26
Viola aprì la portiera dell’automobile di don Piter e tirò un sospiro di sollievo.
«Santo cielo, ma dove hai preso la patente?»
«Le vie del Signore sono infinite...»
«E sono anche tutte dritte! Sembra che tu non abbia mai fatto una curva in auto prima di oggi...»
Era vero, non guidava benissimo don Piter, anzi. E come non bastasse, la strada che scendeva da Bisogno fino ai piedi della collina era una strada complicata, fatta di tornanti, buche, sterzate nette e brusche e poi controsterzate improvvise.
Don Piter l’aveva percorsa a tutta velocità. Perché aveva fretta, certo, e non solo di arrivare, ma anche di tornare a Bisogno prima che qualcuno si accorgesse che si erano allontanati. E che lo avevano fatto insieme.
Quando don Piter le aveva afferrato la mano e l’aveva trascinata davanti a un portone di legno Viola si era sentita un po’ intontita.
«Sei pronta a tenerti l’anima stretta?» le aveva chiesto lui e Viola aveva detto sì, come se quella fosse una domanda vera.
Avevano aperto il portone, erano scesi per alcuni gradini di pietra.
Il giardino in cui don Piter la stava conducendo era scavato in un terreno più basso rispetto a quello della strada, come fosse più nascosto. Più basso. Più vicino al centro della Terra.
Appena aveva visto quel francobollo di terra ben esposto al sole e protetto dalle intemperie l’aveva subito comprato (ci aveva investito tutti i soldi che aveva più le monetine delle offerte per gli orfanelli della sua prima chiesa...) e aveva iniziato a lavorare al suo progetto come in un sogno. Era uscito dal seminario da poco, era giovane, e quell’idea lo elettrizzava più di qualsiasi altra. Era stato fortunato, era stato costante e ora che quell’orto era praticamente completo ne provava una soddisfazione quasi fisica.
«Chiudi gli occhi, Viola, e stai tranquilla: mangiano le anime, è vero, ma sono piante e se non ti avvicini tu, loro non hanno modo di venirti a prendere.»
Viola ubbidì e sentì don Piter che le poggiava le mani sulle spalle.
«Ti giro io, se no rischi di non vederle tutte e sarebbe un peccato. Ci siamo. Ora se vuoi puoi aprire gli occhi.»
E Viola li aprì. E le vide. Come qualcosa di incredibile.
«Sono tutte» prese a spiegarle don Piter. «Sono quasi tutte, a dire il vero. Sono quasi tutte le piante citate nella Bibbia. Novantasei. Piantate a forma di spirale. Al centro la prima citata e poi, via via, come a inseguirsi, tutte le altre.»
Viola rimase senza fiato. Ma cosa stava guardando?
Una chiocciola lenta, il guscio di una conchiglia fatta di rami, foglie, fiori. Una mongolfiera di colori che respira e si avvita su se stessa. Piante. Piante sacre. Le piante della Bibbia.
«Questa è l’unica cosa tra tutte quelle descritte nella Bibbia che io sia riuscito a far spuntare. E crescere. Ed è una cosa bella, no?»
«No» gli rispose Viola «è una cosa bellissima... che quasi non ci si può credere per quanto è bella.»
«Io la Bibbia l’ho letta decine di volte. E fin da bambino ho sempre preso appunti. È per questo che mi hanno mandato in seminario. Perché mi segnavo, con precisione maniacale, nome, specie, famiglia di tutte le piante citate nel testo sacro. Il nome antico, s’intende. Quello latino, greco o persino aramaico quando lo trovavo nelle note. Le sementi le ho recuperate negli anni, una a una. Ho cercato quei semi di 2000 anni fa ovunque andassi.»
«E li hai trovati tutti?»
«Quasi, quasi tutti. Non è stato facilissimo. Ad esempio il fagiolo della Palestina, della qualità esistente nel primo secolo avanti Cristo, è stato complesso da trovare. Dall’ortolano non c’è mica...»
«Posso non crederci?»
«Certo, Viola, certo che puoi. Qui non serve crederci, non serve la fede. Qui serve solo l’innaffiatoio...»
Ecco cosa stava guardando: un giardino dell’Eden a forma di scala a chiocciola. Il giardino della Bibbia cresceva nel cortile di don Piter.
Il sicomoro di Zaccheo, c’era...
L’ulivo del Getsemani, c’era...
La vite del vino delle nozze di Cana, c’era...
Le palme di Gerusalemme, c’erano...
Il gelso che se si ha fede va a piantarsi nel mare, c’era...
Il ginepro sotto il quale Elia si addormentò, c’era...
La rosa senza spine dei Proverbi, c’era...
La lavanda gialla di Maria, c’era...
Il ricino per la cui morte pianse Giona, c’era...
L’assenzio delle notti stellate, c’era...
I cavolini di Bruxelles, ovviamente, mancavano, ma tanto quelli non piacciono mai a nessuno.
Unica concessione extra rispetto al testo sacro: i pomodori. I pomodori c’erano.
«Sai, Viola, nella Bibbia effettivamente non sono nominati. Ma nella mia insalata ci stanno benissimo... e ho pensato che sarebbe stato un peccato non metterli.»
Un peccato, certo.
«Dài, seguimi: ora ti faccio vedere la pianta che se fosse scordata sarebbe un problema per tutti...»
Don Piter cominciò a correre e Viola lo seguì in quel vortice di piante che si faceva sempre più stretto. E mentre correva, don Piter buttava lì i nomi di quelle piante di cui anche i profeti, anche Gesù, avevano annusato le fragranze. Non c’era l’ulivo qualsiasi, c’era proprio quello di Gesù.
A pensarci faceva impressione.
Faceva impressione perché il mandorlo che c’era lì non era quello da farci la granita, era quello del bastone di Aronne, quello della tenda della testimonianza.
Quello che Mosè, alla presenza del Signore, portò a tutti gli israeliti. E lo zafferano, mica quello del risotto con l’ossobuco, ma quello del Cantico dei cantici, del giardino che sboccia amore e lo culla nel proprio profumo.
Quando si fermarono, don Piter aveva il fiatone.
«Sai perché da bambino ero triste quando ho incontrato il papa?»
Viola sorrise. Scosse la testa. Non parlò. Quella storia del suo incontro col papa era assurda, non poteva pensare che lei gli credesse davvero.
«Sai perché ero arrabbiato, triste e piangevo? Lo sai perché?»
«No, non lo so...»
«La senapa» pronunciò lentamente don Piter. «La senapa! Dio mi strafulmini se ho capito, in tanti anni che la studio, che razza di seme è quello del granello di senapa. Quello che quando viene seminato è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno e poi cresce e diventa più grande di tutte le cose e fa rami così grandi che gli uccelli possono fare il nido alla sua ombra! È questo il seme che io volevo trovare, e non ho mai capito quale possa essere! Non esiste una pianta così! Non esiste una pianta che si chiama senapa! E io volevo chiederlo a lui: al papa. Se non lo sa lui, chi altro può saperlo?»
E Viola avrebbe anche voluto buttarla lì: “Cretino, sarà la senape, no? E c’era da andare a insultare il papa per un granello che sui testi sacri viene scritto di senapa e che tu non hai capito essere la senape? C’era da scomodare il papa per un refuso nella Bibbia?”.
Non disse nulla. Ancora una volta non disse nulla.
E nemmeno disse nulla quando don Piter la abbracciò.
Il sole. Il giardino dell’Eden ed Eva, la prima donna. E Adamo. Il primo uomo.
«E quello. Quello lo sai cos’è?»
Don Piter la teneva abbracciata da dietro. Il suo petto pigiava sulla schiena di lei, il suo braccio destro le passava sotto al seno, pieno, quello sinistro indicava l’albero al centro del giardino. Un albero strano. Dalle grasse foglie giallastre maculate. Piccolo. Curvo. Malato.
Viola non fiatò.
«Quello è il melo, Viola. Il melo di Eva. Ho fatto anni di ricerche per capire bene se fosse di quella varietà o meno. Secondo la tradizione non ci sono dubbi, è quello. Una varietà di mela rara di cotogno antico che cresce solo in Palestina. Da millenni.»
L’albero. L’albero della conoscenza del bene e del male.
«E sai cosa penso?»
«...»
«Penso che Eva sia stata una sciocca.»
Sciocca. Disse proprio così: sciocca.
«Quella è la peggiore qualità di mele esistente al mondo. Mele amare, buccia dura, con semi grossi e neri. Tanti. Fossi stato in lei, avrei preferito l’azzeruolo: c’era anche lui nella Bibbia, una melina dolcissima, o il frutto del melo grigio, che però c’è solo in inverno. Ma perdere tutto per una mela che fa schifo... è stata proprio sciocca. Ecco: è quello l’albero che dovresti accordare.»
E solo allora, Viola parlò.
«Don Piter» disse staccandosi un po’ da quell’abbraccio molle, «tu al posto di Eva l’avresti mangiato il frutto del melo proibito? Quale che fosse...» Così, con più paura che malizia.
«Chi lo sa Viola, sono un uomo anche io.»
«Ma Eva era una donna.»
«Appunto...» e serrò l’abbraccio su Viola. Come fosse la sua mela.
Viola, però, prima di chiudere gli occhi la vide davvero.
Grossa, verde, con un morbillo di puntini gialli. La mela di Eva. Era bruttissima. Come aveva fatto a farsi tentare da una cosa così ripugnante?
Non aveva avuto una mamma, o un papà, che le avevano detto di non mangiare certe cose?
Eva, la prima donna. No, forse Eva no, non l’aveva avuta una mamma. E nemmeno un papà.
Poi un refolo di vento le accarezzò le orecchie. Le disse che quello che stava per accadere era giusto. Giusto e bello. Di non preoccuparsi.
Ma che diavolo era?
“Ci sarà mica citata anche la menta nella Bibbia?” pensò.
Era tardi.
La canottiera era già scivolata vicino alle lenticchie di Esaù, lasciando scoperti al sole due seni duri come di pesca e una schiena lunga e muscolosa come il peccato.
Erano le vertebre di Viola.
Lentamente, sotto i baci di don Piter, persero e assunsero colore.
Si fecero alcune bianche, altre si fecero nere.
E come tasti di pianoforte si fecero suonare.
Tutte.