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“Fai attenzione ai petali, Viola: si fa così.”
In mano Margherita ha un fiore solo, ne accorda uno alla volta. È così che si fa. Lo inclina come se fosse il vento a dargli una carezza e poi, con l’altra mano, socchiusa a cucchiaino, fa cadere sulla corolla di petali porpora quattro gocce di rugiada. E poi ancora, ma solo dopo un poco, un’altra mezza goccia.
“Le mani grandi non distinguono una goccia, figuriamoci se sanno farne una a metà!”
E Margherita ha mani piccole.
Viola vede sua madre lavorare la rugiada come fosse plastilina liquida, come fosse mercurio farsi e disfarsi al caldo delle sue dita. Ride come davanti a una magia che forse in fondo nemmeno capisce del tutto.
Quando era più piccola, Margherita le raccontava che quello era il sudore della notte-lumaca, quella che passa lenta, faticosa, piena di pensieri gravi, e poi lascia sui fiori un senso di pesantezza bagnata che solo il sole può far evaporare. Lei la raccoglie presto, all’alba, la prende dall’anima dei fiori, la usa per accordare i fiori scordati della collina di Bisogno. Il loro paese.
La collina di Bisogno è tutta piena di viti e filari d’uva e se non ti fa girar la testa per il vino ti fa girar la testa per la storia dei fiori che si accordano.
Margherita è l’unica a saper bene come si fa. Lo sa da sempre, è fiore anche lei, e per questo lo sa. È un fiore come sua mamma, come sua nonna, e come Viola, sua figlia.
Viola però è un fiore un po’ selvaggio ed è l’unica che alla sua età non abbia ancora capito del tutto come si fa: ad accordare i fiori. E sua madre glielo spiega. Ancora una volta.
“I petali sono le parole dei fiori. Senza petali i fiori sono muti, ma devono essere accordati, o possono anche dire cose orrende. Proprio come fa la menta!”
Viola, Margherita: fiori.
Fiori come la madre di Margherita, la signora Rosa; e madre di Rosa, la signora Gelsomina, figlia di quella Ciclamina che in un giorno di fine novembre di un anno persosi nella memoria aveva tramandato a tutte il segreto dei nomi da dare alle donne della famiglia.
“È una regola semplice: il nome di tutte le nostre donne deve cominciare con una consonante, sempre, e deve finire con una vocale. Sempre.”
“Tutto qui?”
“Tutto qui.”
Poi aveva fatto una pausa, aveva guardato lontano e inclinato il collo fino a far schioccare le prime vertebre della sua dolorante cervicale. E solo allora aveva aggiunto il dettaglio più importante.
“E dovrà sempre essere anche il nome di un fiore.”
E sempre così era stato con Gelsomina, Rosa, Margherita e, infine, Viola.
La storia che i fiori vadano accordati, invece, non è facilissima da spiegare. È più facile da credere, che da capire. Anche se Margherita cerca di spiegarla a Viola.
“Vedi, Viola, i fiori vanno accordati, perché se no si scordano. E un fiore scordato è solo un ricordo appassito. La collina di Bisogno è piena di fiori scordati. Lo sai che a Bisogno si fa il vino, e lo sai che il vino si beve per dimenticare...” ci aveva riso su Margherita. “E così qui la gente beve vino e scorda i fiori, ed è per questo che ci siamo noi! Io e te. Perché se si scordano i fiori è un disastro! Poi, quando passa il vento sulla collina, si riempie delle voci scordate dei fiori e quelle arrivano in città, nella città grandi, e ispirano pensieri scordati! Tutti fuori tono. Tutti brutti! E tutto va alla rovina. È per questo che noi accordiamo i fiori! Perché le persone vedendoli belli facciano pensieri belli!”
Margherita, con le mani piccole, sfiora una calla purpurea. Le soffia sopra così che il suo fiato passi tra i petali, si colmi della sua storia e arrivi alle orecchie di Viola.
“Ma mamma! Ma dice le parolacce!”
A volte Viola sa stare al gioco come nessuno, a volte, forse, le sembra che non sia nemmeno un gioco.
“Perché è scordata! Ora la sistemiamo.”
E Margherita fa scivolare sui petali un quarto di goccia di rugiada.
“Così poco?”
“Sì, a lei bastava poco, le bastava solo abbassare gli acuti. Ora è perfettamente a tono! Senti!”
E ci soffia sopra ancora. Viola si fa serissima.
“Mamma, ma tu ci credi davvero?”
“A cosa, Viola?”
“A questa storia che dici. Dei fiori scordati, dei pensieri belli che vengono solo dai fiori accordati, della rugiada... ci credi davvero?”
“Sì, ci credo.”
“Ma è vero?”
“Se ci credi è vero, Viola. Se no è solo una storia.”
Viola un po’ ci crede. Un po’ no.
Un po’, soprattutto, per lei è una storia. La storia di sua madre, una storia che ancora non ha ben capito quanto possa essere anche la sua.
“Amore.”
Questa è un’altra voce. Arriva improvvisa, le spaventa entrambe. Perché è una voce dura, dura come un ramo a cui una piantina può appoggiarsi nella crescita, per Viola, dura come un ramo che si spezza, per Margherita. E, soprattutto, dura solo il tempo di un istante perché nessuno l’ha sentita arrivare.
“Papà!” urla Viola contro quella voce. “Mi hai fatto spaventare!” e gli corre addosso affondando il viso nella sua pancia.
Anche Margherita si è spaventata. Non è la prima volta che appare così all’improvviso con occhi un poco assenti.
Ha un dito che le sanguina, Margherita. Per la paura ha stretto la destra attorno al gambo di una rosa da accordare. Non dice niente, ma qualcosa le resta in gola. È ancora presto per gridare. Un piccolo suono le muore alla base del collo.
Allora Viola, come a capire che deve farlo lei, guarda la sua mamma, sbircia gli occhi del suo papà. Sorride a entrambi. Come se, a riguardarli tutti, restasse solo quel sorriso. Il suo. Alle soglie della Città Grande.