3. Genealogia dell’anima: Nietzsche e la ragione come rimedio

Sono ancora in attesa che un filosofo medico, nel senso eccezionale della parola — inteso al problema della salute collettiva di un popolo, di un’epoca, di una razza, deirumanità —, abbia in futuro il coraggio di portare al culmine il mio sospetto e di osare questa affermazione: in ogni filosofare non si è trattato per nulla, fino ad oggi, di “verità”, ma di qualcos’altro, come salute, avvenire, sviluppo, potenza, vita…

F. NIETZSCHE, La gaia scienza, § 2.

1. Lo spostamento della domanda

Con Nietzsche l’anima razionale e la storia da lei inaugurata subisce una muta violenza. A provocarla non è l’irruzione romantica deirirrazionale (Schopenhauer), o la mal fondata scoperta di un inconscio (Freud), ma l’incedere tranquillo di una domanda che non chiede che cos’è la ragione, ma come è venuta al mondo la ragione.

Qui il terreno non è smosso dall’insorgenza di un principio antagonista, ma dalla radicalità di un’interrogazione che obbliga la ragione a pensarsi contro se stessa e a scoprirsi al di là della sua nominazione e della storia da lei dispiegata. Ciò che si libera è una nuova prospettiva dove pensare contro non significa, come per Schopenhauer e per Freud, pensare Yopposto, mantenendosi su quel medesimo terreno di opposizione dove il conflitto, così come si genera, si riassorbe. Per Nietzsche pensare contro significa pensare fino in fondo, quindi andare alle radici, scavando il fondo in cui si impianta il radicamento.

Questo scavo, che rimuove la solidità delle radici, non oppone alla ragione qualcos’altro che l’esercizio dialettico riassorbe ad un livello più alto di equilibrio, ma disloca la ragione dal luogo che si è data, quindi la dis-orienta, la sottrae al suo consolidato statuto per affidarla al suo Oriente, alla sua origine storica. Qui Nietzsche vede molto più alto di Schopenhauer e di Freud, sa che l’opposto della ragione, l’inconscio o la cieca pulsione, sono i prodotti della sua esclusione, per cui non è dal-Yopposto che la ragione può essere interrogata, ma dalla radice, là dove si sono decise le procedure di esclusione che hanno poi generato la ragione e il suo opposto.

Queste procedure sono state fissate da Platone che ha introdotto una forma di interrogazione assolutamente nuova per il mondo greco: l’interrogazione che chiede il ti ésti, il che cos’è una cosa, la sua essenza. I dialoghi platonici sono la reiterazione di questa domanda che, proprio perché si sottrae al linguaggio della sovrabbondanza semantica dei miti e del gioco incontrollato della polivalenza dei significati, fìssa le basi discorsive e con esse l’atto di nascita della ragione e delle sue procedure d’esclusione.

Se la ragione è ciò che scaturisce da quel modo di domandare che chiede il “che cos’è”, non sarà con questo tipo di domanda che si potrà guadagnare uno sguardo sulla ragione e su Platone che l’ha inaugurata, ma solo retrocedendo da quell’ambito per abitare quel terreno da cui è possibile scorgere che cosa ha reso necessario quel tipo di domanda da cui la ragione ha preso avvio e ha dispiegato la sua storia.

Per questo Nietzsche non sta ad ascoltare Socrate, ma, aggirando il filosofo, si fa narrare l’evento dagli dèi, da Apollo e da Dioniso che la dialettica della filosofia e della storia della filosofìa escludono dalla propria fortificazione. La mappa viene sconvolta, perché, fatto reagire con la sua origine, il volto della ragione non può più offrirsi sotto la maschera della verità, ma dovrà confrontarsi con le condizioni che hanno reso necessaria l’assunzione di quella maschera. Il gioco infatti non è più all’interno della ragione, ma tra la ragione e il suo altro. Lo spostamento della domanda ha sottratto a Platone l’inoppu-gnabilità delle regole che ora non appaiono più come le regole del gioco, ma come le regole del suo gioco.

Ma Platone vuol dire Occidente, non nel senso erudito che tutti conoscono Platone, ma nel senso assai più radicale che tutti lo professano quando pensano con categorie che articolano un vero e un falso, un bene e un male, un’anima e un corpo. Opponendosi a Platone, insegnando come “si filosofa col martello”, Nietzsche si pone all’estremo limite della parabola occidentale non per confutarla, ma per oltrepassarla.

La domanda suìl’origine, infatti, relativizza la “ragione” d’Occidente, e il “mondo vero” da essa inaugurato “finisce per diventare favola”. Sullo sfondo resta “Platone rosso di vergogna” tra il “baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi” (108, 75-76). La qualità della domanda nietzschiana obbliga infatti l’ordine della ragione ad apparire per quello che è, non un ordine immutabile, ma un percorso necessario della storia. Si tratta di comprendere il senso di questa necessità.

2. La necessità della ragione

Lo spostamento della domanda dsAYambito della ragione alla nascita della ragione inaugura uno spazio di indagine che sfugge sia al controllo della filosofia, che è iscritta per intero nel racconto della ragione, sia a quello della storia che è sempre una ricostruzione della ragione che la pensa e la ordina. La radicalità della domanda apre uno spazio “clinico1‘ e lo sguardo che inaugura è quello del “medico” che chiede di quale male soffriva l’umanità per trovare nella ragione quel rimedio che le ha consentito di non soccombere.

“Se si sente la necessità — scrive Nietzsche — di fare della ragione un tiranno, come fece Socrate, non deve essere piccolo il pericolo che qualche altra cosa si metta a tiranneggiare. A quel tempo si indovinò nella razionalità la salvatrice; né Socrate né i suoi ‘malati’ erano liberi di essere razionali — era de rigueur, era il loro ultimo rimedio. Il fanatismo con cui tutto il pensiero greco si getta sulla razionalità tradisce una condizione penosa; si era in pericolo, non c’era una scelta; o andare in rovina o… essere assurdamente razionali… Il moralismo dei filosofi greci, a cominciare da Platone, è patologicamente condizionato: ugualmente la loro valutazione della dialettica. Ragione = virtù = felicità significa solamente: si deve imitare Socrate e stabilire in permanenza contro gli oscuri appetiti una luce diurna, la luce diurna della ragione. Si deve essere saggi, perspicui, chiari a ogni costo; ogni cedimento agli istinti, all’inconscio, porta a fondo…” (108, 67).

Sottoponendo la ragione a uno sguardo “clinico”, Nietzsche scioglie gli equivoci dell’anima, perché trova il punto di incontro dei suoi molteplici significati e la necessità del loro prodursi. Un prodursi de rigueur. L’ordine del sapere e il disordine delle passioni, l’anima razionale e l’anima istintuale per necessità hanno dovuto intrecciarsi nella trama che l’Occidente ha conosciuto e che Nietzsche svela come trama dove in gioco non è la verità, ma il dominio del sapere sulle passioni e della ragione sugli istinti. Un dominio di rigore, per poter sopravvivere.

Ma qual era la minaccia? Di fronte a che cosa l’umanità avrebbe potuto estinguersi se non avesse inventato la ragione? Con quali procedure questa ha consentito all’uomo di non soccombere? E che ne sarà di lui qualora le procedure della ragione si rivelassero per quel che sono: un artificio o, come dice Nietzsche, una “terapia”? Quale futuro può dischiudere la consapevolezza dell’inganno? Quale “filosofia del mattino” resta da annunciare dopo che il “crepuscolo” ha offuscato la “luce diurna”? La qualità della domanda inaugurata da Nietzsche, spostandoci dalla terra della ragione a quello spazio di nessuno da cui un giorno la ragione ha preso avvio, non ci espone a quell’assenza di riferimento dove non è più discernibile “un alto e un basso” e dove non resta che il precipitare “all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati (…) vagando come attraverso un infinito nulla, dove alita solo lo spazio vuoto” (105, 129)?

Ebbene sì, ma è proprio per difendersi da questo spazio vuoto che gli uomini sono approdati alla terra della ragione, hanno qui edificato le loro dimore e fissato le loro stabilità. Da questo punto di vista, reso possibile dalla domanda suirorigine, la ragione, da spirito di invenzione e di ricerca, si trasforma in tecnica difensiva: ragionare equivale a mettersi al riparo, guadagnare una terra e un orizzonte come confine.

Per Nietzsche il grande geografo che ha fissato i punti cardinali è stato Platone, e Vanima è il compasso di cui si è servito per disegnare i confini; per questo, scrive Nietzsche, “platonismo è in primo luogo saggezza nel prendere sul serio l’anima” (114, 91).

Nelle parole di Nietzsche risuona l’eco lontana del Teeteto (185 e) di Platone: “Mi pare sia l’anima, mediante se stessa, che disceme ciò che è identico in tutte le cose”. In questa identità c’è la linea sicura del geografo che disegna il paesaggio e la modalità di lettura. Non c’è infatti identità nelle cose che non sia posta dall’anima in forma di idea. Ma l’idea non è solo il principio di identificazione conoscitiva, per Platone è anche il principio di identificazione costitutiva. L’idea è ciò per cui una cosa è quella che è, ed è perciò accostabile dalla domanda che chiede il suo che cos’è. Senza il reticolato delle idee, senza il disegno del grande geografo, non si saprebbero identificare le cose e perciò Platone esce in quell’esortazione: “E dirai alto e forte che tu non sai come altrimenti una data cosa si generi se non in quanto viene a partecipare di quell’essenziale realtà che è propria di quella data idea di cui ella partecipa” (Fedone, 101 c).

La distinzione tra “mondo vero” o delle idee, in cui sono i principi costituivi e i codici di lettura, e “mondo apparente”, in cui è la massa altrimenti incodifìcabile delle cose da leggere e da identificare, è così posta come ideazione dell’anima che “se ne sta sola in se stessa”, perché le idee che rendono possibile la lettura essa non le ricava dal mondo, ma le applica al mondo, dopo averle ideate “mediante se stessa”.

L’anima razionale è dunque lo strumento che traccia la linea per cui un paesaggio ha una certa forma e un suo senso; in questo paesaggio è possibile abitare perché ci sono stabilità, costanti, punti di riferimento. Per questo, ci riferisce la tradizione, Platone fece scrivere sul frontespizio dell’Accademia: “non si entra qui se non si è geometri”. Sottratto allo sguardo magico dei sacerdoti, il cielo stellato diventa iperuranio, orizzonte concluso su una terra protetta. Nasce la verità che getta nella follia tutto ciò che non si accorda con le linee tracciate. È una follia che nasce per esclusione, quindi una follia recuperabile, come lo sono Terrore e la falsità qualora si confrontino con le linee del geografo. Non si tratta della follia del “mare aperto”, dello “spazio vuoto”, dell‘“infinito nulla” che Nietzsche scopre come sfondo, come apertura, come caos, prima che l’anima disegnasse un cosmo col suo cielo e la sua terra.

Ma il guadagno dell’origine consente a Nietzsche di abbandonare la terra, perché è stata scoperta come terra di protezione e luogo di riparo. Tagliati gli ormeggi, l’orizzonte si dilata, il suo dilatarsi lo abolisce come orizzonte, come punto di riferimento, come incontro della terra col suo cielo: “Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle — e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c’è l’oceano: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro e trasognamene della bontà. Ma verranno momenti in cui saprai che è infinito e che non c’è niente di più spaventevole dell’infinito. Oh, quel misero uccello che si è sentito libero e urta ora nelle pareti di questa gabbia! Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà — e non esiste più ‘terra’ alcuna!” (105, 129).

3. Lo sfondo tragico

L’umanità ha sempre chiamato “anima” la differenza che avvertiva tra sé e l’animale. La parola, come s’è visto, s’è prestata a molti giochi, ma Nietzsche la sorprende alla sua origine, là dove sorge, nella meraviglia stupita dell’uomo di fronte al silenzio animale: “L’uomo chiese una volta all’animale: perché non mi parli della tua felicità e soltanto mi guardi? L’animale dal canto suo voleva rispondere e dire: ciò deriva dal fatto che dimentico subito ciò che volevo dire — ma subito dimenticò anche questa risposta e tacque; sicché l’uomo se ne meravigliò. Ma egli si meravigliò anche di se stesso, per il fatto di non poter imparare a dimenticare e di essere continuamente legato al passato: per quanto lontano, per quanto rapidamente egli corra, corre con lui la catena” (99, 262).

La catena della memoria è dunque la trama dell’anima, ciò che le consente identità e ideazione. Qui Nietzsche è d’accordo con Platone per il quale “conoscere è ricordare” (Menone, 81 c). La memoria, il ricordo è innanzitutto un ri-accordo che dalla dispersione genera unità e nell’unità rintraccia queir identità soggettiva e oggettiva che la ragione occidentale ha chiamato Io e Mondo. Sia l’uno che l’altro non sono dati di realtà, ma costruzioni della memoria. Non ci sarebbe “Io” se la memoria non costruisse quella sfera di appartenenza per cui riconosco come “miei” azioni, vissuti, pensieri e sentimenti; non ci sarebbe “Mondo” se la memoria non cucisse la successione delle visioni che altrimenti si offrirebbero come spettacoli sempre nuovi, apparizioni tra loro irrelate.

Costruendo Io e Mondo, la memoria dischiude quell’apertura al senso da cui è escluso l’animale che, senza memoria, non sa di sé e del mondo che lo circonda. Il suo silenzio è inevitabile; l’animale tace perché non sa cosa dire, la mancanza di memoria gli cancella qualsiasi orizzonte come offerta di un possibile senso: “Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall’alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato cioè al piuolo dell’istante, e perciò né triste né tediato. Il veder ciò fa male all’uomo, poiché al confronto dell’animale egli si vanta della sua umanità e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello — giacché questo soltanto egli vuole, vivere come l’animale, né tediato né fra dolori, e lo vuole però invano, perché non lo vuole come l’animale” (ibidem, 262).

La presenza della memoria, infatti, espone l’uomo alla ricerca di una felicità che non può escludere l‘apertura al senso, essendo questa apertura ciò per cui l’uomo è uomo e non animale. Ma l’apertura, dilatandosi, e avanti e indietro, iscrive l’uomo tra la nascita e la morte; anche l’animale è iscritto in questi due limiti, ma non ne ha coscienza, quindi non vive la dimensione tragica di essere ad un tempo aperto al senso e in vista della morte che è implosione di ogni senso. Il tragico è dunque l’elemento costitutivo dell’uomo che la memoria, dopo aver costruito come Io aperto al mondo, gli ricorda che è aperto per nulla. Allora “lotta, sofferenza e tedio si avvicinano all’uomo, per rammentargli ciò che in fondo è la sua essenza — qualcosa di imperfetto che non può essere mai compiuto. E quando infine la morte porta il desiato oblio, essa sopprime insieme il presente e l’esistenza, imprimendo in tal modo il sigillo su quella conoscenza — che l’esistenza è solo un interrotto essere stato, una cosa che vive del negare e del consumare se stessa, del contraddire se stessa” (ibidem, 263).

La memoria, inaugurando il punto di vista dell’individuo, offre una percezione talmente chiara del carattere effimero, insignificante di ogni azione e decisione da rendere impossibile la vita. Nel farsi interprete di questa estenuazione infinita del valore e dell’insignificanza di ogni progettualità individuale, la tragedia greca non cessa di esporre nelle forme più svariate la contraddizione deiresistenza aperta al senso per il naufragio dì ogni senso. Il grido di Sileno è lì a ricordare che cosa l’uomo veramente è al di sotto del velo illusorio della sua individualità: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggioso non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non esser nati, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è — morire presto” (98, 31-32).

La sentenza di Sileno sposta in modo radicale l’orizzonte e la prospettiva. Lo sguardo non è più dall’individuo verso l’apertura del suo senso, ma dalla natura che, senza senso e senza scopo, guarda gli individui come a sue creazioni. Questo rapido mutamento di prospettiva ci introduce nella sapienza di Dioniso, libera da ogni visione antropomorfica dell’esistenza e afferma la vita come flusso che divora continuamente le sue forme, come potenza che ne foggia di sempre nuove, senza fedeltà e senza memoria.

L’anima individuale, che la memoria di sé ha generato, quando è percorsa dalla visione dionisiaca percepisce se stessa come illusione e mera apparenza perché “al mistico grido di giubilo di Dioniso, la catena dell’individuazione viene spezzata e si apre la via verso le Madri dell’essere, verso l’essenza intima delle cose” (ibidem, 105). Il tragico coglie il fondo originario perché spezza la catena dell’individuazione, e così facendo sperimenta ogni individuazione come apparenza.

Ma innanzi alla labilità delle apparenze, il Greco non rinuncia alla vita come invitava il grido di Sileno, perché scopre nell’insensata crudeltà della natura la sua assoluta creatività, rispetto alla quale distruzione e morte sono eventi altrettanto apparenti quanto l’individuazione e la forma singolare. Infrangendo la barriera delle forme, il tragico coglie la natura dell’originario nella potenza del suo assoluto produrre, e in questa produzione (potesis) poetante è salvata la realtà stessa delle forme che diventano manifestazioni di vita.

L’ottimismo dei greci prende avvio dal punto più basso della parabola pessimistica: dalla dissoluzione di ogni forma individuale all’esaltazione della vita. Se infatti tutto è distruggi-bile tranne la vita stessa, allora anche la distruzione è apparenza: “l’arte dionisiaca — scrive Nietzsche — vuole convincerci dell’eterna gioia dell’esistenza: senonché dobbiamo cercare questa gioia non nelle apparenze, ma dietro le apparenze. Dobbiamo riconoscere come tutto ciò che nasce debba essere pronto ad una fine dolorosa, siamo costretti a guardare in faccia agli orrori dell’esistenza individuale — e tuttavia dobbiamo irrigidirci: una consolazione metafìsica ci strappa momentaneamente dal congegno delle forme mutevoli. Per brevi attimi siamo veramente Tessere primigenio stesso e ne sentiamo l’indomabile brama di esistere e piacere di esistere” (ibidem, 111).

Il giovane Nietzsche è già lontano dalla “rinuncia” e dalla “rassegnazione” di Schopenhauer nonostante gli espliciti riconoscimenti, ma il suo piacere di esistere parla ancora il linguaggio della consolazione perché lo sfondo è ancora metafisico, tale quindi da distinguere platonicamente un mondo vero e un mondo apparente, un’unità originaria che sta al di là (metà) del mondo che appare. Solo quando in età matura Nietzsche avrà rinunciato al “mondo vero”, per averlo smascherato come l’illusione più efficace per vivere, allora cesserà in lui quella tensione ascetica verso l’Uno, che Schopenhauer aveva ereditato da Platone, e, abbandonato lo sguardo metafìsico come posizione e svolgimento di un ‘idea di separazione tra mondo vero e mondo apparente, coglierà nelle apparenze non l’inganno, ma le espressioni della profusione sovrabbondante della vita. Allora non si tratterà più di liberarsi dal dionisiaco, ma di liberare il dionisiaco in tutte le sue espressioni.

Recita infatti il Tentativo di autocritica preposto alla Nascita della tragedia nel 1886: “Nel libro ritorna più volte l’allusiva frase che solo come fenomeno estetico l’esistenza del mondo è giustificata. E in effetti tutto il libro, dietro a ogni accadere, vede soltanto un senso e un senso recondito d’artista, — un ‘Dio’ se si vuole, ma certo solo un Dio-artista assolutamente noncurante e immorale, che nel costruire come nel distruggere, nel bene come nel male, vuole sperimentare un uguale piacere e dispotismo, e che, creando mondi, si libera dall ‘oppressione della pienezza e della sovrabbondanza, dalla sofferenza dei contrasti in lui compressi. Il mondo è in ogni momento la raggiunta liberazione di Dio, come la visione eternamente cangiante, eternamente nuova dell’essere più sofferente, più contrastato, più ricco di contraddizioni, che sa liberarsi solo neW illusione” (ibidem, 9).

4. La protezione degli immutabili

Le illusioni affondano in quella visione lucida e terrificante dell’esistenza che il grido di Sileno mostra minacciata da forze immensamente più potenti di lei. Come la conobbero i greci essa sarebbe insopportabile se non fosse trasfigurata da figure etemizzanti ove non vige l’angoscia del perire, il terrore della morte e della caduta di ogni senso. Nasce così “la montagna incantata dellOlimpo” come illusione, cóme maschera che ser* ve a sopportare l’esistenza colta nella sua essenza dalla sapienza dionisiaca.

“Ora si apre a noi per così dire la montagna incantata dell’Olimpo e ci mostra le sue radici. Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dovè porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L’enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura, la Moira spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze, l’avvoltoio del grande amico degli uomini Prometeo, il destino orrendo del saggio Edipo, la maledizione della stirpe degli Atridi, che costringe Oreste al matricidio, insomma tutta la filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i melanconici Etruschi — fu dai greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dèi olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi. (…) Nel mondo olimpico, la “volontà” ellenica si pose di fronte a uno specchio trasfìguratore. Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi — la sola teodicea soddisfacente” (ibidem, 32-33).

La funzione degli dèi dell’Olimpo è di proteggere il Greco dalla lucida penetrazione dionisiaca dell’essenza tragica dell’esistenza. Così simili agli uomini, essi li rispecchiano, ma sotto la forma dell’eterno. Che qualcosa possa permanere, e quindi sottrarsi al carattere effimero e caduco dell’esistenza è la prima illusione che i Greci dovettero inventare per poter vivere.

Questa immedesimazione nel desiderio eterno di sé che il dio riflette sarà l’origine prima dell’arte poetica e scultorea dell’antica Grecia. Quell’arte che Platone nel III libro della Repubblica (392 e, sgg.) condannerà perché l’immedesimazione in altri implica una rottura della continuità delVanima con se stessa. All’illusione dell’arte, che salva dal tragico attraverso la proiezione nelle stabilità delVOlimpot Platone, che, come Nietzsche ci ha ricordato, “ha preso sul serio l’anima”, salverà dal tragico attraverso l’illusione della ragione che crea ntìViperuranio quelle stabilità che sono le idee che l’anima conosce “stando sola con se stessa”.

Il passaggio dall’arte alla filosofia, e poi vedremo dalla filosofia alla scienza, segue il bisogno di trovare figure di stabilità sempre più solide, forme etemizzanti sottratte al flusso del divenire per difendersi dalla lucida visione del tragico. Questo impianto di illusioni, nella loro successione storica, sono gli immutabili che l’anima di volta in volta crea per sfuggire al grido di Sileno. A questo punto tra anima razionale e anima passionale, che qui usiamo nel senso specifico del “patire” la vita di Dioniso, non c’è opposizione. Proprio perché sente alitare dentro di sé il vento di Dioniso, l’anima ha cercato figure eter-nizzanti e stabilità “per poter sopravvivere”, per non cedere a quell’estenuazione della vita a cui la invitava la sapienza di Sileno.

Rispetto all’arte poetica che salvava attraverso la proiezione dell’eterna vita degli dèi, Platone, che “non si lascia persuadere da simili racconti” (Repubblica, 391 c), inventa quella “formula relativa agli uomini” (ibidem, 392 a) che è poi la conoscenza delle idee eterne che l’anima, separandosi dal corpo, immerso nel flusso del divenire, può conoscere e, purificandosi, raggiungere. La filosofìa supera il tragico con un impianto più forte di quello poetico perché, a differenza delle figure mitologiche degli dèi, le idee che l’anima conosce non paiono più illusioni, ma verità.

Per Platone la verità scioglie l’enigma del tragico a cui gli dèi offrivano solo un rimedio: “Bisogna tenere in massimo conto la verità (…) e quanto agli dèi, se agli uomini pare cosa utile ricorrervi a guisa di rimedio, è evidente che un simile rimedio bisogna riservarlo ai medici; i profani non ci metteranno mai le mani” (Repubblica, 389 b).

Ma per Nietzsche anche la “verità” inventata da Platone è un rimedio che a un’apparenza sostituisce un’altra apparenza, la quale, solo per rimozione della sua genesi, può spacciarsi come unica e vera realtà. Come si vede, ancora una volta la domanda nietzschiana sull’origine mostra lo spessore storico ed epocale di ogni apparenza che pretende di offrirsi come vera ed eterna. Il metodo genealogico, che lo “spostamento della domanda” inaugura, smobilita tutte le impalcature logiche che si offrono sotto il segno della durata eterna. Ogni verità è una “finzione” nel senso specifico di fingere = modellare, fare, costruire, quindi una costruzione necessaria all’uomo per sopravvivere. “L’intelletto — scrive Nietzsche —, come mezzo per conservare l’individuo, spiega le sue forze principali nella finzione. Questa infatti è il mezzo con cui gli individui più deboli e meno robusti si conservano, in quanto a essi è preclusa una lotta per l’esistenza da condursi con le corna o con gli aspri morsi degli animali feroci” (102, 356).

Privi della forza con cui gli animali conducono la lotta per la vita, gli uomini vi suppliscono con la natura ambigua della ragione, la cui articolazione è indicata da Nietzsche nel doppio registro deìVinganno e della necessità. “Inganno” qui non significa il falso rispetto al vero, perché vero e falso, già lo segnalava Aristotele (Dellespressione, 16 a) si danno solo all’inferno di una ragione codificata che, rispetto al mondo che si apre come orizzonte indeterminato di senso, è già una presa di posizione, una decisione in ordine ai significati. Questa, intervenendo, risolve l’enigma di quell’apertura e, sopprimendo ogni ulteriorità di senso possibile, la determina in ordine a un certo impianto di significati.

La ragione è un inganno perché tende a far passare l’ordine dei suoi significati come l’unico senso del mondo che, invece, è disponibile per una molteplicità indeterminata di altri sensi; ma è un inganno necessario perché, al di fuori di un ordine codificato, al di fuori di stabilità che egli stesso crea, ma che dimentica d’aver creato, l’uomo non può vivere. “Che cos’è dunque la verità? — si chiede Nietzsche —. Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria” (102, 361).

A questo punto “essere veritieri significa servirsi di metafore usuali” (ibidem) a cui l’uomo “lega la sua vita per non essere trascinato via dalla corrente e per non perdersi” (ibidem, 368). È infatti “di protezione che egli ha bisogno, perché esistono forze terribili che premono continuamente su di lui, contrapponendo alla ‘verità’, altre ‘verità’ di natura del tutto diversa e munite dei più svariati stemmi” (ibidem).

5. Dalla tragedia alla genealogia

A decidere quale verità, quale ordine di significati è da imporre al mondo che di per sé è un’apertura disponibile per ogni senso è la lotta che gli animali disputano “con le coma e con gli aspri morsi” e gli uomini con l’agone dialettico. La lotta rivela i contendenti, e lo stato della lotta la forma della ragione di volta in volta dominante: “Dalla guerra tra gli opposti sorge ogni divenire: le qualità determinate, che ci appaiono come durevo

li, esprimono soltanto la momentanea prevalenza di uno dei combattenti, ma non per questo la guerra finisce: la lotta continua per l’eternità” (101, 294).

La lotta, in quanto dischiude Yorizzonte del senso, si pone al di qua del vero e del falso, perché vero e falso sorgono solo come espressioni di uno stato della lotta, dove è visibile un vincitore e un vinto. Ma il vero non è sempre vero, né il falso sempre falso, perché le vicende della lotta capovolgono le sorti dei contendenti. Ne consegue che vero e falso non descrivono il senso della lotta, ma i singoli stati del suo svolgimento che la lotta, svolgendosi, capovolge. Ciò significa che è la storia, come eterno svolgersi della volontà di potenza, a decidere che cosa di volta in volta è verità. Assistendo alla vittoria di un contendente, la storia assiste infatti airimporsi di una verità che è tale non perché, con la logica, confuta una falsità, ma perché, avendo con la lotta superato l’altro contendente, si impone e, imponendosi, produce effetti di realtà, cioè “fa storia”.

Nietzsche può superare la logica e aprirsi alla storia come a un superiore criterio di verità perché la tragedia gli ha rivelato che la vita è una potenza assoluta che genera e distrugge ogni determinazione, è forza e movimento, unità e scissione, quindi aggressione e lotta. Non un superamento del negativo attraverso il positivo come nella dialettica ottimistica e conciliante di Hegel, ma opposizione e lotta tra istanze positive: “La vita vive sempre a spese di altra vita. Chi non capisce ciò non ha fatto neanche il primo passo per giungere all’onestà con se stesso” (ibidem, 272).

Così parla la tragedia e nella sua parola c’è l’inaugurarsi di una storia come lotta tra potenze positive, dove il sopravvento dell’una non dice la negatività dell’altra, la sua falsità, ma solo la sua minor forza. Per questo la storia ha visto crollare tanti immutabili, tanti valori che sembravano eterni, tante stabilità. Queste erano utili apparenze attraverso cui l’uomo, per un certo tempo, poteva conservarsi e crescere; quando la sua forma di vita ha trovato altre forme di crescita e di espansione, queste stabilità protettive non potevano che essere travolte. Così è stato per tutti i valori a cui la storia ha tolto la maschera dell’eternità per esporli nella loro successione storica, come condizioni utili alla vita.

“Il senso storico: la capacità di scorgere rapidamente la gerarchia dei valori in base ai quali un popolo, una società, un individuo vivono. La relazione tra questi giudizi di valore e le condizioni di vita, il rapporto tra l’autorità dei valori e l’autorità delle forze agenti (quello presunto generalmente ancor più di quello reale): il sapere ricostruire in sé tutto ciò fa il senso storico” (Nietzsche, 110, 187).

Risolvendo ogni concetto e ogni valore nelle condizioni che l’hanno generato, il senso storico oltrepassa le categorie del vero e del falso perché il suo giudizio non si misura sulla logica che vale solo all’interno di un sistema immutabile e definito, ma sulla genealogia, per la quale anche i sistemi immutabili sono fatti storici che vanno compresi e perciò giudicati in base al decorso della loro esistenza, quindi guardando alle condizioni che li hanno prodotti, a quelle che li hanno mantenuti e trasformati, a quelle infine che li hanno vanificati. I limiti di questo decorso segnano i confini della verità e della falsità, dove a decidere non è più l’ordine della spiegazione, ma la scansione storica della loro successione: uSpiegazione significa mostrare sempre più chiaramente la successione, niente più” (ibidem, 213).

Non si dà più una verità atemporale, uno statuto dell’essere, un ordine della ragione, ma delle condizioni che pongono in essere un’idea che è valida finché produce effetti di realtà, finché la storia la conferma. Il senso di un’idea non è data dalla delucidazione del suo significato, ma dalla sua vita e dalla sua morte storica. Così è per la morte di Dio, che non significa che l’idea di Dio è falsa, e quindi che Dio non esiste, ma, più semplicemente che l’idea di Dio non organizza più un mondo, non regola più il modo di pensare e di essere degli uomini, quindi è un’idea morta; la storia, concludendone il decorso, ne ha decretato la fine.

Un brano di Aurora espone con chiarezza questo risolvimento del vero e del falso nel vivo e nel morto. Esso titola: uLa confutazione storica come definitiva. Un tempo si cercava di dimostrare che Dio non esiste, — oggi si mostra come ha potuto aver origine la fede nell’esistenza di un Dio, e per quale tramite questa fede ha avuto il suo peso e la sua importanza: in tal modo una controdimostrazione della non-esistenza di Dio diventa superflua. Quando una volta si erano confutate le prove addotte ‘per dimostrare l’esistenza di Dio’, restava sempre il dubbio che si potessero trovare ancora prove migliori di quelle già confutate: a quel tempo gli atei non erano capaci di far tavola rasa” (103, 68).

Ogni discorso pro o contro un’idea suppone Vesistenza dell’idea, quando questa esistenza vien meno non è più necessaria alcuna prova pro o contro. Verità e falsità delle idee sono quindi iscritte nella loro esistenza. La vita di un’idea apre le condizioni del vero e del falso, così come la sua morte, il suo estinguersi le conclude. Non c’è quindi una verità che trascenda la storia, ma ogni verità è compresa tra un inizio e una fine e occupa lo spazio di un decorso storico che va dall’originarsi dell’idea al suo estinguersi.

Ma qui non si fraintenda. La genealogia non è storiografia, perché la storiografìa va alla ricerca del reale inizio di un’idea, delle condizioni storiche che l’hanno generata, la genealogia invece va alla ricerca dell ‘apertura di senso che una certa idea inaugura e in cui quell’apertura si esprime. Si tratta di un senso che si rende visibile nelle idee che genera e che si chiude con l’estinzione di quelle idee. I significati che in quell’apertura si danno non sono né veri né falsi, tantomento sono trascendenti ed eterni. Essi sono semplicemente comprensibili all’interno di quell’apertura di senso in cui si danno. Ogni “dato” si dà in una prospettiva ermeneutica; quando la genealogia va alla ricerca dell’origine, va alla ricerca di questa prospettiva o apertura di senso in cui solamente quelle certe idee si danno.

Si comprende a questo punto come la genealogia di Nietzsche sia assolutamente diversa dalla genealogia di Freud. Per Nietzsche, infatti, inversione del platonismo non significa, come per Freud, cercare neirinconscio queirordine della spiegazione che Platone aveva trovato neiriperuranio, perché a questo livello si è ancora platonici, in quanto si suppone, al di là del mondo apparente, un mondo vero, al di là del contenuto manifesto, per usare la terminologia di Freud, un contenuto latente in cui è la “vera spiegazione” di ciò che si manifesta.

Freud e la psicoanalisi non hanno invertito il platonismo e la logica occidentale che ne è derivata, ma l’hanno rigorosamente eseguito, limitandosi a dis-locare il mondo vero, a spostarlo dall’alto in basso. Per questo la psicoanalisi non è l’interpretazione più o meno fedele dell’anima umana, ma la semplice descrizione dell’anima occidentale condotta con la strumentazione platonica che distingue un mondo dell’apparenza e un mondo della verità. Quando il platonismo sarà oltrepassato anche la psicoanalisi chiuderà la sua epoca storica, essendo iscritta per intero in quell’apertura di senso che Platone ha inaugurato.

Fare genealogia, guadagnare la dimensione dell’origine non significa per Nietzsche spostare il mondo vero dall’alto al basso, daU’iperuranio all’inconscio, ma guardare Platone e la sua distinzione tra mondo vero e mondo apparente, da un altro punto di vista, dal mondo della tragedia che quella distinzione non ospitava. Lo sguardo tragico diventa allora queìY orizzonte ermeneutico da cui è possibile vedere Yoriginarsi del platonismo come risposta a quello sfondo, una risposta de rigueur, di necessità, per poter sopravvivere, dopo che il grido di Sileno aveva fatto conoscere l’insensatezza della vita.

Ma allora, se il platonismo è una risposta per poter continuare a vivere, il modo di pensare che Platone inaugura, separando il vero dal falso e il bene dal male, non è la forma della verità, ma una figura storica di salvezza, o più modestamente di salute. A questo allude Nietzsche quando invoca un filosofo medico che osi sospettare che “in ogni filosofare non s’è trattato per nulla fino ad oggi di ‘verità’, ma di qualcos’altro come salute, avvenire, sviluppo, potenza, vita” (105, 16).

Se la salute all’Óccidente l’ha assicurata Platone con la creazione di valori eterni, stabilità garantite, forme immutabili gettate come una rete sull’enigma dell’esistenza, inversione del platonismo non significa intrecciare la rete con altri nodi (Freud), ma mostrare che ogni intreccio è sempre e solo una rete di salvataggio: “Abbiamo costruito una concezione per poter vivere

In un mondo, per percepire appunto tanto da farcela ancora a reggere(112, 61). Se “reggiamo” stabiliamo che quel mondo è “vero”, dove “verità” significa che in esso riusciamo a viverci: “un mondo accomodato e semplificato in cui hanno operato i nostri istinti pratici: esso è per noi perfettamente vero: cioè noi viviamo, possiamo vivere in esso: prova della sua verità per noi” (ibidem). La “verità” è dunque una forma di “salute”, e degrada a pigrizia delVanima quando, dimenticando la sua genesi, si pensa eterna.

6. Il vento del disgelo

Identificando l’essenza dell’uomo nell’anima e assegnando all’anima il compito di riconoscere idee e valori eterni, Platone crea le condizioni che consentono all’uomo di proseguire la sua esistenza sotto la protezione di quegli immutabili, rispetto ai quali diventa decidibile che cosa è vero e che cosa è falso, che cosa è bene e che cosa male. Ma “la falsità di un concetto

— scrive Nietzsche — non è ancora per me un ‘obiezione contro di esso. In ciò il nostro nuovo linguaggio suona forse in modo più estraneo: la questione è fino a che punto esso favorisca la vita, conservi la specie. Sono anzi profondamente convinto che proprio le supposizioni più false sono quelle a noi più indispensabili, che senza un lasciar vivere la finzione logica, senza un misurare la realtà sul mondo inventato dell’incondizionato, dell’uguale a se stesso, l’uomo non può vivere, e che il negare questa finzione, il rinunciare in pratica a essa equivarrebbe a una negazione della vita” (110t 203-204).

La logica espone la realtà attraverso le sue definizioni, ma de-finire significa porre fine al significato delle cose, nominarle attraverso quell’identità, quell‘“uguale a se stesso”, dice Nietzsche, che consente la loro identificazione e con essa la loro differenziazione. Nasce una mappa del mondo al cui interno l’uomo può orientarsi in modo stabile e sicuro perché le cose sono definitivamente sottratte alla loro polisemia e quindi alla loro equivocità. Che cos’è infatti la logica, scrive Nietzsche, se non “l’arte della designazione non equivoca”? (Ili, 292).

Ma perché la logica possa reggere e con lei l’universale determinazione delle cose che essa inaugura, è necessario che sia rimossa la sua origine, cioè il suo essere un ‘arte, una creazione, quindi una finzione, un artificio, perché una simile scoperta le toglierebbe quell’universale validità senza di cui non potrebbe funzionare per tutti in modo indiscusso. La logica vive dunque della rimozione della sua origine, ma la genealogia, che inaugura quella forma di conoscenza dove “conoscere è un riferire all’indietro” (ibidem, 120), toglie alla logica la sua maschera e costringe l’anima platonica, logicamente orientata in un mondo reso non equivoco dalle sue definizioni, a rendersi conto che ogni orientamento, ogni presa di posizione sui significati delle cose non è una verità, ma un artifìcio necessario per vivere.

Lo smascheramento della logica, ottenuto con la rivelazione della sua origine, costringe anche l’anima ad arretrare o, come dice Nietzsche, a “riferirsi all’in dietro” e a cogliersi non più orientata in un mondo logicamente ordinato, ma aìYorigine di questo mondo come potenza creatrice di possibili orientamenti. Questo orientamento che impone una nuova definizione dell’anima non è una regressione, non è l’abbandono del solido terreno della ragione, ma è la ricostruzione genealogica del suo significato. Andando alle radici della logica Nietzsche scopre che

il discorso sulla verità che si produce all’intemo della logica non è che lo sforzo estremo con cui l’anima fa fronte all’enigma, producendo una rivelazione che però è anche un irretimen-to. Sotto l’anima platonica che conosce dei significati immutabili e in base a questi si orienta nel mondo, Nietzsche, arretrando col suo metodo genealogico, scopre l’anima come realtà significante che, aperta al mondo come a un orizzonte di senso, fìssa dei significati che sono prese di posizione, sue creazioni.

Così smascherata, l’anima non può più definirsi in base alle sue ideazioni, che Platone presenta come statuti immutabili dell’essere e forme immodifìcabili del conoscere, ma dovrà cogliersi come creatrice di queste forme, e l’uomo, che si definisce in base all’anima, come “genio costruttore”. “Senza dubbio

— scrive Nietzsche — si può ammirare l’uomo come un potente genio costruttivo, che riesce — su mobili fondamenta, e per così dire, sull’acqua corrente — a elaborare una cupola concettuale infinitamente complicata; certo, per raggiungere una stabilità su siffatte fondamenta, occorrerà una costruzione fatta di ragnatele tanto tenue da non essere trascinata via dalle onde e tanto solida da non essere spazzata via dal soffiare di ogni vento. Come genio costruttivo, l’uomo si innalza a questo modo al di sopra delle api: queste costruiscono con la cera che raccolgono ricavandola dalla natura, mentre l’uomo costruisce con la materia assai più tenue dei concetti che egli deve fabbricarsi da sé. In ciò è degno di grande ammirazione, non già tuttavia a causa del suo impulso verso la verità e la conoscenza pura delle cose. Se qualcuno nasconde qualcosa dietro un cespuglio, se lo ricerca nuovamente là e ve lo ritrova, in questa ricerca e in questa scoperta non vi è molto da lodare: eppure le cose stanno a quesfo modo riguardo alla ricerca e siila scoperta della ‘verità’, entro il territorio della ragione” (102, 363-364).

Se infatti l’anima è originaria apertura al mondo, inteso come orizzonte indeterminato di senso, il vero e il falso non la riguardano se non come prese di posizione airintemo dei significati che essa ha costruito per l’interpretazione del mondo. Riconoscere l’originaria polivalenza del senso rispetto alla fissazione dei significati non significa soccombere all’ambiguità, ma evitare di farsi irretire da una Ragione, per dar ragione alle molteplici ragioni. Queste sono infatti costruzioni del mondo per aggirare l’enigma éd esporre il mondo come sistema artistico e perciò artificiale di segni. In questa prospettiva la logica di Platone e l’anima occidentale che in quella logica è iscritta sono il risultato di una grande opera d’arte, di un grande artificio, e come tali vanno interpretate. Per questo Nietzsche può scrivere: “Solo come fenomeno estetico l’esistenza del mondo è giustificata” (98, 9).

Dimenticare la dimensione estetica dell’anima, la sua originaria creatività significa trasformare l’inganno necessario di ogni sua costruzione in inganno perverso. Questo è quanto ha compiuto Platone quando, opponendosi ai sofisti, che non esitavano a mostrare l’artificialità di ogni concetto, ha mascherato a tal punto l’aspetto utile e pragmatico di quella costruzione dell’anima che è la ragione, da far perdere di vista l’artificio che l’aveva prodotta. La verità delle cose ha così finito per coincidere con l’oggettività delle idee che riproducono la dimensione immutabile delle cose. Non si disse che questa specularità era ima decisione, ma la si stabilizzò fino a creare un inganno sull’inganno, quindi un’impostura.

Da allora lOccidente prese a guardare la realtà tramite l’idea e, per conservare le stabilità e le immutabilità che le idee garantivano, fu costretto a rimuovere la creatività dell’anima per ribadire solo la sua capacità conoscitiva. “Tutto è ben fermo e saldo al di sopra della corrente, tutti i valori delle cose, i ponti, i concetti, il ‘bene’ e il ‘male’: tutto ciò è saldol (…) ‘In fondo tutto sta fermo’ — ecco una vera dottrina invernale, buona per un periodo sterile, una valida consolazione per coloro che d’inverno cadono in letargo e si rannicchiano accanto alle stufe. ‘In fondo tutto sta fermo’: ma contro di ciò predica il vento del disgelo!” (106, 245-246).

Sotto l’azione di questo vento riappare la natura polimorfa dell’anima come riserva infinita di segni entro cui la ragione stessa, tolta la maschera, si rivela come un segno, una funzione di vita, un organo di ricognizione, un artificio per potersi orientare tra le cose che la natura dispiega. La natura a sua volta, come Eraclito aveva intuito, “ama nascondersi” (DK., fr. 123). Il suo celarsi non ha nulla da spartire con l’inganno e tanto meno con l’impostura. La natura si cela perché in essa i segni sovrabbondano rispetto alla capacità che la ragione ha di ordinarli, perché il volume di senso della natura prevale sulla costruzione dei significati istituiti dalla ragione.

“La natura ha gettato via la chiave, e guai alla fatale curiosità che una volta riesca a guardare attraverso una fessura della cella della coscienza, in fuori e in basso, e che un giorno abbia il presentimento che l’uomo sta sospeso nei suoi sogni su qualcosa di spietato, avido, insaziabile e, per così dire, sul dorso di una tigre” (702, 357). Così Nietzsche demolisce la semplicità della rappresentazione razionale dissolvendola nella pluralità di senso che i segni producono, restituendo l’anima all’irrag-giungibilità dei suoi confini: “Per quanto tu cammini e percorra ogni strada, non potrai raggiungere i confini dell’anima, tanto è profondo il suo lògos(Eraclito, DK., fr. 45).

7. I confini dell’anima

I confini dell’anima non possono essere raggiunti perché l’anima è la stessa apertura dell’universo del senso. Un senso che sta prima di ogni significato che la lotta, simile a quella condotta da Platone contro i sofisti, di volta in volta, storicamente impone, determinando le varie epoche.

L’Occidente è l’epoca in cui i significati determinati dalla ragione hanno delimitato i confini dell’anima, chiudendo l’apertura ad ogni altro senso che non fosse quello statuito dall’ordine della ragione. La verità della ragione risulta a questo punto iscritta nella sua potenza, nella capacità di imporsi della sua prospettiva su altre prospettive. In questa lotta per vincere si accumulano argomenti, cresce il sapere determinato attraverso vittorie e sconfitte, ma non appare alcuna verità, se per verità si intende quella enunciata da Platone dove il vero coincide con l’immutabile e l’eterno. Per questo Nietzsche può scrivere: “il concetto di verità è un controsenso. Tutto il regno del ‘vero’ e del ‘falso’ si riferisce solo alle relazioni tra esseri, non al-1”in sé’” (772, 92-93).

La relazione tra esseri è il conflitto delle interpretazioni, la lotta tra i punti di vista, e l’anima è il campo di gioco tanto più decisivo quanto più si è persuasi dell’inesistenza di un “senso in sé”, non solo nell’accezione che non c’è senso nell‘“in sé”, ma che non c’è un‘“inseità del senso”. Si domanda infatti Nietzsche: “Ma il senso non è necessariamente senso di relazione e prospettiva?” (777, 86) Il dissolversi dell’inseità del senso porta con sé il dissolversi delle “cose” e dei “fatti”.

“Una ‘cosa in sé’ è altrettanto assurda di ‘un senso in sé’, di un ‘significato in sé’. Non si dà un ‘fatto in sé’, perché si possa dare un fatto, bisogna sempre prima introdurvi un senso(ibi· dem, 126). Di qui la conclusione: “Che cosa può essere la conoscenza? — ‘Interpretazione’ non ‘spiegazione’ ” (ibidem, 92). E in modo ancora più esplicito: “Interpretazione non spiegazione. Non c’è nessun fatto concreto, tutto è fluido, inafferrabile, cedevole; le cose più durature sono ancora le nostre opinioni. Conferire senso alle cose — nella maggior parte dei casi si tratta di una nuova interpretazione riguardo a una antica divenuta incomprensibile, che è ora solo un segno” (ibidem, 88).

Dissolto il mondo nel conflitto delle interpretazioni, non c’è più un’anima deputata alla conoscenza della natura delle cose, ma un’anima come discorso che fa essere le cose per quel tanto che ne discorre e per quel tempo che il suo discorso ha potenza, cioè si impone, fa storia. “Che il valore del mondo — scrive Nietzsche — sia nella nostra interpretazione (e che forse in qualche luogo siano possibili interpretazioni diverse da quelle meramente umane); che finora le interpretazioni siano state tutte valutazioni prospettivistiche, in virtù delle quali noi nella vita, ossia nella volontà di potenza, ci conserviamo per lo sviluppo della potenza; che ogni elevazione degli uomini comporti il superamento di interpretazioni più ristrette; che ogni rafforzamento mai raggiunto, ogni allargamento di potenza apra nuove prospettive e imponga di credere a nuovi orizzonti — tutte queste cose si ritrovano ovunque nei miei scritti. Il mondo che in qualche modo ci interessa è falso, ossia non è una realtà, bensì un’invenzione e un arrotondamento di una magra somma di osservazioni; esso è ‘fluido’, come qualcosa che diviene, come una falsità che si sposta sempre di nuovo e che non si avvicina mai alla verità, perché — non c’è una verità” (ibidem, 102-103).

Se la verità era l’orizzonte che delimitava le ricerche dell’anima, l’abolizione della verità rende questo orizzonte senza confini e inaugura quella figura dell’anima che si esprime in un’apertura di senso dove ha luogo una circolazione infinita di significati. Questa circolazione infinita non apre le porte all’arbitrario e, portata al limite, all’insignificante, perché di epoca in epoca la volontà di potenza, nel gioco che espone, rivela le regole che pongono in essere un mondo e consentono di leggerlo, anche se

il gioco giocato non esaurisce la polisemia del gioco, non dà fondo a tutti i giochi possibili che restano custoditi nell’anima come sue possibilità.

Queste possibilità si attuano nel superamento del gioco di volta in volta giocato. L’anima è questo eterno superamento rispetto al quale ogni orizzonte diventa un eterno “laggiù” e ogni tempo un eterno “orsù”: “Se in me — dice Zarathustra — è quella voglia di cercare, che spinge le vele verso terre non ancora scoperte, se nel piacere è un piacere di navigante: se mai gridai giubilante: ‘la costa scomparve’ — ecco anche la mia ultima catena è caduta — il senza-fine mugghia intorno a me, laggiù lontano splende per me lo spazio e il tempo, orsù! coraggio! vecchio cuore!” (106, 281).

Individuando nel superamento la natura dell’anima umana, Zarathustra può indicare l’uomo superiore (Vber-mensch) che non è il “migliore” tra gli uomini, ma l’uomo del “superamento”, colui che avendo scoperto che ogni verità non è altro che

il sistema di regole del gioco giocato, oltrepassa (uber-schreitet)

il gioco per i giochi giocabili. Questo superamento, questo uber, è sì il superamento degli immutabili che il gioco di volta in volta giocato istituisce come regole del gioco, ma per ciò stesso è superamento dell’uomo costruito secondo i canoni dell’immutabilità.

Questo tipo d’uomo, generato dall’anima platonica “amica delle idee” immutabili ed eterne, ha abitato l’Occidente come sua patria; il suo superamento è allora il superamento dell’umanità storica, l’estremo ribaltamento della cultura occidentale, il cui progresso è sempre stato da un immutabile a un altro immutabile, e mai nel congedo degli immutabili. Rispetto a questo tipo d’uomo, l’uomo del superamento non riconosce alcun immutabile, non si riconosce immutabile e perciò si consegna alla propria fine. L’eternità che riconosce non coincide con l’immutabilità, ma col ritorno, con la successione degli istanti che periscono e non con l’extratemporalità di un istante assoluto, con Dio.

La morte di Dio dilata i confini dell’anima restituendola a ciò che è: incondizionata apertura al senso. Questa apertura è orientata a un significato che consente al senso di esprimersi di volta in volta in un certo senso. Ma questo senso, nel momento in cui è esposto, è messo in gioco da altri sensi; l’anima allora è quel campo di gioco che, nel momento stesso in cui inaugura un significato, lo espone alla sua erosione.

Qui si rivela la sua eternità, non nella forma di una sostanza imperitura, ma in quello della vita che non muore in nessun morire. Perciò i suoi confini sono inattingibili, e Zarathustra può dire: “Anima mia, io ti restituii la libertà su tutte le cose create e increate; e chi conosce, come tu la conosci la voluttà di ciò che verrà? (…). E, in verità, il tuo respiro ha già il profumo di canti futuri” (ibidem, 271, 273).