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È davvero
necessario il computer a
scuola?
Clifford Stoll, pioniere di internet, definito da Bill Gates “l’avvocato del diavolo”, scrive: “L’educazione è una cosa assai diversa e molto più seria dell’alfabetizzazione informatica”.
Gentile Professor Galimberti, le scrivo in merito al suo libro I miti del nostro tempo. L’ho letto poco più di un anno fa mentre scrivevo la mia tesi di laurea magistrale in Scienze linguistiche, conseguita all’Università per stranieri di Siena, e l’ho ripreso oggi che mi trovo a scrivere la tesi di dottorato alla Sydney University. Se mi è permesso, vorrei farle delle domande o, meglio, condividere con lei alcune riflessioni sorte dopo aver letto il paragrafo Gli effetti negativi dell’informatica nella scuola.
Lei è davvero convinto che l’introduzione di internet nelle aule scolastiche non sia una buona idea? Io credo che l’idea di introdurre un computer per ogni studente non voglia essere quella di affidare al computer il compito di pensare per lui. Lo vedo più come un facilitatore dell’apprendimento. Dubito che chiunque possa pensare che sia permesso l’utilizzo del computer per svolgere i compiti in classe di matematica.
Accetto quando dice che con i soldi spesi per acquistare venti computer ci si potrebbe allestire un fantastico o quantomeno decente laboratorio di fisica che nell’arco di dieci anni potrà produrre gli stessi risultati. Ma è qui che c’è la svolta; se nell’arco di dieci anni sarà ancora possibile dimostrare la legge di Ohm con un voltometro, non sarei del tutto certa che i computer, invece, nell’arco di dieci anni, non saranno in grado di dimostrare ben altro. Cionondimeno, resto convinta che i laboratori di fisica vadano allestiti, ma anche integrati con attrezzature tecnologiche, laddove possibile.
Il mercato del lavoro oggi richiede una conoscenza di queste attrezzature e la scuola non lo può ignorare. La rete informatica oggi costituisce una nuova forma di semiosi che va insegnata e va imparata! L’ultima generazione è chiamata la generazione dei “nativi digitali” e noi, in quanto esseri umani viventi in questa epoca, dobbiamo farci carico delle trasformazioni subite dalla società e monitorarle per fare in modo che progrediscano, ma non degenerino.
Internet non ha appiattito la facoltà di riflessione o ragionamento, l’ha diversificata e moltiplicata. Più che la televisione, internet è un mezzo democratico. Tutti guardiamo la televisione, ma senza interagire. È un processo passivo. Con internet invece siamo tutti in gioco. Tutti possiamo esprimere le nostre idee, condividerle con chi è seduto accanto a noi fino a raggiungere mete distanti.
Quando lei dice, nel capitolo Il mito delle nuove tecnologie, che ormai con l’avvento di internet parliamo con le idee degli altri, mi trovo di nuovo in disaccordo; non imputerei la colpa all’uso di internet. Quando leggiamo un libro, un giornale o ascoltiamo un programma radio, non subiamo lo stesso processo? Che differenza fa leggere o ascoltare l’informazione su internet? Perché ci rende colpevoli di parlare o ragionare con le idee degli altri? Solo perché sono più facilmente accessibili? Bisogna considerare che spesso la rete, proprio perché democratica, è invasa anche da notizie false e fonti poco attendibili. Ma proprio per questo motivo l’introduzione di internet nelle scuole è un altro passo avanti. L’educazione a internet è fondamentale per fare in modo che questa nuova generazione impari a difendersi.
L’unico problema che vedo io è non tanto l’introduzione della rete nelle scuole, quanto il suo insegnamento. È necessario costituire una classe di docenti capaci. Come giustamente fa notare, spesso gli studenti che arrivano al livello terziario (me inclusa) non sono in grado di consegnare una tesina che non sia piena di disastri sintattici e spesso anche ortografici. Ma è davvero colpa del word processing?
Se tanti studenti non ne sono in grado, è colpa loro che non hanno imparato o piuttosto sono (siamo) vittime di una classe di docenti che non ce lo ha saputo insegnare? Magari anche per motivi storici. I tassi di analfabetismo sono ancora allarmanti, inutile far orecchie da mercante. E questo ha fatto sì che la dimensione orale sia prevalsa su quella scritta, anche a scuola. Oltre al tema di italiano (quattro in nove mesi, tre se il giorno del compito eri “malato”), in quale altra occasione ci è data l’opportunità di esprimerci sulla carta?
E allora, tornando al punto, se questa classe di docenti non ci ha saputo insegnare a scrivere, sarà in grado di insegnare ai nativi digitali a usare internet? Infine, e concludo, perché in questo capitolo parla sempre all’indicativo presente, come se gli effetti negativi fossero già stati prodotti, quando, in realtà, l’introduzione di internet nelle aule è ancora un processo in fieri?
Valentina
U.G. Non ho nulla contro internet e in generale contro l’informatica. Figuriamoci. Sarebbe come se uno, ai tempi di Gutenberg, se la fosse presa con la stampa. Quel che mi chiedo è se l’insegnamento dell’informatica è compatibile con gli obiettivi che la scuola dovrebbe proporsi, e che, a mio parere, sono nell’ordine: la formazione, il senso critico e la capacità di ricerca.
La formazione della personalità, che dovrebbe essere lo scopo principale della scuola primaria e secondaria, non passa attraverso l’informatica. Il senso critico, che significa capacità di giudizio, non è alimentato dalla profusione di dati che internet fornisce, se poi chi li raccoglie non è in grado di operare una sintesi. La capacità di ricerca presuppone l’acquisizione di opportune metodologie che internet non fornisce e che possono solo essere insegnate.
Le trasformazioni che la società incontra per effetto dello sviluppo tecnologico non modificano in alcun modo questi fondamentali compiti della scuola. Altrimenti dovremmo dire, ad esempio, che, con l’introduzione e la diffusione dell’automobile, la scuola avrebbe dovuto insegnare come guidarla. Per questo ci sono le scuole-guida e nulla impedisce che, fuori dalla scuola, si frequentino corsi di informatica.
Clifford Stoll, che dal 1975 ha contribuito a far diventare la rete un fenomeno mondiale, trent’anni dopo, a proposito dell’informatizzazione della scuola dice: “Un computer non può sostituire un buon insegnante. Cinquanta minuti di lezione non possono venire liofilizzati in quindici minuti multimediali. Grazie all’elettronica digitale, gli studenti sfornano risposte senza elaborare concetti: la soluzione di problemi diventa la pressione di tasti. Fisici, chimici, biologi professionisti usano certamente i computer, ma non hanno acquisito le loro competenze grazie a un qualche software”.
La scuola ha altri e ben più importanti obiettivi che, stante la scarsità delle ore di insegnamento rispetto al patrimonio culturale da acquisire per la formazione personale, non possono essere sacrificati per una competenza tecnica che si può apprendere anche in orari extrascolastici. Del resto gli studenti di oggi, i cosiddetti “nativi digitali”, vengono a scuola con una competenza informatica già acquisita, talvolta superiore a quella dei loro insegnanti, ai quali è forse meglio chiedere di incentivare nei loro studenti la capacità di giudizio e i metodi di ricerca, la capacità di non confondere il reale con il virtuale (sessualità compresa) e, infine, come lei stessa opportunamente constata, una capacità di espressione e di scrittura oggi davvero carente sia nelle scuole secondarie che nell’università.