La commedia

 

1

Nell’estate del 1831, il re di Francia Luigi Filippo poteva considerarsi soddisfatto. Il caos politico ed economico della Rivoluzione di luglio, che lo aveva condotto al potere un anno prima, stava ormai cedendo il passo a un periodo di prosperità e di ordine. Il sovrano si era circondato di un’équipe di funzionari competenti guidati dal primo ministro Casimir Périer. Durante una visita nelle regioni settentrionali e orientali del regno il sovrano era stato accolto come un eroe dalle classi medie di provincia e risiedeva tra gli splendori del Palais Royal a Parigi, dove ogni settimana si tenevano banchetti in suo onore. Luigi Filippo amava mangiare, soprattutto il foie gras e la selvaggina, disponeva di un ingente patrimonio e aveva una famiglia affettuosa.

Ary Scheffer, Il re di Francia Luigi Filippo, 1835

Ary Scheffer, Il re di Francia Luigi Filippo, 1835

Ci fu tuttavia una questione che mise a dura prova il suo autocontrollo. Verso la fine del 1830 un artista ventottenne sconosciuto di nome Charles Philipon pubblicò una rivista satirica, «La Caricature», che ritraeva il sovrano, accusato di corruzione e di profonda incompetenza, con la testa a forma di pera. Il disegno di Philipon, oltre ad alludere alle grosse guance cascanti e alla fronte prominente del re, giocava sul significato della parola poire, che in gergo voleva dire anche «stupido», «zuccone» e suonava irriverente nei confronti delle capacità amministrative di Luigi Filippo.

Les_Poires_tif

Il re s’infuriò e diede ordine ai suoi agenti di bloccare la stampa della rivista e di comprarne tutte le copie già distribuite nelle edicole parigine. Quando comprese che queste misure non sarebbero bastate a frenare Philipon, nel novembre del 1831 lo accusò di aver «arrecato offesa alla persona del re» e gli ordinò di presentarsi in tribunale. In quell’occasione il caricaturista parlò di fronte a un’aula gremita di persone e ringraziò gli accusatori che lo avevano arrestato, essendo lui un uomo tanto pericoloso, ma aggiunse che il governo era stato negligente nel dare la caccia ai detrattori del re: ce n’erano migliaia sugli alberi di tutta la Francia, e ognuno di quei frutti era un criminale da rinchiudere. La corte, tuttavia, non apprezzò il suo umorismo e lo condannò a sei mesi di prigione. Quando, l’anno seguente, Philipon ripubblicò la stessa vignetta su un’altra rivista, «Le Chiarivari», finì immediatamente in carcere. In tutto, per aver fatto una caricatura del sovrano, l’artista passò due anni dietro le sbarre.

Trent’anni prima Napoleone Bonaparte, a quel tempo l’uomo più potente d’Europa, si era dimostrato altrettanto privo di senso dell’umorismo. Quand’era salito al potere, nel 1799, aveva ordinato la chiusura di tutti i giornali satirici parigini e comunicato al capo della polizia, Joseph Fouché, che non avrebbe tollerato che i vignettisti si prendessero troppe libertà nel ritrarlo; incaricò invece Jacques-Louis David di raffigurarlo mentre conduceva eroicamente l’esercito attraverso le Alpi, a cavallo. Così nacque Bonaparte valica il Gran San Bernardo (1800). Entusiasta del risultato, Napoleone invitò l’autore a ritrarre il più grande dei suoi trionfi: l’incoronazione a imperatore a Notre-Dame, nel dicembre 1804. Si trattò di una cerimonia molto fastosa a cui presenziarono tutti i grandi di Francia, oltre al papa Pio VII e i rappresentanti dei paesi europei in segno di omaggio. Per l’occasione, Jean-François Lesueur compose appositamente le musiche.

Mentre benediceva Napoleone, nella cattedrale affollata, il papa esclamò: «Vivat imperator in aeternum». Nel novembre del 1807 David completò l’Incoronazione di Napoleone e la offrì al suo «esimio signore». Napoleone, esultante, nominò David ufficiale della Legion d’Onore «per servigi resi all’arte» e, mentre gli appuntava la medaglia al petto, lo ringraziò per aver riportato il buon gusto in Francia.

Jacques-Louis David, L’incoronazione di Napoleone, 1807

Jacques-Louis David, L’incoronazione di Napoleone, 1807

Non tutti gli artisti, tuttavia, vedevano Napoleone con gli occhi di David. Pochi anni prima che venisse ultimata l’Incoronazione di Napoleone, il caricaturista inglese James Gillray aveva raffigurato una scena quasi identica intitolandola La grande processione dell’incoronazione di Napoleone, primo imperatore di Francia (1805), ma nessuno gli conferì la Legion d’Onore per aver riportato il buon gusto in Francia.

Il disegno rappresenta l’imperatore agghindato per l’occasione, impettito e gonfio d’orgoglio, alla testa di un corteo di leccapiedi, adulatori e prigionieri di guerra. Anche qui figura Pio VII, con la differenza però che il papa di Gillray nasconde sotto le vesti un corista il quale, toltosi la maschera, si rivela essere il diavolo. Giuseppina, lungi dall’essere la fresca fanciulla ritratta da David, è una specie di mongolfiera con la pelle butterata dall’acne. I rappresentanti dei paesi conquistati, Prussia, Spagna e Olanda, reggono lo strascico dell’imperatore, ma è evidente che non si tratta di un gesto spontaneo. Alle loro spalle si scorgono alcune file di soldati in catene, come a dire che Napoleone non era un imperatore a cui il popolo avesse conferito liberamente il potere. A tenere tutti in riga c’è il capo della polizia, Joseph Fouché che, come lo stesso Gillray spiega nella didascalia, «regge la spada della giustizia», sporca di sangue.

Napoleone andò su tutte le furie e chiese a Fouché d’incarcerare senza processo chiunque fosse stato sorpreso a introdurre copie del disegno in Francia, presentò ufficialmente le sue rimostranze mediante l’ambasciatore francese a Londra e giurò che, se mai fosse riuscito a invadere l’Inghilterra, avrebbe dato la caccia a Gillray.

Quando aveva negoziato il Trattato di Amiens con gli inglesi, nel 1802, aveva tentato persino di inserire una clausola per la quale chiunque gli avesse fatto una caricatura avrebbe dovuto essere considerato alla stregua di un assassino e di un falsario ed estradato in Francia per il processo. Gli inglesi, allibiti, opposero il loro rifiuto.

2

Luigi Filippo e Napoleone non avrebbero reagito in questo modo se l’umorismo fosse solo uno scherzo innocente. Essi furono tra i primi a riconoscere che burle e canzonature sono un modo per muovere critiche o, meglio, un modo diverso per lagnarsi dell’arroganza, della crudeltà, della boria e per denunciare lo smarrimento della virtù e del buon senso.

La loro efficacia è dovuta al fatto che racchiudono un insegnamento anche se sembrano solamente voler divertire. I comici non hanno bisogno di recitare un sermone per parlare degli abusi di potere, ma ci inducono a riconoscere con un sogghigno le ragioni del loro rammarico nei confronti dell’autorità.

Inoltre, fatta eccezione per l’esperienza di Philipon, lo scherzo e la battuta permettono di lanciare messaggi che sarebbe pericoloso o addirittura impossibile diffondere in modo diretto. Storicamente, i giullari di corte usavano con i reali il tono faceto per far passare cose che non avrebbero potuto dire in tono serio. Pare che quando Giacomo I d’Inghilterra, a capo di un clero notoriamente corrotto, lamentò di non riuscire a far ingrassare uno dei suoi cavalli, il giullare di corte Archibald Armstrong gli abbia suggerito di trasformarlo in vescovo: così l’animale avrebbe messo su in fretta i chili necessari. Nel Motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1905) Freud scrive che uno scherzo ci consente di sfruttare un aspetto ridicolo del nostro avversario che non potremmo cogliere apertamente o consciamente per l’interferenza di un ostacolo. In tal modo le critiche possono essere recepite dall’ascoltatore con un’attenzione che non riscuoterebbero in forma seria, e questo spiega perché lo scherzo sia preferito soprattutto per muovere critiche a persone altolocate.

Ciò premesso, non tutte le persone in vista possono essere oggetto di umorismo. È difficile ridere di un chirurgo che effettua interventi delicati; se mai, lo facciamo quando, dopo un’operazione, torna a casa e intimidisce la famiglia usando il gergo ampolloso della sua categoria.

James Gillray, La grande processione dell’incoronazione di Napoleone, primo imperatore di Francia, 1805

James Gillray, La grande processione dell’incoronazione di Napoleone, primo imperatore di Francia, 1805

Ridiamo dell’eccesso e dell’esagerazione. Ridiamo dei sovrani che vorrebbero dare di sé un’immagine sproporzionata rispetto alla loro abilità o che sono diventati più potenti che buoni, e di coloro che sull’onda del successo hanno dimenticato la loro umanità e abusano dei privilegi di cui godono. Ridiamo e, con il nostro riso, critichiamo ingiustizie e intemperanze.

Nelle mani dei migliori comici, perciò, il riso acquista un fine morale, e gli scherzi divengono tentativi di persuadere gli altri a correggere abitudini e aspetti del loro carattere. Gli scherzi sono un modo per proporre un ideale politico alternativo, per richiamarsi all’equità e al buon senso. Come sosteneva Samuel Johnson, la satira è solo un modo diverso, ma particolarmente efficace, di «biasimare la malvagità o la follia». «Il vero scopo della satira è correggere i vizi» gli faceva eco John Dryden.

3

La storia non manca di scherzi e battute destinati a correggere i vizi delle categorie che occupano uno status elevato, a spogliare i potenti di ogni presunzione e a denunciarne la disonestà.

Nell’Inghilterra della fine del diciottesimo secolo le giovani benestanti portavano parrucche spropositate. I vignettisti, infastiditi dall’assurdità di quest’uso, si cimentarono ben presto per invitare le interessate a ridimensionarsi, ma in maniera indiretta. Il messaggio, come osserverà Freud, non avrebbe potuto essere comunicato apertamente, visto che le dame in questione erano proprietarie di gran parte del regno.

Incisione tratta dall’«Oxford Magazine», 1771

Incisione tratta dall’«Oxford Magazine», 1771

Nella stessa epoca, tra le signore dell’alta società, che sino a poco prima non si erano mai interessate ai figli, si diffuse la moda di allattare al seno: per seguire le tendenze progressiste, donne che non sapevano nemmeno dove fosse la nursery iniziarono a scoprirsi il seno, magari a tavola, tra una portata e l’altra. Anche in questo caso, naturalmente, i vignettisti non mancarono di lanciare un appello alla moderazione.

James Gillray, La mamma alla moda, 1796

James Gillray, La mamma alla moda, 1796

Nella seconda metà del diciannovesimo secolo le classi altolocate inglesi assunsero l’artificiosa abitudine di parlare in francese, soprattutto al ristorante, in modo da dare un’impressione di superiorità e d’importanza. Il «Punch» si affrettò a far osservare che era un altro vizio da correggere.

SCENA: Un ristorante vicino a Leicester Square JONES: «Oh, ehm, garson regardé isi, apporté vu... le... la...» CAMERIERE: «Vi chiedo perdono, signore, ma io non so il francese!» JONES: «E allora, per la miseria, mandatemi qualcuno che lo sappia!»

SCENA: Un ristorante vicino a Leicester Square
JONES: «Oh, ehm, garson regardé isi, apporté vu... le... la...»
CAMERIERE: «Vi chiedo perdono, signore, ma io non so il francese!»
JONES: «E allora, per la miseria, mandatemi qualcuno che lo sappia!»

Dal «Punch», 1895

Un secolo dopo, negli Stati Uniti, nell’élite di Manhattan imperversavano ancora «malvagità e follia» tali da attirare l’attenzione dei vignettisti del «New Yorker». Nel mondo degli affari i dirigenti esibivano pose amichevoli nei confronti dei dipendenti, ma il loro atteggiamento non era sincero: semplicemente celavano pratiche di brutale sfruttamento dietro un linguaggio tecnocratico e incolore per conferire una sorta di rispettabilità a uno sfruttamento non molto diverso da quello esercitato nelle fabbriche di un tempo. Ma i vignettisti non si lasciarono trarre in inganno.

Su una galera: «Servono risorse umane?»

Su una galera: «Servono risorse umane?»

Le aziende continuavano ad avere una visione puramente utilitaristica del personale: parlare della realizzazione dei dipendenti o delle responsabilità che avevano nei loro confronti era un’eresia pura e semplice.

«Sapete che cosa penso, ragazzi? L’importante è essere disponibili, cordiali, rispettabili...»

«Sapete che cosa penso, ragazzi? L’importante
è essere disponibili, cordiali, rispettabili...»

Coloro che occupavano posizioni di responsabilità, in particolare gli avvocati, si lasciarono condizionare da una mentalità lavorativa improntata a un’efficienza maniacale, a scapito della spontaneità e della comprensione umana.

«Mi considero un uomo di passioni, ma sono prima di tutto un avvocato.»

«Mi considero un uomo di passioni,
ma sono prima di tutto un avvocato.»

«Joyce, sono pazzamente innamorato di te, non riesco nemmeno a mangiare e tutto il resto, ma non è per questo che ti ho chiamata...»

«Joyce, sono pazzamente innamorato di te,
non riesco nemmeno a mangiare e tutto il resto,
ma non è per questo che ti ho chiamata...»

Intanto, i militari godevano di un prestigio inaudito, fondato sul loro potere di distruggere il mondo. Perciò, i vignettisti incoraggiarono il pubblico a sorridere del comportamento eccessivamente serio e impettito dei grandi generali.

generalreading_war_and_war_tif

4

L’umorismo non è solo uno strumento utile per attaccare chi occupa una posizione elevata, ma può anche aiutarci a dare un senso alle nostre ansie da status, e a controllarle.

Le cose che più ci divertono riguardano situazioni o sentimenti che, nella vita comune, susciterebbero probabilmente imbarazzo o vergogna. I più grandi comici affondano il dito in piaghe che non oseremmo guardare alla luce del giorno, allentano il legame intimo e solitario che abbiamo con i lati più «scomodi» della nostra indole. Quanto più personale e radicata è la preoccupazione, tanto maggiore è la possibilità di riderci sopra, in omaggio all’abilità con cui abbiamo affrontato l’innominabile.

Dunque, non sorprende che spesso l’umorismo costituisca un tentativo di definire, e quindi di limitare, l’ansia da status offrendoci la conferma che gli altri non sono meno invidiosi e socialmente fragili, che si svegliano presto il mattino angustiati da problemi economici e che, al di là dell’apparenza che la società ci impone di salvare, molti stanno lievemente uscendo di senno. E d’altra parte, proprio per questo ci sentiamo indotti a tendere la mano ai nostri fratelli.

«E adesso a quale milionario della Microsoft stai pensando?»

«E adesso a quale milionario della Microsoft stai pensando?»

«Di solito mi sveglio urlando alle sei e mezzo, e arrivo in ufficio alle nove.»

«Di solito mi sveglio urlando alle sei e mezzo,
e arrivo in ufficio alle nove.»

Invece di schernirci per le nostre preoccupazioni, i comici più benevoli ci stuzzicano con garbo: in altre parole, ci criticano ma ci fanno capire che siamo ancora accettabili. La loro arguzia ci permette di accettare con una risata schietta quelle amare verità su di noi che, infuriati e offesi, rifiuteremmo di riconoscere se ci venissero rinfacciate con tono accusatorio.

5

La comicità, non meno di altre espressioni artistiche, rientra dunque a pieno titolo nella definizione data da Matthew Arnold dell’arte come disciplina che si ripropone di analizzare criticamente la vita. Mira a correggere sia le ingiustizie dei potenti sia gli eccessi d’invidia nei confronti di chi occupa uno status più elevato. Come le tragedie, le opere comiche si ispirano a uno degli aspetti più deplorevoli della natura umana.

Lo scopo vero e inconfessato dei comici potrebbe proprio essere quello di creare, con l’uso sapiente dell’umorismo, un mondo in cui vi siano meno argomenti di cui ridere.

«Certo che sono in gamba. Devono esserlo. Non hanno un soldo.»

«Certo che sono in gamba. Devono esserlo. Non hanno un soldo.»