politiche protezionistiche del mercato. I grafici della ricchezza nazionale ricordano il profilo frastagliato di una catena montuosa: ogni gola rappresenta la bancarotta di un’azienda da lungo tempo attiva sul mercato, licenziamenti, chiusura di fabbriche, dissolvimento di capitali. Potremmo anche pensare che siano fenomeni legati allo sviluppo abnorme di alcuni settori non più adeguati alle esigenze dell’economia moderna ma, nonostante l’impegno dei governi e delle banche centrali, prevedere queste crisi è sempre molto difficile.
Ogni ciclo presenta caratteristiche simili. In una fase di crescita economica le aziende investono per soddisfare le future richieste del mercato. I costi di produzione tendono a salire, come del resto il valore dei titoli, soprattutto azionari e immobiliari, in parte gonfiati dalle manovre degli speculatori. In questa fase i tassi di interesse tendono a scendere e aumentano gli investimenti in società ad alto impiego di capitale. Ma mentre la domanda e la produzione di beni rallentano nel breve periodo, in percentuale, i consumi continuano a crescere. Si risparmia sempre meno e aumentano i prestiti alle famiglie e alle imprese. Per soddisfare la domanda interna, le importazioni crescono e le esportazioni calano, causando un deficit nella bilancia dei pagamenti. L’economia entra così in una congiuntura sfavorevole, contraddistinta da un eccesso di investimenti, di consumi e di concessioni di prestiti. A questo punto inizia il lungo scivolone nella fase recessiva. I prezzi aumentano perché si riduce la produttività e insieme crescono la quantità di denaro in circolazione e le manovre speculative. Crescono anche i tassi di interesse e l’ammontare degli interessi passivi sui capitali in prestito e non ancora rimborsati. I titoli, sopravvalutati nella fase di crescita, perdono valore. Diventa impossibile rimborsare i prestiti, e quindi diventa più difficile anche ottenerli. Redditi, investimenti e consumi crollano. Le aziende e gli imprenditori sono in difficoltà o dichiarano fallimento, e la disoccupazione sale. Col venir meno della stabilità economica, prestiti e consumi continuano a diminuire. Gli investimenti a lungo termine effettuati nella fase precedente di crescita producono i risultati attesi ma, mentre l’offerta di beni sale incoraggiata dalla riduzione della pressione fiscale, la domanda scende, e questo porta alla caduta dei prezzi. Le aziende sono costrette a vendere rinunciando a una parte dei profitti, e la crisi si aggrava. I potenziali acquirenti attendono che i prezzi di mercato tocchino il fondo prima di comperare, rallentando ulteriormente la ripresa.
Più che un segnale d’isteria, l’ansia costante è una risposta plausibile alle minacce dell’economia.

Variazioni in percentuale del prodotto
interno lordo pro capite degli
Stati Uniti, 1890-2000
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Siamo ossessionati dalla paura dell’insuccesso perché il successo rappresenta l’unico mezzo per ottenere l’approvazione altrui. Certo, un legame famigliare, un’amicizia o un’attrazione sessuale destano spesso sentimenti disinteressati, ma saremmo troppo ottimisti se pensassimo che questo possa sempre bastare per soddisfare le esigenze della persona amata. Sorridere è più facile quando se ne ha un’ottima ragione.
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Adam Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776):
«L’uomo ha invece quasi sempre bisogno dell’aiuto dei suoi simili e lo aspetterebbe invano dalla sola benevolenza; avrà molta più probabilità di ottenerlo volgendo a suo favore l’egoismo altrui e dimostrando il vantaggio che gli altri otterrebbero facendo ciò che egli chiede [...] Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse [...] Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo».
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Secondo una certa teoria, macellai, birrai e panettieri non sarebbero sempre così insensibili: a volte sono anche disposti a darci da mangiare non in cambio del nostro denaro, ma per gentilezza o perché ci conoscono. Il tornaconto economico non ha, secondo la suddetta tesi, un ruolo esclusivo: è un’evoluzione storica recente, un prodotto dell’era moderna e del capitalismo avanzato. Nell’epoca feudale esso veniva fortemente controbilanciato da considerazioni che non erano di natura materiale: i lavoratori erano considerati membri delle famiglie dei loro padroni, e avevano diritto alla lealtà e alla gratitudine. Inoltre la dottrina cristiana contribuì ad alimentare l’interesse per i deboli e gli affamati, nonché a instaurare una sorta di tacito patto, in base al quale, in caso di difficoltà, questi sarebbero stati assistiti.
Questi legami patriarcali e comunitari furono, sempre secondo la tesi in questione, dissolti dall’ascesa al potere della borghesia, nella seconda metà del diciottesimo secolo. La classe borghese, immensamente potente in quanto proprietaria del capitale e delle tecnologie, si curava solo della ricchezza: cinica e utilitarista, considerava i lavoratori come un mezzo per raggiungere i propri fini, non si preoccupava delle loro famiglie e non si lasciava condizionare dai bisogni dei malati, degli anziani o dei bambini. Nello stesso tempo, la popolazione delle campagne migrava sempre più verso i grandi centri urbani, in un clima competitivo e convulso che distruggeva ogni contatto umano. A peggiorare le cose si aggiunse l’intiepidirsi dello spirito cristiano in coloro che detenevano il potere, e questo portò alla scomparsa del rispetto per i poveri e del senso comunitario.
Nel Manifesto del partito comunista Karl Marx, il più fervido sostenitore di questa teoria, descrive il trionfo degli interessi finanziari con una prosa dai toni visionari e apocalittici: «La borghesia, laddove è giunta al potere, ha distrutto tutti i rapporti feudali, patriarcali, idilliaci. Ha freddamente spezzato tutti quei variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo ai suoi naturali superiori e non ha lasciato valere altro legame tra uomo e uomo all’infuori del crudo interesse, dello spietato ’pagamento in contanti’. Ha annegato nella gelida acqua del calcolo egoistico tutti i sacri slanci dell’esaltazione religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco, del sentimentalismo filisteo. Ha dissolto la dignità personale in un valore di scambio».
Nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785) Immanuel Kant sosteneva che comportarsi eticamente nei confronti del prossimo significasse rispettare gli altri considerandoli come «fini in sé» invece di usarli come «mezzi» per acquisire fama e ricchezze. Citando Kant, Marx ora accusava la borghesia, e la scienza borghese, l’economia, di praticare l’«immoralità» su vasta scala: «L’economia politica conosce l’operaio soltanto come soma da lavoro, come una bestia ridotta ai più elementari bisogni della vita». I salari pagati ai dipendenti erano, secondo Marx, come «l’olio dato alle ruote per conservarle in moto [...] Il vero scopo della produzione è non già quanti operai possa mantenere un capitale, ma quanti interessi produca».
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Marx sarà anche stato un cattivo storico, avrà anche idealizzato arbitrariamente il passato preindustriale e condannato senza giustificazione la borghesia, ma le sue teorie conservano un fondamento di validità perché colgono e mettono in luce l’inevitabile conflitto tra dipendente e datore di lavoro.
Al di là delle numerose varianti locali e delle differenze di stile e di gestione, il presupposto logico di qualsiasi organizzazione commerciale può essere riassunto con una semplice, asettica equazione:
INPUT OUTPUT
Materia prima + forza lavoro + macchinari = prodotto + profitto
Ogni struttura cerca di dotarsi di materie prime, forza lavoro e macchinari al minor prezzo possibile per usarli in combinazione e realizzare un prodotto che possa essere venduto al maggior prezzo possibile. Nell’ottica economica, non vi sono differenze tra i vari elementi di input: sono tutti beni che un’azienda razionale tenterà di procurarsi a basso costo e di gestire con la massima efficienza in nome del profitto.
Eppure, tra la «forza lavoro» e gli altri elementi esiste una differenza che l’economia tradizionale non ha modo di rappresentare né di considerare nella giusta ottica, ma che, purtroppo, esiste: la forza lavoro prova dolore.
Quando diviene troppo costosa, una linea di produzione può essere chiusa, ma non invoca il cielo per l’ingiustizia subita: un’azienda può passare al gas naturale senza destare alcuna reazione nel carbone. La forza lavoro, invece, di solito reagisce emotivamente se qualcuno cerca di ridurne il valore o l’entità: singhiozza nelle toilette, beve per far tacere la paura del fallimento e al licenziamento può persino preferire la morte.
Di qui la necessità di rispettare due imperativi categorici: quello economico, per cui compito primario di un’attività è realizzare un profitto, e quello umano che salvaguarda il diritto alla sopravvivenza, al rispetto e alla stabilità della condizione dei lavoratori.
Malgrado i due imperativi possano coesistere a lungo senza attriti, l’ansia rimane perché il lavoratore dipendente sa che nel caso si imponga una scelta obbligata tra i due, prevarrà sempre, per la logica stessa delle leggi di mercato, l’imperativo economico.
La lotta tra forza lavoro e capitale, almeno nei paesi sviluppati, non è più così accesa come ai tempi di Marx; eppure, nonostante il miglioramento delle condizioni lavorative e della legislazione, la manodopera rimane il semplice strumento di un processo in cui la felicità si concilia col benessere economico per puro caso. Al di là dell’amicizia che si può instaurare tra padroni e dipendenti, al di là della buona volontà che i lavoratori possono dimostrare dedicandosi per tanti anni allo svolgimento di una mansione, questi ultimi devono vivere con la consapevolezza e l’ansia della precarietà della loro condizione. Avranno sempre ben chiaro che tutto dipende sia dalle loro prestazioni sia dalla solidità delle aziende, e che perciò la loro vita è il mezzo attraverso cui si realizza un profitto, e non il comune desiderio di un’esistenza piena e appagante sul piano emozionale.
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L’importanza della stabilità economica non dipende solo dal denaro ma anche, per tornare a quanto si diceva all’inizio, dall’amore, dato che è il lavoro a stabilire quanto rispetto e quanta attenzione meritiamo dal prossimo. A seconda di cosa rispondiamo alle domande sulla nostra professione – le prime che ci sentiamo rivolgere quando facciamo nuove conoscenze – riceveremo un diverso trattamento.
Purtroppo per il nostro benessere, è sempre più difficile esibire i requisiti giusti a causa dell’incidenza dei fattori economici, della concorrenza sul mercato e dei capricci della sorte. Ma intanto continuiamo ad avvertire, né più né meno che nell’infanzia, il nostro bisogno d’amore. Lo squilibrio tra le nostre esigenze e l’incertezza del mondo costituisce il quinto, solido, pilastro su cui poggia l’ansia da status.