RINGRAZIAMENTI
Sono grato a Luisa Mariotti Biondetti e a Emilia Vicenzi per il lavoro filologico svolto sul materiale desunto dalla letteratura greca.
Anima: per indicare un sistema di giudizi di valore e di affetti di valore.
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, maggio-luglio 1885, n. 35 (6).
Introduzione
Certamente deve esserci una scienza che si occupi dell’indagine sull’anima; e certo sarà anche una scienza di alto valore, perché la conoscenza dell’anima sembra contribuire a schiudere l’accesso all’intero essere.
Aristotele, Dell’anima, 402 a.
In una civiltà scientifica la parola anima ci riporta agli albori della nostra storia quando religione e filosofia si contendevano il sapere. La psicologia, che sulla nozione di anima ha costruito se stessa, da tempo vuole emanciparsi da questo sfondo per essere accolta nel novero delle scienze ed entrare così a pieno titolo nella “nostra” storia. L’emancipazione avviene per rimozione deirorigine e quindi con la perdita di quella stratificazione di significati che fa deiranima una parola a tal punto equivoca da renderla solidale con i più svariati sistemi di pensiero che a questo punto devono chiarire le loro relazioni e svelare il contenuto semantico che coprono con questa parola.
Ora i problemi non si pongono spontaneamente, per un semplice gioco di idee; la storia delle idee, per quanto accurata sia la sua ricostruzione, non è di per sé un principio di intelligenza. Perché sorgano domande è necessario che le parole svelino il loro equivoco, e questo è possibile solo quando si consuma la rovina di un sistema di pensiero dove la parola è prigioniera. Dalla consumazione riemerge la potenza della parola che, non più controllata dai referenti del sistema in cui si definisce, agisce nel massimo equivoco, finché nuovi modelli concettuali non tornano a catturarla e a ridurla a quel significato univoco intorno a cui si ricostruisce un sapere e si organizza una certa epoca storica.
Il sociale, lo psichico e il mentale, infatti, interferiscono continuamente e l’anima, che gioca il suo equivoco tra le nozioni di “salvezza”, “inconscio” e “verità”, è forse la parola più idonea a mostrare quello spostamento di volumi di senso da cui dipendono le epoche storiche e le produzioni linguistiche. L’indagine non è semplice perché nella storia si è soliti cogliere gli stati, mentre le trasformazioni e i loro meccanismi sono tutti da costruire. Vi sono però dei casi in cui il mutamento accade sotto gli occhi di testimoni, e allora basta guardare per capire.
Sono per noi testimoni Platone e Nietzsche: il primo perché affida airanima il compito di stabilizzare il linguaggio in modo che questo possa prodursi in designazioni non equivoche, il secondo perché smobilita tutte le stabilità, le espone al “vento del disgelo” per liberare tutte le possibilità espressive che la maschera platonica aveva trattenuto. Tra i due l’Occidente e la sua storia di cui Platone è il paradigma e Nietzsche colui che toglie la maschera per restituire la scena a Dioniso e alla sua danza.
Il tentativo non è nuovo. Prima di Nietzsche e dopo Nietzsche, Plotino e la Gnosi, Schopenhauer e il romanticismo, Freud e la psicoanalisi, Husserl e la fenomenologia, Heidegger e l’ermeneutica hanno tentato di liberare l’anima dal giogo dell’idea, ma la loro opposizione al platonismo s’è rivelata di segno uguale e contrario o perché, limitandosi ad opporre alla razionalità dell’anima le figure della follia, non sono usciti dallo schema platonico che si nutre di opposizioni (Plotino, la Gnosi, Schopenhauer e Freud), o perché, uscendo dallo schema platonico, hanno evitato il confronto con la follia che, come ben sapeva Platone, è anch’essa espressione dell’anima (Husserl e Heidegger).
Nel percorrere questi tentativi l’attenzione non sarà rivolta tanto alle scene quanto ai cambiamenti di scena, non alla ricostruzione dei quadri che si danno per noti, ma al loro spezzarsi nei momenti di crisi, quando la nozione di anima si congeda dai referenti che l’hanno definita per liberare ulteriorità di senso e potenza espressiva.
In una storia regolata da scansioni violente, sottomessa all’alternanza del continuo e del discontinuo, la descrizione non può avvenire seguendo la dinamica propria della narrazione progressiva, ma solo per affondi che, spezzando la trama, meglio consentono di evidenziare quei nodi dove lo slittamento di un significato sull’altro lascia scorgere l’insorgenza dell’equivoco e il suo dissolversi. Questo spiega la struttura del libro che, in Storia dell’anima, racconta la sua trama e, nelle parti successive, il gioco degli equivoci, dove per esteso sono dispiegate le scene che la trama racconta.
Storia dell’anima
Posto che l’anima fosse un pensiero attraente e misterioso, da cui i filosofi si sono a ragione separati contro voglia — ciò che essi imparano oggi a barattare con quello è forse ancor più attraente, ancor più misterioso.
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, giugno-luglio 1885, n. 36 (35).
Sub specie aeterni.
A: Ti allontani sempre più dai viventi, presto ti depenneranno dalle loro liste.
B: È Tunico mezzo per partecipare al privilegio dei morti.
A: A quale privilegio?
B: Quello di non più morire.
F. NIETZSCHE, La gaia scienza, n. 262.
Probabilmente l’esperienza della morte ha generato la persuasione che nel tempo e nel mondo visibile non c’è salvezza né verità. L’anima è nata da questa persuasione, perciò è fuga dal tempo e dal mondo verso l’eterno e l’invisibile. Questa tensione oltrepassante che va dall’iper-uranio di Platone al super-uomo di Nietzsche è stata chiamata * trascendenza” di cui quella religiosa è solo una figura. Nel trascendere, nell’andare oltre è rintracciabile l’essenza dell’uomo che non ha mai smesso di inventare eternità e temporalità del tutto diverse da quella scandita dal ciclo della natura abitata dall’animale che non sa della morte e perciò non ha anima.
“Anima” in greco significa vento (ànemos), soffio, respiro (psyché). Per Omero parlare dell’anima significa parlare dell’ultimo respiro, di ciò che resta dell’uomo dopo la morte. La connessione anima-morte è dunque all’origine della riflessione greca che a noi si impone per due motivi tra loro connessi. Innanzitutto perché la nozione di anima, come si è sviluppata in Occidente, sia sul versante religioso sia su quello filosofico e ora su quello psicologico, è nata storicamente dal pensiero greco. In secondo luogo, perché il tipo di ragione elaborato dai greci a partire dal IV secolo è costruito intorno alla figura dell’anima che inaugura con la filosofia quel nuovo modo di pensare in cui sono reperibili gli impianti categoriali della razionalità occidentale, e col filosofo che si “prende cura deU’anima” un nuovo tipo d’uomo diverso daH’indovino, dal poeta, dal vate, dal sacerdote e dal re di giustizia.
Queste figure costellano la preistoria dell’anima. Percorrerla significa rintracciare quei significati prerazionali che oggi la psicologia del profondo riscopre e cerca di comporre in assetto scientifico, ignorando la frattura che separa in modo radicale la preistoria dalla storia deiranima.
Per render conto di questa frattura, prima origine di tutti gli equivoci deiranima, occorre rispondere a una serie di domande che riguardano il significato della parola nella tradizione poetica, l’effetto della sua contaminazione con la tradizione iniziatico-re-ligiosa, il rapporto che può esistere tra certe innovazioni nella pratica sociale e lo sviluppo della riflessione suiranima, Tesarne di quali valori inaugurati dall’anima seguitano a imporsi da un sistema di pensiero all’altro e quali subiscono un mutamento di senso così profondo da rinviare a significati completamente diversi.
La risposta a queste domande è affidata alla successione di quadri di pensiero dove è possibile cogliere l’oscillazione della parola e lo slittamento dei significati che di volta in volta inaugurano nuovi scenari con progressivo accumulo o perdita di senso.
1. La tradizione omerica: l’anima come ombra
Omero ignora l’anima e non conosce il corpo come mero segno fisico di trascendenti significati psichici. I termini psyché e sòma, che a partire dal V secolo significheranno per il Greco e poi per tutto l’Occidente “anima” e “corpo”, sono già presenti in Omero, ma con un significato completamente diverso se non addirittura opposto a quello che ad essi assegnerà la filosofìa di Platone. Omero con la parola sòma indica solamente il corpo esanime, il cadavere, la salma, non il corpo vivente che di volta in volta è espresso dall’aspetto e dalla funzione per cui lo si chiama in causa. A seconda delle circostanze troviamo infatti parole come dèmos per designare la figura del corpo, la sua statura, il suo aspetto, chrós per nominare la pelle che ne delimita la superficie, ma soprattutto guia e mélea, ossia le membra che in Omero non sono cose, organi o strumenti di una soggettività che li trascende, ma possibilità con cui il corpo si esprime nel mondo. Così il piede di Achille non è una cosa, ma la sua possibilità di superare l’avversario, allo stesso modo il suo tallone non è il solido appoggio della gamba, ma la sua possibilità di morte.
La denominazione unitaria di sòma compare in Omero solo a proposito del cadavere, dove l’occhio che non vede, la gamba che non cammina, il cuore che non batte sono semplici oggetti, cose, che non hanno più alcuna parentela con le possibilità del corpo, e perciò possono essere raccolte in un’unica denominazione: sòma.
Questa parola ricorrerà nel linguaggio platonico con lo stesso spessore di significato se è vero che Platone, nel prendere in esame l’ipotesi di alcuni che “il corpo, cioè sòma, chiamano tomba, cioè sèma”, non trova l’accostamento del tutto scorretto perché in fondo “il corpo è pur sempre la tomba dell’anima, il luogo dove per il momento essa è sepolta” (Cratilo, 400 b-c).
Al contrario di Platone, Omero può mantenere la differenza tra corpo e cadavere perché non concepisce l’anima dietro il corpo; per lui l’anima è l’occhio che vede, l’orecchio che sente, il cuore che batte. La parola psyché, quando ricorre, ricorre, come già sòma, solo in riferimento al cadavere o al corpo che sta per diventare cadavere; si dice allora che la psyché abbandona l’uomo quando sviene, quando muore, uscendo con l’ultimo respiro dalla bocca o anche dalle ferite del corpo, per andarsene nell’Ade dove è ospitata come vana ombra, in uno stato di insopportabile malinconia. “Oh no, non consolarmi della morte, / inclito Ulisse. Ché vorrei servire / come bifolco, per mercede, un altro, un pover uomo che scarso avesse il vitto piuttosto che regnar su tutti i morti che la morte consunse” (Odissea, XI, 488-492). Il lamento dell’anima di Achille, che sconsolata se ne va per i prati d’asfodelo, rasserenata appena dalle notizie del figlio “ancora in vita”, dice che per Omero il vero uomo è quello visibile nel suo corpo in contrapposizione alla sua anima che, senza corpo, è solo ombra (eidolon) o mera parvenza, a cui Omero non riconosce altra funzione se non quella di abbandonare il corpo nel momento della morte per esprimersi neU’inconsistenza “dell’ombra a cui manca ogni spirito”, o dello “spettro che svolazza per l’etere simile a un sogno”.
Non diversamente si spiegherebbe la disperazione di Achille per la morte di Patroclo: “Deh sciagurati noi, c’è pur nelle case d’Averno l’alma e l’ombra, dunque: ma in esse ogni spirito manca, perché tutta la notte del misero Patroclo l’alma sopra il mio capo stette piangendo, levando lamenti, simile in tutto a lui d’aspetto; e preghiera mi volse…” (Iliade, XXIII, 103-107), a cui fa eco il dolore di Ulisse che per tre volte tenta di abbracciare la madre “come dentro lo spingeva il core” e per tre volte l’anima “gli svolò” perché “questa è dei mortali, se scendon sotterra, la sorte: / che nervi più non hanno che reggan Tossa e le carni; / ma queste e quelli strugge la furia del fuoco possente rutilo, appena l’alma lasciato ha lo scheletro bianco; e via svolazza per l’etere, simile a sogno” (Odissea, XI, 218-222).
I due passi sono giustamente famosi non perché in essi Omero afferma la sopravvivenza dell’anima, ma perché mostra di accettare l’irreversibilità della morte del corpo. Le anime di Patroclo e della madre di Ulisse, infatti, non vivono se non come proiezioni dei sentimenti dei due eroi, per cui sono più “nella testa” di Achille e “nel cuore” di Ulisse di quanto non siano “nelle case dell’Ade”.
L’anima omerica gode di così scarsa indipendenza dall’elemento corporeo che anche nell’Ade deve bere il sangue per riacquistare la memoria degli eventi terreni: “e il veridico vate / bevuto il negro sangue, così mosse il labbro a parlare” (Odissea, XI, 98-99). La sua funzione è a tal punto connessa alla corporeità che la stessa parola psyché etimologicamente significa M respiro” e psychein “spirare”. Questo respiro è qualcosa di fìsico che, finché l’uomo è in vita, vive con lui, ma senza identificarlo, perché, come giustamente osserva il Pohlenz, “la psyché non coincide neppure con l’io dell’uomo” (723, 16). Ce ne dà conferma il proemio delYIliade (I, 3-4) dove Omero, nel cantare l’ira di Achille, dice che “molte psychai di eroi mandò nell’Ade e loro stessi abbandonò in preda ai cani e agli uccelli”. Qui l’io dell’uomo non è la psyché, ma il corpo, come corporee sono quelle funzioni che un giorno saranno pensate come proprie dell’anima: si tratta del thymós (sentimento) e del rióos (pensiero) che Omero connette al cuore (kardia) e al diaframma (phrénes) per cui Ettore sente katà phréna kaì katà thymón che “verrà il giorno che il sacro iliaco muro / e Priamo e tutta la sua gente cadranno” (Iliade, VI, 448-449).
Come già le membra del corpo, così quelle funzioni che un giorno verranno dette dell’anima non sono unificate dalla mentalità omerica nell’unità del soggetto, ma vivono al plurale, come forze autonome e non di rado in conflitto fra loro. “Ma quai pensieri / mi ragiona la mente” dice ad esempio Ulisse quando si vede abbandonato dai compagni sul campo di battaglia, “ignoro io forse / che nell’armi il vii fugge e resta il prode / a ferir
o a morir morte onorata?” (Iliade, XI, 407-410). Dove si vede che non c’è ancora un soggetto a unificare le funzioni che verranno dette dell’anima, ma un Io che pensa il proprio corpo come autore di tutte quelle manifestazioni che in seguito si chiameranno psyché, thymós e nóos. Lo Snell (135, 30), ad esempio, non ha dubbi nel ritenere che il thymós è organo del sentimento e del-Ye-mozione perché innanzitutto è “organo dei movimenti del corpo” che, in occasione della morte, “abbandona le membra” (Iliade, XIII, 671); e, a sua volta, il nóos è organo dell’intendere perché l’intendere è un vedere, è un riconoscere con gli occhi qualcosa a distanza come quando “Ettore vide (enóese) i cavalli di Midone tra le fila degli Achei” (Iliade, V, 590).
Se ne deduce che psyché, thymós e nóos, che in Platone diverranno “funzioni dell’anima”, in Omero non si distinguono sostanzialmente dalle funzioni del corpo, e questo per la semplice ragione che per l’uomo omerico il corpo non è sentito come strumento esecutore dei dispositivi dell’anima, ma come autore di quei sensi che emergono dalla situazione in cui si trova ad operare. Così, le “mani” di Ulisse che stringono “l’arco e la faretra piena di strali”, prese per sé non significano niente; perché in esse si possa percepire la collera è necessario farsi indicare queste mani da un corpo che “uscito dai suoi cenci balza su l’alto limitare” (Odissea, XXII, 1-3), e il presentarsi di questo corpo da una situazione totale in cui è richiamato il suo passato e il suo futuro. Partendo allora dal corpo in situazione, che è prerogativa del corpo vivo e non del cadavere, le mani di Ulisse che stringono l’arco e la faretra piena di strali sono la sua collera, che è tale non perché esprime un nascosto rancore dell’anima, ma perché si concreta in nuove azioni nel mondo che troveranno il loro senso nella morte di Antinoo e, dopo di lui, di tutti i proci che, a vendetta consumata, non avranno altra relazione col mondo se non quella mediata dalle cure dei parenti che provvidero “ciascuno a dare sepoltura ai cadaveri suoi” (Odissea, XXIV, 417).
Questa antropologia, che concepisce l’uomo come individualità corporea, completamente immerso e circoscritto nella sua storicità, per cui se non si è felici in questa terra si è semplicemente infelici, non ospita alcuna trascendenza e quindi nessuna sovraistanza veritativa. La vita resta regolata dalla saggezza (phrónesis) intesa come armonia, parola greca che sta per misura, ritmo, scansione della forza in condizione di mobile equilibrio. Platone ci informa che la nozione di armonia era tratta dal contesto cosmologico e designava “l’ordine che tiene insieme cielo, terra, uomini, dèi” (Gorgia, 508 a), “la giusta proporzione in cui si mescolano il limite e l’illimitato” (Filebo, 26 b). Da categoria cosmologica Yarmonia divenne una categoria etica su cui misurare la saggezza della vita: infatti solo ciò che è armonico ed equilibrato è vitale, mentre ciò che è cattivo mescolamento degli elementi è alterazione e squilibrio, e quindi morte.
Esemplare è in proposito la figura di Ulisse di cui bisogna ricominciare a rileggere l’*astuzia” (phrónesis) che non è la “furbizia”, ma la capacità di trovare di volta in volta il punto di equilibrio tra le forze contrarie; il suo tempo è il tempo opportuno (kairós), la sua funzione è il rinvenimento del punto di debolezza tra le forze contrastanti, la sua forma è la prudenza necessaria per chi, trovandosi a decidere senza verità, anticipa l’evento senza certezza e produce operazioni che non si lasciano dedurre da principi immutabili.
Questo tipo di “astuzia”, che, lo ripetiamo, non è furbizia ma saggezza, è lo sfondo da cui Platone emanciperà l’anima per produrla come organo di verità. Allora la coppia anima-corpo da dispositivo antropologico diventerà un dispositivo epistemologico, servirà cioè a distinguere la verità (alétheia), di cui si occupano i filosofi che hanno cura dell’anima, dalla saggezza (phró-nesis) dei fìlodoxoi che, incuranti dell’anima, sanno solo districarsi tra le varie e mutevoli opinioni (dóxa) [Cfr. II, 2: Metaxy: segno del mondo e divina follia].
2. L’ispirazione poetica: l’anima come memoria
Il privilegio dei morti, “quello di non più morire”, promuove nella tradizione poetica la nozione di anima come memoria (mnéme) che oltrepassa la caducità del tempo e il suo flusso di distruzione che annienta ogni cosa.
Per cogliere il senso di questa prima configurazione dell’anima occorre andare oltre le spiegazioni che storici e psicologi offrono al limite deirovvio. Gli uni infatti ricordano che una civiltà senza scrittura, fondata esclusivamente su tradizioni orali, doveva tenere in gran conto la memoria, mentre gli altri, assillati come sono dal problema della formazione dell’io, colgono nella memoria, nella progressiva conquista da parte dell’uomo del suo passato individuale e del passato del suo gruppo, la prima forma di identità personale e di appartenenza collettiva. Tutto ciò risponde più alle esigenze che promuovono la ricerca storica e la ricerca psicologica che al modo “greco” di pensare, che nasce non dal desiderio di ricostruire la propria storia o di trovare la propria identità personale e collettiva, ma dall’interrogazione che investe il senso della vita, se al suo termine c’è ad attenderla la morte.
L’interrogazione, promossa da uno sfondo che in seguito riconosceremo come sfondo tragico, dispiega uno scenario di figure di altissimo profilo poetico e poi filosofico quali la verità (alé-theia) e l’oblio (léthe), il perdurare nell’essere o il perdersi nel flusso del divenire, le figure del tempo e il loro infrangersi nell’ordine eterno, le forme di giustizia (dtke) negli accenti di lode (épainos) e di biasimo (mómos), l’efficacia (krainein) della parola nell’ambivalenza della sua veracità e seduzione. Tutto ciò chiede che si oltrepassi la spiegazione che storici e psicologi sono soliti offrire in base agli obiettivi delle loro precostituite ricerche e ci si inoltri nel mondo greco pensando in modo greco, perché la Grecia inaugura quell’origine del senso a cui non si accede con significati derivati, che devono la loro autonomia alla semplice rimozione dell’origine.
Il poeta greco canta per descrivere ciò che è prima del tempo, per strappare delle vite alla dissolvenza del tempo, per riprodurre in terra l’ordine che il tempo non scalfisce. Questi tre canti riguardano rispettivamente gli dei, gli eroi e le regole rituali; la parola poetica li fa essere (krainei) strappandoli ad
Oblio (Léthe), che altrimenti li dissolverebbe. Per questo Memoria è ad un tempo anima dei poeti (Mnéme) e madre delle Muse (Mnemosyne), ispiratrice dei poeti. Il suo compito è di trascendere il tempo e guadagnare l’eterno. Il nesso anima, trascendenza e immutabilità, guadagnata nell’eternità dell’essere dopo aver oltrepassato il divenire e il tempo, trova nel canto poetico la sua prima espressione.
Dea titana, sorella di Krónos e Okeanós, madre delle Muse, il cui coro essa guarda e con le quali talvolta si confonde, Memoria “possiede” i poeti rendendoli “entusiasti”. Questa possessione (katokoché) sottrae il poeta al ritmo della vita quotidiana, alla scansione del tempo lineare, per portarlo in quella condizione di entusiasmo (enthousiasmós) che è tipica di chi ha in sé un dio (én-theos). Nell’entusiasmo, infatti, non parla più il poeta, ma il dio che lo abita: “Deus inclusus corpore iam, non Cassandra loquitur” dice Cicerone nel De Divinatione (I, 67), quasi riprendendo i versi di Euripide: “Quando invero il dio entra possente nel corpo / fa dire il futuro a coloro che infuriano” (Baccanti, 299-300).
Questa condizione di “possessione” e di “entusiasmo”, senza di cui non c’è creazione poetica, è riconosciuta anche da Platone che la annovera tra le forme di divina follia (theia mania). £ una follia che “prende tenere anime immacolate e inaccesse, le desta e le entusiasma in lirico canto e in altre poetiche composizioni; infonde ordine e bellezza ad antiche gesta, le sopravvenienti generazioni educando. Ma chi senza la follia delle Muse si avvicina alla poesia, convinto di diventar poeta per averne acquistato la tecnica (ek téchnes), inutile è a lui la sua arte perché, di fronte alla poesia dei folli (mainoménon), la poesia del saggio (sophronoùntos) ottenebrata scompare” (Fedro, 245 a).
Chi è poeta per “tecnica” e non per “possessione” non dispone infatti di quella visione che i Greci chiamavano epopteia. Questa parola significa letteralmente “guardare al di sopra”, e non “indietro” per ricostruire il proprio passato o per rintracciare la propria identità. Anzi con Yepopteia è proprio l’io del poeta a cedere per lasciare il posto a una visione che è al di là dei propri ricordi e del proprio tempo. Per questo “le Muse incontrato / Tamiri, il tracio vate, sul labbro gli spensero il canto (…) perché vantato s’era che vinta egli avrebbe la gara pur se avesser cantato le Muse, figlie di Zeus. Esse, adirate, cieco lo resero, e il canto divino / tolsero a lui, della cetra scordare gli fecero l’arte” (Iliade, II, 594-600).
Come tutte le imprese che non dipendono unicamente dall’uomo, la creazione poetica contiene qualcosa che, dice Omero, non è stato scelto (éloito) ma concesso (edédoto), dove “concesso” significa “dato dagli dèi”, per cui “non son da gettare gli amabili doni degli dèi / perché sono essi a darli, e nessuno può scegliere questo o quello” (Iliade, III, 65-66). Così fu una Musa che tolse a Demodoco “la vista corporea per conferirgli qualcosa di meglio, il dono del canto / perché lo amava” (Odissea, Vili, 63-64).
Il rapporto col dio esige il sacrifìcio dell’io; la vista superiore, Yepopteia, ha la sua controparte nella cecità per le cose della terra. A questo destino non sfugge neppure il prigioniero del mito platonico della caverna che, al suo rientro, dopo aver visto “il sole che presiede il regno dell’essere, ed è causa anche di tutte le ombre che sullo sfondo i prigionieri vedono” (Repubblica, VII, 516 c), suscita l’ilarità dei suoi compagni di prigionia che, nel rivederlo incerto, dicono fra loro “quell’uomo è andato in alto, ma ora torna con le pupille annientate” (ibidem, 517 a).
Ma che tipo di visione le Muse concedono in cambio della cecità? Omero, che la tradizione vuole cieco, invoca l’aiuto delle Muse per sapere che cosa deve dire, e non come deve dirlo; l’invocazione è per il contenuto, non per la forma. In un passo dell’Iliade la richiesta è che le Muse gli comunichino “per ispirazione” il catalogo delle truppe “giacché voi siete dee, presenti ovunque, e tutto sapete, / mentre noi non udiamo che la fama e niente sappiamo” (Iliade, II, 485-486). Nell ‘Odissea (Vili, 487491) Ulisse dice che Demodoco sa cantare la guerra di Troia “come se vi fosse stato o ne avesse sentito parlare da un testimone oculare”, e perciò conclude che senz’altro “una Musa gliela deve aver insegnata”.
Il poeta dunque è un veggente. Il latino vates conserva traccia di questa originaria unità. Esiodo attribuisce alle Muse (Teogonia, 38) e rivendica a sé (ibidem, 32) la stessa conoscenza delle “cose presenti, future e passate” che Omero attribuisce al veggente Calcante (Iliade, I, 70). Ciechi alla luce, vedono l’invisibile. Il dio che li ispira svela loro quelle parti del tempo che sono inaccessibili ai mortali: ciò che è accaduto una volta e ciò che non è ancora. E mentre l’indovino deve rispondere alle preoccupazioni concernenti il futuro, il poeta si orienta verso quel tempo antico che non è il passato, ma il tempo originario.
Le Muse cantano infatti cominciando “dal principio” (ex ar-chés). Il passato che esse svelano non è l’antecedente del presente, ma la sua fonte. Risalendo fino ad esso, l’anima ispirata del poeta cerca non già di situare gli avvenimenti in una cornice temporale, cosa di cui sono capaci tutti gli uomini, ma di scoprire l’originario, la realtà primordiale da cui è sorto il cosmo e da cui è possibile comprendere il divenire nella sua estensione [Cfr. II, 4, Uanima e le figure del tempo].
Questa genesi del mondo non è iscritta nel tempo lineare dello storico; per ritornare al passato non c’è una cronologia, ma una genealogia. Il tempo è incluso nei rapporti di filiazione, dove ogni generazione ha il suo tempo. Risalendo di tempo in tempo, di generazione in generazione, l’anima del poeta non si stacca solo dal mondo visibile, ma esce dairuniverso umano, che abitualmente abita, per scoprire, degli altri tempi, non gli antecedenti del suo tempo, ma altre regioni dell’essere, altri livelli cosmici. Come parte integrante del cosmo, il passato che l’anima del poeta esplora non è una dimensione del tempo, ma è una geografia del soprannaturale. Il passato è al di là rispetto al mondo dei vivi, è il mondo degli dèi e dei morti a cui ritorna tutto ciò che ha lasciato la luce del sole. A questo mondo l’anima del poeta può accedere, può entrare e ritornare liberamente per dono di Memoria.
Comprendiamo a questo punto perché nel Menone (86 b) Platone dice che la vera conoscenza è reminiscenza, è memoria dell’origine divina. Conservando questa memoria, le anime sanno di non appartenere a questo mondo, e guardano alla loro immortalità (athànatos) come alla loro verità (alétheia). Il legame tra immortalità e verità è da leggere nel senso che il mondo degli dèi, il passato, va nel senso dell’ordine che mette capo alla stabilità, ossia a quello stare che in Platone assumerà la forma del-Vepistéme, mentre il mondo degli uomini, il presente abitato, come dice Esiodo, dalla “quinta generazione, la generazione di ferro” (Opere e giorni, 176), è orientato nella direzione del divenire e tende a tracollare dalla parte della morte, per cui tra presente e passato l’anima poetica non distingue due tempi, ma due mondi: il mondo dell’essere presieduto dalla Verità (Alétheia) e il mondo del divenire divorato da Oblio (Léthe). Consentendo di passare da un mondo all’altro, la memoria poetica si descrive come forma di iniziazione che dal tempo della morte conduce al tempo della non-morte, quindi all’immortalità dell’anima nella “pianura della verità”. Già con la tradizione poetica, quindi prima di Platone, la verità è una liberazione dal tempo.
Questa liberazione è presente in tutti e tre i registri a cui si rivolge il canto poetico: la celebrazione degli dèi, la celebrazione degli eroi e la celebrazione dei riti. Del primo si è detto: gli dèi abitano quel tempo che è il regno deirimmutabile, a cui la memoria del poeta conduce col suo canto che stende Oblio sull’insensato divenire delle vicende umane (Teogonia, 102-103). Tra queste spiccano le vicende degli eroi a cui i poeti accordano o rifiutano Memoria. Siamo al secondo registro poetico che conferisce essere e realtà (kratnei) all’eroe che non ne possiede senza la lode del poeta. “Conosciamo le origini dell’uno e dell’altro — dice Enea ad Achille — sappiamo chi sono i nostri genitori: ci basta ascoltare i racconti famosi dei poeti” (Iliade, XX, 203). E ancora: “Non voglio morire senza lotta, / senza qualche altra impresa la cui memoria pervenga ai posteri” (Iliade, XXII, 304305). Questaxlichiarazione di Ettore trova riscontro nella testimonianza di Apollonio Rodio: un guerriero va alla guerra “per paura che il popolo tratti con disprezzo la sua buona fama” (Argo-nautiche, I, 141, 447).
Ma l’Elogio (Épainos) è contiguo al Biasimo (Mómos) e la parola poetica è un’arma a doppio taglio che si muove tra queste due potenze: in mezzo c#è il poeta, arbitro deìYétymos dell’eroe, del suo “vero significato”. “Respingendo il Biasimo tenebroso — scrive Pindaro — come un’onda benevola / porterò ad un amico la vera Lode della sua gloria” (Nemea, VII, 61-62). Biasimo, con la sua qualifica di tenebroso, è uno dei figli della Notte e, secondo la Teogonia (214), fratello di Oblio (Léthe). Per questo Pindaro, dopo aver detto che Biasimo e Oblio sono connessi, parla del Silenzio (Siopé) come nel peggior Biasimo (Olimpica, II, 105 sgg.). Di nuovo la potenza della morte a cui la lode del poeta può strappare l’eroe, per consegnarlo a Memoria che lo avvolge di vita immortale. “La memoria di un uomo — scrive Bacchilide (X, 9) — è l’eterno monumento delle Muse”.
L’immortalità è raggiunta sottraendo l’eroe a Oblio (Léthe) e consegnandolo a Verità (A-létheia) “che trionfa sulle tenebre notturne” (Bacchilide, XIII, 204) “dando luce a tutte le cose” (Bacchilide, Vili, 4-5). La memoria poetica anticipa così quel “sentiero del giorno” e quel “sentiero della notte” da cui prenderà avvio la filosofia di Parmenide quando, dietro le pesanti porte custodite dalla Giustizia (Dike), il filosofo ottiene la visione diretta della dea che gli accorda la rivelazione di Alétheia, come Memoria l’aveva concessa a Esiodo e ai poeti ispirati.
Anche la relazione tra Giustizia e Verità, che il poema di Parmenide pone in apertura, era già stato preparato dalla memoria poetica. Proprio perché la parola del poeta è efficace (theókran-tos), nel senso che “realizza (kraineiY gli dèi e gli eroi facendoli “essere”, proprio perché è “poetica” nel senso di poiein che significa “produrre”, la parola del poeta deve dire la verità, e ciò è possibile solo “se si conforma a giustizia” (Pindaro, Nemea, III, 29). Per giustizia, dice Pindaro, “il poeta loda anche l’impresa del nemico” (Pitica, IX, 95-96). Dove infatti la parola è efficace nei senso che “fa essere” o “non essere” le cose, non c’è alcuna distanza tra Verità e Giustizia. Così la Memoria poetica prepara gli scenari e le figure da cui i concetti filosofici prenderanno gradatamente il loro avvio.
Ma oltre alla descrizione di ciò che è prima del tempo, oltre alle vite strappate alla dissolvenza del tempo, la memoria del poeta svolge anche la funzione di riprodurre in terra l’ordine che il tempo non scalfisce. Questo ordine è il rito per cui “Uomo divino” è colui che conosce il rituale concatenarsi dei lavori e che “ha memoria” di ogni rito senza commettere nessuna colpa di Oblio. Esiodo, a cui appartiene questa sequenza, chiama esplicitamente Alétheia la rigorosa osservanza delle date dei giorni lavorativi e dei giorni interdetti.
Tra ΓAlétheia rituale e YAlétheia mitologica, tra l’ordine dei lavori e l’ordine degli dèi, che il poeta ispirato ha visto con la sua epoptexa, c’è una stretta relazione. Perché il rito abbia efficacia è necessario che chi vi partecipa condivida lo stesso mito che, attraverso analogie e relazioni, è in grado di saldare l’ordine originario che sta nel cielo con l’ordine della terra. Più il mito è persuasivo nelle identità e connessioni simboliche che produce, più il comportamento è efficace. Il poeta ha il compito di ancorare all’ordine divino, che è stabile e non corroso dal tempo, la regola a cui gli uomini si devono attenere. Le opere e i giorni di Esiodo sono l’esempio più significativo di questa saldatura.
Nella sua imperscrutabilità, infatti, la divinità è quell’ordine che fissa la regola che altrimenti risulterebbe arbitraria. Alla divinità si potrà rinunciare solo quando gli uomini accetteranno di essere gli autori delle regole, ma per questo passaggio sarà necessaria quella maturazione sociologica in grado di sopportare l’assenza di un ordine naturale o divino, e quindi di abitare senza angoscia l’ordine della convenzione. A questo prowederà la filosofia con la conversione deiranima da sede della memoria a produttrice di idee [Cfr., II, 5, Gli strumenti del sapere].
3. Lpiniziazione orfica: Vanima come demone
A Levadia, una cittadina a cinquanta chilometri da Delfi, si mimava nell’antro di Trofonio (colui che nutre) la discesa nell’Ade. Prima di entrare nella bocca che immetteva nel regno dei morti, colui che doveva essere iniziato ai misteri veniva condotto vicino a due sorgenti: Léthe e Mnemosyne, Oblio e Memoria. Bevendo della prima dimenticava tutta la vita umana e, simile a un morto, entrava nel regno della Notte, bevendo alla sorgente di Memoria doveva ricordare tutto ciò che avrebbe visto e udito nell’altro mondo. Al suo ritorno la sua conoscenza non era più limitata al presente, ma era dilatata al passato e al futuro. Sul seggio disposto accanto alla fonte di Memoria, l’iniziato doveva riferire ai sacerdoti, scrivendo le rivelazioni su delle tavolette.
Il rito apparteneva alla religione dei Misteri o religione orfica che gli antichi facevano risalire a Orfeo, il poeta tracio che, rispetto al modello di vita incarnato dagli dèi omerici, avrebbe cantato un tipo d’esistenza percorso dalla lacerazione tra anima e corpo, dove l’anima è un principio divino (daimort) caduto in un corpo a causa di una colpa originaria, e destinato a reincarnarsi in corpi successivi (metempsicosi) finché, attraverso pratiche di purificazione, pone fine al ciclo delle reincarnazioni.
Introducendo un elemento divino e non mortale che proviene dagli dèi, l’orfismo avvia uno schema di civiltà dove i valori del corpo, che Omero aveva cantato, diventano impedimenti da cui occorre liberarsi, perché Tessenza deiruomo è in quel principio divino che realizza veramente se stesso quando il corpo dorme
0 addirittura si appresta a morire, allentando i vincoli che trattengono il demone. A questo proposito vale la testimonianza di Pindaro: “Il corpo di ciascun uomo segue la chiamata della morte possente. / Ma viva ancora rimane un’immagine di vita (aiónos eidolon) perché questa sola / viene dagli dèi. Dorme mentre le membra agiscono, ma quando l’uomo dorme, / spesso mostra nei sogni una decisione di gioia o di avversità futura” (/r. 131 b).
Il passo di Pindaro è confortato da Senofonte: MIo per mio conto, o figlioli, non sono mai riuscito a persuadermi di questo: che l’anima, finché si trova in un corpo mortale, viva; quando se ne è liberata, muoia. Vedo infatti che l’anima rende vivi i corpi mortali per tutto il tempo in cui vi risiede… Osservate poi che nessuno degli stati umani è più vicino alla morte del sonno: e l’anima umana, allora, meglio che mai rivela con chiarezza la sua natura divina, allora prevede il futuro, senza dubbio perché allora è più che mai libera” (Ciropedia, Vili, 7, 21).
Il nuovo schema di credenze inaugura una concezione dualistica dell’uomo che, oltre a contrapporre l’anima al corpo, identifica l’uomo nell’anima e interpreta il corpo come sua tomba o segno. Nel Cratilo (400 b-c) Platone così riassume la concezione orfica: “Difatti alcuni dicono che il corpo (sòma) è tomba (sèma) dell’anima, quasi che essa vi sia presentemente sepolta: e poiché d’altro canto con esso l’anima segnala (semainei) tutto ciò che esprime, anche per questo è stato chiamato giustamente ‘segno’ (sèma). Tuttavia mi sembra che siano stati soprattutto
1 seguaci di Orfeo ad aver stabilito questo nome, quasi che l’anima espii le colpe che appunto deve espiare, e abbia intorno a sé, per essere custodita, questo recinto, sembianza di una prigione. Tale carcere, dunque, come dice il suo nome è ‘custodia’ (sòma) dell’anima, finché essa non abbia finito di pagare i suoi debiti, e non c’è nulla da cambiare, neppure una sola lettera.”
Questa nuova religione era destinata a rivoluzionare l’antica concezione della vita e della morte, e più in generale il senso dell’esistenza che nella visione omerica non attendeva né premio né castigo, ma solo quella “fine” a cui poteva sottrarla unicamente la Memoria del poeta e il suo canto “efficace”.
La Memoria compare anche nella ritualità orfica, ma con un senso completamente diverso rispetto alla memoria poetica. Si assiste, infatti, alla trasposizione di Mnemosyne dal piano della cosmologia a quello del [‘escatologia. La ricerca è sempre indirizzata al “privilegio dei morti”, solo che il regno della morte non è più il regno invisibile dell’Ade (À-ides), luogo delle ombre e mondo dell’oblio da cui può redimere solo la memoria dei poeti, ma la vita terrena concepita come esilio deiranima e luogo di prova e di castigo. “E se avesse ragione Euripide — scrive Platone — là dove dice: ‘chi può sapere se il vivere non sia morire e il morire non sia vivere?’ Forse la nostra vita è in realtà una morte. Del resto ho già sentito dire, anche da uomini sapienti, che noi ora siamo morti e che il corpo è per noi una tomba” (Gorgia, 492 e-493 a).
L’anima, infatti, per la religione dei misteri è tanto più viva, tanto meno smemorata, quanto più si è liberata dal corpo. Le acque di Léthe non accolgono più quanti stanno per dimenticare la luce del sole, ma quanti, dovendo ritornare nel mondo per una nuova incarnazione, dimenticano la realtà celeste per immettersi nel flusso del divenire dove non è possibile raggiungere il termine (télos) del proprio espiare.
In questa nuova luce vengono rivisitate le tradizionali figure di Sisifo che spinge senza fine una pietra che sempre ricade, di Ocno che intreccia una corda di giunco che un’asina rode via via, delle Danaides che si sforzano invano di riempire una giara bucata che cola da un setaccio pieno di buchi, la quale per Platone raffigura la loro anima incapace, per oblio, di trattenere il suo contenuto. Per questo, nelle laminette orfiche si dice dell’iniziato: “Sono riarso di sete e muoio, ma datemi la fredda acqua che sgorga dalla palude di Mnemosyne” (Inscriptiones Graecae, 14, 634). Così la memoria disseta l’anima, riconsegnandola alla sua natura divina da cui il corpo la teneva separata: “Vagabondo, esiliato dalla natura divina, fui un tempo un fanciullo e una fanciulla, un arbusto e un uccello, un muto pesce di mare” (Empedocle, DK., fr. 117).
Se la memoria del poeta, orientandosi verso quel tempo antico, che non è il passato, ma il tempo originario, può descrivere quella geografia del soprannaturale composta da altre regioni dell’essere e altri livelli cosmici, la memoria orfica, attraverso il ricordo delle successive incarnazioni, conosce tutti gli aspetti o avatàra che compongono la trama del suo destino individuale e, attraverso questa ricognizione, raggiunge l’unità e la continuità della sua storia. L’ordine a cui la memoria orfica tende non è quindi soprannaturale, ma interiore, la geografìa che descrive non è quella dell’essere, ma quella dell’anima che con la memoria può conoscere tutti gli aspetti psichici che la compongono, ciascuno dei quali ha trovato in un’incarnazione precedente la sua espressione di vita. Ripercorrere tutte le incarnazioni significa allora conoscere le figure dell’anima, e Yanamnesi che le richiama non è la ricostruzione del passato come nelle odierne pratiche terapeutiche, ma il trascendimento dell’incarnazione del momento, dello stato attuale di coscienza, verso le figure inconsce di cui le vite anteriori sono le rappresentazioni.
Per questo la memoria orfica chiede concentrazione, richiamo dal passato al presente, dalla periferia al centro, dalla dispersione nel tempo alla presentificazione nell’attimo. Questa concentrazione porta all‘e-stasi, all’uscita dalla condizione abituale della coscienza per ricordare, nel senso di ri-accordare, la condizione attuale con le condizioni precedenti, da cui lo stato attuale è stato generato. Con questo ricordo-riaccordo si chiude l’anello, e, dalla dispersione, l’anima si concentra in sé, dalla lacerazione rintraccia la sua unità.
Il rifiuto del corpo trova qui la sua spiegazione che non ha nulla della rinuncia cristiana in vista di un’acquisizione di meriti per la vita celeste. Nella religione orfica, infatti, il corpo va mortificato perché, incatenando alla vita del momento, non consente queìYoltrepassamento senza di cui è impossibile recuperare le vite passate e quindi conoscere tutti gli aspetti dell’anima che quelle vite descrivono. L’oltrepassamento del corpo ha quindi lo stesso senso di queU’oltrepassamento dello stato di coscienza che oggi la pratica analitica esige per la ricognizione dell’inconscio, dove vivono quelle figure dell’anima che l’io, per costruire se stesso, ha dovuto rimuovere. Il mancato “sacrificio dell’io”, il rifiuto della “mortificazione del corpo” non consente all’anima di oltrepassare la sua condizione presente e quindi di conoscersi nella sua totalità psichica che raggiunge, come dice Empedocle, “abbracciando le cose che sono in dieci, in venti vite di uomo” (Purificazioni, fr-129).
A questo provvede Yanamnesi, che Empedocle, nello stesso frammento, definisce come “una tensione di tutte le forze dell’anima”, mentre Platone, seguendo quella che egli chiama “una tradizione di lunga data”, descrive come “una concentrazione deU’anima che, partendo da tutti i punti del corpo, si raccoglie pura in se stessa e su se stessa, completamente separata dal corpo con cui era mescolata” (Fedone, 65 c, 67 c, 70 a).
Empedocle e Platone non si situano sullo stesso piano, ma ciò che uno propone come pratica ascetico-cognitiva e l’altro traspone sul piano della conoscenza filosofica è una stessa e antichissima tradizione che si è perpetuata attraverso il pitagorismo. La scuola pitagorica, infatti, nel ribadire i noti legami che nell’antico pensiero greco univano l’anima e il respiro, chiama praptdes le tensioni del diaframma (phrénes) che avevano la funzione di regolare e addirittura di arrestare la respirazione. Ad esse si rifanno le formule di Platone sul raccoglimento dell’anima a partire da tutti i punti del corpo che Aristotele riconduce alle credenze orfiche secondo le quali “l’anima è dispersa nel corpo in cui si sarebbe introdotta, portata dai venti, durante la respirazione” (DelVanima, 410 b, 29-30).
Concepita come uno pneuma che circola nei tubi delle arterie, delle vene e dei nervi, l’anima, quando si raccoglie dalla sua dispersione, invece che dai legami del corpo è tenuta insieme dai propri discorsi (lógoi) che sono i suoi soffi (ànemoi). Questo passaggio, a cui si riferisce il raccoglimento dell’anima descritto da Platone, è testimoniato da Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, Vili, 31) che, dopo aver scritto che le vene, le arterie e i nervi sono i legami dell’anima, aggiunge: “quando l’anima acquista forza e si riposa concentrata su se stessa, i suoi discorsi e le sue operazioni diventano i suoi legami”. L’anima orfica ha così preparato l’impianto delle figure da cui l’anima filosofica prenderà le mosse per dar forma a se stessa.
Anche se l’approdo è differente, sia l’anima poetica, sia l’anima orfica nascono dal bisogno di oltrepassare la situazione presente avvertita come limite, e quindi la condizione corporea che in questo limite è iscritta. Con l’oltrepassamento, il canto poetico giunge alla descrizione della situazione originaria, intesa come ordine dell’essere e principio del tempo, mentre l’iniziazione orfica tende ad accedere a questo ordine oltrepassando il tempo di cui le successive incarnazioni scandiscono il ritmo.
Se l’anima poetica era diretta alla conoscenza, quella orfica è rivolta alla salvezza. Ma sia la conoscenza, sia la salvezza sono iscritte nell’etemo, quindi nella trascendenza e nell’oltrepassamento del tempo. “Gli uomini muoiono — scrive Alcmeone di Crotone, vicino ai pitagorici — perché non sono capaci di congiungere l’inizio con la fine” (Aristotele, Problemi, 916 a, 33). Aristotele, che ci dà questa testimonianza, ci riferisce anche che i consultanti l’oracolo di Sardi tendono all’abolizione del tempo con tecniche che “congiungono (synàptousin) l’istante di prima con quello di dopo e ne fanno uno solo (én poiousinY‘ (Fisica, IV, 218 b, 24-26).
Nelle teogonie orfiche la prima divinità è il Tempo (Chrónos) da cui nasce l’Uovo Cosmico che dà vita al Cielo e alla Terra e fa apparire Phànes: ciò che si mostra, ciò che si manifesta. L’apparire delle cose e il loro sparire, la successione dei fenomeni e il loro divenire, il tempo che ne scandisce la comparsa e la scomparsa sono dunque sotto il governo di Phànes (da cui phainesthai = apparire, phainómenon = fenomeno). Ma Phànes è figlio di Chrónos che dunque non è il tempo che diviene, ma quel tempo immortale e imperituro, quel luogo assoluto che un filone della tradizione orfica legava ad Anànke, la Necessità: MSi chiamava Tempo senza vecchiaia… e a lui era congiunta Anànke… che, con le braccia allargate su tutto il mondo, ne toccava
i confini.”
Quest’immagine, simile a quella che riproduce Chrónos come un serpente chiuso in cerchio su se stesso, disegna quel tempo ciclico che circondando il cosmo, ne fa, nonostante le apparenze (td phainómena) di molteplicità e cambiamento, una sfera unica ed eterna. Il Tempo, che la teogonia orfica pone come prima divinità, dice quell’unità ed eternità del tutto che su un altro piano ribadirà Parmenide con la sua immagine dell’essere sferico che lascia nell’inconsistenza ogni molteplicità e divenire.
Tra il tempo delVessere e il tempo delVuomo si apre una lacerazione che è poi la stessa che, nel linguaggio della filosofia, ritroveremo tra verità e apparenza. Lo spazio della lacerazione sarà abitato daU’anima il cui compito è di portare verità dove è apparenza, eternità dove è dissolvimento temporale. Ma per questo è necessario uscire dal triste ciclo della Necessità, dalla ruota crudele delle nascite e delle morti, è necessario non ricominciare senza fine come gli astri, ma uscire per sempre dal tempo. Con l’anima orfica nasce una temporalità assolutamente nuova, non più il tempo come ciclo (kyklos), ma come uscita dal tempo (éschaton). Il tempo escatologico vede verità e salvezza nelVuscita dal tempo. La trascendenza dell’anima, la sua immortalità oltre la dimensione temporale trova qui la sua prima e più radicale espressione [Cfr. II, 4, Uanima e le figure del tempo]·
Abbiamo visto che per la religione orfica immortale è il demone che, attraverso la molteplicità delle sue successive incarnazioni, trova l’unità e la continuità della sua storia. Ricordare le vite passate significa ri-accordarsi con tutti gli aspetti dell’anima e, nell’unità così raggiunta, riconoscere la propria individualità. Quest’operazione, che rintraccia nel molteplice l’Uno, diverrà con Platone l’attività stessa della conoscenza, per cui, nel Menone (81 c) Platone può parlare del conoscere come di un ricordare (anàmnesis). Ma qui le differenze si fanno abissali, e radicali le ripercussioni sul significato di anima e di tempo.
La memoria orfica, infatti, ripercorrendo l’esperienza temporale, conosce, nella serie delle successive incarnazioni, tutti i suoi aspetti psichici e, divenuta veramente se stessa, può tagliare i suoi legami col corpo, per tornare ad abitare quella regione atemporale da cui è provenuta. Con Platone, invece, l’anima non si risolve in questa ricognizione interiore e, quando taglia i legami col corpo, non è per raggiungere l’unità dei suoi aspetti psichici, ma per esprimersi come puro pensiero. A questo punto l’oltrepassamento del tempo, che per gli orfici è il premio che attende l’anima che si è purificata, diventa per Platone il mezzo per accedere a quella forma di conoscenza che, essendo possibile solo come conoscenza dell’essere, non può darsi nel divenire temporale corroso dal nonessere [Cfr. II, 2, Metaxy, sogno del mondo e divina follia].
Rivelandosi come puro divenire, come regno eracliteo del pùnta rei, nel tempo non c’è verità; per cui con Platone la liberazione dal tempo non è ciò che l’anima deve attendere quando ha raggiunto la sua purificazione, ma ciò da cui la sua purificazione deve partire per poter pensare l’essere nell’immobilità del suo ordine (kósmos). Questo è anche il motivo per cui Platone modifica la teoria orfica della metempsicosi, stabilendo che il numero delle anime è uguale a quello degli astri. Se infatti, ogni individuo, nascendo, portasse con sé un’anima nuova invece di far rinascere, per un nuovo ciclo, l’anima di un morto, non ci sarebbe per gli uomini altro tempo che il tempo lineare che va senza ritorno dalla nascita alla morte e che, esprimendo per Platone il puro disordine, conduce al caos. “I vivi — scrive infatti Platone — provengono dai morti, così come i morti dai vivi. Se non ci fosse questa perpetua compensazione circolare e se, al contrario, la generazione seguisse una linea retta andando da uno degli opposti soltanto verso l’altro opposto, cioè dalla vita verso la morte, e non tornasse poi indietro verso il primo facendo il giro, il mondo si awierebbe verso il caos e la morte” (Fedone, 72b-c). Un numero fisso di anime, invece, “come c’è nel cielo un numero fisso di astri e nella città un numero fìsso di focolari” (Leggi, 737 c) consente di sottrarre la vita umana al tempo lineare e di integrarla nel tempo ciclico che, non avendo né inizio né fine, descrive Veterno ritorno dell’uguale.
Ma per questo occorre un esercizio di morte (meléte thanàtou) che Platone descrive nello stesso modo in cui descrive l’esercizio di memoria (meléte mnémes). Esso consiste nel “purificare l’anima concentrandola e raccogliendola su se stessa da tutti i punti del corpo in modo che, così raccolta e isolata, possa staccarsi dal corpo ed evadere” (Fedone, 67 c). La separazione dal corpo è salvifica non perché libera l’anima dalla sequenza delle incarnazioni, come nella dottrina orfica, ma perché la libera dal tempo che, ospitando il divenire dove l’essere convive col nonessere, è ribelle all’intelligibilità.
Con Platone la salvezza non è più iscritta nel registro della purificazione, ma in quello della verità a cui si accede attraverso la memoria dell’ordine immutabile dell’essere che l’anima ha conosciuto prima della sua caduta nel tempo. In questo senso, e solo in questo senso, va letta la deplorazione platonica dell’invenzione della scrittura che, sostituendo all’esercizio della memoria la fiducia nei segni esterni, permette all’Oblio di impossessarsi dell’anima “per mancanza di esercizio di memoria (ameletesia mnémes)” (Fedro, 275 a, Teeteto, 153 b). [Cfr. I, 3, Oralità, scrittura e giochi di verità].
Una conferma in tal senso ci viene da Proclo che, nel suo commento dice: “L’anima, che ha bevuto senza misura nel fiume Améles, dimentica tutto delle sue vite anteriori, perché, innamoratasi del divenire, cessa di evocare i principi immutabili e li dimentica (ameletesiaY (Commento a Platone, Repubblica, § 349). A questo punto la sorgente dell’oblio (Léthe) e la sorgente della verità (Alétheia), che ci avevano introdotto nella comprensione dell’anima orfica, riflesse da Platone, non significano più la dimenticanza o il ricordo delle vite anteriori e quindi l’ignoranza o la memoria del destino dell’anima, ma se oblio significa ritorno alla generazione e quindi reincarnazione nel flusso temporale del divenire, verità significa sottrazione dell’anima alle figure del tempo perché sia consentita la visione di quelle forme immutabili dell’essere che sono le idee. Con Platone l’impianto della mitologia orfica non serve più a descrivere il destino del· Vanima, ma a inaugurare quel nuovo senso della conoscenza che prima di essere conoscenza di sé (psicologia) è conoscenza dell’essere (ontologia).
4. L’esperienza politica: Vanima come ciò che è comune
Nel determinare il numero delle anime, abbiamo visto che Platone stabilisce una correlazione con il numero degli astri e il numero dei focolari. Questo riferimento, che dall’ordine del cielo ci porta all’ordinamento della società, non è un particolare trascurabile o un’aggiunta superflua, ma rinvia a un’antica tradizione che, se percorsa, ci consente di cogliere nella distinzione anima e corpo la differenza tra pubblico e privato, tra ciò che è comune (xynón) e ciò che è proprio (idion), fino alla grande distinzione eraclitea tra la verità che è il “lògos a tutti comune” e la fallacia delle “opinioni private”.
Qui l’anima acquista una valenza nuova che la emancipa dalla tradizione religiosa per immetterla in quell’esperienza politica che la Grecia antica andava maturando e che troverà la sua espressione più alta nella formulazione platonica del filosofo reggitore della città. In questa formulazione confluiscono due tradizioni: una filosofica per cui il filosofo, che con la sua anima ha raggiunto l’idea suprema in cui è l’unità di tutte le cose, può provvedere al bene a tutti comune, e una politica per cui, su ciò che è comune, è necessario che tutti convengano, lasciando da parte le proprie cupidigie private che hanno nel corpo la loro sede.
Già nei poemi omerici ciò che è comune viene disposto “nel mezzo (en méso)”. Si tratti di premi per i giochi funebri o del bottino che i guerrieri hanno guadagnato nel saccheggio, la disposizione nel mezzo disegna uno spazio centrato dove i beni (ktémata), sottratti alla proprietà individuale, divengono espressione di “ciò che è comune”. Quando la pira di Patroclo si è consumata, Achille “fa sedere il suo popolo in largo cerchio (euryn agóna), e dalle navi porta bacili, tripodi, cavalli, muli, teste superbe di buoi, prigioniere dalla bella cintura” (Iliade, XXIII, 257-261). Deposti nel largo cerchio, i beni, da privati, divengono comuni (xyneia) e, come tali, oggetto di spartizione in base a quella giustizia distributiva che tien conto del valore di ciascuno nei giochi o nella battaglia. Nel mezzo sono “custoditi” da tutti, e dal mezzo il vincitore li “raccoglierà”.
Questa procedura crea un’equivalenza tra il centro e ciò che è comune che modifica la regola fondamentale dello scambio dei beni. Al dono personale, che crea un legame tra due uomini, obbligando il beneficiario al controdono per annullare gli effetti negativi dello spirito del donatore che il dono non contraccambiato porta con sé sotto forma di manat si oppone l’esercizio di un diritto di proprietà senza contropartita, dove il mana del donatore, questo aspetto magico deiranima individuale, viene annullato dal mésos, dalla disposizione dei beni nel centro.
Il centro diventa quella relazione pubblica in cui tutti convengono e che, da tutti riconosciuta, annulla gli effetti benefìci
o malefìci delle relazioni individuali. Valga per tutti l’episodio del canto XIX dell’Iliade dove si narra di Agamennone che restituisce ad Achille i beni che, in un momento di offuscamento deiranima (àte), gli ha sottratto. La restituzione non avviene di mano in mano, perché questa procedura avrebbe obbligato Achille nei confronti di Agamennone, ma, seguendo la proposta di Ulisse: “che Agamennone, protettore del suo popolo, rechi i doni in piena assemblea (es méssen agorén)t così che tutti gli Achei possano vedere con i propri occhi” (Iliade, XIX, 173-174).
Il centro, oltre a rendere comuni i doni, li rende pubblici, sia nel senso di ciò che è a disposizione di tutti come nel caso del bottino di guerra, sia nel senso di ciò che è sotto gli occhi e quindi sotto il controllo di tutti come nel caso dei doni riparativi di Agamennone. Comincia così a farsi strada, attraverso la figura del centro, un concetto di anima capace di relazioni metaindividuali e di rapporti sovrapersonali che crea una circolazione di beni, e poi vedremo di idee e di parole, che, non dipendendo dalla soggettività dei singoli individui, è da tutti comprensibile in modo univoco e senza fraintendimenti. È Vanima espressione di ciò che è comune (xynón) da cui prenderà avvio la filosofia per inaugurare le grandi figure del lògos a tutti comune e della verità emancipata dalle opinioni soggettive: “Bisogna dunque seguire ciò che è comune (tài xynói) — dirà Eraclito — ma pur essendo questo logos comune (xynoù), la maggior parte degli uomini vivono come se avessero una loro propria saggezza privata (idian phrónesin)” (DK, fr. 2).
Lo spazio centrato, dove ciascuno è in rapporto con gli altri in una relazione reciproca e reversibile, non ospita solo i frutti del bottino e i premi dei giochi facendoli passare da beni individuali (ktémata) a beni comuni (xyneia), ma ospita anche quei discorsi che, interessando l’intero gruppo, devono avvenire “stando in piedi nel mezzo dell’assemblea (mése agoré)”. Così si comporta Telemaco quando vuole discorrere e dibattere un interesse del popolo (dèmos) (Odissea, II, 37) e Giasone quando vuol ricordare ai compagni che “l’impresa è comune (xyné chreió) e comuni sono i consigli (xynoi mythoiY (Apollonio Rodio, Ar-gonautiche, III, 173).
Nell ‘agorà la parola è un bene comune, è un koinón disposto “nel mezzo”. Chi la pronuncia la fa scendere (katà) nell’assemblea (agorà) per l’approvazione di tutti. Le categorie hanno qui la loro remota origine. A differenza della parola magico-religiosa che scende da un mondo di forze e potenze sovrumane, la categoria è parola partecipata e condivisa dall’assenso del gruppo sociale. Forse per questo in Grecia filosofia e democrazia sono contemporanee; l’una e l’altra, infatti, si affidano a una parola che non si sottrae alla “pubblicità” e al consenso del gruppo che in quella parola “conviene”. Così è da leggere la pubblica professione di Meandro alla morte di Policrate: “Quando regnava da despota sugli uomini suoi uguali (omoioi) Policrate non aveva la mia approvazione, e nessun altro l’ha se si tratta della stessa cosa. Ora Policrate ha compiuto il suo destino e io depongo il potere nel mezzo (es méson) e proclamo per voi l’isonomia” (Erodoto, III, 142).
Isonomia è la legge degli uguali, è quella centralità che abolisce il dominio univoco della tirannia. Per questo chi vuole parlare nelFinteresse del gruppo deve “deporre il suo parere nel mezzo (es méson phéro)” (Erodoto, IV, 97), per poi ritirarsi e tornare privato cittadino con le sue private opinioni.
Separando il pubblico dal privato e contrapponendo la parola che riguarda tutti a quella che concerne gli affari personali di ciascuno, il Greco affianca aU’anima che aveva conosciuto alla scuola dei poeti e degli uomini di religione, que\Y anima razionale che è tale perché “rende ragione” del parere di tutti. In questo senso è da intendere il carattere dialogico della filosofia platonica dove sacerdoti, politici e retori devono “render ragione” a Socrate, che “non sa nulla”, della legittimità dei loro pareri.
L’ignoranza di Socrate, il suo non saper nulla riproduce il vuoto che nel centro si determina quando si costituisce l’assemblea. Questo vuoto è il cerchio dove si raccolgono i beni che, da personali, divengono di nessuno (res nullius), è lo spazio lasciato libero dalla parola magica e da quella tirannica, uno spazio che il filosofo occupa non con la sua parola, ma col suo non-sapere che, emancipando dalla dottrina precostituita e dalla fede ad essa connessa, consente ai diversi pareri, messi al centro, di “dar ragione” di sé. Il filosofo è solo colui che mette alla prova, alla prova della pubblicità e del centro. “Io dico che le cose giuste non trionfano con i giuramenti” scrive Eschilo, perciò, prosegue il coro, “fai la tua inchiesta e pronuncia il giudizio retto” (Eumenidi, 432-433).
L’efficacia magico-religiosa cede alla ratifica del gruppo sociale e a\Y anima psichica, che poeti e sacerdoti avevano educato con le loro figurazioni simbolico-religiose, si affianca Yanima razionale che produrrà le regole dei rapporti sociali in vista di Giustizia (Dike) e le regole dei processi conoscitivi in vista di Verità (Alétheia). Su questo punto Platone è chiarissimo: “La potenza del lògos sull’anima da lui persuasa è come quella di un padrone sullo schiavo; con la differenza però che l’anima è ridotta in schiavitù non con la forza, ma con la pressione misteriosa esercitata sul suo consenso” (Filebo, 58 a-b).
Ma questa pressione misteriosa dispone l’anima, appena affrancata dal mondo simbolico e religioso a un nuovo equivoco. La parola emessa dal centro, infatti, può tanto sedurre quanto educare l’anima: può condurla a sé (se-ducere) per un più ampio consenso, così come può indirizzarla (e-ducere) alla conoscenza del reale. Da questo equivoco nascono sia i giochi di seduzione della retorica e della sofìstica, sia i giochi di conoscenza della filosofìa. Nel primo caso la parola trattiene a sé l’anima facendo passare per realtà l’immagine di realtà che essa produce, nel secondo caso le immagini create dalla parola vengono messe alla prova come si fa con i bronzi per provarne la lega. Retorica e sofìstica da un lato e filosofìa dall’altro si contendono ora la parola pronunciata dal centro da cui sono stati allontanati poeti e sacerdoti.
5. Retorica e sofistica: la seduzione delVanima
“Salirò la torre più elevata per il sentiero della Giustizia (Dike) o della Seduzione ingannevole (Apdte) perché lì mi perda e passi la mia vita?” (Platone, Repubblica, 365 b). La domanda dell’adolescente, che deve scegliere tra due tipi di educazione dell’anima, non è pleonastica, ma dischiude gli ampi scenari governati da Dike o da Apdte. Le parole sono antiche e, dallo sfondo mitico che richiamano, emerge la figura di Peithó, la dea della Persuasione che entrambe le ha generate.
La persuasione è un dono degli dèi. In un passo del Crizia (109 b-c) Platone dice che “Gli dèi allevavano gli uomini come loro proprietà e loro gregge. Con la differenza, tuttavia, che non si servivano dei corpi per violentare i corpi delle loro bestie, come fanno i pastori che le battono quando le conducono al pascolo. Al contrario essi si mettevano alla poppa per raddrizzare la marcia servendosi della persuasione come di un timone, secondo i propri disegni”.
Senza “persuasione” sia le parole di verità, sia quelle di giustizia, sia quelle di inganno non hanno efficacia. Cassandra è profetessa veritiera (alethómantis), e perciò si distingue da quegli indovini che cercano di ingannare seguendo i sentieri tortuosi delTastuzia (skolat apàtai), ma per aver tradito un giuramento, Apollo l’ha privata del potere della persuasione (peithó) ed ora le sue parole sono inefficaci e, come dice il coro, non più degne di fede (épeithon oudérì oudért). (Eschilo, Agamennone, 12081213).
La persuasione è dunque la potenza che la parola esercita sugli altri. Questo effetto, una volta consaputo, conferisce autonomia all’ordine della parola che perciò vale per se stessa, senza più dipendere dalla sua capacità di conoscere e nominare il reale. Per questo, anche se dice come effettivamente andranno le cose, le parole di Cassandra, senza persuasione, sono condannate alla non-realtà.
L’autonomizzarsi della sfera della parola, il suo fondarsi più sulla sua potenza persuasiva che su quella conoscitiva, concorre a creare quella figura d’anima che, sensibile alla fascinazione, si lascia modificare nelle sue opinioni, come il corpo si lascia modificare nei suoi stati dai farmaci. Per questo nella letteratura greca i termini che più di frequente accompagnano Peithó sono philtron e phàrmakon, e per la stessa ragione Gorgia paragona il potere del lògos sull’anima a quello dei farmaci sul corpo. Filtri e farmaci, gli strumenti efficaci della classe sacerdotale, sono ora gli strumenti di chi possiede la parola persuasiva, perché, come ci ricorda Gorgia, “I divini incantesimi compiuti con le parole possiedono una potenza che blandisce l’anima persuadendola e trascinandola col suo fascino” (Elogio di Elena, § 14).
Ma questo fascino è ambiguo. Nel Prologo alla Teogonia (2728) Esiodo lo riferisce alle Muse: “Sappiamo dire molte cose ingannevoli (pseùdea) simili a realtà (etymoisin omoia), ma quando vogliamo siamo anche capaci di dire cose veritiere (aléthea)” L’espressione “simili a realtà” compare per la prima volta in
Omero a proposito di Ulisse e di Nestore, i due maestri di mètis (saggezza) (Odissea, XIX, 203), ricompare in Pindaro: “i detti dei mortali vanno al di là di alethés” (Nemea, VII, 20), e nei Dissot lógoi (III, 10) dove, discutendo delle tecniche pittoriche, si definisce migliore “quella che sa ingannare (exàpatan) facendo cose per la maggior parte simili a verità (ómoia tois alethinois poiéon)”.
In tutti questi passaggi, tra il vero e il falso si fa strada una terza figura che non è falsa perché assomiglia alla realtà, e non è vera perché assomiglia solamente. Questa rassomiglianza sarà il campo di gioco della retorica e della sofìstica e diventerà lo sfondo da cui prenderà avvio, oltre alla definizione dell’arte come imitazione (mimesis), la descrizione della condizione umana nel mondo, dove le cose sensibili non sono la vera realtà, ma solo la copia, l’imitazione seducente (mimesis). Il mito platonico della caverna, con la progressiva conquista della verità da parte dello schiavo che, abbandonate le ombre, accede alla luce del sole, è giocato su questo registro. Verità e rassomiglianza d’ora in poi si contenderanno il campo, trovando i propri sostenitori tra sofisti e retori da un lato e filosofi dall’altro, tra gli “amanti degli spettacoli” e, come vuole l’espressione di Platone, gli “amanti del farsi spettacolo della verità”.
In questa contesa l’anima può lasciarsi sedurre dalle parole simili a verità, così come può farsi conquistare dalle parole di verità. Nel primo caso resta anima psichica che subisce la potenza che la parola esercita sugli altri, nel secondo caso diventa anima razionale che, allontanata la seduzione, insegue la potenza della parola sulla realtà.
Questa variazione, che gioca la doppia potenza della parola, decide la doppia condizione dell’anima che non abita mai la notte, ma il giorno e quella penombra che si determina quando Alétheia scivola verso Léthe, o quando, da Oblio, si fa luce Verità. La negatività, il nonessere, la notte esistono infatti solo per l’anima razionale come rovescio logico della luce diurna, ma per l’anima psichica non c’è verità che non sia orlata di oblio, come non c’è luce separata dalla sua ombra. Le due potenze, contraddittorie per l’anima razionale, per l’anima psichica tendono l’una verso l’altra determinando una polarità che dischiude quella zona intermedia o metaxy in cui è il sogno del mondo e la divina follia [Cfr. II, 2].
Non c’è oracolo che non faccia accompagnare Verità da Ónei-ros, il Sogno vestito di un abito bianco gettato su un abito scuro, perché i sogni racchiudono “tanto l’ingannatore e il menzognero” quando “il semplice e il vero” (Plutarco, De sera numinis vindicta, 10, 555 a). Sogni “veridici” e sogni “ingannevoli”: i primi escono dalla porta di corno “realizzando la realtà (étyma krai-nousi)”, i secondi dalla porta d’avorio, recando “parole senza realizzazione (épéakràanta)” (Odissea, XIX, 562-567).
La formula ritorna con Parmenide a cui la Dea indica il sentiero del giorno ove si incontra “la ben rotonda verità” e il sentiero della notte ove sono “le opinioni dei mortali in cui non v’è vera certezza”. Tra le due vie, che si oppongono come il positivo e il negativo, Parmenide non trascura la seduzione di Apàte, sia come ambiguità dell’inganno, sia come inganno dell’ambiguità, con la differenza che l’anima psichica non analizza l’ambiguità perché è costituzionale alla narrazione mitica di cui si nutre, mentre l’anima razionale impara a conoscerla per smascherarla. “Perciò anche questo imparerai: come l’apparenza debba configurarsi perché possa veramente apparir verosimile” (Parmenide, /r. 1, 29-32).
Rispetto ai poeti e ai sacerdoti, retori e sofisti conoscono Apàte e i suoi giochi di seduzione; l’effetto non è più immediato, ma articolato sui vari registri dell‘“apparenza”, della “mimesi” e della “verosimiglianza”. La rottura con l’anima del poeta, che dice Alétheia con la stessa naturalezza con cui respira, comporta una rivisitazione di quella Memoria che consentiva al poeta di entrare nell’al di là e accedere all’invisibile. Con i retori e con i sofisti, infatti, la memoria diventa una tecnica laicizzata, una facoltà psicologica che ciascuno esercita secondo regole più o meno definite che si possono anche imparare. Dimessa come forma di conoscenza privilegiata e come esercizio di salvezza, la memoria diventa uno strumento per l’apprendimento di un’arte che non è più al servizio della verità, ma della persuasione (Peithó). Per effetto di questa trasposizione, l’anima non ha più come suo riferimento la visione-rivelazione (A-lé-theia) dei poeti e dei sacerdoti, ma quell’ambito “dove nulla è stabile” e dove, per dirla con Aristotele, “spetta a chi agisce tener conto del tempo opportuno (kairós) come avviene nell’arte medica e nella navigazione” (Etica a Nicomaco, II, 2, 1104 a 9-11).
Il tempo opportuno (kairós) si oppone a quell’ordine del tempo (aión) che poeti e sacerdoti evocavano per dedurre procedure rituali e quindi pratiche di comportamento. Ora che la parola non è più messaggera di eterne verità, ma è impegnata a far valere come vero il discorso che di volta in volta si tiene, la persuasione, in cui questa capacità si esprime, fa tutt’uno, sul piano pratico, con l’etica della decisione. L’anima non è più contemplativa, ma pratica e operativa, smarrito l’ordine di riferimento, le sue congetture slittano tra sé e gli oggetti che dovrebbero denotare.
In questo collasso dell’ordine immutabile (aión) naufragano le stabilità, e l’opportunità (kairós) diventa tanto una figura del discorso quanto una pratica d’azione. Per questo l’uomo è per se stesso misura di tutte le cose. La formula di Protagora dice la crisi del mondo mitico-sacrale che si dissolve a vantaggio di quella dimensione pragmatica della vita, dove alla perdita di riferimento si sostituisce un accrescimento di pratiche di dominio che occupano il deficit di verità che caratterizza ogni discorso.
Se non c’è più verità nei discorsi, saranno i discorsi stessi a produrre verità: le verità si fabbricano, e l’anima diventa quel laboratorio di fabbricazioni linguistiche da rintracciare negli stessi linguaggi fabbricati. Le conseguenze di questo equivoco dell’anima sono visibili ancora oggi nelle tecniche che presiedono alle costruzioni dei saperi, dove decisivo non è il grado di verità, ma il grado di funzionamento [Cfr II, 5: Gli strumenti del sapere].
Portatrice di una scelta che varia a seconda della situazione, l’anima che retori e sofisti inaugurano non si misura più sulla verità, ma sull’ortodossia di cui Platone ci dicè che “non è guida meno valida dell’epistéme, con la sola differenza che l’uomo che possiede Yepistéme riesce sempre, mentre quello che si regola sulYorthé dóxa talvolta riesce, talvolta no” (Menone, 97 b-c).
La ragione è nel fatto che la dóxa si fonda, come dice Gorgia “sul fragile e l’instabile (sphalerà kai abébaios)” (Filebot 58 a), e le opinioni che produce “come le statue di Dedalo prendono la fuga e se ne vanno” (Menone, 97 d). Questo riferimento al movimento, che nel pensiero greco definisce Yambiguità perché non consente di fissare l’identità, è ciò per cui Platone dice che “la dóxa si avvolge e si svolge… divenendo vera (alethés) e falsa (pseudés)”. Sapere inesatto, ma sapere inesatto dell’inesatto, il solo modo di approccio alle cose che, nascendo e perendo, sfuggono all’identità immutabile [Cfr. I, 1: Dalla terra al cielo].
Approdando dallo psichico al razionale, l’anima greca si esprimerà in un ordine teoretico, dove si istituisce quel sapere immutabile di cui si prendono cura i filosofi, e in un ordine pratico dove il sapere, essendo verosimile e probabile, ha bisogno per imporsi della persuasione. Qui si collocano retori e sofisti, ed è a loro che Aristotele si riferisce quando, parlando della tesi probabile (éndoxos), la definisce come “quella approvata da coloro che hanno maggior seguito” (Topici, I, 1, 100 a 18). Così verità e persuasione, Alétheia e Peithó, d’ora in poi si divideranno il campo regolando l’una l’ordine dell’immutabile, l’altra l’ordine del divenire. Quando l’ordine degli immutabili crollerà, quando la verità non sarà più persuasiva, allora le tecniche di persuasione occuperanno l’intero campo e il gioco sarà delle maschere. Nietzsche coglie questo passaggio e lo racconta al nostro secolo. [Cfr. IV, 3: Genealogia dell’anima: Nietzsche e la ragione come rimedio].
6. L’anima e il suo doppio: il gioco dell’ambivalenza