Introduzione
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A metà del secolo diciannovesimo in Gran Bretagna ci si interrogava sulla funzione dell’arte. Molti rispondevano che si trattava di ben poca cosa. Non era stata l’arte a creare le grandi città industriali, le ferrovie, i canali e a estendere i confini dell’Impero né a conferire al regno il suo posto di primo piano tra le altre nazioni. Al contrario, sembrava minacciare le qualità di un popolo che si era dimostrato capace di tante conquiste, e un contatto troppo prolungato con l’arte rendeva effeminati, omosessuali, disfattisti e troppo inclini all’introspezione, oltre ad aumentare il rischio di ammalarsi di gotta. In un discorso del 1865, John Bright, deputato per la città di Birmingham, parlò degli uomini di cultura come di una cricca boriosa che pensava di distinguersi solo per il fatto di possedere «un’infarinatura delle due lingue morte, il greco e il latino». L’accademico oxfordiano Frederic Harrison espresse un parere altrettanto caustico in merito ai benefici di un contatto prolungato con la letteratura, la storia, la pittura: «La cultura è una qualità desiderabile nel critico letterario, e si confà a un conoscitore delle belles lettres ma, applicata alla vita quotidiana o alla politica, incoraggia la tendenza a cercare il pelo nell’uovo, la predilezione egoistica del benessere e la titubanza nell’agire. L’uomo di cultura è il più povero e il più meschino della terra. Nessuno lo supera per pedanteria e mancanza di buon senso. Per lui nessuna ipotesi è assurda, e non sa distinguere il possibile dall’impossibile».
Quando questi denigratori convinti si misero alla ricerca di chi meglio potesse rappresentare i molteplici difetti dell’arte, non trovarono bersaglio più facile, nel mondo letterario inglese, del poeta e critico Matthew Arnold. Docente di poesia a Oxford e autore di numerosi volumetti di versi malinconici accolti favorevolmente dall’élite intellettuale, Arnold aveva l’abitudine di passeggiare per le vie di Londra con un bastone dal puntale d’argento, parlava in tono pacato, anche se con una vocetta un po’ acuta, ostentava basette piuttosto lunghe, portava i capelli con la riga in mezzo e, peggio ancora, aveva avuto l’impudenza di affermare, in numerosi articoli e conferenze, che l’arte era una delle cose più importanti della vita. Questo nell’epoca in cui la Gran Bretagna, che si era guadagnata il titolo di nazione leader del mondo, aveva reso possibile raggiungere Birmingham da Londra in una mattina. Il «Daily Telegraph», fiero sostenitore dell’industria e della monarchia, s’infuriò; definì Arnold un «elegante Geremia», «il sommo sacerdote della persuasione sottile» e ironizzò sul suo conto accusandolo di voler indurre i lavoratori di buon senso a «lasciarsi le loro attività e i loro doveri alle spalle per recitare versi, cantare ballate e leggere saggi».
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Arnold incassò elegantemente i colpi finché, nel 1869, non decise di scrivere una difesa sistematica ed esauriente dell’arte, e della ragione per cui svolgeva una funzione tanto importante persino per una generazione che aveva assistito all’invenzione dell’ombrello pieghevole e della macchina a vapore.
In Cultura e anarchia esordisce riconoscendo la fondatezza di alcune critiche: per molti l’arte non era che «un balsamo profumato per l’infelicità umana, una religione che alimentava uno spirito di colta inoperosità anziché indurre i suoi fedeli a dare il loro contributo per sradicare i mali. Spesso viene accusata di essere lontana dal mondo pratico o – per citare una nota espressione dei critici – di essere un coacervo di sciocchezze».
In realtà la grande arte, proseguiva Arnold, è un mezzo capace di offrire una soluzione alle tensioni e alle ansie esistenziali più profonde. Per quanto ai «giovani leoni del ’Daily Telegraph’» sembrasse lontana dal mondo reale, poteva fornire un’interpretazione e un rimedio alle manchevolezze della vita.
L’opera di qualsiasi grande artista, diceva, è dettata, direttamente o indirettamente, dal «desiderio di cancellare qualsiasi errore umano, eliminare la confusione umana e diminuire l’infelicità umana». Tutti i grandi artisti «ambiscono a lasciare il mondo più bello e più felice di quanto non lo abbiano trovato». Non sempre esprimono questa aspirazione in un messaggio politico chiaro, anzi, potrebbero perfino non essere consapevoli di nutrirla, eppure nelle loro opere si coglie sempre una nota di protesta per lo stato delle cose e un tentativo di correggere le nostre convinzioni, di insegnarci a percepire la bellezza, a capire il dolore, a risvegliare la sensibilità, a stimolare l’empatia o a riequilibrare la nostra visone morale del mondo infondendoci tristezza o allegria. Arnold conclude infine la sua tesi con l’asserzione da cui abbiamo preso le mosse: l’arte è «critica della vita».
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Che cosa può voler dire quest’espressione? La prima, e più ovvia, considerazione, è che la vita debba essere analizzata in modo critico, e che noi, angeli caduti, corriamo perennemente il rischio di adorare falsi dei, di non capire noi stessi e di fraintendere il comportamento altrui, di sviluppare ansie o desideri sterili, e di perderci nella vanità e nell’errore. In modo arcano o piacevole, con umorismo o solennità, le opere d’arte – romanzi, poesie, pièce teatrali, dipinti, film – possono spiegarci la condizione in cui ci troviamo e aiutarci a comprendere la realtà in modo più profondo, ponderato e intelligente.
Premesso che poche cose richiedono tanta sensibilità critica e capacità di analisi quanto l’atteggiamento con cui ciascuno di noi si pone di fronte al problema dello status system, non sorprende che molti artisti, in diverse epoche storiche, abbiano contestato i criteri che regolano il riconoscimento dello status sociale. Nella storia dell’arte, anzi, abbondano le sfide lanciate contro la società in forma ironica, violenta, lirica, triste o divertente.