24.
Come possono le atrocità della guerra
lasciarvi indifferenti?

Scrive Günther Anders che, se il nostro sen­timento, superata una certa soglia, si inceppa, per effetto di questo meccanismo di inibizione “il mostruoso ha via libera”.

Ho vent’anni, studio Commercio estero a Venezia. Sono alla mia scrivania, come tutte le sere. E scrivo. Sono settimane che sono ferma al primo paragrafo di un articolo. Riguarda Aleppo. Avrei voluto scrivere della “piramide dei martiri che affligge la Terra”. The usual suspects: sarebbe stato un gran titolo. Ho costruito e distrutto frasi milioni di volte, non trovando le parole giuste. Poi mi sono fermata, mi sono chiesta se io stessa avrei mai voluto leggere l’ennesimo articolo accusatorio. E mi sono risposta di no. Uno dei tanti. D’altronde un martirio non si ferma con le belle parole. Che sia una discussione bilaterale tra John Kerry e Sergej Lavrov o il coraggioso j’accuse della giornalista Lucy Aharish al tg israeliano.

Ricordiamo l’Olocausto ogni anno, in un giorno di gennaio, per poi dimenticarcene nei restanti 364 giorni. Posiamo la forchetta sul piatto per quel servizio al telegiornale, quelle immagini aberranti, le fissiamo, sospiriamo. Per poi riprendere a cenare. Ascoltiamo dopo ogni genocidio, dopo ogni massacro di massa, il grido “mai più” risuonare fino al conflitto successivo. Viviamo di un’eterna indifferenza. E ne siamo consapevoli. A cosa servono, davvero, le parole? 

Scrivo perché scrivendo ho capito quello che non avevo capito studiando. Ho vent’anni, e seppure a volte vedo il mondo scivolarmi tra le dita, sono una sognatrice. Vedo una parte del globo, uomini che non possono più pensare, né amare, né sperare, ma soltanto tremare, tremare incessantemente. Vedo l’altra parte, assuefatta alla sofferenza dell’altro, immobile.

Sento il rumore della pioggia, una serata di dicembre, il calore di casa. Penso al frastuono delle bombe, una serata di dicembre, il gelo dentro. Ascolto la banalità superflua dei notiziari che finisce con il trasformare tutti noi che parliamo e tutti noi che ascoltiamo in complici. Penso a come siamo disfattisti, mentre ci crediamo uomini di pace. A come siamo frangibili. 

Ho vent’anni, e seppure osservo una Società delle nazioni e la sua perenne codardia alla Chamberlain, io ci credo ancora. Credo in quel Consiglio di sicurezza, immaginato dopo la Seconda guerra mondiale come istanza suprema di un governo mondiale integralmente rivolto alla pace. In quelle Nazioni Unite che, per un breve periodo, alla fine della Guerra fredda, hanno lavorato senza l’ostruzionismo delle rivalità tra le grandi potenze. In quelle Nazioni Unite che sono oggi teatro della nostra impotenza collettiva. Scrivo perché mi rende consapevole. E a vent’anni, bisognerebbe aver fame di consapevolezza.

Ludovica

U.G. Nel mondo c’è più atrocità che amore. Perché un maledetto “istinto di conservazione”, portato all’esasperazione, ci fa dire: “Mors tua, vita mea”. Come se la propria vita potesse affermarsi alla sola condizione, se non di sopprimere, comunque di limitare la vita degli altri. Nonostante non manchi giorno in cui rivendichiamo la nostra differenza e superiorità rispetto agli animali, siamo esattamente come loro, anzi peggio di loro. Gli animali infatti uccidono per alimentarsi, gli uomini invece, come ci ricorda Hegel, uccidono per ottenere il riconoscimento della loro superiorità nei confronti del vinto. Non uccidiamo per fame, ma per potere, perché il potere potenzia la nostra identità e il nostro vissuto di superiorità.

Come osservava opportunamente Nietzsche, la storia umana è regolata dalla volontà di potenza che si esprime tanto in guerra quanto in pace, perché anche la pace, ce lo ricorda Heidegger, non è che un altro modo di proseguire la guerra, che a sua volta “è una sottospecie della conquista della Terra in vista del suo sfruttamento spinto fino alla sua usura che viene continuata nel tempo di pace. Questa lunga guerra, nella sua lunghezza, non va lentamente verso una pace di tipo tradizionale, ma verso una situazione in cui i caratteri costitutivi della guerra non sono più esperiti come tali, e ciò che costituisce la pace ha perso ogni senso e ogni contenuto”.

A questa situazione generale, che dice quanto è arretrata la condizione umana rispetto ai suoi ideali di pace e di reciproco rispetto e riconoscimento – propagati in Occidente dalla religione cristiana e dalla cultura illuminista, che ha declinato in versione laica i valori di libertà, uguaglianza e fraternità a suo tempo annunciati dal cristianesimo alle sue origini –, a questa situazione di spaventosa arretratezza si aggiunge un’ulteriore impressionante arretratezza, quella della nostra condizione psichica, dovuta al fatto che il “troppo grande” ci lascia “freddi”, perché il nostro sentimento di reazione si arresta alla soglia di una certa grandezza.

Se muore infatti un congiunto a cui eravamo legati, soffriamo, se muore il nostro vicino di casa facciamo le condoglianze, se ci dicono che ogni otto secondi muore di fame un bambino nel mondo, questa finisce con l’essere solo una statistica, che si stenta ad approfondire per non toccare con mano la nostra impotenza di fronte a una simile situazione. La stessa cosa accade con la commozione e con la reazione emotiva che proviamo di fronte ai nostri morti a opera del terrorismo, e ai morti nelle terre della Siria e dell’Iraq, troppo lontane e troppo grandi per commuoverci e suscitare un minimo di partecipazione.

Ma come scrive Günther Anders: “L’inadeguatezza del nostro sentire non è un semplice difetto fra i tanti, ma è la cosa peggiore delle peggiori cose che sono già accadute. Perché è questo fallimento che rende possibile la ripetizione di queste terribilissime cose. Infatti se il nostro meccanismo di inibizione si arresta del tutto non appena si sia superata una certa grandezza massima, allora, finché vige questa regola infernale, il mostruoso ha via libera”.

Capiamo adesso l’importanza dell’invito di Ludovica a educare nei giovani la consapevolezza e il sentimento, affinché non siano indifferenti al proliferare delle armi, alla distruzione del sistema ecologico, alla ricchezza smisurata di alcuni e alla povertà spaventosa di molti. E tutto ciò affinché la loro insensibilità non aumenti e non si traduca in irresponsabilità collettiva, che consentirebbe alla distruttività umana di dilagare indisturbata, senza neppure più bisogno di appoggiarsi come un tempo a tramontate ideologie.

La parola ai giovani
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