II. Il sapere e le opinioni

È proprio deiranima un lògos che accresce se stesso.

ERACLITO, DK., fr. 115.

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1. Dalla terra al cielo

Noi non siamo come le piante, perché la nostra patria è il cielo, dove fu la prima origine dell’anima e dove Dio, tenendo sospesa la nostra testa, ossia la nostra radice, tiene sospeso l’intero nostro corpo che perciò è eretto.

Platone, Timeo, 90a-b.

Con questa immagine Platone sorprende il Greco del IV secolo, sconvolge la visione che prima si aveva della vita e dischiude quel nuovo schema di civiltà che andrà conquistando per intero la cultura dellOccidente, dove l’uomo, anche se sembra occuparsi solo della terra e del suo dominio, in realtà lo può fare solo perché la sua testa è sospesa nel cielo, prima origine deU’anima e sua radice. Ma che significano in questo contesto terra e cielo, Dio, anima e radice?

1. Gea e Urano

Le rappresentazioni dell’età della pietra ci offrono un’immagine di divinità che archeologi, etnologi e storici della religione convengono nel chiamare Grande Madre. Nell’area mediterranea ne sono state reperite cinquantacinque contro le cinque maschili, atipiche e mal fatte, che rappresentano giovanetti in tenera età. Ciò lascia supporre che la divinità maschile subentri solo in un secondo momento e che il rango della divinità-figlio sia stato conferito solo successivamente alla divinità-madre.

Le figure della Grande Madre pongono in evidenza il simbolismo del vaso pieno nell’accentuazione delle zone centrali del corpo femminile: mammelle e ventre che spesso fanno un grappolo unico. La testa, priva di viso, è inclinata verso il centro del corpo, il femore e le cosce gigantesche terminano in gambe sottili, mentre i piedi, esili, sono del tutto incapaci di reggere questo enorme corpo-vaso. Anche le braccia, che con i piedi sono gli elementi attivi detrazione e del movimento, sono appena accennate.

La mancanza di agilità e di forma fanno assumere alla Gran· de Madre una postura sedentaria in stretta aderenza alla terra in cui spesso è incorporata. Anche quando sta in piedi, il suo centro di gravità la spinge verso il basso, verso la terra che, nella sua immobilità, è la sede del genere umano. Seduta, poi, la Grande Madre è la dea troneggiante, quindi la forma originaria del trono stesso. Non a caso il nome della maggiore dea-madre dei culti primordiali è Iside, cioè il seggio, il trono che la dea reca in testa; e il re che prende possesso della terra, ossia della dea madre, lo fa sedendosi letteralmente nel suo grembo.

Oltre al simbolismo del vaso, che come il grembo materno contiene l’oscurità primitiva, il cielo notturno generatore, la forza ctonia della terra capace di dare alla luce, la Grande Madre viene rappresentata anche come albero della vita che, saldamente piantato con le sue radici nella terra che lo nutre, si innalza verso l’alto e, con i suoi rami e le sue foglie, genera quell’ombra protettiva dove la materia vivente trova il suo rifugio. Non a caso la parola madera (legno) ha parentele con “madre”, “materia”, a cui pure si connette il greco madarós (umido, inzuppato) e il latino madidus (madido, bagnato).

Al carattere materno dell’albero appartiene non solo il nutrire, ma anche il generare, e come la madre-vaso diventa, col suo grembo, trono del figlio, così la madre-albero diventa in Cina “l’albero dell’anno”, sotto i cui rami si raccolgono gli animali delle dodici costellazioni che presiedono alla nascita di tutte le cose, in Egitto il pilastro Ded che, conficcato nel monte, è “il legno della vita da cui nascono gli dei”, fino alla più recente simbologia giudaico-cristiana dove il figlio della Vergine nasce nella mangiatoia di legno e muore sulla croce “albero della vita e della morte”. La materia lignea, infatti, oltre che madre della vita è anche madre della morte, è il sarcofago divoratore di carne, la cassa che racchiude, nella forma dell’albero-pilastro, Osiride nel suo legno.

Dallo sfondo della terra-madre, di cui la simbologia del vaso e dell’albero sono solo due esempi dei molti che se ne potrebbero raccogliere, l’umanità si separò per volgere il proprio sguardo verso il cielo. Quando Platone dice: “Noi non siamo come le piante della terra, perché la nostra patria è il cielo” non fa che registrare questa modificazione avvenuta, questo passaggio dalla terra-madre e dai culti delle divinità ctonie al cielo-padre di divinità uraniche.

Il passaggio fu lento e, nelle sue prime espressioni, incerto. Esiodo, ad esempio, ci descrive Ouranós (il cielo) come quella divinità che “avida d’amore, recando con sé la notte, avvolge la terra” (Teogonia, 176-177), ma non ci nasconde che la sua fecondità è pericolosa; i suoi figli, infatti, sono mostri dalla statura smisurata e dalla proliferazione incontrollata di braccia, teste e occhi, e poiché “li odiava dal primo giorno”, li nascose entro il corpo di Géa (la terra) che soffriva e gemeva. Il cielo ha fatto la sua comparsa, ma è ancora dipendente dalla terra per la sua “avidità di amare” e per la sua “necessità di nascondere”. Generazione e morte, nascita e sepoltura, questi estremi del ciclo tellurico, appaiono ancora come i limiti invalicabili detrazione celeste.

Ouranós scomparve dal culto prima dei tempi storici e fu sostituito da Zeus che rivela nel suo stesso nome l’essenza celeste. La traccia etimologica ci riporta alla radice indoeuropea deiwos (cielo) presente nei termini che indicano il dio. Da Dyaus, il dio indoeuropeo del cielo che nei Veda compare con l’attributo di “cielo-padre” (Dyauspiter) (Veda, VI, 1, 32, 4), deriva lo Zeus greco e lo Juppiter latino. Il senso della parola è da rintracciare nello “splendore del giorno” contrapposto al-1’ “oscurità della notte” di cui si alimentano le immagini ctonie della Grande-Madre-Terra. In sanscrito, infatti, deva significa “splendore” e così anche l’iraniano div, il lituano diewas, l’antico germanico tivar, mentre i Cretesi chiamavano il giorno dia affine tanto a dios che al latino dies.

Il cielo è una regione superiore inaccessibile all’uomo; la dimensione deìYaltezza, per cui 1’ “Altissimo” sarà uno degli attributi divini, genera neirimmaginazione primitiva esseri sovrumani, cioè al di là dell’umano, quindi trascendenti. Il passaggio dalla religione ctonia alla religione uranica comporta da parte dell’uomo una ridefìnizione di sé, ima reinterpretazione della propria posizione nell’universo, del proprio compito e del proprio senso. Altro è infatti interpretare l’uomo all’interno delle categorie della terra che la mitologia della Grande Madre indica nella nascita e nella morte, altro è interpretarlo con le categorie del cielo che il dio-splendore-giomo descrive come luce e altezza, e quindi come visione e trascendenza.

Questo significa collocare altrove le radici dell’uomo, non più nella terra “come le piante” ma, come ci ricorda Platone, nel cielo “nostra patria, dove fu l’origine prima dell’anima e dove Dio tiene sospesa la nostra testa”. Qui è la dimora delle idee che, prima, di essere pensieri, sono visioni rese possibili dalla luce diurna del cielo. La radice id su cui è costruita la parola idèa è infatti la stessa che rintracciamo nel verbo vedere e nel suo antecedente latino: video, e greco: orào, ópsomai, eidon. L’altezza del cielo porta in alto lo sguardo, al di sopra delle cose che popolano la terra, al di là. La parola trascendenza dice appunto questo sguardo che va al di là, che oltrepassa l’impronta della terra, ossia lo spessore di materia che dà corpo alle cose, per coglierne l’essenza pura non costretta dai limiti della materia. Non dunque questo terreno più o meno triangolare, questa casa più o meno quadrata, ma il triangolo e il quadrato in se stessi, forme pure, di cui il terreno triangolare e la casa quadrata sono solo delle copie.

“Tenendo sospesa la nostra testa, ossia la nostra radice, Dio tiene sospeso l’intero nostro corpo che perciò è eretto.” Così conclude Platone nel brano che abbiamo riportato in epigrafe. A differenza di tutti gli animali, infatti, l’uomo è eretto, e per effetto di questa sua posizione corporea, ha innanzi a sé un orizzonte, o se preferiamo, un panorama, dove nella parola è la traccia di quel “vedere”, in greco orào, senza di cui non c’è visione o idea alcuna. La posizione eretta fa dell’uomo un destinato a vedere, non solo le cose della terra che vedono anche gli animali, ma l’essenza delle cose, depurate dalla materia terrena, che Platone chiama idee e colloca sopra il cielo (yper-oura-nós), dov’è la nostra origine prima, la nostra radice.

Dalla terra al cielo è dunque l’itinerario compiuto dall’uomo nel suo lento passare dalla visione sensibile delle cose, cariche di materia, a quella intelligibile della loro essenza depurata dalla materia. Il mito racconta le cose come sono veramente andate: il lento passaggio dai culti della Grande Madre ai culti degli Dèi uranici; la filosofìa coglie il senso di questo passaggio che è nella natura delVuomo originariamente aperta alla visione.

In questa apertura originaria ci sono gli uomini che si fermano alle apparenze sensibili delle cose, alla loro sembianza (dóxa) e ci sono quelli che invece approdano alla natura intelligibile delle cose, alla loro verità (alétheia). Platone chiama i primi filódoxoi e i secondi filosofi. Sia gli uni che gli altri hanno riconosciuto la loro radice nel cielo e, abbandonata l’oscurità della terra, si sono lasciati ospitare nel mondo uranico della luce, ma mentre i filodoxoi si trattengono nell’apparenza che è il primo dono della luce, i filosofi oltrepassano questa incerta sembianza (l’apparenza inganna), per giungere a quel sapere che niente può far oscillare (epistéme).

2. Caos e Cosmo

Prima di inoltrarci nella distinzione tra dóxa ed epistéme, due concetti base da cui prende avvio l’articolazione vera e propria della filosofìa, è opportuno esplorare quel terreno mitologico in cui sono gli antecedenti simbolici dei modelli concettuali greci. Quando si parla di mito greco si parla soprattutto di Esiodo che, nella Teogonia, ci narra l’origine degli dèi e le successive divine generazioni. A partire dal verso 116 leggiamo: “All’inizio, per prima, fu il Chàos; in seguito quindi la Terra dal largo petto, dimora sicura per sempre di tutti gli immortali, che abitano le cime del nevoso Olimpo, ed il Tartaro tenebroso nei recessi della Terra dalle larghe vie; quindi venne Èros (Amore), il più bello fra gli dèi immortali, colui che scioglie le membra, che di tutti gli dèi e di tutti gli uomini doma nel petto ogni volontà e ogni accorto consiglio” (Teogonia, 116-122).

Nella lingua greca matura, quella ad esempio di Platone e di Aristotele, chàos significa “mescolanza”, “magma”, “disordine”, ad essa si contrappone la parola cosmo con cui si intende ciò che ha ordine, ciò che è uscito dal disordine del chàos. Questo impiego delle due parole lo troviamo, ad esempio, in un passo celebre del Timeo (30 a) dove Platone dice che “[‘Artefice persuase la Terra-madre, senza posa, in disordinato e confuso movimento travolta, a passare dal chàos al cósmos, ritenendo tale condizione in ogni senso superiore alla prima”. Qui Platone ribadisce rimpianto mitologico che, come abbiamo visto, concepiva la Terra-madre come qualcosa di indipendente dal divino, la cui azione non consiste nella creazione, ma nel portare il tellurico disordinato (chàos) alla situazione di ordine (cósmos).

Eppure queste due parole hanno alla radice un significato più originario, quello per cui è possibile leggere nel mito l’antica traccia di quello che sarà poi lo sguardo filosofico. A questo proposito è utile ricordare che la radice indoeuropea della parola chàos è chat che interviene in vari gruppi di parole quali chàscot chàino che significano “mi apro”, “mi dischiudo”. Questo riferimento alla radice ci consente di pensare che chàos originariamente non significava tanto disordine e mescolanza, quanto quell ‘apertura che Esiodo colloca “all’inizio” e “per prima”, prima della stessa Terra, “nata in seguito”, e prima di tutti gli dèi, dal momento che ogni teogonia e ogni cosmogonia, ogni generazione di dèi, di uomini e di mondi accadono dopo di essa e aU’intemo di essa. Annunciandola “all’inizio” e “per prima”, Esiodo anticipa quella che poi sarà la prima categoria filosofica: la totalità, ovvero la dimensione che non lascia fuori di sé nulla e che perciò include ogni possibile situazione cosmica, umana e divina. Questa dimensione manca a tutta la sapienza orientale, sia indiana, sia cinese, così come manca alla sapienza ebraica che fa incominciare ogni cosa da Dio.

Scendendo all’etimo più originario della parola chàos si opera una ripercussione su quel termine corrispettivo dato dalla parola cósmos che l’uso linguistico ha sempre impiegato come contrappunto del chàos. Anche qui ci troviamo di fronte ad un’alterazione del significato originario del termine, parallela all’alterazione operata per la parola chàos. Tradotto come solitamente lo si traduce, cósmos significa “ordine”, e precisamente quell’ordine che si realizza nel mondo fìsico, per cui si parla di ordine cosmico contrapponendolo, ad esempio, a quello spirituale

o divino. Ed è proprio assumendo il termine in questa accezione che Aristotele dice che i primi filosofi, proprio perché si interessavano del cósmos, erano dei fisici (Metafisica, I, 987 b, 7-8).

In realtà la parola cosmo si rifà a quella radice indoeuropea kens che si ritrova anche nel latino censeo che, nel suo significato più pregnante, significa: annuncio con autorità, decreto. Un passo di Tito Livio ad esempio dice: “Bellum Samnitibus et patres censuerunt et populus iussit (I senatori annunciarono con autorità la guerra contro i Sanniti e il popolo approvò il decreto)” (Ad urbe condita, X, 12-13). Cosmo è dunque quella parola che si impone e, imponendosi, non può essere smentita. Nel suo più antico significato cosmo non è quindi l’ordine o il mondo, da cui la parola moderna “cosmologia”, ma è ciò che si impone sopra tutto, anche sopra le parole degli uomini, per cui Eraclito potrà dire: “Non ascoltando me, ma il lògos, è saggio riconoscere che tutto è uno” (DK., fr. 50).

Ma che cosa si impone nell’apertura dischiusa dal chàos? Il mito ci ha portato dalle tenebre oscure della Terra-madre alla luce diffusa dalla volta celeste, poi, retrocedendo da queste due figure, comuni tanto al mondo greco quanto al mondo orientale, ha detto chàos: apertura originaria e totale al cui interno si impone una parola. Questa retrocessione ad una figura più originaria del cielo e della terra, sconosciuta al mondo orientale, è esclusivamente greca, e da essa prende avvio quell’episodio, ignoto allOriente, che da oltre due millenni andiamo chiamando filosofia.

3. Mito e lògos

La parola fìlosofia significa letteralmente aver cura (philo) del sapere (sophia). Se si accetta l’ipotesi che in sophia si riflette, come nell’aggettivo saphés che significa “chiaro”, “manifesto”, “evidente”, il senso di phàos, la “luce”, allora “filosofia” significa: “aver cura per ciò che si manifesta nella luce”. La correlazione tra illuminazione e sapere è anche il cardine della sapienza orientale, ma il greco, rispetto all’orientale, fa un passo in più, un passo che sarà decisivo per la storia della filosofìa. A differenza dell’orientale, infatti, che descrive quanto sta nella luce nelle modalità in cui l’illuminazione interiore glielo manifesta, il greco lo descrive nelle modalità in cui si dà. Questa differenza è la stessa che corre tra mito e lògos, una coppia di termini la cui sorte è solidale a quella appena considerata tra chàos e cósmos.

In Omero, la parola mito significa in alcuni casi “parola”, “notizia”, “novella”: “Dammi notizia (mythos) del figlio” implora Achille nell’Ade (Odissea, XI, 492); in altri significa addirittura la cosa stessa: “Rimetti la cosa (mythos) agli dèi”. In questo secondo caso troviamo la parola nel\ Elettra di Euripide: “Conoscerai la cosa (mythos) com’è”. Successivamente, proprio per la comparsa di un altro tipo di racconto o discorso chiamato lògos, le narrazioni mitiche, fino allora accolte con la stessa serietà con cui più tardi lo saranno quelle filosofiche, assumono il carattere fabulatorio di “leggenda”, “favola”, “fola”, “mito” come appunto noi ancora oggi lo impieghiamo. Valga per tutte l’icastica espressione di Platone nel Sofista (242 c) quando, a proposito del sapere dell’essere, dice che non è il caso di “raccontar favole (mythoi)”.

Il mito ha in comune col lògos l’intento di conoscere e spiegare il mondo, per cui il passaggio dall’uno all’altro non è un passaggio dalla favola alla verità, ma tra due diversi modi di perseguire quell’intento. Per il mito non c’è realtà che non si risolva nel mondo interiore soggettivo, ampliato e proiettato verso l’esterno, così come non c’è un mondo interiore, come realtà psichica del soggetto, che non sia proiettato e reificato in forme di potenze divine. La narrazione mitica vive quindi la soggettivazione della realtà esterna e l’oggettivazione del mondo interiore. Per effetto di questa saldatura, per il mito non c’è mondo che non si risolva nella visione collettiva del mondo, per cui in ogni mito è possibile leggere una determinata fase di sviluppo della coscienza sociale collettiva. In questo contesto acquista tutto il suo rilievo l’espressione, già riportata, di Eraclito: “Non ascoltando me, ma il lògos…” L’esclusione della soggettività e della manipolazione dell’interprete segna il passaggio dal mito al logos, dalla descrizione delle cose per come sono vissute da chi le narra alla loro descrizione per come si danno.

Il senso della parola lògos è illuminato dall’uso greco del verbo léghein che significa “stendere” e insieme “raccogliere”. Tale senso si ripropone nelle parole tedesche legen, leseti, spesso collegate con preposizioni, donde: dhrenlesen, traubenlesen che significano “mietere”, “vendemmiare”, dove l’azione di raccogliere il frumento o l’uva non ha altro senso che quello di stendere il raccolto in ordine e tenerlo insieme. Il logos è dunque quella raccolta originaria dove le cose giacciono nella loro esposizione e, così esposte, si offrono alla presenza.

Questo significato originario del lògos consente di accedere al senso derivato di léghein come dire, dove a “dire” non è l’uomo, ma le cose stesse che, nella loro esposizione, si dicono come si offrono. Nel raccoglimento del lògos, l’uomo, con la sua parola, dice (léghei) come le cose nella loro esposizione si danno. Mentre nel mito le cose sono usate per dire il vissuto dell’uomo, nel lògos le cose sono lasciate essere così come sono, senza alcuna manipolazione (poiéin).

La parola poiéin in greco significa “produrre”. Da poiéin deriva la parola poiesis da cui la nostra poesia. La poesia, di cui si alimenta il mito, è una produzione di significati che non lascia parlare le cose come sono, ma impone alle cose il parlare dell’uomo. Questa imposizione non è l’imporsi delle cose, ma ciò che l’uomo impone alle cose, è la violenza poetica sul contenuto quale si dà. La filosofia è il tentativo riuscito di liberarsi da questa imposizione, affinché nel chàos si imponga il cosmo, qui inteso come ciò che ha la forza di imporsi. La parola greca che nomina l’imporsi di ciò che ha la forza di farlo, senza ricorrere alla manipolazione poetica, è: epistéme.

4. Dóxa ed epistéme

Epistéme è una parola che viene resa in latino con scientia e in italiano con “scienza”. Ma così tradotta la parola perde il suo significato originario che è poi lo stesso di quello indicato dalla parola cosmo. Epi-stéme, infatti è composta dal verbo (sterni che vuol dire “sto”, e da epi che vuol dire “sopra”. Epistéme vuol dire allora “ciò che sta sopra”, ciò che si impone da sé e che quindi non ha bisogno di appoggiarsi all’autorità di chi parla come accade nel linguaggio mitico-religioso, né alla forza persuasiva del dire retorico che, con la seduzione, riscuote consensi.

Emancipandosi dal discorso mitico, religioso e retorico, la filosofia, inaugurandosi come epistéme, si offre come quel dire che poggia esclusivamente su di sé. Cósmos, lògos, epistéme appaiono a questo punto come sinonimi che dicono l’imporsi di ciò che si mostra così come si mostra, e la filosofìa, come cura di ciò che nella luce si mostra, è cura della verità. La parola “verità” in greco è resa da alétheia, una parola composta da un a privativo e dal verbo lanthdno che significa “restare nascosto”, da cui anche in italiano “latente”, “latitante”. Alétheia vuol dire allora il non-nascosto, quindi ciò che si mostra e, proprio perché si mostra, si impone.

Ma a mostrarsi non è solo la verità, è anche l’apparenza (dóxa). La parola deriva dal verbo dokéo che significa “sembrare”, e anche la sembianza è qualcosa che appare, che si espone, che si offre alla vista, che si dà. La filosofìa greca nasce separando la verità dalla sembianza; nell’apertura dischiusa dalla luce, la prima operazione filosofica è in questa separazione tra le varie forme dell’apparire; ma qual è il criterio? In che modo è possibile discernere?

Originariamente dóxa significava “gloria”, “fama”, “splendore” e si riferiva airammirazione che l’eroe o il sapiente acquistavano mettendosi in luce. Così Isocrate parla di Filippo che dalle sue imprese si attendeva “grandissima e bellissima fama (meghistén kai kallisten dóxan)” (Filippo, 134). Siccome la fama dipende dall’opinione che altri si fanno di qualcuno per come appare, dóxa finì per significare tanto Yapparenza quanto Yopinione che quell’apparenza generava.

Ma l’opinione, pur fondandosi sull’apparire, è mutevole; trattandosi di una congettura può essere tanto vera quanto falsa. Al pari della verità si impone, ma il suo imporsi può esser tolto via, come neìYEdipo re di Sofocle, dove Edipo, che all’inizio è il salvatore della città nel pieno splendore della sua gloria (dóxa) e della benevolenza accordata dagli dèi, poi viene allontanato da questa apparenza (dóxa) dalla verità (dal non restar più nascosto, a-létheia) del suo essere uccisore del padre e profanatore della madre.

L’apparenza inganna non perché è qualcosa che appare, ma perché pretende col suo apparire di precludere ogni altro apparire e, con questa preclusione, di imporre se stessa come unica verità. E come il mito differisce dal lògos non per il contenuto, ma per la manipolazione poetica con cui espone ciò che si manifesta, così la dóxa differisce dalla verità non perché manifesta qualcosa, ma perché alla base di questa manifestazione c’è solo l’opinione che uno s’è fatto sulle cose, in nulla dissimile dall’opinione che, nel contesto mitico, il poeta si fa del mondo.

La dóxa, allora, non è quel sapere che sta in sé (epistéme), che ha in sé il proprio fondamento, perché si fonda sull’opinione (dóxa) che uno privatamente s’è fatto delle cose. In questo senso Eraclito potrà dire: “Le opinioni umane sono giochi da ragazzi” (DK., fr. 70) e può paragonare coloro che si fondano su opinioni private ai sordi “che non sanno né parlare, né ascoltare” (DK., fr. 19) o ai dormienti, perché mentre “i desti hanno un unico mondo comune, nel sonno ognuno si apparta in un mondo privato” (DK., fr. 89).

La stessa metafora la ritroviamo in Platone là dove distingue i filosofi “amanti del farsi spettacolo della verità” dai filódoxoi “amanti degli spettacoli”. Dei primi dice che “sono in condizione di veglia”, dei secondi che “vivono come in un sogno”; di qui la conclusione: “Se qualcosa essi conoscono, non ne avremo certo invidia” (Repubblica, 476 e).

5. Unità e totalità

Dalla terra al cielo, dall’oscurità della Grande Madre alla luce delle divinità uraniche è il passaggio che l’umanità ha compiuto nel corso della sua evoluzione, sia in Oriente, sia in Occidente. Ma è solo greco e non orientale quello sguardo che non si arresta al cielo, ma, al di là del cielo (yper-ouranós), scorge quella dimensione che accoglie tutte le vicende umane e divine. Questa dimensione, il mito greco la chiama chdos (apertura), e nell’apertura del chàos la filosofia, che dal mito si emancipa, testimonia l’imporsi di quell’ordine (cosmo) che tutto raccoglie (lògos) fondandosi su di sé (epistéme) e manifestandosi (alétheia).

Questo sguardo onnicomprensivo che non lascia nulla fuori di sé, si rivolge alla totalità delle cose per scorgervi Yunità che le accomuna. Per questo si dice che Talete è il primo filosofo, la sua domanda “qual è il principio di tutte le cose?” inaugura la filosofia al di là del mito, della religione, della poesia, delle opinioni dei mortali.

La parola totalità, nel dispiegare l’orizzonte della filosofia come massimo orizzonte, genera quelle parole essere e niente da cui ogni discorso propriamente filosofico non può prescindere. Rivolgersi alla totalità, infatti, significa percorrere l’estremo confine al di là del quale non esiste niente e assistere al raccogliersi di tutte le cose, le più diverse e le più antitetiche, in quella suprema unità che è Yessere, perché, per differenti che siano, tutte le cose sono.

A questo punto la filosofia può guardare al mito come a una non-verità, non solo per la manipolazione che la violenza poetica opera su tutte le cose non lasciandole così come si danno, ma perché il mito non è stato in grado di elevare il suo sguardo sulla totalità e quindi di escludere che, oltre l’immensità del chàos, si estendano altri universi imprevisti e imprevedibili.

Lo sguardo filosofico sulla totalità delle cose è quindi ad un tempo uno sguardo escludente, ed escludente sarà anche il discorso che si deve tenere all’intemo di quello sguardo. Ciò significa che la verità filosofica non avrà la struttura della descrizione come nella narrazione mitica, ma quella della negazione, cioè dovrà essere capace di escludere tutto ciò che non afferma. Questa capacità di esclusione si chiamerà fondamento, e fondati saranno i discorsi filosofici che non si limitano ad affermare qualcosa come fa il mito, ma sono in grado di mostrare la necessità di quell’affermazione, ossia Yimpossibilità del contrario. Il sapere che ne scaturirà sarà detto incontrovertibile, tale cioè che nessun dio e nessun uomo, per quanto grande sia la loro potenza

o il numero dei loro argomenti, potrà mai togliere.

Il costituirsi di questo sapere separa nettamente la filosofia greca dalia sapienza orientale, dove in gioco non è la costituzione di un sapere incontrovertibile, ma la liberazione delVuomo dall’illusione del mondo. Per quante assonanze linguistiche e concettuali possano rintracciarsi tra le due forme di sapere, la distanza rimane abissale, perché abissale è ciò che separa il problema della salvezza, in cui si trattiene l’antica sapienza orientale, dal problema della verità che la filosofìa greca inaugura.