33.
Il bullismo nelle nostre scuole:
che fare?

Della dimensione sociale troppi giovani conoscono solo quel cascame che è la banda. E chi potrebbe e dovrebbe educarli ai veri sentimenti ha rinunciato a farlo.

Gentile Professore, le inoltro il messaggio scritto da un professore a proposito della ragazzina di Pordenone che ha tentato di suicidarsi qualche giorno fa. Lei, che sta con i ragazzi e da sempre è così attento alle dinamiche, saprà darci non solo una lettura di questi disperati episodi, ma anche una visione progettuale fiduciosa per la dura e sfidante arte dell’essere e fare il genitore.

Michela

Oggi una ragazza della mia città ha cercato di uccidersi. Ha preso e si è buttata dal secondo piano. No, non è morta. Ma la botta che ha preso ha rischiato di prenderle la spina dorsale. Per poco non le succedeva qualcosa di forse peggiore della morte: la condanna a restare tutta la vita immobile e senza poter comunicare con gli altri normalmente. “Adesso sarete contenti,” ha scritto. Parlava ai suoi compagni.

Allora io adesso vi dico una cosa. E sarò un po’ duro, vi avverto. Ma ho questa cosa dentro ed è difficile lasciarla lì. Quando la finirete di mettervi in due, in tre, in cinque, in dieci contro uno? Quando la finirete di far finta che le parole non siano importanti, che siano “solo parole”, che non abbiano conseguenze, e poi di mettervi lì a scrivere quei messaggi – li ho letti, sì, i messaggi che siete capaci di scrivere –, tutte le vostre “troia di merda”, i vostri “figlio di puttana”, i vostri “devi morire”?

Quando la finirete di dire “Ma sì, io scherzavo” dopo essere stati capaci di scrivere “Non meriti di esistere”? Quando la finirete di ridere, e di ridere così forte, quando passa la ragazza grassa? Quando la finirete di indicare con il dito il ragazzo “che ha il professore di sostegno”? Quando la finirete di dividere il mondo in fighi e sfigati? Che cosa deve ancora succedere, perché la finiate? Che cosa aspettate? Che tocchi al vostro compagno, alla vostra amica, a vostra sorella, a voi?

E poi voi. Voi genitori, sì. Voi che i vostri figli sono quelli capaci di scrivere certi messaggi. O quelli che ridono così forte. Quando la finirete di chiudere un occhio? Quando la finirete di dire “Ma sì, ragazzate”? Quando la finirete di non avere idea di cosa diavolo ci fanno otto ore al giorno i vostri figli con quel telefono? Quando la finirete di non leggere neanche le note e le comunicazioni che scriviamo sul libretto personale? Quando la finirete di venire da noi insegnanti una volta l’anno (se va bene)? Quando inizierete a spiegare ai vostri figli che la diversità non è una malattia, o un fatto da deridere? Quando inizierete a non essere voi i primi a farlo, perché da sempre non sono le parole, ma gli esempi, gli insegnamenti migliori?

Perché quando una ragazzina di dodici anni prova a buttarsi di sotto, non è solo una ragazzina di dodici anni che lo sta facendo: siamo tutti noi. E se una ragazzina di quell’età decide di buttarsi, non lo sta facendo da sola: una piccola spinta arriva da tutti quelli che erano lì e non hanno visto, non hanno fatto, non hanno detto. E tutti noi, proprio tutti, siamo quelli che quando succedono cose come questa devono vedere, fare, dire. Anzi urlare. Una parola, una sola, che è: “Basta”.

U.G. Gentile lettrice, grazie per avermi trasmesso la lettera del professore che, per la forza e la chiarezza della sua denuncia, ho deciso di pubblicare perché la possano leggere in tanti, mentre per quanto riguarda le sue domande – perché succedono questi episodi e quale può essere una visione progettuale e fiduciosa per come essere e fare i genitori – le dico subito che di fiducia ne ho pochissima per due ragioni.

La prima ragione è dovuta al fatto che, a differenza di quanto accade nelle società povere, come era anche la nostra negli anni cinquanta, nelle società opulente i richiami che provengono dalla società (per giunta ridotta a livello mercantile, al punto che gli operatori di mercato conoscono i nostri figli meglio dei loro genitori e dei loro professori) sono inviti al piacere, mentre i richiami che provengono dalla famiglia sono, almeno nelle intenzioni, inviti al dovere. Per effetto di questa divaricazione e della maggior forza che il richiamo mercantile della società ha rispetto alla richiesta d’impegno proveniente dalla famiglia vince il mercato.

La seconda ragione è che oggi i genitori parlano pochissimo con i figli, soprattutto quando sono piccoli, e poi quando crescono si limitano a chiedere come vanno a scuola o a che ora della notte tornano, temendo che, contrastandoli o ponendo loro delle regole o dei limiti, che non hanno mai posto quando i figli erano piccoli, possa succedere il peggio.

E il peggio succede perché i genitori non si sono mai davvero chiesti che cosa accadeva ai loro figli nel loro mondo quando crescevano, non hanno mai parlato davvero con loro, li hanno semplicemente riempiti di giochi che stavano al posto di tutte le parole mancate. Quanto all’esempio, che è l’unica cosa che serve dai dodici anni in poi quando le parole dei genitori diventano ininfluenti, vedendo i genitori di oggi, non mi pare ce ne siano di molto edificanti.

Il risultato è il bullismo, che è un arresto della psiche a livello “impulsivo”. Una psiche che ancora non si è evoluta a livello “emozionale”, in modo da registrare una risonanza emotiva delle proprie parole e delle proprie azioni che possa dare il senso del bene e del male, né tantomeno a livello “sentimentale”.

E qui la scuola è gravemente colpevole, perché i sentimenti non sono dati per natura, ma per cultura, come ci insegna la storia: dai primitivi che raccontavano miti, ai giorni nostri dove la letteratura narra storie per farci conoscere cos’è l’amore, il dolore, la noia, la disperazione, la speranza, la tragedia, il suicidio, il senso della vita e l’ineluttabilità della morte. E, quando non si conoscono i sentimenti, il terribile è già accaduto.

La parola ai giovani
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