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Enrico, dalla cucina della Locanda dell’Ultima Solitudine in cui già sbucciava patate, aveva sentito bene lo squittio. Poi solo qualche parola borbottata, niente di più. Nulla di grave, aveva immaginato, non era la prima volta che lo sentiva borbottare al telefono con i clienti.

Eppure, per controllare che tutto andasse bene davvero, spinse in avanti la porta della cucina, si appoggiò alla maniglia fermandosi un poco in bilico e ficcò la testa nella sala da pranzo: era l’unica sala della Locanda dedicata ai clienti – le altre erano tre camere da letto, al piano superiore – e se la guardò tutta intera. La sua Locanda.

Era un salone grande, sproporzionato per quel posto che a chi voleva mangiare offriva un solo tavolo e due sedie ma dalla finestra mostrava il mare. Enrico aveva costruito tutto con le proprie mani sul vertice estremo dello scoglio di Punta Chiappa.

Dopo poco lo trovò: l’uomo coi baffi se ne stava sulla sedia su cui a quell’ora, quando bisognava cominciare a preparare tutto per la cena, non si sedeva mai se non quando il mare, là fuori, cacciava le onde alte, quelle che davvero schiantandosi sullo scoglio si confondono col gocciolare del cielo e non capisci se dall’alto ti viene addosso la pioggia o le capriole del mare.

Che strano silenzio che si portava dietro quell’uomo quando non parlava. Perché quando parlava... ah, quando parlava l’uomo coi baffi era fantastico! Era quando stava zitto che sembrava davvero non avesse niente da dire. Quasi fosse tutto vuoto ogni volta che taceva e meravigliosamente pieno di tutto, invece, ogni volta che raccontava qualcosa. Ma d’altra parte, se era arrivato all’Ultima Solitudine, una locanda dispersa nel punto più lontano della costa, dove anche il maltempo arriva di rado perché non è così semplice raggiungerlo un posto così isolato, una ragione c’era per forza.

«Brutte notizie?» gli chiese Enrico.

«Per ora no» gli rispose come distratto da qualcosa. «Magari ne arriveranno. Ma c’è tempo. Vuole che la avvisi quando saranno qui?»

«Oh non si preoccupi» ribatté Enrico. «Anzi se cercano me gli dica pure che non ci sono...»

Senza preoccuparsi un istante di più, tornò in cucina e lo lasciò impegnato in quel suo muto fare niente. Sapeva che gli sarebbe passato. Come era successo sempre.

A guardare l’orizzonte dallo scoglio il primo errore che si può fare è pensare che tutto sia azzurro. Di azzurri, da lì, se ne vedono sempre almeno due: uno altissimo, il cielo, e uno profondissimo. Il mare.

Il fatto che spesso si confondano alla vista, poi, è un difetto dell’orizzonte. Non certo della vista.

A girarsi verso il bosco, invece, con le spalle agli azzurri, non ci si può sbagliare: gli alberi sono tanti, equilibristi nel vento su quella loro unica gamba aggrappata alla roccia e con una spuma verde per chioma come fossero tutti bimbi dai capelli spettinati. E se non sono il bosco, quei lecci di mare, quegli ulivi da scoglio, allora, sono la Locanda dell’Ultima Solitudine.

È tutta in legno, la Locanda, alterna le pareti scure alle finestre piene di luce da cui entra sempre un po’ di vento.

È fatta di poche stanze e una sola certezza: se sai arrivarci, facendo tutto quel sentiero buio che ci vuol poco a perdersi, quello è il posto più bello del mondo.