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Che funzione
ha svolto
l’idea di Dio nella storia?
All’idea di Dio e alle religioni monoteiste che ne sono derivate dobbiamo riconoscere il merito di aver portato l’umanità da uno stato selvaggio a uno “quasi civile”, oggi incrinato dal fondamentalismo che confonde la fede con il fanatismo.
Caro signor Galimberti, le scrivo perché ho bisogno di dare voce ad alcune mie riflessioni e vorrei conoscere la sua opinione al riguardo in quanto ho grande stima e ammirazione nei suoi confronti. Più volte lei ha scritto di ricevere molte lettere riguardanti temi quali la religione, la fede, l’esistenza o meno di Dio.
Io sono una ragazza ventenne e studio all’Accademia di Belle arti. Sono cresciuta in un ambiente laico e tollerante dove non ho mai subìto pressioni né verso la religione né verso l’ateismo. Crescendo, e in seguito ad alcune esperienze di grande valore per la mia identità e spiritualità, mi sono ritrovata a interessarmi in modo particolare alle religioni, specialmente alle tre grandi monoteiste, e a “parlare”, o se vuole pregare, con qualcosa che avvertivo come trascendente.
Inizialmente è stato molto difficile per me accettare questi sentimenti poiché, benché non mi sia mai riconosciuta nell’ateismo, era per me inconcepibile l’idea di essere credente e religiosa. In effetti non sono religiosa e non credo nelle istituzioni religiose. Penso però che il messaggio delle religioni sia un messaggio immenso e potente che non dovremmo mai dimenticare.
Le religioni sono mitologia, sono pagine di letteratura di grande valore e, forse, tali resterebbero se l’uomo evitasse di caricarle di ideologia. Tutto ciò che viene trasformato in ideologia perde di senso e bellezza e diviene fanatismo. E ciò purtroppo avviene spesso e non solo con la religione. Io ho sempre creduto nel valore dell’arte e della letteratura come necessarie per l’esistenza umana, come fonti di saggezza, conoscenza, senso critico e bellezza.
Quello che io le chiedo è: crede che sia possibile considerare le religioni come un “genere” letterario o come opere d’arte, e in quanto tali restituire loro il valore che si meritano e comprenderne il vero messaggio? Oppure crede che si debba fare una distinzione fra un testo sacro e, ad esempio, una tragedia greca o Moby Dick?
Avrei in realtà ancora molte domande da farle, ma mi rendo conto di non poter monopolizzare il suo tempo. Le scriverò ancora più avanti. La ringrazio per l’attenzione.
Martina
U.G. Le religioni, soprattutto quelle monoteiste a cui lei fa riferimento, sono nate per recingere, tenendola in sé raccolta (re-legere) l’area del sacro, onde evitarne l’espansione incontrollata, essendo il sacro caratterizzato da un regime di massima violenza, di sessualità selvaggia, di confusione dei codici, dove il bene e il male appaiono indistinguibili, il piacere si intreccia con il dolore, la maledizione con la benedizione, la luce del giorno con il buio della notte e dove tutto si confonde.
Come ci ricorda Gerardus Van der Leeuw: “Nella religione Dio è arrivato con molto ritardo”, conservando del sacro il suo tratto ambivalente, per cui accanto alla misericordia di Dio la religione segnala anche il timor di Dio. Per uscire da questo sfondo indifferenziato, l’umanità è sempre ricorsa a riti che consentissero di distinguere il bene dal male, il puro dall’impuro, e a sacrifici per tenere lontani gli effetti malefici del sacro e propiziarne quelli benefici.
Senza abbandonarli, le religioni monoteiste sono andate oltre i riti, affidandosi a testi, ritenuti sacri perché “parola di Dio”, che contengono norme etiche di comportamento, osservando le quali c’è la promessa di un’altra vita: paradisiaca per chi li segue e infernale per chi non li ottempera. In questo modo, per molto tempo l’etica è stata monopolio delle religioni che, non possiamo nascondercelo, hanno consentito all’umanità di passare da uno stato selvaggio a una convivenza che, essendo regolata da norme, ha favorito la nascita di quella che oggi chiamiamo “civiltà”.
Con l’Illuminismo è iniziato un processo che ha separato l’etica dalla religione, perché ci si è persuasi che l’etica non è che un sistema di regole che consentono a una comunità di vivere con la minor conflittualità possibile. Una volta che l’etica è stata desacralizzata è nato lo Stato laico, che ha consentito alla religione di non intervenire pesantemente sui comportamenti umani, a cui sono stati preposti i tribunali che sanciscono pene terrene ai trasgressori.
Ciò ha permesso alle religioni di spiritualizzarsi e proporsi come pura fede, la cui caratteristica non può che essere la tolleranza, dal momento che, intorno alle cose invisibili che sfuggono a ogni prova e dimostrazione, non può darsi una verità assoluta, altrimenti non ci sarebbe ragione di chiamare la fede “fede”. E solo i fondamentalisti confondono la fede con la verità.
La fede promette inoltre un’ulteriorità di senso rispetto a quello offerto dalla vita presente. E così facendo, va incontro a un bisogno di trascendenza che alberga nel cuore di ogni uomo, e che poi ogni uomo indirizza nella ricerca, ivi compresa quella scientifica che non si accontenta mai dei risultati raggiunti.
La fede religiosa, credendo nello sguardo misericordioso di Dio, è di grande aiuto e conforto a quanti si trovano nella precarietà dell’esistenza, o soffrono d’indigenza, di ingiustizie, di sopraffazioni, di sensi di colpa, consentendo loro, grazie alla speranza di una vita ultraterrena, di meglio gestire il dolore, che sarebbe insopportabile se non avesse alcun senso e, prima o poi, un riconoscimento o una ricompensa. Qui la fede si àncora al cuore, al sentimento, alla speranza, che non sono fattori insignificanti per continuare a vivere quando le circostanze della vita si fanno davvero insopportabili.
Leggere i testi definiti sacri come grandi opere letterarie o addirittura artistiche per la bellezza delle loro metafore è possibile, senza però credere, per il solo fatto di apprezzarle, di appartenere a quella fede, perché la fede chiede, oltre all’apprezzamento, un assenso incondizionato del cuore o, come dice Tommaso d’Aquino, della “volontà (ex voluntate)”, senza per questo coinvolgere l’intelletto perché, come ci ricorda Paolo di Tarso, di fronte alla fede l’intelletto si trova “in uno stato d’infermità e di grande timore e tremore”.