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In questa
società in ogni suo aspetto mercificata, come si fa a sognare?
Unico antidoto alla razionalità sempre più totalizzante della tecnica e del mercato rimane solo l’amore e l’irrazionalità che lo governa.
Gentile Umberto Galimberti, vorrei tanto poter leggere una sua risposta ad alcune considerazioni che mi trovo in continuazione di fronte, anche quando provo a evitarle. Delle domande alle quali non so dare una risposta equa, che permetta di usare la positività come arma contro le intemperie della vita, e che secondo me rispecchiano una realtà che mi rattrista molto.
È proprio vero che noi possiamo “essere” solo se “abbiamo” sufficienti mezzi economici per poter scegliere, temporeggiare, investire e dare? Come è possibile continuare a coltivare i propri sogni senza sicurezze economiche? Come far parte di questa società senza essere schiavi delle sue ingiustizie di classe, della superficialità e dei giudizi dati da chi non sa empatizzare?
Come si è arrivati a essere costretti a scegliere tra un lavoro full-time che non ci piace, ma ci permette di pagare l’affitto – salvo poi lamentarsi costantemente dei lunedì, e farsi venire gastriti e dermatiti come risposta urlata del corpo a cui non si può nascondere nulla – e una collaborazione occasionale che ci interesserebbe, ma non ci possiamo permettere? Se poi speri di poter coltivare due passioni e non solo una, allora sembra che tu sia proprio un illuso.
Quale società è così egoista e chiusa da lasciar spazio di carriera (forse) solo a chi ha “le spalle coperte”, a chi è già “avviato”, a chi ha la casa di proprietà, a chi ha garanzie per la fideiussione e il mutuo, o a chi si ritrova del tempo libero da usare per formarsi e crearsi un nome? È inoltre possibile che in Italia i ragazzi siano abituati a genitori che coprono tutte le loro spese e spianano il loro futuro? L’impoverimento cambierà lo status quo forse nel giro di vent’anni, ma quando cambierà la mentalità?
Come posso essere una persona migliore, realizzata e fiera della propria identità, se devo rinunciare a opportunità, rimpiangere i viaggi che rimando o invidiare chi si interroga solo su Cosa e mai su Come? Capisco che ci sono alcune eccezioni e che la positività è sempre l’arma dell’azione, ma tutto questo svuota parte del mio essere, cambia le mie scelte e crea reazioni a catena fin troppo lunghe da spiegare qui.
Mi sento stanca, arrabbiata e molto preoccupata. Se paragono la mia situazione a quella dei miei coetanei, divento gretta, e mi viene la rabbia perché i miei genitori non mi hanno assicurato neanche una casa. Ma non voglio cambiare in peggio, anzi vorrei difendere la mia identità.
Ho trentun anni, ho studiato a Roma e lavorato a Londra, ho perso mio padre e per adesso sono qua a constatare che le discipline umanistiche sono considerate terreno per persone agiate (o perfino da ignoranti!), a sentirmi dire che le arti sono una velleità da ricchi, a vincere bandi che poi non ti finanziano come dichiarano, a fare piani B, a correggere sempre la rotta, a interrogarmi sul futuro, a chiedermi cos’altro fare, e come non rassegnarmi.
E dov’è il tempo per tutto ciò? Ho sempre difeso il mio tempo libero per poter coltivare me stessa, la mia anima e i miei progetti e adesso forse non mi spetta più neanche quello occupato? Insomma, carissimo dottor Galimberti, non so se devo rassegnarmi, cercare i pochi aghi nei pagliai con determinazione, o cambiare obiettivi. Lei che ne pensa di questa realtà? Grazie ancora. Con profonda stima.
Maria Giulia
U.G. Il tempo che voi trentenni state vivendo è catastrofico. Anche perché nessuno vi ha avvertito che l’epoca in cui a studiare erano pochi e le professioni aperte erano tante si è progressivamente conclusa a partire proprio dagli anni della vostra nascita.
I fattori sono tanti: molte industrie familiari, morto il fondatore, sono state vendute a compagnie straniere che hanno immediatamente provveduto a ridurre il personale, o addirittura a chiuderle per togliere dal mercato un concorrente. I diplomi, che un tempo abilitavano subito al lavoro, sono stati sostituiti dalle lauree che hanno spostato di cinque o sei anni (quando va bene) l’ingresso nei vari impieghi. Nel frattempo i giovani sono vissuti sulle spalle dei genitori erodendo la loro ricchezza e perdendo la propria autostima. I progressi della medicina hanno spostato di venti o trent’anni il ricambio generazionale, con costi significativi per il mantenimento di un’interminabile vecchiaia, e conseguente riduzione dei beni da ereditare. Insomma, peggio di così per la vostra generazione non poteva andare, anche perché, a differenza delle generazioni che verranno dopo di voi e che non nutrono alcuna illusione, nessuno vi aveva preparato.
Il secondo fattore negativo della vostra epoca è che un tempo, a promuovere la vita, c’erano diversi valori: i valori della nobiltà, della bellezza, della convivenza, della parola data, della cultura, dell’arte. Oggi tutti questi valori sono stati cancellati, come lei dice, da quell’unico valore che è il denaro, per cui l’arte è tale se entra nel mercato, la cultura è apprezzata se vende, la parola data può essere rinnegata se non è più conveniente, anche il mondo delle relazioni è coltivato solo se garantisce un qualche vantaggio economico o di prestigio, persino quando entriamo in un negozio la gentilezza che ci accoglie non è riservata a noi, ma a quanto possiamo spendere. In un mondo ridotto a questo livello, come si fa a sognare? Il sogno è una cosa bellissima se nel suo segreto racchiude un progetto che si può realizzare, altrimenti è un gioco di illusioni che, se non riconosciute, preparano la delusione.
C’è una sola cosa che rifiuta il calcolo, l’interesse, il perseguimento di uno scopo, persino la responsabilità che il vivere sociale ci richiede. È una cosa che ci consente di vivere la spontaneità, la sincerità, l’autenticità, l’intimità, persino l’irrazionalità, che non è più possibile esprimere nella nostra società tutta calcolo e interesse. Questa cosa è l’amore, vero contraltare della realtà sociale, dove non ci è più consentito di essere noi stessi, di reperire un senso che sia davvero nostro, una libertà che sappia spingersi fino al limite della follia, quantomeno per controbilanciare quell’altra follia, che un gioco subdolo e ingannevole di parole chiama “razionalità” del mercato e della tecnica, la quale, come già un secolo fa ci avvertiva Max Weber, ci costringe a vivere in una “gabbia d’acciaio”. E dico questo perché, più si espande e diventa totalizzante il regime della razionalità, più diventa attraente nell’amore l’irrazionalità che lo governa. Naturalmente anche qui nulla è garantito, soprattutto se il nostro bisogno di sicurezza fa entrare il calcolo anche nelle cose d’amore.