La misantropia intelligente

 

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Se abbiamo prestato ascolto alle critiche mosse al nostro comportamento, se abbiamo lavorato sulle ansie dovute alle nostre ambizioni e ci siamo assunti la responsabilità dei nostri fallimenti ma rimaniamo inchiodati al nostro modesto status di sempre, allora potremo cedere alla tentazione di adottare l’approccio usato da alcuni dei più grandi filosofi occidentali. In altre parole, dopo aver ponderato le storture di questo sistema di valori, opteremo per un atteggiamento di misantropia intelligente, che non ha nulla a che fare né con lo stare sulla difensiva né con l’orgoglio dell’isolamento volontario.

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Quando prendiamo in considerazione le opinioni altrui, dicono i filosofi, facciamo una scoperta avvilente ma a suo modo liberatoria: ci accorgiamo, cioè, che sono fondate sul pregiudizio e sulla confusione. Portavoce dell’approccio misantropico adottato da generazioni di filosofi prima e dopo di lui, Chamfort ha saputo sintetizzare magistralmente il problema: «L’opinione pubblica è la peggiore di tutte».

Questo perché siamo riluttanti a sottoporre i nostri pensieri al vaglio della ragione e tendiamo piuttosto ad affidarci all’impressione del momento, all’emotività e all’abitudine. «Si può essere certi che qualsiasi idea comune, qualsiasi nozione generalmente accettata sia un’idiozia, perché ha potuto far presa sulla maggioranza» osserva Chamfort, aggiungendo che quello che chiamiamo eufemisticamente «buon senso» rasenta di solito il nonsenso, pecca d’illogicità, di semplicismo, di superficialità ed è frutto di una visione preconcetta: «Le usanze più assurde e le cerimonie più ridicole vengono ovunque giustificate con un ’Ma è tradizione’. Questo è esattamente ciò che rispondono gli ottentotti quando gli europei chiedono loro perché si cibino di cavallette e divorino i loro stessi pidocchi. ’È tradizione’».

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Per quanto penoso possa essere, riconoscere la meschinità dell’opinione pubblica ha effetti positivi sull’ansia da status, sulla smania d’essere stimati e sulla condizione di fragilità in cui ci troviamo quando desideriamo un po’ d’amore.

L’approvazione altrui è importante per due ragioni: per una ragione materiale, perché l’indifferenza della comunità può comportare disagi fisici e pericoli, e per una psicologica, perché è difficile continuare a credere in se stessi dopo che gli altri hanno smesso di trattarci con rispetto.

È proprio in relazione a quest’ultimo aspetto che i benefici dell’approccio filosofico sono più evidenti, data l’importanza di saper valutare innanzitutto la fondatezza del comportamento degli altri senza subirne l’ostilità o l’indifferenza. Solo le accuse gravi e fondate hanno diritto di ledere la nostra autostima. Insomma, dobbiamo bloccare quel processo masochistico che ci induce a ricercare l’approvazione del prossimo prima ancora di chiederci se le sue opinioni meritino di essere ascoltate, e smettere di cercare l’amore di qualcuno che poi, appena impariamo a conoscerlo, ci accorgiamo di non stimare.

Potremmo allora iniziare, pur senza rancore, a disprezzare chi a sua volta ci disprezza, assumendo una posizione misantropica, sulla scia delle numerose e autorevoli testimonianze che ci giungono dalla filosofia.

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«A prescindere da questo, quanto avviene in una coscienza estranea è come tale per noi indifferente, e poco alla volta noi ci sentiremo anche indifferenti nei suoi confronti, quando acquisteremo una sufficiente conoscenza della superficialità e della futilità dei loro pensieri, della limitatezza dei concetti, della meschinità degli animi, della falsità delle opinioni, e del numero degli errori [...] Vedremo allora, che chi ripone un grande valore nell’opinione degli uomini, dimostra loro troppo onore» afferma Arthur Schopenhauer, uno dei più illustri esponenti della misantropia filosofica.

In Parerga e Paralipomena (1851) il filosofo sostiene che nulla potrebbe ridimensionare il nostro desiderio di piacere agli altri più del constatare quale sia la loro vera indole che, aggiunge, è in genere rozza e ottusa. «In ogni paese il principale intrattenimento della società è giocare a carte» osserva. «Esso è indicativo del valore della società e del palese fallimento di tutte le idee e i pensieri.» I giocatori di carte erano, inoltre, solitamente scaltri e immorali: «[Il termine] coquin méprisable [spregevole canaglia] è un predicato, che può attribuirsi nel mondo a un’infinità di soggetti». E quando non è malvagia, di solito la gente è noiosa. Schopenhauer cita con approvazione le parole di Voltaire a questo proposito: «La terre est couverte de gens qui ne méritent pas qu’on leur parle» (La terra pullula di persone che non sono degne di vedersi rivolgere la parola).

Possiamo davvero considerare seriamente le opinioni di simili individui? si chiedeva il filosofo. Possiamo davvero continuare a far sì che i loro giudizi influenzino l’idea che abbiamo di noi stessi? La nostra autostima può ragionevolmente essere lasciata in mano a un pugno di giocatori di carte? Ammesso anche che abbiano rispetto per qualcuno, che valore ha il loro rispetto per noi? O, per citare ancora Schopenhauer, «forse che un virtuoso si sentirebbe adulato dall’applauso scrosciante del suo pubblico, se venisse a sapere che questo è formato, a parte due o tre eccezioni, di persone completamente sorde?»

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Lo svantaggio di una simile visione, peraltro molto acuta, dell’umanità è che restiamo con pochi amici. Chamfort, collega di misantropia di Schopenhauer, va garbatamente al nodo del problema: «Quando decidiamo di frequentare solo chi ci tratta eticamente e virtuosamente, ragionevolmente e sinceramente, considerando le convenzioni, le futilità e le cerimonie come semplici supporti della società bene educata, quando prendiamo tale decisione (dobbiamo farlo, per non diventare ridicoli, deboli o malvagi), il risultato è che finiamo per vivere più o meno soli».

E Schopenhauer ne prese atto con buona grazia. «Nel mondo esiste unicamente la scelta tra solitudine e grossolanità» scrive, aggiungendo che «un esercizio essenziale della gioventù dovrebbe consistere nell’imparare a sopportare la solitudine» e che «meglio di tutti si troverà colui che ha fatto assegnamento solo su di sé.» Per fortuna, dopo aver passato un po’ di tempo a vivere e a lavorare con i suoi simili, chiunque abbia un po’ di buon senso, suggerisce il filosofo, sentirà «poco l’attrattiva per un frequente contatto col prossimo, quanto poco i pedagoghi sentono lo stimolo di immischiarsi ai giochi della schiera di fanciulli, che fanno chiasso attorno a loro».

La decisione di evitare il prossimo non significa che non desideriamo in alcun modo di stare in compagnia, ma semplicemente che siamo insoddisfatti delle conoscenze disponibili al momento. I cinici non sono che idealisti così esigenti da risultare quasi imbarazzanti. Come afferma Chamfort, «talora di un uomo che vive solo si dice che non ama la società. Ciò equivale ad affermare che qualcuno non ama passeggiare solo perché non gradisce farlo di notte nella foresta di Bondy».

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I filosofi ci esortano, dunque, a seguire la nostra coscienza più che i cenni di approvazione o di biasimo. Conta non ciò che sembriamo ma ciò che sappiamo di essere. Come dice Schopenhauer, «ogni rimprovero può far male solo nella misura in cui colpisce il bersaglio. Chiunque sappia veramente di non meritarsi rimproveri, sa reagirvi, e vi reagisce, con sprezzo».

Secondo i filosofi della misantropia dovremmo dunque liberarci del desiderio puerile di gestirci da noi la nostra reputazione – cosa impossibile perché richiederebbe in teoria che ci battessimo a duello per uccidere chiunque avesse un’opinione negativa di noi – e fondare la nostra autostima sulla logica.