IV. Il gioco delle maschere
Tutto ciò che è profondo ama la maschera.
Dammi, ti prego… una maschera ancora! una seconda maschera.
F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male (1886), §§ 40, 278.
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1. Simbologia dell’anima: Heidegger, Plotino e la Gnosi
Inizialmente memoria significa anima e il raccolto rimaner presso.
HEIDEGGER, Was heisst Denken? (1954), p. 95.
Non è l’anima che è nel mondo; ma il mondo, sì, esso è nell’anima.
PLOTINO, Enneadi, IV, 3, 93.
Io sono tu e tu sei io, e dove tu sei io sono, e in tutte le cose io sono dispersa. E dovunque tu vuoi, tu mi raccogli; ma raccogliendomi, tu raccogli te stesso.
Frammento gnostico dal Vangelo di Èva in EPIFANIO DI SALAMINA, Panarion Haeresion, 26, 3.
Abbiamo conosciuto i pensieri dell’anima, abbiamo conosciuto le sue passioni, due maschere erette sulla sua natura, che ancora una volta si sottrae alle definizioni con cui la filosofia da un lato e la psicologia dall’altro tentano di coniugare l’anima per produrre se stesse.
Heidegger toglie queste maschere e cerca l’anima in “una regione totalmente diversa” (<57, II, 6) che lascia alle sue spalle sia lo schema concettuale a cui Platone l’aveva legata, sia l’ordine passionale a cui l’ha legata la moderna psicologia. E una regione che, a nostro parere, è già stata percorsa dalla filosofia di Plotino e dalla letteratura gnostica che hanno fornito una nozione di anima che, non essendo né razionale né psichica, possiamo chiamare simbolica, se solo sappiamo liberare il mondo dei simboli da quell’interpretazione che li domina e li misura
o attraverso la struttura repressione-sublimazione, com’è nell’esercizio di Freud, o attraverso l’insorgenza della trascendenza del significato, com’è in ogni ricerca linguistica. Se siamo in grado di lasciarci alle spalle anche queste due ipoteche forse potremo accedere a quella nozione di anima che Plotino e la Gnosi hanno descritto alla fine del mondo antico e Heidegger riprende oggi alla fine del mondo moderno.
Perché l’accostamento non appaia strano dobbiamo liberarci dalla mentalità occidentale che, nel porre le questioni, affronta le cose come oggetti staccati dall’anima e le epoche come tempi formatisi indipendentemente da lei. Così il passato diventa irrimediabilmente passato, e le mitologie che l’hanno percorso linguaggi definitivamente morti. Non si considera che la vita e la morte sono attributi dell’anima e non delle cose presenti o passate, perciò non ci si cura di comprendere che cosa, una volta, rese questo passato possibile. La comprensione di questa possibilità è forse la comprensione dell’avvenire, perché se il linguaggio letterale di Plotino e della Gnosi è ormai insignificante per il nostro intelletto, la situazione che un tempo l’ha reso possibile può avere ancora qualcosa in comune con le condizioni della nostra anima.
1. Plotino e la temporalità dell anima
Il discorso di Plotino sull’anima non è ordinato come noi vorremmo, ma se anche riuscissimo a ordinarlo, riportando tutti i testi in quelle tre categorie che si riferiscono all’Anima in sé, all’Anima del mondo e all’Anima dell’uomo, la nostra classificazione, buona per un indice, rischierebbe di introdurre quell’astrazione che spegnerebbe la germinale drammaticità di quel terzo regno della daimonia che sembra anticipare la concezione dialettica di Hegel, quella irrazionale e pessimistica di Schopenhauer, quella dionisiaca di Nietzsche, quella psicoanalitica di Jung. In realtà Plotino può passare dall’anima umana all’anima del cosmo e da questa all’anima in sé, perché noi siamo nell’anima, e non l’anima in noi, perciò l’anima è sempre una e sola.
A. Le creazioni dell’anima - Per Plotino l’anima si esprime nelle sue creazioni che non sono, come nella teologia cristiana, opere della sua intelligenza o della sua consapevolezza, ma espressioni della sua vita. L’anima, per il solo fatto di esistere, crea, e le sue creazioni sono le forme che via via assume la spontaneità della sua vita. Non c’è un’anima e le sue creazioni, perché l’anima è le sue creazioni, nel senso che in esse l’anima si produce, si descrive, si racconta, si dice.
La psicologia ha chiamato le creazioni dell’anima immagini e poi ha cercato di decifrarle, interpretarle, analizzarle alla ricerca di un significato latente o nascosto. Non si è accorta che così facendo ha distrutto l’anima per produrre il suo discorso 5u//‘anima, invece di disporsi all’ascolto rfi//‘anima. Nelle immagini, infatti, l’anima non si nasconde, ma si esprime, narra di sé. Questo è il primo grande fraintendimento della psicologia che, invece di concedere all’anima (psyché) di raccogliere (lé-getti) se stessa dalle sue immagini, provvede a raccoglierla secondo lo schema anticipato dalle sue ideazioni. Ciò che rimane è il discorso della psicologia suH’anima e non il discorso dell’anima in grado di ospitare anche la psicologia tra le sue creazioni.
La creazione, dice Plotino, “non è intelligente”, non conosce nessi logici e con-sequenze “perché è prima di ogni nesso e di ogni conseguenza” (Enneadi, V, 8,7), perciò scorre senza fatica e con esuberanza, al di fuori di ogni calcolo ed escogitazione, in nulla simile ai geometri che disegnano i loro piani e le loro piante, perché “io non faccio figure di sorta, ma contemplo; e le linee dei corpi si disegnano come se cadessero da me” (Enneadi, V, 9,8).
Siamo agli antipodi di Platone per il quale l’anima disegnava quella geometria iperuranica senza la quale era impossibile leggere il reale secondo verità. Con Plotino, invece, l’anima dimette la sua partecipazione all’immobilità dell’essere per concedersi a quel divenire temporale che gli atti creativi scandiscono senza calcolo e riflessione alcuna.
B. L’irruzione del tempo - Il legame dell’anima col tempo consente a Plotino di inaugurare un modo di pensare radicalmente diverso da quello che, su base platonica, si è poi affermato in Occidente, dove le prescrizioni atemporali della logica hanno consentito solo un pensiero “prensile” e perciò “concettuale” (cum-capere, be-greifen): la ragione come calcolo, direbbe Heidegger, che non consente all’uomo di liberarsi per quelle possibilità espressive che, collocandosi al di là di ogni fondamento (Grund), sotto la cui tutela il pensare occidentale s’è sempre trattenuto, appaiono come possibilità abissali (Ab-grund).
“Per quanto tu cammini e percorra ogni strada — diceva Eraclito — non potrai raggiungere i confini dell’anima, tanto è profondo il suo lògos” (DK., fr. 45), e Plotino, di rincalzo: “neppure il dio ha ancora trovato il suo termine” (Enneadi, IV, 9,4). Se togliamo a queste citazioni il loro senso spaziale, avremo l’estensione intima dell’anima abitata da infiniti lògoi che non sono pensieri, ma atti creativi. Si tratta di una creazione che, a differenza di quella biblica, non si consuma in un fiat, ma si attua in tempi che non conoscono apocalissi ed escatologie.
“Prima che rampollasse (prima del ‘prima’ a dire il vero), il tempo riposava in seno all’Essere, come pura idea. Entrò allora un potere senza pace, l’Anima, vogliosa di trasferire in un diverso la visione suprema. Essa non era paga che la totalità del mondo le fosse presente in blocco e in eternità, ma a frammenti e a successioni: così ella temporalizzò se stessa e impose alla creatura del mondo di servire al tempo in cui l’aveva immersa. Per questo l’anima presenta il suo atto solo in momenti successivi: prima l’uno e poi l’altro, nuovamente, in serie; ond’ella genera, di pari passo con le opere del mondo, il concatenamento temporale; così, di pari passo, il vivere si rinnova; e proprio quel rinnovarsi si carica di tempo nuovo” (Enneadi, III, 7,11).
Il tempo è dunque una creazione dell’anima. Non c’è il tempo, e nel tempo le opere della creazione, ma il tempo è la stessa successione delle opere, la sequenza degli atti creativi come lo scorrere del fiume è il fluire stesso delle acque da una fonte sorgiva: “Pensa a una sorgente che non abbia altro principio che se stessa, la quale però dia di se stessa a tutti i fiumi senza lasciarsi mai esaurire da essi” (Enneadi, VI, 9,10).
Qui Plotino anticipa ciò che l’ermeneutica, inaugurata da Heidegger, oggi descrive come superamento (Vber-windung) del modo occidentale di pensare. Il messaggio dell’anima, infatti, non è mai totalmente proferito, non per ragioni di incompiutezza, ma perché l’anima non è totalità, ma apertura, o, come dice Plotino, sorgente, il cui fluire non si lascia racchiudere in alcuna categoria, né descrivere da alcuna concettualità. La temporalità che le è costitutiva, esponendo ogni sua creazione alla corrosione del tempo, evita quella fissazione dei significati che, oltre a porre fine all’ulteriore possibilità di significazione delle cose, instaura la dittatura di un significante dispotico che vive sul silenzio deU’origine. Un silenzio che è incapace di udire, che è sopore rispetto a possibilità in-audite.
C. Il pensiero poetante - Temporalità e sorgività dell’anima esprimono il senso della sua creatività, che non è tanto nella profusione delle immagini, quanto nel suo prodursi come significato a venire. In questo prodursi (poiéin) è la sua essenza poetica che fa dell’anima quello spazio espressivo, che è poi lo spazio originario del senso che consente alle immagini, alle idee e alle cose di sussistere secondo un significato senza essere precluse a un ulteriore significare.
Estranea all’immobilità concettuale, per la quale le cose sono date nel loro significato una volta per sempre, “l’anima — dice Plotino — non è mai vecchia per le cose, così come le cose non sono mai vecchie per l’anima” (Enneadi, IV, 4,35). Ma per questo è necessario che le cose trasgrediscano le loro definizioni, e si offrano come irradiazioni di immagini rinvianti a quel futuro che non è tanto il tempo che ancora ci attende, quanto queU’ulteriorità di senso che anche le più comuni esperienze non cessano di diffondere; per questo con l’anima “andiamo con stupore di fronte all’inconsueto, senza cessare di stupirci anche delle nostre già note esperienze” (Enneadi, IV, 4,37).
Se ogni esperienza è comprensibile perché è compresa in quell’apertura al senso che è l’anima, l’apertura non resta invariata e non toccata dalle esperienze che l’attraversano, ma proprio in esse si esprime e si presenta. Il problema è di non risolvere l’apertura al senso nella materialità delle esperienze con cui di volta in volta l’apertura si dischiude; il carattere sorgivo consente infatti all’anima di “darsi ai fiumi senza però lasciarsi esaurire da essi”. Questo risolvimento, da cui Plotino ci mette in guardia, è proprio ciò che il pensiero occidentale ha sempre fatto ogni volta che ha risolto il mondo in una particolare visione del mondo, sia essa ontologica, teologica, storicistica, scientifica, facendo coincidere l’anima con Yorizzonte storicamente costituitosi, Yapertura del senso con la materialità dei significati con cui di volta in volta l’apertura si è aperta. Questa coincidenza è la chiusura dello spazio che si libera tra il senso, come disponibilità per infinite significazioni e i significati che, nell’apertura del senso, di volta in volta si costituiscono; è quella volontà di potenza che abolisce l’origine perché intende la totalità come sistema e non come permanente apertura.
Accadendo insieme alle sue modalità, l’anima descritta da Plotino inaugura un’ermeneutica che da un lato sottrae all’anima il valore di principio non principiato, ossia di cosa o ente o concetto assoluto, sciolto da (solutus ab) le modalità determinate del suo accadere, di volta in volta espresso dai significati che si determinano; dall’altro, rivendicando la sua mobilità, espone ogni comprensione storicamente accaduta a quella nuova interrogazione che il tempo non cessa di promuovere, impedendo ai significati e ai risultati raggiunti di solidificarsi e irrigidirsi.
Il carattere temporale e sorgivo dell’anima indebolisce i contorni del concetto e mostra come la concettualizzazione sia un’appropriazione (cum-capere) parziale del senso originario della parola. Così l’anima si lega al simbolo che non è un enigma da decifrare, ma è la forza del significare che, eccedendo sulla definizione concettuale dei termini, li espone alla potenza dell’evo-care. Ciò che le cose e-vocano è tutto ciò che è sfuggito alla loro oggettivazione, alla loro fondazione all’interno della scissione soggetto-oggetto che è poi la modalità con cui in Occidente sono sempre state considerate le cose, sia a livello di senso comune, sia a livello di scienza esatta. Il dubbio cartesiano si è infatti risolto in un rafforzamento di quella convenzione prescientifica secondo cui le cose sono il loro star-di-contro (ob-jectum) a un soggetto che le considera. Si è così dimenticato che i dati, a cui si attengono tanto il buon senso quanto la scienza, sono appunto dati, portano cioè in sé quel carattere di già accaduto, di già av-venuto, che li connette immediatamente all’anima come al luogo del loro e-venire. In quanto memoria di questo e-vento, il simbolo sottrae ad ogni oggetto la possibilità di risolversi nella sua oggettività, e alla soggettività, che ad ogni oggetto conferisce il suo significato, la possibilità di porsi come origine.
“Vero è che l’anima — scrive Plotino — dopo aver da sé unificato l’oggetto mediante appropriazione e dopo averlo determinato in se stesso, quando lo enuncia e lo ha lì pronto, a portata di mano, dimentica che lo possedeva già, nativamente, ed ora solo lo riconquista con l’apprendimento. Solo che, a furia di vederselo lì, ella si estrania, in certa misura, da se stessa e, attraverso il pensiero discorsivo, scorge tale oggetto come qualcosa di estraneo e di differente da se stessa” (Enneadi, III, 8, 6). Abitando la sua alienazione, che instaura un soggetto da un lato e un oggetto dall’altro, l’anima, quando dimentica che tutti gli oggetti sono sue creazioni, “si avventa su questi come volendo toccar cose reali, e in ciò somiglia al giovinetto che, volendo afferrar la sua immagine bella che vagava a fior d’onda, s’immerse nella corrente profonda e sparve” (Enneadi, I, 6,8).
Così le esperienze dell’anima sfuggono a qualsiasi tentativo che cerchi di fissarle e disporle in successione ordinata, perché, al di là di ogni progetto razionale, l’anima sente che la totalità è sfuggente, che il non-senso contamina il senso, che il possibile eccede sul reale, e che ogni progetto che tenta la comprensione e l’abbraccio totale è follia. Amica del “demone”, che per Cartesio insidia la saldezza del cogito, l’anima fa resistenza ad ogni razionalizzazione, perciò in Occidente è straniera. Il dio che essa conosce non è il dio che è uscito da un cogito a garanzia delle idee della ragione, ma è un dio che non ci protegge dalla follia, e perciò ci consente di recuperare la sorgente a partire dalla quale ragione e follia hanno la possibilità di determinarsi e di dirsi. Questa sorgente è il simbolo. Dal suo fondo prende avvio il linguaggio dell’anima.
2. Il simbolo gnostico e Vanima straniera
Prima della loro confluenza sembra che Oriente e Occidente avessero in comune un simbolo che per comodità chiameremo cosmo-logico, dove l’uomo, tra il cielo e la terra, si pensa come uno dei tre. Gli altri due sono Urano e Gea nella tradizione greca, Purusha e Prakriti nella tradizione indiana, Tien e Ti nella tradizione dell’estremo Oriente. Il carattere fondamentale di questo simbolo è la sua staticità, nel senso che il cosmo era considerato il più perfetto esemplare d’ordine, e all’uomo, come parte del cosmo, non restava che adeguarsi a quest’ordine. La sua ragione era tanto più ragionevole quanto più era conforme alla
Ragione del cosmo. In un’accezione moderna, soggetto non era l’uomo, ma il cosmo che il fr. 30 di Eraclito così descrive: “Questo cosmo che, di fronte a noi, è il medesimo per tutti, non lo fecero nessuno degli dèi né degli uomini, ma fu sempre, ed è, e sarà fuoco sempre vivente che divampa secondo misure e si spegne secondo misure”. Da questa visione cosmica non poteva nascere alcun progetto in ordine alla dominazione del mondo, perché, come cosmo, il mondo non era creazione di un Dio, né opera dell’uomo, ma, in sé perenne, custodito dalle sue misure, era per sé.
A. La trasmutazione dei simboli - Considerato il più perfetto esemplare d’ordine (kosmióteta) e nello stesso tempo la causa di ogni ordine riscontrato nelle realtà particolari, che soltanto in gradi diversi si avvicinano a quello del tutto, il cosmo non è tanto un sistema fìsico quanto quella totalità divina (theion hai ólon) a cui l’uomo, come parte, deve assimilarsi. Nel riconoscimento e neU’accettazione del proprio esser-parte, l’uomo trova la sua collocazione e il senso della sua essenza che è nell’adeguarsi, in quanto parte, all’ordine (kósmos) del tutto. Si tratta di una totalità che non nasce dalla somma quantitativa delle parti, ma da quella nota qualitativa che fa di quelle parti composte un ordine, un cosmo. Da quest’ordine, che è poi la ragione dell’universo, il suo lògos, nasce quella pietà cosmica che non è tanto un sentimento religioso, quanto l’espressione antropologica di quella relazione universale che è la composizione delle parti col tutto.
Con la confluenza di Oriente e Occidente questo simbolo, invece di solidificarsi, si dissolve per cedere il posto a un altro simbolo che per comodità chiameremo antropo-teologico, perché a comporlo sono ancora i tre elementi del simbolo cosmico, ma con una diversa relazione: la terra è vissuta come male, tanto per l’uomo che vi si trova gettato, quanto per Dio che neppure l’ha creata, per cui tra l’uomo e Dio si scorge un’affinità che esclude la terra che li separa. Questo nuovo simbolo, a differenza di quello cosmo-logico, non è statico ma dinamico, perché l’uomo progetta (pro-bàllein) di congiungersi (sum-bàl-lein) alla sua controparte celeste da cui è diviso (dia-bàllein) a causa della terra.
Questo progetto è ancora un simbolo perché tende a una composizione, ma il referente simbolico non è più nella ragione cosmica, ma néìYintenzione umana. L’uomo non è più uno dei tre che si compone con gli altri due, ma colui rispetto a cui gli altri due si dispongono come il bene e come il male. Questa è la configurazione che, nel nuovo simbolo, vengono ad assumere il cielo e la terra: l’uno è la patria da raggiungere, l’altra è resilio da lasciare. Così insegnano gli gnostici, a proposito dei quali Plotino riferisce che “rifiutando onore a questa creazione e a questa terra, essi ritengono che una nuova terra è stata fatta per loro, verso la quale intendono dirigersi partendo da qui” (Enneadi, II, 5,38).
LOccidente si difende da questo simbolo che, dalla conquista di Alessandro Magno fino alla fine dell’impero romano e oltre, come dottrina gnostica, permea la cultura della nascente civiltà, ma la difesa riguarda le conseguenze, non le premesse. Ci si difende dallato celeste del progetto umano, ma non dal carattere progettuale del nuovo simbolo. Non si ritorna alludine cosmo-logico, ma si dispiega l’ordine umano su tutta la terra. In questo senso lOccidente non è che la versione atea del simbolismo gnostico; la sua ragione, che la Gnosi aveva promosso al di là della Ragione del cosmo, rimossa la via del cie
lo, si dispiega come segno della terra.
B. L’indifferenza della terra - A una simile trasmutazione di simboli, che ha fatto del cosmo un mondo e della teoria una prassi per aver ragione del mondo, la Gnosi è giunta partendo dal cuore stesso della contemplazione (theoria), che a lungo andare non poteva nascondere lo spettacolo (theórema) deH’indifferenza della terra e della sua estraneità all’evento umano che ospita a sua insaputa. “Gettato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e che non mi conoscono, provo spavento” (Pascal, 118, fr. 205).
A questo punto il pensiero gnostico spezza la grande triade. Non più il simbolo Cielo-Terra-Uomo, ma il progetto dell’uomo che sfida l’ignoranza del cielo e della terra, perché l’uomo pensa non in quanto parte della terra, ma in quanto emerge dalla sua ignoranza. Questo e-mergere, questo esistere è l’inizio di quello star-fuori dalla composizione simbolica, che più non sfocia neirintegrazione dell’essere umano nella totalità del cosmo, ma, ai contrario, segna quell’abisso insormontabile che divarica l’uomo da tutto. Il suo pensiero lo fa sentire straniero, e in ogni atto di riflessione parla la sua estraneità.
“Dal granello di sabbia a Dio tutte le cose sono (sind) — dirà Heidegger — ma solo l’uomo e-siste (ek-sistit)” (55, 154), cioè emerge dall’ignoranza cosmica per dare avvio a quel domandare, a quell’interrogare, a quel chieder senso che rispondono alle inquietudini di chi non si rassegna ad essere gettato nel mondo al solo scopo di prender parte a un tutto che ignora la sua partecipazione.
La relazione heideggeriana Ge-worfenheit - Ent-wurf, esser-gettato e pro-gettare è l’ultima ripresa di quest’antica inquietudine. Ne\Yindifferenza del cielo e della terra, l’uomo è differente, perché, rispetto al loro ordine, dispiega quel nuovo ordine che è Yapertura al senso. “Questo ente — scrive Heidegger — che noi stessi sempre siamo, e che, fra l’altro, ha quella possibilità d’essere che consiste nel porre il problema, lo designamo col termine esserci (Da-sein). La posizione esplicita e trasparen te del problema del senso dell’essere (Sein) richiede l’adeguata esposizione preliminare di un ente (l’Esserci) nei riguardi del suo essere” (57, § 2).
L’avvio heideggeriano dell’analitica esistenziale e il suo esito non sono dissimili dalla meditazione gnostica per la quale, estraneo alle aspirazioni dell’uomo, l’ordine cosmico perde la sua antica venerabilità; la legge che lo governa non è più espressione di quell ‘armonia con cui l’uomo deve armonizzare, ma assume l’aspetto terrificante dell’eimarméne, del fato cosmico ineluttabile che interdice ogni espressione di libertà. Riconoscendosi nella parte assegnata (questa infatti è la traduzione letterale di eimarméne), l’individuo non avverte più un invito alla theoria alla contemplazione e all’imitazione del tutto, ma solo un sordo sentimento di avversione e rivolta. L’ordine dei concetti cede al disordine delle emozioni, e, alle categorie intellettuali che la theoria aveva delineato rispecchiandosi nell’armonia cosmica, succedono categorie emotive che delineano per immagini la terribile storia di un’anima (psyché) straniera in un mondo che la impedisce.
C. La prigione del mondo - Per questo capovolgimento simbolico, la gnosi non ha avuto bisogno di creare nuovi simboli, ma di leggere più attentamente gli antichi. Già per Platone il mondo non era opera di Dio, ma di un secondo dio (deùteros theós), il demiurgo artefice del mondo che un giorno “fece salire le anime su una specie di cocchio e, mostrando l’universa natura del cosmo, disse loro leggi fatali” (Timeo, 41 e). Qui già si possono scorgere le premesse gnostiche che, nella bellezza cosmica, intrawedono la fatalità di un mondo, e nelle leggi che
lo governano la volontà di un dio: “Voi avete incontrato il voler mio, vincolo più grande e più possente di quegli altri vincoli con i quali, quando nasceste, foste generati” (Timeo, 41 b).
Nella sua applicazione ai testi platonici l’immaginazione gnostica inaugura itinerari che non sono razionali, perché la ragione, ormai, è il governo del mondo in cui non si riflette più la sua armonia, ma la costrizione àeìY eimarméne, della legge fatale a cui occorre sottrarsi creando quelle condizioni di silenzio che consentono alla chiamata di giungere oltre “il rumore del mondo”. I demoni, infatti, che sotto il governo del Demiurgo presiedono all’ordinato movimento dei cieli, congiurano all’insaputa dello straniero in esilio sulla terra e dicono fra loro: “facciamo in modo che egli oda un gran frastuono, così che non gli possa giungere la voce celeste” (94, 62).
Questa immagine gnostica trova forse il suo commento nella contrapposizione heideggeriana tra la vita “inautentica”, ma qui sarebbe meglio dire “impropria” (uneigen-tlich) dell’esistenza deietta neirimpersonalità del Si (Man) e quella “autentica”
o “propria” (eigentlich) a cui Tesserci è chiamato da quella “chiamata che non racconta storie e chiama tacitamente. Essa chiama nel modo spaesato del tacere. E ciò perché la voce della chiamata non giunge al richiamato assieme alle chiacchiere pubbliche del Si, ma lo trae fuori da esse richiamandolo al silenzio del poter-essere esistente” (57, § 57).
Questo motivo possiamo vederlo ripreso nella contrapposizione heideggeriana Gestell - Ereignis. Gestell significa imposizione. Nella parola c’è ad un tempo il senso del porre (.stei-len) un ordine, e la cogenza con cui quest’ordine è imposto dal calcolo della ragione e dal suo esito tecnico richiamato dal prefisso collettivo ge, che designa il modo d’essere di tutti da cui nessuno può esimersi. Nel Gestell, nell’ordine razionale imposto al mondo, così simile aìYeimarméne gnostica, lampeggia Y Ereignis, quell’e-vento che, oltre a venire dal di fuori, porta con sé i tratti del richiamo ad essere ciò che propriamente (eignen) si è, per cui, richiamato dall’Ereignis, l’uomo diventa ver-eignet (appropriato) all’essere e Tessere zuge-eignet (consegnato) all’uomo. Nel simbolismo gnostico tutto ciò ha la sua anticipazione nella ricongiunzione dell’uomo con la sua controparte celeste che lo raggiunge néìYeimarméne, nell’ordine razionale del mondo, richiamandolo alla sua natura.
D. Il fallimento di Dio - Chiuso al senso, il cosmo, ridotto a mondo, è trasceso da tutto ciò che ha senso, e che perciò non è mondo. Così il dualismo uomo/mondo postula come suo corrispettivo metafìsico quello tra mondo e Dio. È questa una dualità di termini non complementari ma contrari, una polarità di incompatibili; dislocati al di qua e al di là del mondo, l’uomo e Dio sono gli estremi dove corre il senso, i termini quindi del discorso; heideggerianamente: la parola (Wort) e la risposta (Ant-wort), o, come è detto altrove, “l’ambito in sé oscillante, attraverso il quale uomo ed essere si raggiungono l’un l’altro nella loro essenza, acquistano ciò che è loro essenziale” (64, 26).
È un discorso reso possibile dal fatto che il divino non ha parte in ciò che riguarda il mondo, perché è assolutamente trasmondano, nel senso che non è in alcun modo rivelato né indicato dal mondo, e perciò è lo Sconosciuto, il totalmente Altro, inconoscibile nei termini di qualsiasi analogia mondana. Dal canto suo il mondo — lo abbiamo visto — non è creazione di Dio, ma di un principio inferiore, la cui inferiorità è perversione divina suo tragico fallimento, i cui terribili effetti sono insensata dominazione e cieco potere.
A questo mondo appartiene l’uomo con la sua ragione (noùs) ordinata secondo l’ordine del mondo, ma non la sua anima (psyché) che, come una scintilla smarrita da Dio nel tragico giorno del suo fallimento, abita questo mondo disabitandolo, in attesa della chiamata divina che, come vuole l’espressione già citata di Heidegger, “chiama nel modo spaesato del tacere”.
E. L’anima straniera - La Gnosi parla dell’anima come di un’energia psichica tra l’Uno sconosciuto e lo zero metafìsico della materia, una scintilla di luce tra l’immobile sorgente luminosa e la zona oscura delle tenebre. Non dobbiamo quindi pensare a una sostanza quieta, all’essere per esempio, o al pensiero ipostatico, o a Dio. Certo Dio ha dato all’anima l’esistere, perdendo la sua originaria unità, e l’anima, raccogliendosi dalla dispersione, si dispone al ristabilimento dell’unità primitiva.
La dispersione di Dio ha il suo corrispondente nella vita straniera che le sue scintille separate conducono nel mondo. “Vita straniera” è una delle parole simbolo più espressive che si incontrano nella letteratura per indicare chi proviene da altro luogo, e a quelli del luogo appare strano, non familiare, incomprensibile. Allo stesso modo il luogo che lo straniero si trova ad abitare è per lui estraneo e perciò carico di solitudine. Angoscia e nostalgia della patria sono parte del destino dello straniero che, non conoscendo le strade del paese estraneo, girovaga sperduto. Se poi impara a conoscerle troppo bene, allora dimentica di essere straniero e si perde in un senso più radicale perché, soccombendo alla familiarità di quel mondo non suo, diventa estraneo alla propria origine. Nell’alienazione da sé l’angoscia sparisce, ma incomincia la tragedia dello straniero che, dimenticando la sua estraneità, dimentica anche la sua identità.
Il risveglio si annuncia col riconoscimento dell’estraneità della dimora che abita e con la ripresa della nostalgia dell’origine. Tutto ciò appartiene alla sofferenza dello straniero, ma anche alla sua eccellenza, perché la sua estraneità gli vieta di confondersi con gli altri e di disertare quella vita segreta, sconosciuta all’ambiente circostante e ad esso impermeabile, perché incomprensibile. Entrambi gli aspetti dello straniero: l‘estraneità e la superiorità, la sofferenza e la differenza fanno di lui un essere che abita il mondo senza esserne coinvolto, richiamato da un al di là che disabita.
“E dove mai — scrive Heidegger — la spaesata, ‘disabituale’ e fredda sicurezza con cui il chiamante chiama il chiamato potrebbe trovar fondamento, se non nel fatto che l’Esserci, isolata nel. suo: spaesamento, è assolutamente inconfondibile? Che cosa sottrae allesserei in modo tanto radicali? là possibilità di rifugiarsi nell’equivoco, fraintendendosi e disconoscendosi, se non la solitudine dell’abbandono a se stesso? Ilo spaesamento è un modo fondamentale dell’essere-nel-mondt>, anche se è quotidianamente coperto. L’Esserci stesso, come, coscienza, chiama dal profondo del suo essere. ‘Sono chiamato’ è una tipica espressione dell’Esserci. La chiamata, emotivamente pervasa dall’angoscia, fa sì che l’Esserci possa progettarsi nel· poter-es-sere più’ proprio. La chiamata della coscienza, compresa esistenzialmente, dà ragione a ciò che sopra abbiamo semplicemente affermato: lt> spaesamento incalza l’Esserci e minaccia il’ suo oblio nella perdizione” (57, § 57).
Allora l’anima si dimentica, dimentica sé neirassorbimento opaco della terra, dove non c’è cosa che possa ricordarle la sua origine acosmica, se non un sentimento negativo di estraneità, di non compiuta appartenenza. Qui il disagio dell’anima diventa il simbolo di una differenza, di una irriducibilità dell’uomo alla dimora che lo ospita. Con ciò non si vuol dire che altre dimore attendono l’uomo. Dopo l’avvertimento di Nietzsche: “Vi scongiuro, fratelli, restate fedeli alla terra, e non credete a coloro che vi parlano di speranze sovratterrene” (106, 19), questa possibilità non è più data, eppure la terra non ha dimesso il suo aspetto di prigionia e di esilio. Da che cosa ci esilia la terra? Come ci rende irriconoscibili? A noi stessi* prima che agli altri? Immemori, ignari? Perché la morte di’ Dio, contrariamente alla promessa di Nietzsche, non ci ha riconciliato con la terra? Che cos’è propriamente la sua inospitalità che l’anima sente come male?
“La verità da noi esposta — scrive Platone — si riferisce all’attuale situazione dell’anima afflitta da mali innumerevoli, come Glauco, il dio del mare, la cui forma originaria può a mala pena essere distinta, perché parti del suo corpo sono state, spezzate o corrose, o completamente sfigurate dklte onde;, vi: sono poi cresciute sopra erbe, rocce e conchiglie, per. cui ora. Glauco assomiglia a qualunque altro essere vivente e non più a se stes· so ” (Repubblica, 611 c-d). La terra, nostra dimora, ci trasfigura. Abbandonandosi completamente alla terra, perdendosi, nellà terra, come Glauco nell’acqua, l’uomo rischia la propria differenza, finisce con l’assomigliare a qualsiasi altro essere e non più a se stesso.
Perdita delVlo per dimenticanza di sé. Forse qui è il segreto di tante metafore teologiche, un segreto che viene allo scoperto con la morte di Dio, e subito ricoperto da altrettante metafore psicologiche meno potenti, perché meno simboliche. La religione custodiva sontuosamente, la psicologia vi allude timidamente, immettendosi in quel sentiero di conoscenza che per Platone era “sete”, sete d’amore: “filosofia”. “Ah quella sete di conoscenza! £ ciò che per questa sete l’anima attinge, perché profonda è la sua affinità col divino, con l’immortale, con l’eterno. Se si potesse pensare ancora quale diverrebbe se le fosse concesso di seguire quell’impulso che la porta in alto; se, trasportata da questo impulso, potesse scuoter via pietre e conchiglie, e tutte queste cose terrene e petrigne, innumeri e selvagge che si sono aggiunte e concresciute in lei, nutrite di terra, in questi convivi che si sogliono chiamare convivi di felicità. Oh, allora se ne potrebbe vedere la vera natura” (ibidem, 611 e-612 a).
F. La chiamata - La letteratura gnostica offre descrizioni molto estese del banchetto orgiastico preparato dalla Terra per la seduzione dell’uomo: “La Terra e i Pianeti formularono piani tra loro e dissero: ‘Inganneremo Adamo, lo prenderemo e lo tratterremo con noi. Gli daremo da mangiare e da bere, mentre con comi e flauti faremo in modo che non possa allontanarsi da noi. Orsù prepariamo un banchetto in modo da sedurlo’ ” (51, 120).
Al termine del convito, Torpore, Sonno, Ubriachezza e Oblio subentrano a far dimenticare all’anima la sua estraneità alla Terra, favorendo uno stato di incoscienza e di ignoranza di sé. Si tratta di un’ignoranza che non è semplice assenza di conoscenza, ma condizione contrastante, altrettanto provocata e mantenuta per impedire la memoria della propria identità e quindi della propria differenza. Perduta nel mondo, come Glauco tra le incrostazioni del fondo marino, l’anima diventa indifferenziata, e non c’è più chi la possa chiamare se non l’ha conosciuta prima del banchetto, del torpore, del sonno, dell’ubriachezza e dell’oblio. “Coloro i cui nomi erano noti in precedenza, alla fine furono chiamati, sicché colui che conosce è colui che è stato chiamato, mentre colui il cui nome non è stato chiamato, è ignorante. In verità come potrebbe una persona udire se il suo nome non è stato chiamato?” (30, 21,25).
Invitando a “prestare attenzione a ciò che apre la natura propria del nome”, Heidegger dice che “nominare una cosa è chiamarla per nome. Ancora più originariamente è chiamarla nella parola. Ciò che viene così chiamato sta allora alla chiamata della parola. Esso appare come ciò che è presente, come ciò che nella parola che chiama è custodito, raccomandato, chiamato in una presenza significa esso stesso. Esso è nominato, ha un nome. Nel nominare chiediamo a ciò che è presente di venire. Di venire dove? Questo resta da considerare. Comunque ogni nominare ed esser nominato è un chiamare nel senso corrente solo in quanto il nominare stesso nella sua essenza consiste neirautentico chiamare, nell’invito a venire” (60, 86-87).
Questo invito a venire (in kommen-Heissen), intimamente connesso all’avere un nome, è un invito a prodursi nella differenza che, neirimmaginazione gnostica, è un distinguersi dal-Tin-differenza della terra. Ma per avere un nome bisogna che qualcuno lo pronunci, qualcuno che non sia deietto nel mondo, qualcuno che e-sista. Questo qualcuno è “l’Uomo Straniero che non è caduto, ma si è portato nel mondo” (51, 90). “Adamo provò amore per l’Uomo Straniero la cui parola è straniera, perché è estranea al mondo” (51, 244). Chiamando, lo Straniero risveglia: “Sono la chiamata del risveglio dal sonno della notte” (76, V, 14, 1). Questo risveglio è la Gnosi come pura memoria della propria estraneità alla terra, dell’irriducibilità della natura umana alla natura delle cose ospitate dalla terra.
Abbiamo qui anticipato in immagini e mitologemi l’intuizione heideggeriana: “l’essenza dell’uomo è l’esistenza” (57, § 9), è quel suo essere nel mondo standosene al di fuori. C’è infatti nella parola esistenza qualcosa che allude a un exodus, a un exitus. Il problema è di comprendere da che cosa si deve uscire. Finché ci sono mondi ed eoni, messaggeri che chiamano e anime da risvegliare, l’immaginazione corre libera e chiude il cerchio nella ricostruzione del pleroma, nella ricomposizione del dramma divino; ma noi, che dopo la morte di Dio non abbiamo più mondi ma solo visioni del mondo, dobbiamo uscire sia da quella visione oggettivistica che pensa l’uomo cosa tra le cose, sia da quella soggettivistica che risolve l’uomo nella sua egoicità, lo instaura come soggetto di fronte alle cose del mondo per la loro manipolazione.
Ma per uscire dal soggetto e dall’oggetto non serve il pensiero che è nato da questa contrapposizione, ma una dimensione che questa contrapposizione ha sempre disabitato. Non è infatti proprio Heidegger a ricordarci che “la chiamata chiama nel modo spaesato del tacere” (57)? A chiamare non è più il dio gnostico, lo Sconosciuto al di là del mondo, ma l’essere nella sua differenza dall’ente intramondano. “In questo rapporto (Bezug) è l’essenza dell’uomo che custodisce l’in-vio (An-wesen) che l’essere fa di sé. L’uomo è il volgersi (Zu-wendung) a questo in-vio (An-wesen), nell’invio si risolve l’essere, e nel volgersi a questo invio si risolve l’uomo. In questo gioco (Spiel) di richiamo e ascolto è custodita la coappartenenza (Ereignis) di uomo ed essere” (59, 301).
G. La patria - La coappartenenza di uomo ed essere consente a Heidegger di tradurre il DK., fr. 119 di Eraclito: “éthos anthró-poi datmon” con “l’uomo abita nelle vicinanze di Dio” (58, 187). L’oblio di questa vicinanza determina quell‘“accadere senza patria” (ibidem, 169) intorno a cui si articola il dramma gnostico dell’anima straniera che solo l’inviato dalla Luce può ridestare: “Solo finché accade la luce dell’essere — scrive infatti Heidegger — l’essere sopraggiunge all’uomo, ma che accada l’illuminazione è deciso della ventura dell’essere” (ibidem, 191). Ventura traduce il tedesco Geschick (da schicken = inviare) abitualmente tradotto con sorte, destino. Destino dell’uomo è essere sorte di Dio. Custodendo questa sorte extramondana, l’uomo si custodisce.
La gnosi non poteva trovare in Heidegger miglior esegeta. Ma, come ci ha segnalato Corbin, “sotto l’idea di esegesi si annuncia l’idea di una guida (l’esegeta), e sotto l’idea di una guida quella di un esodo, di un’uscita dall’Egitto, come esodo dalla metafora e dalla servitù della lettera; un esodo dall ‘esilio e dal {‘Occidente dell’apparenza essoterica, verso YOriente dell’idea originale e nascosta” (14, 33).
Qui, come avverte Heidegger, “LOccidente non è da pensare regionalmente nella sua distinzione dall’Oriente, né semplicemente come Europa, ma dal punto di vista storico-mondiale, dalla sua vicinanza all’origine prima. La patria di questa abitazione storica è la vicinanza dell’essere. In questa vicinanza, e non altrove, può aver luogo anche la decisione se e come Dio e gli dèi sono venuti a mancare e resta la notte, se e come già albeggia il nuovo giorno del Sacro, che è soltanto l’originario spazio essenziale della divinità, la quale di nuovo assicura la dimensione per gli dèi e per Dio; il Sacro può mostrarsi solo se, dopo lunga preparazione, l’essere stesso viene a tralucere e si lascia sperimentare nella sua verità. Soltanto così può cominciare un superamento di quel trovarsi senza patria, in cui non solo gli uomini, ma l’essenza dell’uomo sta vagando” (58, 169).
3. Heidegger e le antiche metafore
La temporalità dell’anima, come Plotino l’ha formulata e la sua estraneità al mondo, come la Gnosi l’ha descritta sono due metafore di base che consentono a Heidegger di dislocare il pensiero occidentale dal luogo che s’è dato per inaugurarlo ad un altro livello dove risulta modificata la nozione stessa di pensiero. Non più il pensiero che calcola (Denken als Rechnen), di cui la scienza è oggi l’espressione eminente, ma il pensiero che ringrazia (Denken als Danken) che, rinunciando ad ogni finalità “costruttiva” si offre come risposta a un appello. Per Heidegger non c’è continuità tra una forma di pensiero e l’altra: “non c’è un ponte che conduca dalla scienza al pensiero — scrive Heidegger —; Tunico passaggio possibile è il salto. Il luogo dove questo salto ci conduce non è solo l’altro lato dell’abisso, ma una regione totalmente diversa” (61, II, 6).
A. La regione totalmente diversa - Da occidentali quali siamo non possiamo accostare questa “regione totalmente diversa” con l’abituale schema concettuale che costituisce la violenza prima di ogni discorso, e neppure con il rapimento poetico, perché questo, anche quando va al di là dell’abuso retorico, non lascia mai alle sue spalle le scansioni determinanti del discorso. Per la “regione totalmente diversa” il cammino non basta, occorre il salto che, a differenza del cammino, “porta il pensiero, senza ponti, cioè senza che vi sia un procedere continuo, in un altro ambito e in un’altra maniera di dire (Weise des Sagens)” (63, 95). Praticando il salto sarà possibile intendere cosa nasconde la filosofìa di Heidegger proprio là dove sembra estenuarsi in un linguaggio che non dà mai l’impressione di approdare, in quel chiamare infinito dove spesso non è più dato distinguere chi chiama e chi è chiamato. Sì certo: Tessere (Sein) e Tesserci (Dasein), ma qui vorremmo sporgere dal circolo ermeneutico (il cammino) per tentare quell’accesso alla dimensione simbolica (il salto) che Heidegger inaugura senza mai nominare. .
Già abbiamo conosciuto il simbolo nelle sue manifestazioni estreme: malefico quando, irrompendo, devasta la comunità degli uomini, benefico quando, allontanandosi, consente agli uomini di ritrovare l’ordine delle loro parole e le regole della loro vita. Ma la relazione, il rapporto, Heidegger direbbe il Be-ziehung tra l’umano e lo sfondo pre-umano, tra il simbolo e la parola ordinata non ci è ancora noto.
Qui la ricerca deve muoversi in quello spazio che Platone aveva chiamato del metaxy e Heidegger dello Zwischen. Il rapporto è nel frammezzo (zwischen) che unisce e ad un tempo divide i due che si richiamano nel rapporto. “Compenetrandosi, i due passano attraverso una linea mediana. In questa si costituisce la loro unità. Per tale linea sono intimi. Per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine das Zwischen. La lingua latina dice inter. AWinter latino corrisponde il tedesco unter (…). In questo inter, in questo unter è lo stacco (Schied), la differenza (Unter-schied)” (65, 24-25).
La differenza non separa, non allontana solamente, ma, nel differenziare, richiama e richiamando compone, come quando i mortali offrono ai divini i prodotti del cielo e della terra. Qui i quattro (vier), dice Heidegger, sono adunati, ma il quadrato (Ge-viert) che li compone non li confonde, se mai li squaderna (viert) rivelandoli, come il lògos di Eraclito, “gli uni uomini, gli altri dèi” (DK., fr. 53).
Ogni cosa ha questo potere e-vocativo, ciò che richiama è lo sfondo da cui proviene; in questo sfondo è custodita la sua essenza, il suo esser quella cosa che è. Così la brocca non è un contenitore vuoto, ma è un “contenitore per versare”; ciò che contiene è l’acqua e il vino prodotti dal cielo e dalla terra che i mortali versano in onore dei divini. Nell’esser brocca della brocca i quattro sono così richiamati e in essa si raccolgono. Di fronte alla brocca l’uomo non incontra solo un oggetto, ma il cielo e la terra, i mortali e i divini: “I quattro — scrive Heidegger — costituiscono nel loro relazionarsi un’unità originaria. Le cose fanno dimorare presso di sé la quadratura dei quattro. In questo far dimorare che trattiene è l’esser-cosa delle cose” (65, 22).
B. Lo spazio simbolico - Il richiamo custodito nell’essenza di ogni cosa apre quello spazio simbolico dove i diversi sono adunati. Sum-bdllein, lo abbiamo visto, significa “mettere assieme”, e la sua azione va da quel mettere assieme che abolisce le differenze a quell’adunare che le convoca senza sopprimerle. Nel primo caso abbiamo quella condizione che gli uomini hanno sempre conosciuto come forma della follia da cui la ragione si tiene lontana come dal suo altro, dall’antecedente da cui si è separata, nel secondo caso abbiamo quella forma di pensare che è un passare dalla cosa al mondo dei suoi richiami, che la logica della ragione non può percorrere perché la sua esigenza di de-terminazione chiede la terminazione di ogni significato, senza di cui non si produrrebbero termini univoci.
Tra la follia e la logica della ragione c’è dunque uno spazio intermedio (zwischen), lo spazio del simbolo che Heidegger dischiude ad un livello che resta ignorato da quanti impiegano questa parola per costruirvi addirittura statuti disciplinari e forme di conoscenza. Il simbolo, infatti, non è mai “questo” o “quello” nel senso in cui la logica connette un predicato a un soggetto. L’espressione “è”, attribuita al simbolo, ha sempre e solo un significato transitivo. Del simbolo si potrebbe dire quel
lo che Heidegger riferisce all’essere quando dice che è questo o quello, nel senso di far essere (west) questa o quella cosa, nel senso che la eventua (ereignet): “Qui — scrive Heidegger — l’essere parla in forma transitiva, tra-passante (uber-gehend)” (64, 56).
L’impossibilità di definire il simbolo con la logica della ragione occidentale testimonia un’impossibilità linguistica intimamente connessa con l’incapacità di questa logica di parlare senza sopprimere la fonte stessa del suo linguaggio. Ma un linguaggio costruito sulla rimozione della sua fonte è un linguaggio a cui mancano le parole per esprimerla, e questa carenza non è, come giustamente dice Heidegger, “semplice povertà linguistica” (65, 161), ma è essa stessa evento simbolico, l’evento della sua rimozione.
Il rapporto col linguaggio simbolico diventa così un rapporto privilegiato, dove il simbolo viene o non viene in luce come fatto linguistico, in quanto eventua o non eventua dei vocabo
li, esprime o non esprime delle culture, istituisce o non istituisce dei linguaggi. In questa prospettiva, il linguaggio non è qualcosa che è in potere dell’uomo, al contrario è l’uomo che è in potere del linguaggio, in quanto può dire solo ciò che nell’ambito di un certo linguaggio rientra. Per questo “L’uomo parla in quanto corrisponde al linguaggio” (65, 33). Al dire che più non conosce la sua fonte corrisponde il tacere del linguaggio simbolico e il suo costituirsi come semplice segno che più non rinvia. Tale è il linguaggio occidentale che, saldando il soggetto al predicato, questo è questo e non altro, dice l’oblio della fonte, la sua dimenticanza.
Ma il nuovo linguaggio che a questo punto si rende necessario non si lascia costruire in base a un nuovo pensiero che dovrebbe condurre all’oltrepassamento. “La mancanza della parola adatta” (65, 161), come dice Heidegger, non è una deficienza del vocabolario, di un singolo o di una cultura, ma il limite dell’apertura simbolica dove ognuno di noi si trova e che nessuno può superare con una semplice escogitazione linguistica. Ciò significa che l’ambito entro cui le cose avvengono e significano non dipende solo dalla particolare interpretazione entro cui ha luogo l’esperienza del mondo, ma da un certo linguaggio che precede e condiziona ogni possibile interpretazione. Il linguaggio simbolico, infatti, presenta la cosa inserendola in un mondo, in un ordine, in una struttura linguistica da cui ogni senso e ogni significato dipende.
Se quel mondo, se quell’ordine, se quella struttura linguistica ignorano la propria fonte, non ci sarà cosa che possa liberare messaggi simbolici, ma, per ciò che dice, ogni cosa sarà segno che conferma quel mondo, quell’ordine, quella struttura. A questo punto non dobbiamo attenderci nulla dal significato delle parole, ma se mai dal loro silenzio. Ciò significa cercare nel detto il non detto, non per smascherare ciò che non si voleva o non si poteva dire (Freud), ma per cercare ciò che, neU’esplicitazione totale, compiuta dal linguaggio concettuale, è rimasto implicito e così trattenuto.
Lamentando la limitazione e la povertà del nostro linguaggio, Heidegger invita a percorrere lo spazio del taciuto. Le sue espressioni chiedono che si dischiudano rapporti che vadano oltre quelli conclusi dalla logica occidentale, onde consentire alle cose di aprirsi a una presenza che non si risolva immediatamente nelle rappresentazioni di quella logica. Esse chiedono che si dischiudano mondi, che si aprano aperture capaci di concedere al linguaggio un respiro più ampio, e alle cose un senso meno dimentico dei significati non ancora raggiunti dal linguaggio dellOccidente.
Ma per questo sono necessarie nuove parole, dove la novità non è nell’aggiunta di nuovi vocaboli, ma nel nuovo senso che quelli antichi assumono quando, di fronte al linguaggio, ci si dispone non come di fronte a uno strumento, ma come di fronte a una parola che parla. Si tratta ovviamente di una parola che parla non nella forma delYenunciazione-esplicit azione propria del linguaggio della ragione occidentale, perché in questa forma si lascia esprimere solo il segno e non il simbolo che, rifiutandosi a ogni esplicitazione e a ogni enunciazione, non è mai ciò che si pensa, ma ciò in cui e da cui si pensa.
Al linguaggio dellOccidente che dice come le cose sono, occorre quindi sostituire il linguaggio che non dice ma ritorna dal detto a ciò che non è detto, e che dal detto è richiamato. Il ritorno non risale alla causa (Grund), ma allude ad un fondo inesplorato (Ab-grund). Luogo e non-luogo del discorso, il simbolo disloca ogni parola, ogni espressione linguistica che è compresa non quando si capisce ciò che dice, ma quando si colloca ciò che dice in ciò che non dice, eppure richiama (Geheiss).
C. Il gioco del richiamo - Nella prima lezione che inaugura il secondo ciclo di Was heisst Denken? Heidegger si scopre mentre sta “giocando col verbo heissen” (60, 82). La nozione di “gioco” fa la sua comparsa anche nelle pagine conclusive di Der Satz von Grund dove il discorso sul fondamento (Grund) si conclude col richiamo all’abisso (Ab-grund) e con l’immagine eraclitèa àéìYaión, come fanciullo divino che “gioca”.
La relazione allfabisso (che chiede un salto per accedere alla “regione totalmente diversa”) e la relazione al richiamo (“stiamo giocando col verbo heissen“) fanno del “gioco” un termine che non possiamo confondere con gli altri del linguaggio heideggeriano. “Gioco”, infatti, è parola percorsa da una radicale ambivalenza, perché da un lato esprime l’opposto della sottomissione a regole, non nel senso che le invalidi, ma nel senso che, svelandole nel loro carattere convenzionale, in un certo senso le sospende.
Ma se da un lato il gioco esprime l’opposto della sottomissione a regole, dall’altro ci vincola in una maniera forse più radicale mettendoci in gioco. Riferendosi al linguaggio abituale che, per il solo fatto che è comune a tutti, è assunto “come l’unico che dia una norma”, Heidegger osserva che il gioco etimologico, “che esce dairabituale per abitare in quello che già una volta fu il parlare appropriato del linguaggio, viene immediatamente preso per un’infrazione alla norma. Esso viene stigmatizzato come un arbitrio, come un facile gioco. E tutto questo fa parte debordine delle cose, dal momento che si considera l’abituale come l’unica norma oggettiva e non si è assolutamente capaci di contenere l’abituale nel suo carattere di abitudine. Questa vertigine di fronte airabituale, posta sotto l’egida del preteso sano intelletto umano, non è né casuale, né tale da poter essere sottovalutata. Questa vertigine di fronte all’abituale fa parte deiralto e pericoloso gioco in cui l’essenza del linguaggio ci ha messi in gioco” (ibidem, 85-86). Il pericolo è nella sospensione della perentoria serietà del testo che, nella logica della ragione, regge ogni contestualità fondante e fondata, è nella discontinuità dell’abisso che dischiude tutt’altra possibilità espressiva.
“Giocando con il verbo heissen”, Heidegger osserva che la parola viene utilizzata “per chiedere ad esempio: ‘Come si chiama (heisst) il villaggio che si trova su quel colle?’ In questo caso heissen significa: quale nome dovrà portare?… Altrove la parola viene impiegata in un significato che possiamo approssimativamente rendere con i verbi: invitare, esigere, avvertire di un’esigenza che si ha, rimandare. Avvertiamo (heissen) qualcuno che sta sul nostro cammino che vorremmo che si spostasse, che ci facesse posto. In heissen non c’è però necessariamente l’imporre, né tanto meno il comandare; c’è piuttosto un richiamarsi anticipante verso qualcosa, in cui lasciamo pervenire ciò cui ci siamo richiamati (das Geheissene) nel momento stesso in cui ci richiamiamo (heissen) ad esso” (ibidem, 82-83). Quest’ultimo è il senso desueto, quello che “noi non abitiamo o abitiamo appena… non perché il parlare della nostra lingua non si sia mai sentito a casa in esso, ma perché noi non ci sentiamo più a casa in questo dire della parola, perché non lo abitiamo più in modo autentico (eigentlich)n (ibidem, 85).
Ci avviamo a compiere il salto nella “regione totalmente diversa” tanto quanto può essere diverso dire le parole e abitare i simboli. Il simbolo, infatti “non si dice”, “non si riferisce a” un presunto simboleggiato che, alle spalle del simbolo, ne custodirebbe la verità segreta (Freud), il simbolo si abita come si abita una patria. Ma “proprio l’abitare è esposto al rischio dell’abituale” (ibidem, 85), questa esposizione è ciò che rende “poco abituale e all’apparenza inconsueto il significato autentico: quello che è innato nella parola, tale che resta l’unico,
mentre tutti gli altri trovano in esso la loro patria” (ibidem, 84).
Comprendiamo ora il senso del famoso passo indietro (zu-riick zu Schritt) heideggeriano che non è tanto un ritorno all’origine dellOccidente, quanto un ritorno all’origine della parola, che non è la sua etimologia, ma il suo spessore simbolico. Si tratta infatti di tornare a quella patria da cui si dispiegano le diverse regioni, o, in altra metafora, a quella terra da cui si dispiegano i mondi. Per questo è necessario seguire una via, ma siccome il luogo a cui si deve arrivare già lo si abita, sia pure nella forma inautentica (uneigentlich) dell’abituale, non si può intendere la via come un semplice mezzo per giungere a una meta che lascia la via alle spalle. Questa è la ragione per cui non c’è metodo (metà - odós) per leggere i simboli. L’esegesi del linguaggio simbolico, lasciandosi alle spalle ironia, maieutica, epoché, dubbio, in una parola i metodi dellOccidente, inaugura quel trovarsi per via (odós), quel trattenersi tra le vie (Un-terwegs) senza possibilità che un risultato possa offrirsi come meta raggiunta.
Perciò Heidegger si chiede: “È questo ritorno un arbitrio? È un facile gioco? Né l’una cosa, né l’altra. Se tuttavia qui è possibile parlare di gioco, il gioco non sarà un gioco di parole, perché è l’essenza del linguaggio che gioca con noi — e non soltanto in questo caso particolare, non soltanto da oggi, ma ormai da lungo tempo e senza interruzioni. Il linguaggio gioca infatti con il nostro parlare in un modo che abbandona facilmente quest’ultimo ai significati più superficiali delle parole. È come se l’uomo facesse fatica ad abitare in maniera appropriata (eigentlich) nel linguaggio. È come se proprio l’abitare fosse il più esposto al pericolo deirabituale” (ibidem, 85).
Venendoci a chiamare (heissen) dall’abituale, il richiamo (Geheiss) ci “invita a venire (in kommen-Heissen)” nell’abitazione, ci invita a quel ritorno, a quel passo indietro verso l’abitare in cui è “l’autentico significare (eigentlich Heissen)” (ibidem, 87).
Nella direzione del ritorno Was heisst Denken? può essere sì tradotto: Cosa significa pensare?, ma a condizione che con quel “significa (heisst)” si intenda “Che cosa ci chiama al pensiero?… Ciò che ci chiama al pensiero reclama di per sé di essere servito, curato e custodito nella sua essenza per il tramite del pensiero. Ciò che ci chiama al pensiero ci dà da pensare” (ibidem, 87-88).
Comprendiamo a questo punto che le figure heideggeriane del “richiamo” e del “ritorno” non sono a significare che il senso dell’essere non si dà più o non si dà ancora, per cui il pensiero ha da rimpiangerlo o da prepararne l’avvento. Richiamo e ritorno aprono il gioco linguistico mettendoci in gioco in quella “regione totalmente diversa” dove non siamo più noi ad avere in mano le regole del gioco, ma quello spazio simbolico che con la sua offerta (Gabe) ci gioca. Infatti, scrive Heidegger: “ciò che esso dà da pensare, il dono (Gabe) che esso ci porge, non è niente meno che il darsi di se stesso, di ciò che ci chiama nel pensiero” (ibidem, 88).
D. L’esodo dalla parola - Se il simbolo è un richiamo all’origine, rispondere all’appello non significa chiarire la parola secondo vari criteri accertati e accertabili nei rispettivi ambiti storici (precomprensione ermeneutica), ma significa sospendere il tessuto della continuità storica, rinunciare a priori a una tavola di criteri precedentemente stabilita, per mettersi a disposizione di quella parola che ci fa quel “dono (Gabe) che è niente meno che il darsi di se stessa” (ibidem, 88). Questo dono non è il significato, né l’apertura delle possibili significazioni, ma è Vinsondabilità della significazione che sventa in anticipo la trappola dello storicismo come quella del relativismo che, con le loro parole ordinate dalla precomprensione e perciò giustificate, sopprimono quella vigilia dell’origine delle parole a cui il richiamo intende far ritorno, non per scoprirvi una scena muta, ma quella scena in cui ogni senso non è ancora del tutto spento nella parola.
A questo punto l’abisso, YAb-grund non si limita a rivelare l’impossibilità di un discorso assoluto (apertura ermeneutica), ma insinua il sospetto che la parola espressa non sia che il cadavere della parola simbolica (apertura abissale). Ma per mettersi sulle tracce occorre oltrepassare Yalétheia, la manifestazione, per giungere a quel fondo nascosto che è il léthe che la dispiega. Questo oltrepassamento non si compie a colpi di sillogismi e neppure abbandonando il piano della manifestazione, della parola espressa, per il fondo nascosto e custodito dalla parola simbolica, ma adunando i due (sum-bàllein) in composizione simbolica. È vero, infatti, che la parola espressa, l’essoterico (tà éxo) è ciò per cui Platone nella Seconda Lettera (314 c) dice “non vi è una scrittura di Platone, nessuna; non ce ne sarà mai, e quelle che vi indicano come tali sono di Socrate, quando era nel tempo bello e nella pienezza della vita”, ma è pur sempre attraverso l’essoterico che si può ri-salire all’esoterico (tà ésó), a ciò che è nascosto, così come in Heidegger è solo attraverso l‘“abituale” che si può ritornare all‘“abitare”.
L’itinerario simbolico dischiuso dall’esegesi non approda alla distruzione del pensiero, al suo naufragio nell’irrazionale puro, ma inaugura quel nuovo modo di pensare che è un passare (Vberschreiten), un passare oltre andando verso, attraverso la metafora, il cui senso nop è alle spalle della lettera, ma nella lettera come e-nunciato (Aus-sage), come tras-gressione del nascosto. In questa accezione la metafora è la parola che porta fuori (meta-phoréin) il nascosto; prima che procedimento retorico del linguaggio, essa è l’insorgenza stessa del linguaggio; e l’esegesi, parlando la metafora, la riconduce nell’orizzonte silenzioso della non-metafora da cui essa è uscita come trasgres-sione. Facendone uso, l’esegesi la consuma, la logora come si logorano le parole della tradizione, e, logorandola, dischiude
lo spazio aperto dal simbolo la cui potenza, anche se non viene nominata, come quella del sole, è già in mezzo alle cose.
E. L’orientamento delVanima - L’itinerario della ragione non ignora lo spazio aperto dal simbolo, non lo evita, ma lo affronta con il linguaggio della spiegazione e dell’esplicitazione per evitare che nuove parole, nuove metafore, nuove trasgressioni insorgano a infrangere le regole dell‘“abituale” discorsività, per fondare la quale la ragione è nata e si è costituita. L’anima, che disabita l’abituale, guarda allo sfondo simbolico come a un’origine verso cui promuovere un ritorno, un passo indietro (zu-rilck zu Schritt), nella persuasione che ciò che rimane nascosto e custodito non costituisce il limite o lo scacco del linguaggio, ma il terreno fecondo su cui solamente possono fiorire e svilupparsi nuovi sensi e nuove parole. L’itinerario che così prende avvio non è mosso dall’ideale dell’esplicitazione totale che elimina ogni nascondimento, ma, al contrario, custodisce il nascosto per accogliere ciò che esso libera, ciò che offre non tanto aWinterpretazione (itinerario ermeneutico), ma aìYorienta-mento (itinerario simbolico). Per l’anima, infatti, non si tratta di afferrare le cose, come vuole l’itinerario della ragione, ma di incontrarle al loro Oriente.
Ciò istituisce un nuovo rapporto tra essoterico ed esoterico, tra manifesto e nascosto, tra parola detta e parola custodita, perché gli itinerari simbolici che l’anima così inaugura dischiudono un senso del linguaggio che non è strumentale, ma rive-lativo, perché il simbolo non usa le parole se non per esporle al loro ritorno o al loro rinvio. In questo senso l’operazione simbolica è operazione rinviarne. Ciò che essa dischiudendo espone è un mondo per 1‘“abituale” che non si chiude nelle sue abitudini, ma rimane dischiuso a quell‘“abitare” che lo produce. Ad esso il mondo dell‘“abituale” rinvia senza poterlo includere, per cui /’”abitaren si rivela nel mondo dischiuso dell’“abituale” come ciò che si sottrae alVapertura che apre.
Comprendiamo a questo punto perché tra “abituale” e “abitare” o, nella metafora heideggeriana, tra “mondo” e “terra” si apra un conflitto che è poi la stessa attuazione dell’operazione simbolica. “Il contrapporsi di Mondo e Terra è una lotta. Sarebbe però una banale falsificazione di questa lotta se la si intendesse come contesa e rissa, attribuendo ad essa solo i caratteri del perturbamento e della distruzione. (…) La Terra non può fare a meno dell’apertura del Mondo se deve essa stessa, in quanto Terra, apparire nel libero slancio del suo autodischiu-dersi. Il Mondo, a sua volta, non può distaccarsi dalla Terra se deve, come regione e percorso di ogni destino essenziale, fondarsi su qualcosa di sicuro. (…) Riposando sulla Terra, il Mondo aspira a dominarla. In quanto autoapertosi, esso non sopporta nulla di chiuso. Invece la Terra, in quanto coprente e custodente, tende ad assorbire e a risolvere in sé il Mondo” (59, 37-38).
Il conflitto non è da intendersi nel senso che uno dei due termini tenda a eliminare l’altro, perché in questo caso si smarrirebbe la composizione simbolica (sum - bdllein) per quella lacerazione che, etimologicamente, dovrebbe dirsi diabolica (dia-bdllein). Il conflitto è da intendersi nel senso che ognuno dei due termini richiama l’altro come proprio opposto e ad un tempo come proprio fondo. Questo fondo non ha nulla a che fare con
i fondamenti della ragione (Grund) che tutto spiegano e motivano, ma con quel fondo abissale (Ab-grund) a partire dal quale solamente possono ancora accadere eventi e novità. Là infatti dove ogni nascondimento è dissolto perché tutto è dispiegato, l’uomo è alla fine, e con lui la sua storia che di ogni Ab-grund ha fatto un Grund, di ogni fondo nascosto un fondamento esplicativo.
In questo senso, i modi del lavoro esegetico heideggeriano sono sì “dispersivi”, ma non per la mancanza d’un principio d’ordine, ma perché proprio da questo principio ci si vuole difendere, essendo la ricerca di un principio d’ordine ciò che l’Occidente ha sempre fatto, concludendo se stesso in un avvenire che non conosce altre novità se non quelle rigorosamente previste e predisposte dai calcoli della sua ragione.
Abbandonato il Grund, il fondamento della ragione, l’itinerario ermeneutico approda al Boden, al terreno che dà ospitalità a tutte le interpretazioni, mentre l’itinerario simbolico dischiuso dall’anima approda alì‘Ab-grund, all’abisso che è “una regione totalmente diversa”. La prima ci inserisce nell’apertura del mondo e ottiene il suo significare sulla base dei rimandi che rinviano ad altre parole già disposte nell’apertura del mondo dischiuso dal linguaggio, la seconda, invece, come espressione del conflitto nel suo prodursi, non si colloca in un’apertura già raggiunta e pacificata, ma la istituisce, dischiudendo un mondo di significati che emergono da un fondo che non si lascia mettere del tutto in luce, e che quindi è il fondo di quella terra di cui il simbolo è la prima parola.
F. La nostalgia - Se l’itinerario dell’anima è in grado di farci compiere quel passo indietro che ci fa incontrare cose e parole al loro Oriente, allora comprendiamo anche il senso della nostalgia heideggeriana che non è rimpianto di un essere che un tempo, all’alba dell’Occidente, s’è rivelato e oggi, a tramonto inoltrato, più non si rivela, ma è “intimo raccoglimento”. Nóstos in greco è “il ritorno a casa”, il ritorno in patria. Omero parla di nóstos Achaidos, ritorno in Àcaia, mentre Euripide parla di nóstos pròs tlion, ritorno da Ilio. La nostalgia è il dolore (àlgos) che accompagna questo ritorno {nóstos). In Zur Seinsfrage Heidegger dice che “la parola greca che sta per dolore, cioè àlgos, c’è da presumere che sia imparentata con alégo che, come intensivo di légo, significa ‘intimo raccoglimento’ ” (62, 232).
Luogo di questo raccoglimento è la memoria: “Inizialmente — scrive Heidegger — memoria (Andenken) significa anima (Gemiit) e il raccolto rimaner presso (An-dacht). Ma queste parole parlano qui nel modo più ampio e più essenziale. Anima non indica solo, per parlare in termini moderni, l’aspetto emotivo della coscienza umana, ma ciò che fa dell’essenza umana quell’essenza che è” (60, 95). Così precisata la nozione di anima, e opportunamente distinta da quell‘“accezione biologica che riguarda la vita animale e vegetale, subordinata al carattere razionale dell’uomo, quel carattere che determina la sua vita spirituale” (ibidem), Heidegger prosegue dicendo che questa parola “può essere tradotta in tedesco anche con Seele” (ibidem, 96) e, quasi traducendo alla lettera l’immagine gnostica della “scintilla divina”, conclude che “nel senso in cui noi la intendiamo, Seele non indica il principio della vita, ma ciò che fa l’essenza dello spirito, lo spirito dello spirito, la scintilla dell’anima (Seelenfùnklein)” (ibidem).
Così intesa, l’anima è ciò “che rende visibile il fondo su cui poggia l’essenza della memoria” e “la memoria, nel senso dell’anima e del cuore, appartiene alla dotazione essenziale dell’uomo” (ibidem). Ma, “il raccoglimento del pensiero che si rivolge (an-denkt) non si fonda su una capacità dell’uomo, magari sul ricordare (erinnem) o il ritenere (behalten). Ogni pensiero che si rivolge a ciò che è memorabile abita già esso stesso in quel raccoglimento grazie al quale tutto ciò che resta da pensare è protetto e nascosto” (ibidem, 97).
Queste parole non hanno un andamento tranquillo, non diffondono quiete. Il congedo dal modo “abituale” di vivere e di pensare è preoccupante, anzi, dice Heidegger, è la cosa più preoccupante (das Bedenklichste): “Di qualcosa che ci dà da pensare diciamo che è preoccupante (ein Bedenkliches). Ma ciò che non ci preoccupa soltanto occasionalmente o in un caso ogni volta determinato, ciò che piuttosto ci dà da pensare per sua natura, e quindi da sempre e senza interruzione, è preoccupante in maniera particolare. Di esso diciamo che è il più preoccupante (das Bedenklichste)” (ibidem, 88).
Lo spazio simbolico, infatti, comporta la messa in crisi e la distruzione dei rapporti che prima erano consueti e familiari e che, dopo la sua apparizione, diventano inquietanti e non più sicuri. Rinviando infatti a quel fondo nascosto (Ab-grund) che l’ha generato, il simbolo si sottrae al rinvio “abituale” del linguaggio, che non sporge oltre il circuito di sensi e di significati da esso istituito, per porre “fuori strada” (Ausweg), su sentieri desueti e disertati dal linguaggio “abituale”.
Affondando neirabisso e dairabisso emergendo, lo spazio simbolico espone l’abisso senza dissolverlo nel dispiegamento. Il luogo di questa esposizione è un “nuovo linguaggio”, dove la novità consiste nel fatto che, mentre il linguaggio “abituale” espone il senso delle cose in un’apertura già dischiusa, il linguaggio simbolico non espone nell’apertura, ma apre l’apertura, non fonda ma ritorna a quel fondo da cui nasce; quando nomina nuovi sensi, in realtà risponde al loro appello. Heidegger chiama questo appello Ereignis che noi possiamo tradurre con E-vento nell’intento di designare il luogo proprio (eignen) da cui qualcosa viene. Muoversi in questo luogo significa sì ricondurre le espressioni a ciò che significano, ma nel senso di portarle all’altezza dell’Evento che le dischiude, e non nel senso di farle ricadere indietro, al livello dei dati razionali che le precedono.
Qui cade la barra tra il modo di procedere del pensiero razionale e il modo di procedere dell’anima che interpretazione della parola preferisce Yesodo dalla parola, da una parola che si sa decaduta, puro avanzo retorico, parola perduta per l’Evento. L’E-vento, infatti, viene da un certo luogo silenzioso che sta al di qua della parola e delle sue possibili interpretazioni. L’incamminarsi verso questo luogo è un tenersi in cammino, Unterwegs dice Heidegger, perché il luogo è nascosto e la sua dimora abissale. Come la quiete che non distrugge se stessa nel clamore delle parole, come il silenzio che non si concede all’esplicitazione totale, così YEreignis si sottrae a ogni interpretazione che pretenda di esaurirlo.
“Ciò che a noi si sottrae — scrive Heidegger — ci porta per questo stesso fatto con sé, sia che in generale ce ne accorgiamo, sia che non ce ne accorgiamo (…). In marcia verso ciò che si sottrae, l’uomo indica il sottrarsi; in questa indicazione l’uomo è uomo” (ibidem, 42-43). La sua essenza non è da cercare tra i suoi pensieri e neppure tra le sue passioni; la definizione che lo vuole “animale ragionevole” appare qui come una maschera da lasciar cadere per quell’essenza più profonda che fa deU’uomo il segno (Zeichen) di un senso che sempre si sottrae. La dimensione simbolica trova in Heidegger la sua vertigine.