59.
In che misura
la nostra libertà
è limitata dalla nostra identità?
C’è una stretta interdipendenza tra identità e libertà. E il margine concesso a quest’ultima è intimamente connesso all’evoluzione della nostra identità.
Egregio prof. Umberto Galimberti, sono uno studente di prima liceo scientifico e mi interesso di argomenti filosofici e sociologici particolari. Analizzando la società odierna e il pensiero delle masse, mi sono spesso soffermato sull’analisi della meritocrazia sociale, non tanto per quanto riguarda il lavoro o gli ambiti sociali, ma più generalmente per quella che è la visione che le persone hanno dei loro simili. E la conclusione a cui sono giunto è che risiede purtroppo nell’animo umano una serie di infondati stereotipi, fobie e odi o, al contrario, ammirazioni, esaltazioni e apprezzamenti per quanto riguarda le azioni e i modi di essere delle persone circostanti.
A mio avviso l’uomo è in balìa del destino, non certo perché tutto ciò che deve accadere sia scritto, ma piuttosto perché ogni azione, pensiero e circostanza sono influenzati da elementi immutabili e totalmente indipendenti dalla decisione umana.
Prendendo ad esempio le decisioni e i modi di essere delle persone, trovo che la differenza tra un assassino e un buon uomo sia la fortuna. Colui che arriva a compiere un omicidio è influenzato dalle varianti negative di genetica e ambiente. Mi spiego: sicuramente, il motivo per cui è arrivato a uccidere è stato un tipo di pensiero e di azione a cui era abituato, dipendente dalla genetica o dall’ambiente in cui è cresciuto (genitori, amici, esperienze) e quindi non è colpa sua se ha ucciso, perché ha semplicemente avuto la sfortuna di trovarsi nelle condizioni di decidere di farlo.
Il buon uomo invece, che mai si sognerebbe di uccidere e, anzi, aiuta il prossimo suo, deve il suo benestare interiore alla fortuna di avere scritta nel Dna la sua indole buona e di essere vissuto in un ambiente favorevole alla crescita di un individuo che, attraverso una sua maturazione quotidiana dall’infanzia a oggi, è portato a essere un onesto cittadino altruista e benevolo.
Credo quindi che non ci siano colpe né meriti di alcun tipo. Ciò ovviamente non implica che non esista giusto o sbagliato, buono o cattivo, ma credo che bisognerebbe pensare, ogni volta che si condanna un uomo o che si adula un vincente, che dopotutto non è colpa sua se ha ucciso, ha solamente avuto la sfortuna di capitare in un ambiente avverso o di avere nel sangue il cinismo e l’odio e, allo stesso tempo, che colui che è buono ha in fondo solo avuto la fortuna di essere geneticamente buono e di aver fatto scelte giuste in quanto influenzate da fattori indipendenti dalla decisione di qualcuno.
Non è colpa sua, insomma, se un uomo uccide la propria famiglia o, meglio, non è competenza di nessuno il motivo per cui nell’istante in cui ha deciso di uccidere ha optato per farlo e, altrettanto, non è certo merito suo se un uomo benestante, onesto e acculturato fa una donazione ai fondi umanitari, perché non è un merito essere così come si è, perché tutto dipende da qualcos’altro. E alla radice la causa di tutto sono sempre la casualità e il fato. Lei cosa ne pensa? Mi piacerebbe conoscere le sue osservazioni in proposito. La ringrazio per il disturbo.
Andrea
U.G. Che l’ambiente, l’educazione, la cultura in cui si è cresciuti predeterminino in gran parte i comportamenti mi pare assodato e innegabile. Che in questa predeterminazione dei comportamenti un fattore sia costituito anche dalla genetica ancora non abbiamo alcuna prova per poterlo affermare.
Ma, tornando al fattore ambientale, ricordo che qualche anno fa un tribunale tedesco diminuì la pena a un sardo che aveva commesso un reato perché l’ambiente in cui era cresciuto diminuiva gli spazi della sua libertà. Giustamente i sardi si sentirono offesi dalla motivazione della sentenza che poteva essere formulata in altro modo, ma il principio è giusto e penso che in ogni sentenza se ne tenga conto. Del resto già Aristotele distingueva la “giustizia” dall’“equità” che, a differenza della giustizia egualitaria, distribuisce colpe e meriti a partire dalle condizioni in cui una persona si trova a operare.
Quanto poi alla libertà, da cui consegue la responsabilità e quindi la punibilità o l’apprezzamento di una persona, non sono lontano dalla sua posizione, ma a partire da un’altra considerazione che vede in conflitto l’“identità” con la “libertà”, nel senso che, se io sono io con il mio carattere e la mia indole, sono davvero libero di essere altro da quel che sono?
Un giorno Maurice Merleau-Ponty, facendo visita a Sartre immobilizzato da un’ingessatura a una gamba, gli chiese: “Ma non potevi affrontare quell’escursione con una guida?”. E Sartre di risposta: “Ma tu mi vedi accompagnato da una guida?”. Per quel tanto che so di lui anch’io faccio fatica a immaginare Sartre accompagnato da una guida. Ciò significa che la sua identità non gli consente un comportamento diverso da quello assunto.
Del resto anche noi, nella vita quotidiana, ci fidiamo degli altri perché presumiamo che ciascuno adotti un comportamento conforme alla sua identità. Al punto che, se ci riferiscono un comportamento difforme, la prima nostra reazione è quella di non crederci. E se invece la cosa è provata, non esitiamo a dire che, conoscendo quella persona, un simile comportamento non ce lo saremmo mai aspettati.
Con questo non voglio negare che non si disponga di alcun margine di libertà, ma che a disposizione abbiamo solo quel margine concesso dall’evoluzione della nostra identità, a sua volta determinata dalle esperienze che nel corso della vita facciamo. Non quindi una libertà assoluta nei nostri comportamenti, ma una libertà limitata alla modificazione della nostra identità. Proprio per questo l’ambiente, l’educazione, la cultura sono importanti, non perché ci danno una maggior libertà, ma perché costruiscono un’identità da cui conseguono “di necessità” comportamenti compatibili con le esigenze di una buona convivenza.