e la legge della contraddizione

Alla scuola di retori e sofisti le parole diventano cose. Si guadagna cioè quel l’autonomia linguistica che, abolendo la distanza tra significante e significato, fa del discorso non uno strumento per conoscere il reale, ma una tecnica per ottenere consenso.

Platone ha ragione quando considera retori e sofisti “maestri d’illusione che, invece del vero, presentano agli uomini finzioni e simulacri facendoli passare per realtà” (Sofista, 234 b-c), ma il giudizio avviene a partire dalla raggiunta filosofia e non tiene conto che la filosofìa è stata possibile perché la retorica e la sofìstica, autonomizzando il linguaggio, l’hanno separato dalle cose che in sé non sono mai dicibili, perché il doppio le percorre offrendole in un’ambivalenza indecidibile. Questo Gorgia

lo sapeva, e perciò nel frammento Sulla natura conservatoci da Sesto Empirico (Adversus mathematicos, VII, 65) non esita a dichiarare che il discorso non rivela le cose su cui verte, non le conosce e, anche se le conoscesse, non potrebbe comunicarle.

Questa sequenza discorsiva non è un esercizio retorico, né una prova di bravura oratoria. Essa nomina il collasso della parola di fronte alla cosa che non soggiace alla legge dell’identità e della contraddizione secondo cui solamente la parola è dicibile. Preso atto dell’incomponibilità, Gorgia autonomizza l’ordine della parola e lascia le cose nel fondo oscuro dell’ambivalenza dove la dimensione simbolica le offre ora in un aspetto, ora nel suo opposto [Cfr. IV, 1: Simbologia dell’anima: Heidegger, Plotino e la Gnosi],

“Simbolo” è parola greca che significa “mettere assieme” (symbàllein)”. Ciò che il simbolo mette assieme è un aspetto della cosa e il suo opposto. La parola ambivalenza che non viene da bis (due) ma da amphi (l’uno e l’altro), nomina, come nell’anfì-teatro, l’affacciarsi degli opposti. “Volendo Zeus castigare l’uomo senza distruggerlo, lo tagliò in due (diatemó dicha ékaston)” (Platone, Convito, 190 b). Il riferimento è agli uomini che, prima della lacerazione inflitta da Zeus, erano uniti nella loro opposizione di maschile e femminile e perciò amphóteroi, l’imo e l’altro.

Tra gli antichi era diffusa l’abitudine di tagliare in due un anello, una moneta o qualsiasi oggetto, e dame una metà a un amico o a un ospite. Queste metà, conservate dall’una e dall’altra parte, di generazione in generazione, consentivano ai discendenti dei due amici di riconoscersi. Questo segno di riconoscimento si chiamava simbolo. Tale è il senso originario della parola. Dopo la divisione (dia-bdllein) inflitta da Zeus agli uomini, Platone dice che ognuno di noi non è un uomo, ma il simbolo di un uomo — “Ékastos otiti emón estin anthrópou symbolori* (Convito, 191 d) — che cerca il simbolo corrispondente, l’altra metà, per ricomporre l’unità perduta.

La congiunzione (sym-bàllein) delle due metà è la rinascita dell’uomo intero, periferés dice Platone, com’era prima della divisione (dia-bdllein). Ma la divisione era necessaria perché l’uomo potesse uscire dalla condizione animale o divina in cui abitava senza coscienza e senza memoria. Dove, infatti, la realtà non appare nel suo doppio non sorge l’interrogazione e il dubbio. “Doppio” e “dubbio” hanno la stessa radice, come in tedesco Zweifel (dubbio) e zwei (due). Il dubbio, che generandosi spezza l’unità originaria non interrogata, nasce dal doppio di ogni realtà, dalla scoperta dell’ambivalenza. Questa scoperta, come origine del dubbio e dell’interrogazione, segna la nascita della coscienza, il suo dibattersi tra l’uno e l’altro.

Ma qui non si fraintenda: non è la coscienza che ha dubbi, ma è il dubbio, come scoperta del duplice aspetto del reale, che dischiude la coscienza. Cartesio può superare il dubbio solo perché lo considera a partire dal cogito, quindi perché non lo ha mai veramente abitato; il “diavoletto maligno” che lo insinua è solo la caricatura di queiroriginario dia-bàllein che è il divaricarsi dell’unità originaria nel suo duplice aspetto contrastante. Come espressione della divaricazione, la coscienza è sempre co-scienza lacerata, ed è per questo che i figli di Dio sono sacrificati, scontano la scissione da cui sono nati e in cui consistono. Nietzsche, che aveva compreso il dramma sotteso alla logica della separazione, da cui un giorno prese avvio il modo di pensare occidentale, firmava le sue ultime lettere: “Dioniso” e “il Crocefisso”.

Tra i protagonisti della tragedia greca, tre sono i figli di Dio: Prometeo, Eracle e Dioniso. Prometeo, per aver donato agli uomini il fuoco e gli strumenti della tecnica, viene incatenato a una roccia e quotidianamente dilaniato da un’aquila. Eracle, dopo aver posto riparo agli errori della creazione liberando la terra dai mostri, muore fra atroci tormenti per il veleno rimasto sulle sue frecce dopo l’uccisione dell’idra. Dioniso assicura la continuità del ciclo biologico e il germogliare in primavera dei semi piantati in autunno, solo dopo essere stato dilaniato e poi miracolosamente ricomposto. Nella tradizione biblica il figlio di Dio salva l’umanità dalla colpa con il sacrificio sulla croce.

L’olocausto è l’istituirsi della scissione, è la nascita della differenza nell’unità originaria che non sa di sé. Il sacrifìcio del figlio di Dio è la violenza implicita in ogni scissione, in ogni lacerazione, ma è una violenza che allontana quella violenza infinitamente più grande contenuta nelTUno come misconoscimento della differenza. Portarsi all’origine di questa lacerazione, che tutte le mitologie ricordano come dramma divino, non significa regredire e rannicchiarsi nel fondo dell’infanzia, ma esattamente il contrario; significa cogliere la coscienza umana al suo sorgere, la nascita dell’uomo come custode della differenza ignorata da Dio.

Nel mondo divino, infatti, non c’è progresso, ma ingloriosa riproposizione dell’ordine primitivo attraverso scansioni violente, dove l’altro non riesce propriamente a costituirsi come altro, a mantenere la differenza dall’Uno a cui si è opposto, ma nell’Uno rifluisce smarrendo la propria differenza e, con la differenza, la propria identità. Crono come Urano, Urano come Zeus. Le teogonie di Esiodo e di Eschilo concordano nel riconoscere che la successione degli dèi è regolata dal rapporto violento. Urano è stato detronizzato da Crono che l’aveva castrato, e Crono, a sua volta, era stato gettato nel Tartaro da Zeus. La violenza della loro successione non è che l’aspetto visibile del misconoscimento della differenza, la sua abolizione; allora i figli uccidono i padri, e i padri temono i figli, perché né i padri né i figli sanno riconoscersi nella rispettiva differenza [Cfr. Ili, 2: La violenza del simbolo e lordine della ragione].

Questo misconoscimento, questa incapacità del divino di riconoscere l’altro da sé e di mantenerlo nella sua alterità spiega la violenza di Dio, di ogni Dio. L’Uomo, costituendosi come altro da Dio e offrendo sacrifici a Dio, riconosce la differenza e la fa riconoscere a Dio. Finché dura questo riconoscimento la violenza è bandita, e gli uomini possono convivere con gli dèi. Il simbolo non è altro che questa convivenza. Nel tenere insieme i differenti (sym-bàllein), il simbolo non misconosce la differenza, Come il lògos di Eraclito “gli uni rivela dèi, gli altri uomini” (DK., fr. 53), ottenendo “dall’opposizione un accordo, e dai discorsi bellissima armonia” (DK., fr. 8).

Di questa armonia dei differenti non è capace Dio che non conosce l’altro da sé, ma solo l’uomo che, nascendo da questa differenza, è Yaltro dalVUno. Custode della differenza “l’uomo ritien giusta una cosa, ingiusta l’altra, mentre per il dio tutto è bello, buono e giusto” (Eraclito, DK., fr. 102). L’uomo, dunque, è la coscienza di Dio, ciò attraverso cui Dio riflette, e senza del quale rimane in quella indistinzione per cui “il dio è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace, sazietà e fame. E muta come il fuoco quando si mischia a profumi odorosi, prendendo nome di volta in volta dal loro aroma” (Eraclito, DK., fr. 67).

A questa indistinzione di Dio, a questa sua incapacità di riconoscere la differenza, a questa sua tendenza ad abolirla con un atto violento, la psicologia del profondo ha dato il nome di inconscio. La scoperta di Freud è nominalistica. Gli uomini hanno sempre conosciuto l’inconscio sotto la specie del divino e del sacro [Cfr. Ili, 1: Inconscio e metodo scientifico].

Emancipandola dal sacro, retori e sofisti sanno che la parola non nomina la profonda unità della cosa nell’indistinzione dei suoi aspetti, perciò la liberano dalle cose che dovrebbe nominare per produrla come realtà in sé: la realtà del discorso che si legittima da sé. È una legittimazione che avviene attraverso la coerenza interna del discorso che sottrae le parole al gioco dell’ambivalenza simbolica in cui per natura dimorano le cose. Si determina così un mondo delle cose dove i contrari tendono l’uno verso l’altro (sym-bàllein) e un mondo delle parole dove

i contrari si oppongono (dia-bdllein). Il primo mondo sarà regolato dalla prassi che si alimenta dell’uso compensatorio degli opposti, il secondo dalla teoria che produce se stessa nella distinzione degli opposti e nel mantenimento dell’opposizione. I due mondi trovano i loro rappresentanti nei medici da un lato e nei filosofi dall’altro.

Così sono i medici della scuola di Kos i primi a teorizzare quella medicina allopatica (da cui ancora oggi dipende la nostra medicina ufficiale) che cura il male con il suo opposto. Per loro, infatti, il male è un opposto non contrastato dal suo altro (àllo) che la cura dovrà richiamare o con la stimolazione di elementi endogeni o con l’introduzione dall’esterno attraverso il phàrmakon. Ottenuta una soddisfacente mescolanza (kràsis) degli opposti che si contrastano, si ristabilisce Yequilibrio perduto.

La medicina della scuola di Kos affonda le sue radici nel mondo del sacro, percorso da quell’ambivalenza simbolica che sancisce Yidentità del male e del rimedio. Uno è il sangue, e opposti sono gli effetti che la regina Creusa impiega per far perire l’eroe. Una goccia è un veleno mortale, l’altra è un rimedio:

“Qual è la virtù della prima goccia?” domanda il vecchio schiavo alla regina.

“Allontana la malattia e alimenta il vigore.”

Έ come agisce la seconda?”

“Uccide. È il veleno dei serpenti della Gorgone.”

“Le tieni unite o separate?”

“Separate. Si mescola forse il nocivo col salutare?”

(EURIPIDE, Ione, 1012-1017)

La differenza più radicale, quella tra la vita e la morte, ha la sua radice nell’identico. Nel suo in sé, infatti, la cosa è quel· Tal di qua indifferenziato che è anche la riserva di ogni differenza, per cui non c’è da interrogarsi sulla “natura” delle cose perché è nella loro natura averle tutte. Per questo Platone non cerca nelle cose, come si presentano nel mondo, la loro essenza

0 idea, ma al di là del cielo, nell’iper-uranio. Le differenze sono il prodotto delYideazione e servono all’ideazione per articolare se stessa. Separando le parole (in cui si esprime l’ideazione) dalle cose, retori e sofisti hanno preparato il terreno alla formulazione del principio di identità e differenza e all’avvento di una logica che esclude la conversione degli opposti. Così essi segnano il passaggio dall’anima psichica, che vive di ambivalenze simboliche, all’anima razionale che, obbedendo alla legge della noncontraddizione, vive di differenze logiche.

Gli estremi non si toccano più, la legge dett’eneantiodromia, del “corso (drómos)” e “contro-corso (enantion-drómos)” che troviamo enunciata nel frammento DK. 60 di Eraclito: “la via al-l’in su e la via all’in giù sono una e la medesima”, cede alla divaricazione delle vie che la dea indica a Parmenide come “sentiero del giorno” e “sentiero della notte”. La verità abbandona la sua ombra e il gioco dell’ambivalenza, che nel mondo del sacro aveva reso indecifrabile il volto di ogni enigma, diventa “la via su cui errano i mortali che niente sanno, / uomini a due teste: poiché è l’incertezza / che dirige nei loro petti l’oscillante mente. Ed essi vengono portati avanti, / muti e ciechi ad un tempo, attoniti, gente indecisa, per cui l’essere e il nonessere è lo stesso / e non è lo stesso, e per cui di ogni cosa vi è una strada che può essere percorsa in due sensi” (Parmenide, DK., fr. 6, 4-10).

Con Parmenide l’anima non vive più in un mondo ambivalente, dove i contrari sono complementari e gli opposti si richiamano, ma è gettata in un universo dualista le cui rigide opposizioni chiedono una scelta. La via non è più ad un tempo all’in su e all’in giù, ma la destra e la sinistra dispongono in alternativa quelle coppie complementari che abbiamo conosciuto come estremi di un arco in tensione: tali erano Alétheia e Léthe per

1 poeti, Memoria e Oblio per gli iniziati, Fatica (Pónos) e Piacere (Edoné) per i seguaci di Pitagora.

Si dischiude un modo nuovo di pensare: Γ“armonia invisibile”, governata dall’ambivalenza simbolica, cede all‘“armonia visibile” governata dalla noncontraddizione logica; da un lato stabilità, solidità, eternità e immutabilità che diventano gli attributi della verità, dall’altro fluidità, instabilità, mutamento e divenire che sono gli attributi del mondo governato dalla dóxa. La verità non è più di questo mondo, e all’anima “assetata di verità” non resta che separarsi dalla “follia del corpo” con Γ“esercizio di morte” (Platone, Fedone, 66 b-67 a). Tramonto del pensiero simbolico (sum-bàllein) e avvio del pensiero disgiuntivo o diabolico (dia-bàllein).

Il taglio che separa la simbolica deU’ambivalenza dalla logica della contraddizione non modifica solo il rapporto tra i termini dell’opposizione, ma la stessa configurazione dei termini. Il simbolo, infatti, abita il tempo, e le opposizioni che convoca hanno come loro scenario la terra su cui vivono e muoiono gli uomini. Le parole che il lògos preleva dal linguaggio simbolico sono dislocate tra la terra e il cielo, e, per effetto di questa dislocazione, il loro significato muta radicalmente. Solo chi si lascia sfuggire questo mutamento può dire che la filosofia nasce dal mito. In realtà essa nasce dal pensiero.

Finché il mondo era governato da Èros, il principio che avvicina gli opposti, il maschio e la femmina per legarli insieme (sum-bàllein), l’ordine della spiegazione poggiava sull’immagine mitica dell’unione sessuale: capire era trovare il padre e la madre, ricostruire l’albero genealogico. In questo contesto, e solo in questo, Èros, che, riunendo, dà inizio, incontra quell’anima che la tradizione ci ha tramandato come Psyché.

Con l’avvento del lògos gli elementi naturali diventano astratti, e perciò non possono più unirsi in matrimonio alla maniera degli uomini. Quindi il sesso diventa nesso, e il racconto non si riferisce più alle nascite successive, ma alla correlazione tra

i principi primi, la storia si trasforma in sistema, non più la successione delle generazioni, ma la struttura profonda del reale. La genesi diventa principio, non più Yorigine del divenire, ma Yidentico, lo stabile, il permanente sotteso al flusso del mutamento e alla molteplicità dei suoi aspetti. Dietro la natura (physis) e il suo divenire (phyein) si costituisce lo sfondo invisibile dello stare che l’anima dell’uomo può cogliere perché la sua dimensione non è spaziale e la forma del suo movimento, il pensiero, non è uno spostamento materiale. Questa anima, che non è più quella degli incontri con Èros, non cerca più il principio (arché) nell’intreccio dei corpi (sexus) da cui la generazione, ma nell’intreccio dei lògoi (nexus) in cui è l’ordine originario [Cfr. Ili, 3: Sessualità e follia].