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Da quando Vieniquì era sparito, Libero aveva l’impressione che qualcosa lo infastidisse, anche se non sapeva cosa.

Dapprima aveva pensato che fosse il sonno: aveva sonno, ecco cosa non andava. Aveva passato giorni a dormire più del solito, ma al risveglio, tutte le volte, si trovava più di malumore di quando si era messo a letto.

Poi aveva immaginato che fosse l’appetito: ma certo, aveva fame! Ecco cosa non andava! Dormiva troppo, mangiava poco. E allora prese a mangiare di più, nella sua cucina tutta blu. Due scatolette di tonno, un pacchetto di cracker. Dell’acqua del rubinetto, bevuta direttamente dal lavandino.

No, aveva ancora qualcosa. Non aveva sonno, non aveva fame. E non aveva Vieniquì. Ecco cosa aveva che lo disturbava: un’assenza. E le assenze non vanno da nessuna parte perché nemmeno ci sono. E allora hai voglia a cacciarle...

Un’assenza non ha gambe per andarsene e non ha orecchie per sentire i tuoi “Ritorna!”. Ecco perché è così difficile conviverci, con un’assenza. C’è, ed è come se non ci fosse.

Ogni tanto guardava il baule. Era là, esattamente dove l’aveva messo. Esattamente nel punto in cui a Vieniquì piaceva appoggiare la testa.

In quella settimana senza il suo cane – erano già passati sette giorni – l’aveva cercato ovunque, nei vicoli, per strada, in piazza, l’aveva chiamato a squarciagola per tutte le vie del centro della Città Grande, ogni giorno, ma nulla. Era tornato ai confini, dove c’è il mais, là dove oltre non era mai andato, come fosse una barriera invalicabile, ma non l’aveva trovato. Da nessuna parte. Sparito.

Cercò di illudersi che, in fondo, Vieniquì sapesse il fatto suo. Doveva solo aspettare, come sempre. E tutto si sarebbe sistemato. Come la cicatrice sul mento, pensò grattandosi la barba, doveva solo attendere. E lui delle attese sapeva tutto, no?

Certo, solo che quella era un’attesa diversa. Non era attendere qualcosa che si stava aspettando, era immaginare il ritorno di qualcosa che si era perso. Come per l’amore: la cosa peggiore non è non essere amati, è non essere amati più. Dopo esserlo stati.

“Sì, però la vita non è mica fatta solo di cose brutte, no? Ad esempio” pensò Libero lasciandosi cadere sul divano blu “vediamo nel mondo che succede...”

E accese la televisione.

“Tutto ciò causa l’incremento del tasso di disoccupazione. Quella giovanile supera il 30%... e alla domanda: ‘Cosa dobbiamo aspettarci?’ gli analisti rispondono sicuri: ‘Il peggio’.”

“E adesso mambo!” (Parte un trenino di ballerine in perizoma brasiliano. Il conduttore è un cicciottello basso con la faccia abbronzata. Alla fine del balletto dice una cosa incomprensibile che può essere intesa come: “consigli per gli acquisti”.)

Certe volte il mondo è così brutto che non capisci se quello è un modo per starti vicino, per farti vedere che non sei l’unico a passare dei guai, o perché vuole solo dimostrarti che ne fai parte. Del mondo. E di un mondo di guai.

Sarebbe stato meglio spegnere. Schiacciare tutto sotto la volontà di non pensarci più, schiacciare il tasto rosso del telecomando e poi, magari, schiacciare anche un pisolino. E ritrovare lì, nei sogni, la forza di credere che ogni cosa basti aspettarla, perché alla fine arrivi. Di colpo però Libero cambiò idea e schiacciò il tasto 52. Canale 52: Tele Città Grande.

Quella era una rete locale, era difficile che lì trasmettessero notizie di un qualche interesse, però almeno non dicevano mai nulla di male. Era la rete perfetta in cui impigliarsi.

E infatti, in diretta, andavano le immagini di qualcosa che stava capitando in piazza. Nella piazza della Città Grande. Proprio in quel momento. Un comizio. Sì, era un comizio.

Era inquadrata tanta gente che batteva le mani, con convinzione, a un tale che parlava da un palchetto, dietro un podio in legno, nemmeno fossero i comizi delle presidenziali americane.

Era il sindaco della Città Grande. Tutto quel che Libero vedeva in televisione avveniva poco distante da lui. Il capitano della polizia a cui aveva tentato di denunciare la sparizione di Vieniquì era lì a fare da scorta al sindaco. Poi il cameraman, probabilmente per la noia che lo assaliva, era andato a cercare un dettaglio del pubblico. E aveva stretto l’inquadratura su qualcosa di nero. Di peloso. Di irrequieto. Libero si protese in avanti verso lo schermo arrivando col naso a pochi centimetri dal vetro. Sentiva l’elettricità statica dello schermo solleticargli i capelli, tanto era vicino.

E fu a quel punto che in TV, in primo piano, tenuto al guinzaglio da una ragazza bellissima, apparve Vieniquì.

Tirava come volesse scappare, ma lei riusciva a trattenerlo con una forza inspiegabile, senza nemmeno scomporsi: come fosse magnetica.

«Eccolo lì» disse Libero come davanti a un’apparizione. Si alzò di scatto, saltò di gioia. Quel chiacchierone del sindaco stava ancora parlando. E sicuramente avrebbe continuato a farlo per un sacco di tempo. E se quella ragazza, quella che teneva al guinzaglio Vieniquì, era lì per ascoltarlo, allora non si sarebbe mossa finché il discorso non fosse terminato. Aveva tempo e sapeva cosa fare, quando farlo e dove farlo. Doveva solo farlo. E così, tutto rinvigorito da un’energia recuperata chissà dove, corse a farlo.