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Che fosse bellissima l’aveva notato subito, al primo sguardo sfocato: quel modo di guardare tutto maschile, che sembra meditativo, e che invece è uno sforzo strabico per inquadrare di straforo, di soppiatto, certi particolari tutti femminili. Libero, che fosse bellissima nei punti deputati a esserlo, l’aveva notato subito. Non ci si poteva sbagliare. Se ne sarebbe accorto anche un cieco: dal tono della voce.
Certe cose nella vita ti lampeggiano addosso: l’aveva notata in mezzo a quella ressa della piazza non solo perché aveva al guinzaglio Vieniquì, quello è ovvio, ma forse perché l’avrebbe vista ugualmente. Perché a volte non solo vediamo: a volte prevediamo. E forse Libero, più che vista, quella coincidenza, l’aveva proprio prevista.
L’aveva vista subito e subito dopo, a Libero, quasi mancò il fiato. “È per la gran corsa” pensò all’inizio; “è perché è bellissima” pensò poi; è perché un tipaccio alto e grosso, in quella ressa urlante della piazza, gli aveva dato una gomitata nello stomaco muovendo un braccio per applaudire forte. Cercò di convincersi che fosse per quello.
“E se invece fosse per lei?” Si fermò di colpo fulminato dal dubbio. Poteva essere? Che cos’è l’amore se non una cosa che si aspetta fiduciosi perché non si sa bene che contorni abbia? E quanto gli sembrava sfocata la ragazza che al guinzaglio aveva il suo cane?
Fu in mezzo a quel pensiero che Vieniquì lo vide. E che, trainandola come le stesse facendo fare sci d’acqua, riuscendo finalmente a smuoverla da quella sua forza immobile, la portò da lui.
Era la figlia di quel tipo che tutti stavano applaudendo: la figlia del sindaco della Città Grande. Bella, ricca, con Vieniquì al guinzaglio. Arrivata solo poche settimane prima da uno di quei viaggi in cui sono sempre indaffarate le persone così.
Con labbra dense.
Carnose.
Labbra da svenimento.
Rosse. Ovviamente. Tipo Nebbiolo? Tipo Nebbiolo, certo.
«Ma davvero?» aveva detto a Libero. «È tuo? Si era perso, l’ho trovato che vagava per strada e l’ho tenuto con me per tutti questi giorni. Sai, fuori continuava a piovere...»
Libero guardò gli occhi neri del suo cane.
«Vieniquì!» gli disse sorridendo come a un vecchio amico.
«Ma subito» gli rispose mollemente lei «ci conosciamo appena!»
Mentre la piazza, non per quella battuta, ma perfettamente a tempo con essa, si lasciò andare al più pazzesco degli applausi.
Coperta da quel boato, lei pronunciò il suo nome.
Bastò.
A Libero, dentro quel nome, dentro quel crepitio di labbra, tremarono le gambe.
Gli passò il guinzaglio. Si sfiorarono le dita. Fu come una piccola scossa.
«Che ne dici: lo riportiamo a casa?»
Libero non disse nulla, ma quel silenzio non era un sì, era qualcosa di più viscerale.
Si misero in cammino.
Raggiunsero la casa tutta blu.
Fecero tutti e quattro i piani di scale. Arrivarono sul pianerottolo là dove c’erano due porte: una era quella della casa di Libero, l’altra quella dell’appartamento che era stato di Lena.
«Davvero? È vuoto?» gli chiese lei come se quel dettaglio la interessasse.
«Sì, ma anche il mio... è vuoto...» balbettò Libero.
Si sorrisero.
Lei disse solo: «Allora ciao. Magari ci vediamo presto» e poi aggiunse: «Mi spiace aver rapito il tuo cane, ma te l’ho detto: pioveva sempre...».
«Capita» rispose lui.
«Che ti rapiscano il cane?»
«No: che piova.»
«E che per tornare a casa bisogna aspettare che smetta.»
«O non aver paura di bagnarsi...»
Risero. Lei lo guardò muovendo le ciglia come fossero schiere di ballerine orientali coperte da veli e piccoli sonagli.
Che suoni strani che hanno certi silenzi. E con che densità te li ricordi poi per sempre, no?
«Ma non mi fai entrare a vedere dove vive Vieni qui?»
«È che, te l’ho detto, non c’è niente da vedere in questa casa... è tutta vuota...»
E dicendo così aprì la porta. Non c’era niente: solo il baule di Lena. Il primo a vederli fu lui: li scambiò per ombre danzanti sulla porta d’ingresso. Per funamboli in equilibrio sul filo della soglia. La visuale poi gliela tolse tutta Vieniquì: gli si accucciò davanti, gli sbavò addosso la gioia d’averlo ritrovato, come sempre fanno i grandi cani buoni. Fu per quello che non vide altro, ma nella penombra che si infittiva al progressivo chiudersi della porta, con quelle orecchie camuffate da maniglie laterali sentì tutto. I passi di Libero. Il grandinare dei tacchi di lei subito dietro di lui. Il rumore delle risate. La luce della sala che si spegneva. Un certo silenzio.
Se c’è una cosa che i bauli sanno fare bene è mantenere i segreti, e conservarli per sempre. E infatti, quel che sentì dopo, lui non lo racconterebbe mai.