5. Gli strumenti del sapere
La qualità di una cosa sono effetti su altre “cose”: se si tolgono dal pensiero le altre “cose”, una cosa non ha allora nessuna qualità, cioè non esiste nessuna cosa senza le altre cose, ossia non esiste nessuna “cosa in sé”.
Che cosa può soltanto essere la conoscenza? — “Interpretazione”, non “spiegazione”.
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, Autunno 1886, 2 (85, 86).
Nietzsche esplicita la persuasione, ormai diffusa nel nostro secolo, secondo cui non c’è verità nei saperi, ma sono i saperi a produrre verità: le verità si fabbricano. Il problema è di conoscere gli strumenti che presiedono alla fabbricazione: strumenti sempre più stipulativi sul piano della forma e sempre più con-getturali sul piano del contenuto. Probabilmente il sapere è sempre stato costruito così, ma ora la cosa è esplicitamente saputa. Questa dichiarata consapevolezza è la novità della nostra epoca non più attenta a un’enciclopedia del sapere o a un archivio dello scibile, ma a quella sorta di laboratorio in cui si evidenziano le procedure di costruzione tramite le quali i contenuti empirici vengono evidenziati attraverso la formalizzazione degli strumenti di osservazione, mentre il campo di osservazione subisce un progressivo ampliamento in forza degli strumenti teorici che fanno da quadro alle condizioni di esperienza.
Così, ad esempio, nel capitolo Dalla terra al cielo non abbiamo descritto il senso di un mito, ma il modo in cui gli occidentali hanno costruito un sapere sul mito. Già qui si apre un nodo teorico tra i più interessanti che svela la qualità della macchina che produce quegli strumenti tecnici di controllo della parola mitica senza di cui sarebbe per noi impossibile determinarne il senso e il valore. È infatti la nostra storia, la storia di noi occidentali, a decidere la qualità della strumentazione, per cui il sapere che ne scaturisce non è assoluto, ma storico e regionale, dove per “storia” si deve intendere la storia dell’Occidente, e per “regione” la sua estensione geografica.
C’è infatti un senso in cui è possibile leggere la storia del sapere occidentale come una progressiva fissazione delle basi discorsive in vista di una determinazione sempre più univoca dei significati, pur vari, del mondo. Questa forma decide la qualità dello sguardo e la scelta degli strumenti. Istituito nel linguaggio deiridentità e della differenza, per cui un significato è se stesso e non altro, il sapere occidentale che guarda la vita primitiva non saprà trovare senso se non attraverso il reperimento di costanti generative di comportamenti e attraverso la riduzione dei comportamenti variabili a costanti di base.
Nel principio di identità e di non-contraddizione il nostro sapere ha infatti il suo limite da intendersi come sua forma, e il progresso della strumentazione, la storia degli strumenti del sapere, sarà la storia del progressivo scaltrirsi di questo principio. Si tratta di una storia che va dalla sua formulazione univoca, come è enunciata da Parmenide, a quello spazio di coappartenenza dei diversi che è poi la forma in cui oggi l’identità vive. Lo strumento disciplinare, cioè il singolo sapere, ribadisce l’identità delle differenze, ciò per cui una serie di proposizioni appartiene allo stesso ordine, mentre gli strumenti concettuali, in cui si articola l’ordine disciplinare, aprono un universo di connessioni che sono inaugurazioni di altrettante possibilità di dire, ossia di porre relazioni, nessi di pertinenza che hanno nello strumento concettuale il loro momento di identità.
L’esplosione complessiva delle differenze che caratterizza il sapere contemporaneo non è infatti un deperimento dell’identità, un suo incontrollato sfilacciarsi, ma è l’esito di una strumentazione più articolata nelle procedure di identificazione, senza le quali il linguaggio non dice più niente, perché i significati nascono solo dove è mantenuta l’identità di qualcosa con se stesso. Su questo principio si regge anche il grido animale. Questa persuasione ci conduce a cogliere la storia della strumentazione del sapere e il suo progressivo sviluppo nelle procedure di identificazione e nella struttura sempre più scaltrita dell’articolazione interna dell’identità.
1. Il sapere simbolico e l’ordine rituale
Prima che il sapere parlasse per identità e differenza, percorrendo quella logica disgiuntiva, in greco dia-bàllein, secondo cui una cosa è se stessa perché non è altro, sussisteva un linguaggio simbolico, in greco sum-bàllein, dove una cosa era se stessa ma anche altro. In questo linguaggio l’identità, e quindi l’identificazione, era debole, l’oscillazione dei significati era frequente, l’ambivalenza linguistica, se non addirittura la polivalenza, determinava quelle “fluttuazioni di significato” (93, LII), come le chiama Lévi-Strauss, per cui c’erano dei sensi ovunque disponibili e in nessun luogo identificabili. È il caso del mana di cui le cose si caricano quando sono donate. Le cose hanno un mana:, ci dice M. Mauss, ma subito aggiunge che ce l’hanno anche le piante, gli animali, gli uomini, i morti, gli alimenti, per cui mana significa tutto e niente, è simbolo allo stato puro, suscettibile di caricarsi di qualsiasi contenuto (97, 166 sgg.).
Ciò non deve far pensare che le società a linguaggio simbolico siano società arbitrarie, il problema è se mai quello di individuare i meccanismi di controllo della parola simbolica e le procedure che ne mantengono il senso. Tra queste, una delle più evidenti è la nozione di verità come efficacia che nulla ha da spartire con la nostra nozione di verità come concetto secondo la coppia vero/falso che Platone ha inaugurato.
Quando, come ci ricorda Jung, “i Wachandi, nelle loro feste di primavera, scavano una fossa di forma oblunga, la circondano di cespugli a imitazione del genitale femminile, e poi vi danzano intorno con le loro lance che ricordano il pene in erezione, gridando: Tulli nira, pulii nira, watakà’ (Non è una fossa, non è una fossa, ma una vulva)” (84, 51-52), i Wakandi parlano un linguaggio simbolico perché, incuranti del principio di non-con-traddizione, compongono (sum-bàllein) dei significati che per sé non sono immediatamente e necessariamente componibili. Negano l’identità di una cosa con se stessa (la fossa non è una fossa), per procedere alla sua identificazione con altro (la fossa è una vulva). Per la ragione occidentale, questa identificazione è rivelativa non di una connessione necessaria tra due significati, ma di una volontà collettiva che li mette assieme, per trasformare energia sessuale in energia lavorativa, per persuadere ad applicarsi alla terra come alla donna.
Perché il rito abbia efficacia è necessario che chi vi partecipa condivida lo stesso mito che, attraverso analogie e relazioni di somiglianza, sia in grado di saldare a tal punto l’immagine della donna con quella della terra, da produrre, in presenza del-l’una e dell’altra, comportamenti identici. Mettendo insieme i diversi (sum-bàllein) il mito produce quelle identità che generano comportamenti, la cui efficacia non è verificata a posteriori con procedure di controllo, ma è generata a priori dalla persuasione mitica. Più il mito è persuasivo nelle identità o connessioni simboliche che produce, più il comportamento è efficace.
Naturalmente il linguaggio simbolico consente la comunicazione solo all’interno del gruppo, della tribù o del popolo che condivide quel particolare mito che fìssa una determinata connessione di significati. Fuori del gruppo non c’è comunicazione, perché la variazione mitologica sposta l’asse referenziale delle parole, producendo altre ritualità, dove sono ospitate altre forme di comunicazione.
Dal linguaggio simbolico non scaturisce un sapere universale, ma solo quei saperi regionali veicolati dalla regolarità rituale decisa dall ‘arbitrarietà mitologica. L’arbitrio, che pone la regola a cui gli uomini si attengono, vien portato al di fuori dell’umano e ancorato al divino. Nella sua imperscrutabilità, infatti, la divinità è quell’arbitrio che fìssa la regola senza di cui la comunicazione sarebbe impossibile. Alla divinità si potrà rinunciare solo quando gli uomini accetteranno di essere gli autori delle regole, ma per questo passaggio sarà necessaria quella maturazione sociologica in grado di sopportare l’assenza di un ordine naturale o divino e quindi di abitare, senza angoscia, l’ordine della convenzione.
2. Il sapere filosofico e lordine onto-teo-logico
Lo spazio che separa il mito dalla convenzione è occupato dal sapere filosofico che all’identità rituale sostituisce quell’identità che con Heidegger potremmo chiamare onto-teo-logica (64, 36-73).
Con l’avvento della filosofia, infatti, si ha il primo blocco delle basi discorsive, e quindi il superamento delle oscillazioni semantiche che sono proprie del linguaggio simbolico. A regolare il linguaggio è il principio di non-contraddizione, per cui una cosa è se stessa e non altro. Il significato è ciò che scaturisce da questa esclusione che, annullando ogni virtualità di senso che ecceda la mera identità di una cosa con se stessa, struttura per esclusione quell ‘equivalenza dove è soppressa ogni ambivalenza simbolica, e dove il significante e il significato sono affidati a un sistema di reciproco controllo. Il controllo è rafforzato dalla struttura dell’m quanto, per cui la stessa cosa in quanto è, appartiene alla metafìsica; in quanto diviene, appartiene alla fìsica; in quanto bianca, lignea, ecc., appartiene alle diverse regioni a cui si applica il sapere empirico.
La domanda platonica che chiede il ti ésti, il che cos’è una cosa, la sua essenza, è una domanda che può ottenere risposta, perché, delimitati i campi, e configurati i significati, con quella procedura d’esclusione messa in atto dal principio di non-con-traddizione, non è più possibile confondere una fossa con una vulva. Le cose finalmente significano se stesse e non altro, le parole che le nominano ribadiscono la loro identità, le oscillazioni o le eccedenze di significato che ogni simbolo porta con sé sono ridotte all’insignificanza. Non più il singolo gruppo, la singola tribù, il singolo popolo che parla, ma il linguaggio parla, de-terminando il significato delle cose che risultano così concluse nella loro terminazione concettuale.
L’iperuranio platonico è il primo grande laboratorio di costruzione del sapere e della sua organizzazione. La distribuzione delle idee in generi e specie crea quel reticolato di inclusione e di esclusione che, oltre a consentire l’identificazione dei significati attraverso le procedure di identità e differenza, pone le basi per l’elaborazione delle regole di inferenza. Se c’è errore esso risiede o nell’indeterminatezza del genere inclusivo, quindi in un deficit di identità, o nella combinazione di generi tra loro incompatibili, quindi in una deroga al principio di non-contrad-dizione.
Questa grande convenzione platonica che, come avverte Nietzsche, ha inaugurato per l’Occidente una grammatica e una lingua logica, non è riconosciuta da Platone come una semplice posizione di regole linguistiche, ma è identificata con l’oggettività dell’essere stesso (ontologia) che trova la sua più alta espressione nell’idea di Sommo Bene (teologia) da cui tutte le altre idee dipendono.
Tra la divinità mitica e quella platonica corre un abisso, perché la prima è l‘arbitrio che l’insondabilità cela nel suo aspetto arbitrario, la seconda è Vunità precomprensiva di ogni successivo differire, è il soggetto nell’accezione greca di upo-keimenon, ossia di ciò che sta sotto a ogni variazione e, stando sotto, consente alle variazioni di sussistere senza contraddizione.
Quando il soggetto da teologico diventerà egologico, il convenzionalismo implicito di Platone diventerà esplicito, ossia l’uomo si persuaderà che a presiedere all’ordine delle idee non è un Dio, ma il suo Io, cioè la sua rappresentazione, le cui forme decidono la modalità con cui le cose appaiono. Queste forme non saranno più pensate come sostanze, ma come strumenti con cui le cose appaiono in un ordine. Da Cartesio a Hegel sarà Yordo idearum a decidere deìYordo rerum, le idee cesseranno di essere sostanze per apparire sempre più esplicitamente come funzioni. Le categorie di Kant sono l’esempio più evidente di questa consapevolezza. Nasce il sapere scientifico dove l’esperienza del pensiero è l’espressione del suo funzionamento.
3. Il sapere scientifico e Vordine egologico
Con l’avvento della scienza il blocco delle basi discorsive diventa definitivo. La convenzione di volta in volta adottata anticipa ogni possibile significato, abbandonando tieH’insignifìcanza tutto quel volume di senso che trascende i mathémata, le anticipazioni convenute. Nasce il sapere matematico, cioè anticipato, a cui si accede solo accettando le convenzioni discorsive che Yego cogito ha predisposto per l’interrogazione del mondo. L’unità non è più teologica, ma egologica, non si appella alle leggi della natura o alle leggi di Dio, ma alle anticipazioni dell’io: la ragione diventa legislatrice, detta cioè le leggi della rappresentazione del mondo.
In proposito Kant è chiarissimo. Nella Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura scrive che Galilei e Torricelli “compresero che la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che, con i principi dei suoi giudizi, secondo leggi immutabili, deve essa entrare innanzi e costringere la natura a rispondere alle sue domande: e non lasciarsi guidare da lei, per dir così con le redini, perché altrimenti le nostre osservazioni, fatte a caso e senza un disegno prestabilito, non metterebbero capo a una legge necessaria, che pure la ragione cerca e di cui ha bisogno. È necessario dunque che la ragione si presenti alla natura avendo in mano i principi, secondo i quali soltanto è possibile che fenomeni concordanti abbiano valore di legge, e nell’altra resperimento, che essa ha immaginato secondo questi principi: per venire bensì istruita da lei, ma non in qualità di scolaro che stia a sentire tutto ciò che piaccia al maestro, sebbene di giudice che costringa i testimoni a rispondere alle domande che egli loro rivolge” (97, 18-19).
La funzione legislativa della ragione moderna inaugura un sapere che, anticipando metodi e ipotesi, conosce già nella rappresentazione (Vor-stellung) il nome della cosa, prima (vor) che questa si presenti. La presenza della cosa non è più un es-porsi dalla sua ascosità, ma un dis-porsi nel campo della rappresentazione anticipata. Il suo stare è uno star-di-contro (ob-jectum) all ‘ego soggettivo che ha disposto l’ordine di presentazione. L’oggettività diventa la modalità del suo apparire, che non è più espressione dell’essere, ma richiamo di una soggettività che vuole la cosa davanti a sé nelle modalità anticipate e predisposte.
In ciò è la pro-vocazione del sapere scientifico che, nella rappresentazione, possiede in anticipo l’oggetto che, col metodo, chiama alla presenza. Il possesso è potenza sull’oggetto che si è chiamato davanti a sé, cioè provocato e disposto nell’orizzonte dell’oggettività in modo che sia possibile, seguendo lo stesso metodo, ritrovarlo allo stesso posto, onde consentire alla ragione provocante di poterne sempre disporre.
Affinché la disponibilità sia universale e il più possibile garantita contro ogni eventuale smarrimento, la soggettività che dispone la posizione delle cose dovrà essere a sua volta universale e il più possibile purificata dagli inconvenienti della soggettività, dovrà essere coscienza intersoggettiva, intelletto puro che lascia fuori di sé ogni sorta di condizionamento psicologico e ogni dimensione che trascenda l’orizzonte oggettivo dischiuso dall’anticipazione ipotetica e percorso dal metodo che ha provocato la presenza dell’oggetto.
La forma legale dell’identità, che aveva trovato la sua procedura materiale prima nella ritualità del linguaggio simbolico, poi nell’onto-teo-logia del linguaggio filosofico, finirà con l’emanciparsi anche dalla soggettività trascendentale su cui s’è costruita la scienza moderna, non appena si farà strada la persuasione che il soggetto non esiste in sé, ma è posto dalle procedure discorsive che parlano di lui. Questa riflessione, inaugurata da Nietzsche, porterà a sostituire al soggetto impersonale della rappresentazione Vordine della rappresentazione, cioè l’insieme dei discorsi che comprendono anche il discorso che parla del soggetto. A questo punto l’identità non è più egologica, ma funzionale, i discorsi si parlano da soli. Non c#è più nessun rito, nessun dio, nessun essere e nessun io che li produce e, producendoli, ne statuisce la legittimità.
4. Il sapere funzionale e Vordine strumentale
Gli strumenti del sapere sono nati dal vuoto lasciato dal rito, dal dio, dall’essere, e dall’io. Questo vuoto, lungi dal determinare il deperimento dell’identità, che avrebbe comportato l’esplosione delle differenze e quindi l’implosione del linguaggio, ha promosso un’identità non più sostanziale, ma funzionale, quindi non più il principio di un ordinamento, ma il funzionamento di un ordine.
La perdita di una centralità teologica, ontologica ed egologica ha consentito di elaborare sempre di più modelli formali di interpretazione, la cui coerenza interna diventa il criterio di ciò che è dicibile e di ciò che è indicibile. La dicibilità crea uno spazio di coappartenenza che diventa campo disciplinare. In esso confluiscono concetti che possono diventare teste di serie e quindi luoghi di identità del successivo differire.
Come prodotto di una logica funzionale, lo spazio di coappartenenza descritto da ogni singola disciplina non può più essere inteso come una cosa, come una regione dell’essere, ma come una fonte di conoscenza da iscriversi in una strategia conoscitiva; qualcosa di simile ai moduli kantiani di “spazio” e “tempo” che, come sottolinea Cassirer, non sono cose, ma “schemi di allacciamento mediante i quali è possibile porre relazioni di concomitanza e di successione” (12, 549). In questo senso lo spazio disciplinare non preesiste alla disciplina, ma è creato dalla disciplina stessa per quel tanto che essa riesce a disciplinare.
Si evidenzia così la novità del sapere contemporaneo la cui articolazione non è decisa dai campi del sapere, ma dagli strumenti che li producono. Il passaggio dalla nozione tradizionale di campo a quella di strumento delinea una spazialità che non ha a che fare tanto con l’estensione, quanto con l’operazione. Ogni disciplina è imo spazio operativo dove gli strumenti che interagiscono sono ciascuno riflesso del sistema.
Per sistema, ovviamente, non si intende un assoluto logico o ontologico, né una totalità realizzata una volta per tutte, ma l’insieme delle unità discorsive che gli strumenti hanno prodotto nello spazio operativo che essi hanno creato. Sistemi del genere possono ovviamente essere smontati e allora, invece del reticolo delle strategie in cui si esprimono i corpi disciplinari, si disporrà degli strumenti discorsivi che hanno generato i vari sistemi. Oggi il sapere risponde a questa logica di costruzione e decostruzione, dove è possibile assistere a come ogni strumento muti senso col mutar di luogo e come ogni luogo sia aperto all’aleatorietà delle migrazioni linguistiche e airiscrizione in giochi sempre diversi.
L’accenno al nostro tempo non ha un valore storico, ma logico; non sta a significare che, per ragioni di attualità, ci si limita al sapere di oggi, ma vuol sottolineare che il sapere di oggi si costruisce in maniera assolutamente diversa dal sapere di ieri dove un’identità, sia pure nelle variazioni che abbiamo descritto, era sempre presupposta alla costruzione del sapere. Oggi questa identità è il risultato di una connessione tra il momento orizzontale che l’impiego di determinati strumenti genera come corpo disciplinare, e il momento verticale che ogni singolo strumento inaugura come diversificazione degli strati linguistici.
Seguire questa connessione significa assistere non tanto al-Vorganigramma del sapere, quanto allo spostamento costante dei volumi di senso che dà luogo da un lato a un incremento di significato, dall’altro a quelle convergenze e riduzioni che rendono trasparenti le regole di traducibilità. Queste non appartengono più a un sapere superiore inclusivo di tutti i saperi, ma alla strumentazione stessa con cui ogni sapere si costruisce. Evidenziare questa strumentazione significa evidenziare le regole di formazione e di circolazione dei saperi, dove il riferimento non è agli oggetti o ai dati in sé compiuti, ma alle condizioni che consentono ai dati di darsi e agli oggetti di configurarsi.
Queste condizioni sono nessi di pertinenza che nel loro insieme compongono quella rete polinodale dove ogni strumento è un nodo che apre un campo e lo struttura fino airinsorgenza del nodo successivo dove il sapere che ne è scaturito trova il suo confine, ma insieme anche la sua traducibilità. In questo modo l’ordine del sapere è gettato neiraleatorietà, ma non è abbandonato airinsignifìcanza. La perdita del punto di vistai assoluto, sia esso teologico, ontologico o egologico, non conduce alla perdita radicale di senso, ma a quella costruzione e decostruzione che, anche se la storia lo ha sempre taciuto, da sempre presiedono alla formazione di qualsiasi sapere e alla sua traducibilità in altre forme di sapere.
III. Il sapere e le passioni
Per quanto tu cammini e percorra ogni strada, non potrai raggiungere i confini deiranima, tanto è profondo il suo lògos.
ERACLITO, DK., fr. 45.
wMw.S€ni&d.com/Saiu¢h58
1. Inconscio e metodo scientifico
La psicologia deve abolirsi come scienza e, proprio abolendosi come scienza, raggiunge il suo scopo scientifico.
C.G. JUNG, Riflessioni teoriche sull essenza della psiche, 1954.
Ne La crisi delle scienze europee Husserl scrive che “la scienza è pur sempre un’ideazione che l’umanità ha prodotto nel corso della sua storia, sarebbe perciò assurdo se l’uomo decidesse di lasciarsi definitivamente giudicare da una sola delle sue ideazioni” (75, 147). Applicata al nostro tema, la proposizione di Husserl crea un’area a tal punto problematica da compromettere persino la legittimità della nostra interrogazione. Infatti se, come abbiamo visto, il metodo scientifico è una delle tante modalità interpretative, l’inconscio sarà accostabile anche con altre modalità che, per il fatto di non essere “scientifiche”, non cessano di essere “legittime”.
Sappiamo infatti che la scienza non ha rapporti con la verità, perché ciò che essa produce sono solo proposizioni esatte, cioè “ottenute da” (ex actu) le premesse che sono state anticipate, per cui accostare l’inconscio “scientificamente” non significa trovare la verità dell inconscio, ma semplicemente quel risultato che il metodo ha prodotto. La scienza sa di questo suo limite, non altrettanto forse la psicologia nel suo mai dimesso tentativo di proporsi con l’oggettività del metodo scientifico. Qui
lo scoglio diventa insuperabile. Se infatti la psicologia riconosce nella soggettività la sua area di indagine, cosa risponde a Husserl quando osserva che “la soggettività non può essere conosciuta da nessuna scienza oggettiva” (75, 353)?
Qui gli spazi si chiudono, non nel senso che alla psicologia resta preclusa la possibilità di prodursi in un’analisi scientifica dell’uomo, ma nel senso che, una volta che si è così espressa, la psicologia non è in grado di verificare “scientificamente” se il prodotto della sua analisi è ancora l’uomo, se la soggettività oggettivata è la stessa soggettività che produce tutte le possibili oggettivazioni. Per questa verifica, infatti, il metodo scientifico dovrebbe operare prima del suo inizio, dovrebbe poter controllare anche quel momento progettuale, o, come dice Husserl, quell‘“ideazione” che lo produce, proponendosi ascientificamente come totalità discorsiva, come universo linguistico.
Diciamo “ascientificamente”, perché è la scienza stessa a riconoscersi come tale solo dopo l’escogitazione (l’ideazione) del metodo e aÌYinterno del metodo, confermando essa stessa quello che Nietzsche aveva intuito alla fine del secolo scorso quando annotava: “Ciò che caratterizza il nostro diciannovesimo secolo non è la vittoria della scienza, ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza” (112, 231), e ancora: “Le idee più importanti vengono trovate per ultime, ma le idee più importanti sono i metodi” (113, 232). Commentando queste note nietzschiane, Heidegger osserva: “Anche Nietzsche, nell’ultimo anno della sua salute mentale, nel 1888, è giunto a scoprire questo rapporto tra metodo e scienza. Nelle scienze non solo il tema viene posto dal metodo, ma viene immesso nel metodo e vi resta sottoposto… Nel metodo è tutta la potenza del sapere, il tema rientra nel metodo” (65, 141).
Ma che cosa c’è prima del metodo? C’è un universo linguistico di cui quello scientifico è solo una modalità, il cui dominio nella nostra epoca non è ragione sufficiente a proporlo come linguaggio unico in grado di espellere, come illegittimi, gli altri tipi di linguaggio che pure l’Occidente ha conosciuto. Di questi, il linguaggio scientifico può dire solo che non sono “esatti”, ma già abbiamo visto che l’esattezza non mette in questione la verità, ma semplicemente la coerenza tra premesse e conseguenze, una coerenza che comunque è richiesta dopo il metodo e all’m-temo del metodo.
Al metodo tende anche la psicologia, di cui sono noti i reiterati tentativi di proporsi come scienza, allo scopo di sottrarsi a quell’intuizionismo soggettivo che per definizione è incapace di pervenire all’oggettività di un sapere che sia universalmente comunicabile. Anzi, da un punto di vista storico, possiamo dire che la psicologia si è emancipata dalle altre forme di sapere proprio quando ha promosso questo tentativo, che però non è mai stato abbandonato da quello strano destino per cui l’attuazione del metodo scientifico coincideva con la soppressione del contenuto psicologico. Questo insolito circolo e questo insolubile enigma accompagnano ancora i tentativi che in tal senso sono promossi dalla psicologia.
1. L’enigma della psicologia
Questo titolo di risonanza husserliana ci conduce al cuore del problema dove si dibatte la possibilità o l’impossibilità per la psicologia di porsi come scienza. Il problema non riguarda solo la psicologia come una scienza fra le tante, ma la psicologia come luogo dove, meglio che altrove, si avverte la crisi della scientificità come tale. Scrive infatti Husserl che “ben presto ci renderemo conto che alla problematicità che è propria della psicologia, non soltanto ai giorni nostri ma da secoli, alla ‘crisi* che le è peculiare, occorre riconoscere un significato centrale; essa rivela le enigmatiche e a prima vista inestricabili oscurità delle scienze moderne, persino di quelle matematiche, essa rivela l’enigma del mondo di un genere che era completamente estraneo alle epoche passate. Tutti questi enigmi riconducono all’enigma della soggettività e sono quindi inseparabilmente connessi alYenigma della tematica e del metodo della psicologia” (75, 35).
Tematica e metodo sono le due parole su cui vorremmo fissare l’attenzione, perché è proprio nella reazione dell’una sull’altra che scaturisce l’enigma. Sembra infatti che la tematica della psicologia si sottragga al metodo scientifico, e che ogni tentativo volto ad applicare alla psicologia il metodo scientifico dissolva la tematica.
Già abbiamo constatato che il discorso scientifico esige, per la sua costituzione, una coscienza intersoggettiva, un intelletto puro che lascia fuori di sé ogni sorta di condizionamento psicologico. Tale è il cogito cartesiano da cui prende avvio la scienza nella sua accezione “matematica” e a cui si rifà la psicologia nel suo tentativo di prodursi come scienza. Ma qui la psicologia viene a trovarsi in una contraddizione insuperabile perché, se la scienza può nascere solo in presenza e ad opera di un cogito depsicologizzato, se la non interferenza dello psichico è la prima condizione per la produzione di un discorso scientifico, se la soggettività empirica e individuale è proprio ciò che non deve intervenire dove l’analisi pretende di essere oggettiva, può la psicologia prodursi come scienza senza abolire se stessa?
A questa domanda nel ‘900 sono state date due risposte negative. La prima, in campo filosofico, con Husserl. Si tratta di quella risposta fenomenologica che, ripresa da Heidegger, sviluppata da Sartre e concretamente articolata, anche per le sue competenze specifiche, da Jaspers, esclude la possibilità per la psicologia di porsi come scienza naturale. Su questo tipo di risposta che, per usare l’espressione di Husserl, non nega alla psicologia di porsi come scienza rigorosa, ma semplicemente di porsi come scienza naturale, in ciò recuperando, ma rifondando radicalmente, la distinzione di Dilthey tra scienze della natura (Naturwissenschaften) e scienze dello spirito (Geisteswissen-schaften), non mi soffermo perché ho dedicato un intero saggio: Psichiatria e fenomenologia (48) dove, oltre airitinerario teorico, è descritto anche lo sviluppo clinico che l’impostazione husserliana ha avuto con Binswanger, Minkowski, Laing, per limitarmi ai più significativi esponenti deirindirizzo fenomenologico in psichiatria. La rivoluzione ermeneutica da essi operata nell’interpretazione della follia è un esempio significativo di quanta fecondità siano capaci risposte radicalmente negative a problematiche mal poste.
La seconda risposta è stata data in campo psicologico da Jung che, oltre a non conoscere la fenomenologia, non si è mai inserito nel dibattito filosofico sullo statuto epistemologico della psicologia, nonostante Jaspers, ad esempio, lo avesse a più riprese chiamato in causa (79, 750-790). Ebbene, Jung, nonostante numerose siano le sue oscillazioni linguistiche, e nonostante la sua teoria degli archetipi offra il fianco ad una interpretazione ancor più deterministica di quanto non lo sia il determinismo delle scienze della natura, propone alla psicologia di abolirsi come scienza, perché, solo abolendosi può raggiungere il suo scopo scientifico: “Sie muss sich als Wissenschaft selber auf-heben, und gerade darin erreicht sie ihr wissenschaftliches Ziel” (90, 240).
L’affermazione è radicale non tanto per la sua perentorietà, ma perché va alla radice dellOccidente e del suo mai dimesso tentativo di pervenire ad ima rigorosa fissazione delle basi discorsive di cui la scienza “matematica” è solo una tappa. All’obiezione junghiana ho dedicato un altro saggio: La terra senza il male (50) dove l’interrogazione psicologica investe tutto ciò che la psicologia scientifica è costretta a tralasciare per prodursi “scientificamente”, non essendosi ancora emancipata da quelli che per Husserl sono “gli errori seducenti in cui sono caduti Cartesio e i suoi successori” (74, 6).
2. La psicologia e la seduzione cartesiana
Separando la realtà nei due regni isolati dello spirito e della materia, Cartesio poneva le premesse per la fondazione rigorosa delle scienze naturali che possono essere considerate come uno fra i molti sistemi di spiegazione della storia del pensiero o, per essere più precisi, come una classe di sistemi di spiegazione costituiti dalla fisica, dalla chimica, dalla biologia e così via. Tra i vari sistemi di spiegazione non possiamo incontrare la psicologia, nonostante numerosi siano stati nella storia i tentativi di instaurarla come scienza. La ragione è molto semplice: la psicologia si propone di studiare ciò che la scienza, sin da Cartesio e Galileo, esige sia bandito dal campo della ricerca, e precisamente quei processi, che si chiamano percezione, apprendimento, pensiero, che appartengono al medesimo ordine di quelli in base ai quali la scienza conduce la sua indagine. Infatti se “spiegare” scientificamente un fenomeno significa ridurlo all’ordine legale che il pensiero ha anticipato, come si può spiegare il pensiero, la percezione e via dicendo? Il metodo scientifico non può ridurre ciò che attua la riduzione, per cui fare della psicologia una scienza sul modello delle scienze naturali significa o instaurare un circolo vizioso o distruggere lo specifico della psicologia.
Questo dilemma della psicologia è simile a quello di ogni disciplina il cui oggetto è la coscienza umana e la cui aspirazione è di emulare le scienze naturali. Le due cose sono inconciliabili perché, mentre nelle scienze naturali ciascun dato è privo di significato finché non è posto in connessione con altri dati secondo uno schema o un’ipotesi concettuale, in psicologia ogni dato, sia esso una percezione, un pensiero, un’emozione, ha di per sé il suo significato per colui che percepisce, pensa e sente. Destituire il fatto psicologico dal suo significato è distruggere il fatto psicologico. Come ci ricordano Brentano e Husserl, la coscienza umana, a differenza di un raggio luminoso che può essere studiato in sé indipendentemente da ciò che illumina, è essenzialmente intenzionale, cioè rimanda immediatamente al di là di sé. Se lo psicologo, nel tentativo di emulare la scienza, spoglia la coscienza deirintenzionalità che le è costitutiva, perde il suo oggetto, per cui, per essere veramente empirico, per essere aderente al proprio oggetto, lo psicologo deve preservare la trascendenza, il rimando al di là di sé dei processi consci, in una parola, il loro significato per l’uomo che li realizza.
Applicate alla psichiatria e alla psicoanalisi, queste semplici osservazioni ci persuadono che i sospetti che avvolgono le due discipline non sono del tutto infondati. Sia l’una che l’altra, infatti, derivano i loro modelli concettuali da quello schema che Cartesio ha introdotto e che la scienza moderna ha fatto proprio quando, per i suoi scopi esplicativi, ha lacerato l’uomo in anima (res cogitans) e corpo (res extensa) producendo quello che, secondo L. Binswanger, è “il cancro di ogni psicologia” (10, 22). Nel mio saggio II corpo (49) ho mostrato in più occasioni che questa divisione così radicale non è qualcosa di originario che si offra all’evidenza, ma è un prodotto della metodologia della scienza la quale, consapevole che il suo potere e la sua efficacia si estendono esclusivamente sull’ordine quantitativo e misurabile della res extensa, è costretta a ridurre lo psichico a epifenomeno del fisiologico che in psichiatrìa si chiama “apparato cerebrale” (55, 9) e in psicoanalisi “ordine istintuale” (40, 220). Ciò che ne nasce non è una psicologia che “comprende” l’uomo per come si dà, ma una psicofisiologia che lo “spiega” come si spiega qualsiasi fenomeno della natura.
Ma per spiegare l’uomo come fenomeno della natura occorre oggettivarlo e considerare la psiche non come un atto intenzionale, ma come una cosa del mondo da trattare secondo le metodiche oggettivanti che sono proprie delle scienze naturali. Ora, se la psicologia oggettiva lo psichico, e, come fa la fisiologia con gli organi corporei, lo tratta come cosa in sé che non si trascende in altro, la psicologia, per allinearsi sul modello delle scienze naturali, perde la specificità dell’umano e quindi ciò a cui essa è naturalmente ordinata.
Il primo a rendersi conto che la psicologia deve abbandonare l’ideale esplicativo perseguito dalle scienze naturali fu K. Jaspers che, con la sua Psicopatologia generale del 1913 denunciò il carattere riduttivo di ogni spiegazione (erklàren) perché a suo parere “la spiegazione scientifica trasforma i fenomeni o nel senso che li assume sotto leggi mettendoli in relazione con altri fenomeni differenti, o nel senso che li frantuma in parti che in qualche modo sono prese come più reali della configurazione di quelle parti che si assumono come costituenti il fenomeno in questione” (79, 327). In entrambi i casi la spiegazione può essere chiamata riduzione, perché, a differenza della comprensione (versiehen) che si accosta all’oggetto da comprendere nei suoi stessi termini, allo scopo di vedere in esso le strutture che emergono dal suo versante e non dal versante di chi indaga, la spiegazione, invece di parteciparsi all’oggetto affinché esso ceda la propria essenza (Wesen) a noi che la comprendiamo, riduce ciò che appare a ciò che essa considera le leggi ultime o la realtà ultima dei fenomeni che appaiono. In questo senso, precisa Jaspers, “è possibile spiegare pienamente qualcosa senza comprenderlo” (79, 30).
Così precisato il discorso a livello epistemologico, Jaspers non nega che la spiegazione comprenda qualcosa, ma siccome il valore della sua spiegazione dipende dalla realtà o dalla verità di ciò che è stato supposto e a cui ciò che appare viene correlato, ricondotto, ridotto, trasformato, i fenomeni spiegati sono “compresi come se (als ob)”. A questa comprensione del “come se” Jaspers riconduce sia le spiegazioni della psichiatrìa classica che erano possibili solo supponendo il meccanismo anatomico-fìsicologico, sia la psicoanalsi di Freud il cui ordine di spiegazione è comprensibile solo supponendo alle spalle dei fenomeni la libido istintuale. “Freud, che ha descrìtto una quantità di fenomeni ‘compresi come se’, confronta la sua attività con quella di un archeologo che da frammenti interpreta opere umane. La grande differenza sta solo nel fatto che l’archeologo interpreta ciò che è stato, mentre nel ‘comprendere come se’ è molto dubbia proprio la reale esistenza di ciò che è stato compreso” (79, 332). In altri termini, quello che Jaspers vuol sapere è se il compito che la psicologia si propone è quello di comprendere l’uomo o di trovare nell’uomo la conferma delle teorie pre-poste alla sua spiegazione.
E in effetti Freud, in stretta osservanza alle esigenze della scienza cartesiana e galileiana che elimina la coscienza dal suo campo di indagine perché il suo potere si estende esclusivamente sulla res extensa, spoglia di coscienza la coscienza e la riduce a epifenomeno di quegli istinti che hanno la loro origine nell’inconscio. In Al di là del principio del piacere si legge, ad esempio che “la speculazione psicoanalitica parte dairimpressione, ottenuta investigando i processi inconsci, che la coscienza non possa essere la caratteristica più universale dei processi psichici, ma solo una loro specifica funzione” (40, 210). In questo modo, estromessi dall’esperienza diretta della coscienza, i processi psichici diventano osservabili scientificamente e addirittura riconducibili all’ideale matematico, come sembra alludere quel passo sui derivati della rimozione, a proposito dei quali Freud afferma che Mè come se la loro resistenza alla coscienza fosse inversamente proporzionale alla loro distanza da ciò che era stato originariamente rimosso” (36, 40).
L’ideale esplicativo della scienza è così ottemperato da Freud con grande fedeltà e consapevolezza. “Nella nostra concezione — si legge ad esempio nell’Introduzione alla psicoanalisi — i fenomeni percepiti devono cedere il posto alle forze solamente ipotizzate” (38, 247), mentre all’inizio di Pulsioni e loro destini si afferma che “il vero inizio deirattività scientifica non consiste tanto nel descrivere i fenomeni, quanto nel procedere a raggrupparli, a classificarli e a metterli in correlazione” e si aggiunge che “in questa fase non è possibile evitare di applicare alcune idee astratte derivate da varie fonti e che certamente non sono il frutto di nuove esperienze” (36, 13).
Questi istinti o Strebungen, come li chiama Freud, sono “pulsioni di natura elementare, simili in tutti gli uomini, che mirano a soddisfare determinati bisogni primari” (37, 129), dove è evidente che la realtà psichica è “scientificamente spiegata” solo nella misura in cui si lascia ridurre a quella realtà più ampia, e nelle sue leggi più nota, che è poi la realtà biologica. Rispetto al behaviorismo che costruiva una psicologia scientifica eliminando dal suo campo d’indagine la coscienza e la sua intenzionalità, con Freud siamo ad un livello superiore. La coscienza, infatti, non è eliminata, ma semplicemente ridotta a quelle espressioni istintuali che sono scientificamente più controllabili; nella riduzione anche l’intenzionalità, che è poi l’essenza della coscienza, non è del tutto soppressa, perché l’istinto si proietta oltre se stesso, verso la propria soddisfazione. Ma l’intenzionalità dell’istinto, come Freud ci ha appena ricordato, è “simile in tutti gli uomini’*, e, nella mancanza di riferimenti alla specificità dell’individuo, colto nella sua unicità e nella sua differenza dagli altri individui, si salva l’ideale scientifico, ma ancora una volta si perde
lo specifico della psicologia che il behaviorismo risolveva nell’ordine delle leggi fìsiche e Freud in quello delle leggi biologiche.
Inoltre gli istinti, perché possano giocare il loro ruolo esplicativo di riduzione dei fenomeni di coscienza, in modo da permetter loro di “essere assorbiti dalle forze e dalle tendenze ipotizzate e dalle leggi che li governano” (36, 50), devono avere la loro origine nell’inconscio, altrimenti non sarebbe possibile la riduzione dei fenomeni di coscienza e quindi la loro spiegazione scientifica. Ma in questo modo, riducendo i fenomeni consci, dove è essenziale un riferimento originario a una soggettività individuata, agli elementi inconsci, dove questo riferimento non esiste, la teoria psicoanalitica freudiana può sì parlare del significato dell’amore per la madre o del campanile come simbolo del fallo, ma è costretta a ignorare il mio amore per la madre o la storia personale che io ho coi campanili, indipendentemente dalla simbologia fìssa campanile-fallo.
Con la riduzione dei fenomeni di coscienza agli istinti che hanno la loro origine nell’inconscio, l’intenzionalità e il significato, sia pure a livello biologico, sono salvi, ma la soggettività individuale, a cui dovrebbe far riferimento la psicologia, è derubata della sua unicità, perché l’individuo è ridotto a rappresentante dell’homo-natura, o delYhomo biologicus che è poi l’unico uomo a cui può giungere una teoria psicologica che voglia procedere con i metodi delle scienze naturali.
Illuminante a questo proposito è il parallelo che Binswanger instaura tra Freud e Locke, allo scopo di dimostrare che per entrambi la vita psichica è una dinamica uniformantesi alle leggi delle entità elementari che in Locke sono le “idee semplici” e in Freud gli “istinti” la cui natura amorale, non libera e non storica, ben si addice alle caratteristiche della scienza cartesiana dove non trovano posto moralità, libertà e storicità, perché la coscienza è stata eliminata e il campo di indagine è ristretto alla pura res extensa. Per questo, riformulando il detto lockiano “nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu”, per Binswanger si potrebbe applicare alla teoria freudiana il principio: “nihil est in homine-cultura quod prius non fuerit in homine-natura”; diversamente non sarebbe spiegabile la “sublimazione” e incomprensibile risulterebbe “il disagio della civiltà (.Kultur)”. In questo modo Freud riconferma in pieno lo spirito delle scienze naturali “che — come dice Binswanger — non sanno mai cosa farsene dei fenomeni, perché la loro essenza consiste proprio nello spogliare i fenomeni della loro fenomenicità nel modo più rapido e completo possibile” (9, 176).
Ma allora ha ragione Jaspers là dove dice che “Freud fraintende se stesso” perché la sua teoria, creata per l’interpretazione del singolo, finisce in realtà con lo “spiegare gli ipotetici processi delle singole modalità operative dell’apparato mentale”, per cui non fonda come vorrebbe una psicologia che tenga conto della soggettività individuale, ma, “come nelle scienze naturali, cerca, mediante l’osservazione, la sperimentazione e la raccolta di molti dati, le relazioni di causalità che permettono di trovare le regole dell’evento” (79, 327). In questo modo i fatti psicologici non sono più espressione di visioni del mondo (W eltanschauun-gen)t non dicono più del modo in cui il mondo appare all’alienato, ma diventano sintomi proprio come lo diventano i fatti fisiologici della medicina somatica, dove i termini di valore “salute” e “malattia” sono pienamente esprimibili in un contesto non valutativo di fisiologia, anatomia e neurologia, con riferimento alle “funzioni” e “dis-funzioni” dell’organismo. Ma in psicologia le nozioni di salute, di normalità e di malattia non sono riferibili a certi stati oggettivamente inequivocabili dell’organismo fisico, a meno di non ridurre anche l’intenzionalità biologica degli istinti a processi non intenzionali, e quindi la stessa biologia a fìsica.
Concludendo possiamo dire che in quanto teoria della spiegazione la psicoanalisi è perfettamente giustificata nella sua “riduzione dei fenomeni della vita psichica a processi energetico-pulsionali” (79, 574), ma in quanto psicologia, che per di più si propone finalità psicoterapeutiche, anch’essa non può evitare di scendere nell’arena generale dei sistemi di significazione la cui formazione e deformazione decidono il costituirsi delle diverse visioni del mondo, che risulta arduo spiegare ricorrendo “all’unico e per tutti identico piano biologico” (79, 406). E questo, se non altro, perché l’ideale esplicativo della scienza non può giustificare un ordine di significati come giustifica una teoria.
In Psichiatria e fenomenologia ho mostrato in dettaglio il naturalismo di Freud (48, 147-156) e il suo superamento ad opera della revisione fenomenologica inaugurata da Husserl e concretamente articolata in sede psicologica da L. Binswanger, secondo quelle modalità che non “comprendono” in base a spiegazioni che riducono ciò che appare ai modelli concettuali anticipati, ma in base alla descrizione dei modi in cui si rivela l’umana presenza (Dasein) nella sua inscindibile globalità e nei suoi aspetti costitutivi.
Nell’analisi delle modalità in cui l’uomo è presente al mondo, Binswanger individua infatti una forma di comprensione propriamente umana che non si misura sull’oggettivismo delle scienze naturali che partono dalla scissione Io e Mondo, perché da quella scissione la fenomenologia ha mostrato che è poi impossibile comprendere le modalità con cui l’io è nel mondo. D’altra parte, come ricorda Binswanger, “la psicologia non ha a che fare con un soggetto privo del suo mondo (weltloses Sub-jekt) perché un simile soggetto non sarebbe altro che un oggetto, né tantomento con la scissione soggetto-oggetto (Subjekt-Ob-jekt-Spaltung) perché questa scissione non la si può intendere se non come avente alla base l’umana presenza. La psicologia inizia quando comprende l’umana presenza come originario es-sere-nel-mondo e considera i determinati modi fondamentali (bestimmte Grundweisen) in cui l’umana presenza fattualmente esiste (faktisch existiert)” (7, 101).
Con questa comprensione che individua il piano propriamente umano su cui condurre un’analisi psicologica, il recupero della soggettività, quello che per Husserl è il tema della psicologia, avviene a scapito della spiegazione, ossia del metodo con cui la scienza oggettiva articola se stessa. L’enigma della psicologia, denunciato da Husserl, trova così la sua soluzione che non è nella composizione di metodo e tema, ma nella salvezza del tema psicologico (la soggettività) consentita dalla rinuncia esplicita al metodo delle scienze naturali.
Se questo breve cenno e il rinvio a Psichiatria e fenomenologia (48), dove si prendono in esame le varie figure dell’essere-nel-mondo attraverso cui la fenomenologia perviene alla comprensione dell’uomo al di là della spiegazione scientifica che distingue su base naturalistica salute e follia, sono elementi sufficienti a richiamare a un lettore informato la differenza tra analisi fenomenologica (Daseins-analyse) e teoria psicoanalitica (Psycho-analyse), possiamo proseguire osservando che il progresso dell’analisi fenomenologica rispetto alla teoria psicoanalitica è innegabile dal punto di vista epistemologico, con tutte le conseguenze teorico-pratiche che derivano da una corretta epistemologia, ma rimane circoscritto al piano del metodo. Con l’analisi fenomenologica, infatti, si abbandonano le metodologie mutuate dalle scienze della natura, per metodologie che consentono alla psicologia di porsi come scienza delVuomo, senza snaturare la specificità del suo oggetto.
Ma se questo è vero, anche l’analisi fenomenologica non si sottrae all’obiezione già riferita di Nietzsche là dove annota che “ciò che caratterizza il nostro diciannovesimo secolo non è la vittoria della scienza, ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza” (112, 231). Ora è noto che il metodo è una via (metà-odós) attraverso cui tutti i fenomeni che si manifestano vengono ridotti, cioè ricondotti a quanto è stato preventivamente anticipato. Nella teoria psicoanalitica i fenomeni vengono ricondotti a queiranticipazione naturalistica che è la libido, nell’analisi fenomenologica a quell’anticipazione antropologica costituita dalle modalità trascendentali dell’essere-nel-mondo. La differenza è nel tipo di anticipazioni, ma non nella riduzione delle espressioni umane al modello di riferimento anticipato.
Se non si desse un criterio riduttivo, l’analisi fenomenologica non assurgerebbe a statuto teorico-scientifico, ma si risolverebbe in pura sovrabbondanza di dati resi insignificanti proprio dalla loro disarticolata sovrabbondanza. D’altra parte, dandosi un criterio riduttivo, l’analisi fenomenologica non può evitare quello che è implicito in ogni riduzione, e cioè che il dato, lungi dall’essere “espressione”, Ausdruck direbbe Husserl (73, 291), si risolve in “indice” (Anzeichen) che rinvia a quei significati supremi quali la destrutturazione del tempo, la disarticolazione dello spazio ecc., che l’analisi fenomenologica assume per l’interpretazione dei dati.
Ma là dove i dati sono indicativi e non espressivi, è impossibile evitare l’oggettivazione; e se l’analisi fenomenologica, con il suo metodo, si sottrae all’oggettivazione naturalistica propria della teoria psicoanalitica, non si sottrae all’oggettivazione antropologica, un’oggettivazione che non può essere evitata ovunque la ricerca sia promossa dall’intento di costituirsi come “scienza rigorosa”.
A questo punto, sia pure su un altro piano senz’altro più scaltrito, all’analisi fenomenologica si pone la stessa alternativa che al suo sorgere essa aveva posto alla teoria psicoanalitica: o il proprio costituirsi come scienza con conseguente oggettivazione dell’uomo, o la rinuncia allo statuto scientifico, con la possibilità di incontrare l’uomo.
Qui forse vai la pena di rimeditare la frase di Jung che abbiamo messo in epigrafe; non è infatti escluso che la psicologia, per la peculiarità del suo riferimento, debba rinunciare ad essere scienza. La sua costitutiva impossibilità a oggettivare non le consente infatti di assumere uno statuto scientifico. D’altro lato, la sua crisi come scienza non è solo la crisi di una scienza fra le altre, ma, come Husserl prevedeva, il sintomo più grave della perdita dell’orizzonte del significato delle scienze per l’esistenza umana nella sua totalità. Se è vero, infatti, che la scienza è pur sempre un’ideazione dell’uomo, perché l’uomo deve lasciarsi giudicare definitivamente da una sua ideazione? Il verificarsi di questa eventualità non sarebbe l’autoalienazione più grande, il maggior allontanamento (Ent-fremdung) dell’uomo da sé?
3. L’inconscio e il principio di causalità
Nel settembre 1927, in un incontro a Vienna che Binswanger rievoca come estremamente indicativo, Freud ebbe a dirgli: “L’umanità è stata senz’altro informata di avere lo spirito, dovevo pur mostrarle che ci sono anche gli istinti” (11, 83). In realtà l’impianto teorico freudiano prevede l’istintualità come Yunica autentica realtà che connota la natura umana, essendo tutte le altre manifestazioni nuH’altro che un epifenomeno camuffato che il metodo analitico deve smascherare per verificare la premessa secondo cui l’uomo si risolve in quella sua natura istintiva che per sé è prima del bene e del male, ma che diventa male nello scontro con la civiltà. Se è vero infatti che “la civiltà è stata conquistata tramite la rinuncia alla gratificazione istintuale e richiede ad ogni nuovo venuto la stessa rinuncia agli istinti” (37, 130), si comprende come per Freud l’uomo autentico, non sottoposto alla coercizione della civiltà, è Yhomo-natura, dove la storicità propria della civiltà umana è ridotta a epifenomeno della storia naturale.
A questo proposito Binswanger osserva che “Yhomo natura di Freud non è un uomo reale, ma un’idea” ottenuta con un ripensamento secondario e riduttivo dell’esser-uomo. Ora, affermare che “Yhomo-natura freudiano è soltanto un’idea non significa svalutare la scienza, perché, come tutti sappiamo, la scienza opera esclusivamente con delle idee”, ma quando “rovesciando tutti i termini del discorso, la scienza pone all’inizio della sua costruzione l’idea dellTiomo natura, rendendo storia il suo ‘sviluppo naturale1 e ‘spiegando’ l’arte, il mito e la religione in base a questa natura e a questa storia” non incontra l’uomo quale si dà nella sua esperienza propriamente umana, vale a dire nella sua espressione antropologica, ma incontra quell’idea di uomo che si ottiene dalla preliminare distruzione di questa esperienza. In questo senso Yhomo-natura, “questo Urmensch freudiano, non rappresenta l’orìgine o l’inizio della storia umana, ma una esigenza della ricerca naturalistica… che riduce la totalità dell’esperienza umana a una particolare modalità d’esperienza” (9, 173-174).
Equiparando dogmaticamente la scienza alla scienza naturale matematicamente ordinata, nella convinzione che solo la metodologia di questa scienza fosse in grado di fornire l’autentico sapere intorno agli uomini e alle cose, Freud, sorretto da questa pre-cognizione che dall’inizio alla fine ha guidato la sua analisi sull’uomo, scrive nel Compendio di psicoanalisi che “dietro le proprietà e le qualità dell’oggetto d’indagine che sono date direttamente alla nostra percezione, c’è qualcos’altro di più indipendente della particolare facoltà recettiva dei nostri organi di senso e più prossimo al reale stato di cose congetturato” (46, 623). Questo assunto tipico delle scienze naturali, che consente di operare la riduzione del dissimile al simile, è accettato senza esitazione da Freud perché alle sue spalle già lavora acriticamente quella concezione filosofica cartesiana secondo cui la realtà è nota solo in due modi: sotto il profilo della res extensa e sotto il profilo della res cogitans. Sempre nel Compendio si legge, infatti, che della vita psichica ci sono date solo due cose: “da una parte l’organo materiale e lo scenario in cui quest’ultimo svolge la sua attività (il cervello o il sistema nervoso), dall’altra i nostri atti coscienti” (46, 572).
In corrispondenza a questi due dati ultimi, Freud trasse le due ipotesi fondamentali che reggono l’intero edifìcio teorico della psicoanalisi. La prima consiste nell’assumere che “la vita psichica è la funzione di un apparato al quale attribuiamo la proprietà di essere esteso nello spazio e composto di più parti, e che ci rappresentiamo come un telescopio, un microscopio e simili” (46, 572), la seconda nasce dalla constatazione di “una lacunosità nella serie degli atti coscienti” da cui risulta facile a Freud inferire che “lo psichico è in sé inconscio” (46, 585). Lo stesso ragionamento lo troviamo già formulato con identica struttura nella Metapsicologia dove a proposito de La giustificazione dell*inconscio, Freud dice che “Il diritto di ammettere l’esistenza di una psiche inconscia e di lavorare scientificamente in base a questa ipotesi ci viene contestato da più parti. A nostra volta possiamo replicare che l’ipotesi è necessaria e legittima, e che abbiamo parecchie prove dell’esistenza dell’inconscio.
“Tale ipotesi è necessaria perché i dati della coscienza sono molto lacunosi; nei sani non meno che nei malati si verificano spesso atti psichici che possono essere spiegati solo presupponendo altri atti che non sono invece testimoniati dalla coscienza (…) Gli atti coscienti restano quindi slegati e incomprensibili se ci ostiniamo a pretendere che ogni atto psichico che compare in noi debba essere sperimentato dalla coscienza; mentre si organizzano in una connessione ostensibile se li interpoliamo con gli atti inconsci di cui abbiamo ammesso l’esistenza. Ma guadagnare in significato e in connessione è una ragione perfettamente legittima per andare al di là dell’esperienza immediata. Se poi risulterà altresì che l’ipotesi dell’inconscio ci consente di costruire un efficace procedimento con cui influenzare utilmente il decorso dei processi consci, tale successo costituirà un’inoppugnabile testimonianza della validità di quel che abbiamo assunto” (36, 50).
Dall’analisi di questo ragionamento risulta con sufficiente evidenza che tanto il giudizio che c’è una “lacunosità nella serie degli atti coscienti”, quanto Yassunto inferito da questo giudizio che “lo psichico è in sé inconscio” poggiano sul presupposto scientifico, operante nella scienza naturale, secondo cui il reale esiste sempre e soltanto in nessi causali rigorosi e senza lacune fra oggetti attualmente presenti. L’inconscio ipotizzato da Freud non è quindi una realtà psichica, ma un prodotto del metodo con cui Freud ha affrontato questa realtà. Infatti, senza il presupposto scientifico sopra enunciato, come avrebbe potuto Freud “constatare” la lacunosità della vita cosciente e di conseguenza considerarla come non propriamente reale, ma bisognosa di un substrato reale in cui trovare i tanto cercati nessi causali privi di lacune?
Siccome l’inconscio, in quanto inconscio, è per definizione incontrollabile, si possono inserire in esso tutti quei nessi causali privi di lacune che non sono percepibili nella realtà immediatamente data della vita cosciente, e che tuttavia è indispensabile trovare non tanto per “comprendere” la vita psichica, quanto per “spiegarla” secondo l’ideale esplicativo delle scienze naturali. L’assunzione dell’inconscio, infatti, si rivela necessaria per la semplice ragione che Freud, accettando acriticamente e inconsapevolmente il dualismo cartesiano tra res extensa e res cogitans, che implica come sua prima conseguenza la distruzione deH’originario rapporto dell’uomo col mondo, è costretto a concepire come entità in sé, appartenenti ad un apparato psichico a sua volta chiuso in se stesso, quelle che in realtà sono modalità di relazione dell’originario rapporto dell’uomo col mondo che già Brentano nel 1874, e dopo di lui diffusamente Husserl, avevano indicato come intenzionalità della coscienza.
L’idea freudiana di proiezione, ad esempio, ci è divenuta così familiare che rischiamo di non vedere neppure le difficoltà teoriche implicite in essa. Ma come può un’entità psichica, appartenente a uno spazio psichico soggettivo, interiore e privato, come ad esempio un mio sentimento ostile, essere estratta dalla mia psiche per fissarsi su cose e uomini, fino a fondersi con essi al punto che gli elementi costitutivi della mia psiche vengano percepiti come realtà esteriori? In un contesto dualistico dove la res cogitans non è un’originaria apertura al mondo, ma un “apparato psichico chiuso in se stesso” (32, 490) perché costruito sui modelli fisici della res extensa, è impossibile spiegare il meccanismo della proiezione se non ricorrendo a quell’elemento inverificabile che è l’inconscio.
Lo stesso dicasi del concetto di transfert che presuppone, sempre in armonia con i modelli tratti dalla fisica, l’esistenza di sentimenti in sé, indipendenti dalle cose sentite o dagli uomini percepiti. Infatti, solo assumendo i sentimenti oggettivamente isolati e autonomamente esistenti come gli elementi non intenzionali di un apparato fìsico si può immaginare che per esempio un sentimento d’amore si stacchi dalla madre e si “trasferisca”, nel corso del trattamento, sull’analista. Come già per la proiezione, così anche per spiegare questo incomprensibile “trasferimento”, Freud fu costretto a rifugiarsi nell’inconscio. “Nell’atteggiamento del paziente verso il medico — scrive Binswanger — Freud vide solo la ripetizione regressiva di cariche oggettuali prevalentemente dirette verso i genitori ed anteriori da un punto di vista psicobiologico, escludendo così tutta la novità di questo incontro” (8, 274), che è terapeutico non perché il paziente ripete regressivamente gli itinerari consueti della sua carica libidinale, ma perché, forse per la prima volta, nel nuovo incontro ha la possibilità di agire una nuova visione del mondo.
Ma Freud ci ha abituato a pensare alle qualità psichiche come ad oggetti fìsici, perché solo così si può pensare di spostare un sentimento come si spostano le cose. L’idea di transfert è ancora troppo legata alla fisica, e finché mantiene questo legame non è un concetto psicologico, così come non lo è il concetto di conversione o somatizzazione con cui si cerca di spiegare il trasferimento di una malattia psichica agli organi corporei. Anche alle spalle di questo concetto c’è il dualismo cartesiano di anima e corpo che, dopo aver separato, Cartesio ha cercato di unificare con la ghiandola pineale, che ancor oggi per molti versi è ritenuta un’ipotesi probabile. Ora non si chiede allo scienziato di occuparsi di problemi filosofici, ma per lo meno di essere consapevole che quando parla di conversione o di somatizzazione egli considera risolti molti problemi in realtà oscuri, solo perché alle sue spalle funziona una teoria bell’e pronta secondo cui l’uomo ha un corpo e un’anima che sono tra loro in un rapporto di reciproca causalità, quella causalità che, agendo acriticamente alle spalle di Freud, gli consentiva di “constatare” la lacunosità della vita cosciente e perciò di “dedurre” un inconscio in cui rintracciare i nessi causali privi di lacune. Ma che cos’è il principio di causalità?
La ricerca della causalità è nata in Occidente come difesa dall’angoscia di fronte all’imprevedibilità degli eventi a cui gli uomini soccombevano per volere del destino. La tragedia greca, che pensa il destino al di sopra degli uomini e degli dèi, presenta le sue decisioni come irrevocabili, e la serie degli accadimenti che ne derivano come regolati da una necessità così rigorosa da rendere inutile la preghiera degli uomini. “O pensieri mortali, o vano errare degli uomini, che fanno essere a un tempo e la tyche e gli dèi. Perché se c’è / la tyche, che bisogno degli dèi? / E se il potere è degli dèi, la tyche / non è più nulla” (Euripide, Ipsipile, fr. 3).
Ma proprio la tragedia greca tenta una prima razionalizzazione del destino, tenta una sorta di spiegazione che ne riduce l’arbitrarietà imprevedibile, e la trova nel contesto esistenziale della colpa e della pena che connette in un rapporto consequenziale così rigido da non conoscere alcuna limitazione, nemmeno la morte. La morte del colpevole (aitios), infatti, non arresta l’effetto della colpa che è causa (aitià) delle pene delle generazioni future. La successione triadica della tragedia greca rappresenta il primo tentativo di seguire in un tempo più lungo quel rapporto di causa-effetto, nella forma di colpa e pena, che lo spazio ristretto del presente non consente di verificare. Nell’ignoranza della causa-colpa (aitia), l’apparire dell’effetto-pena è incomprensibile, la sua comparsa è senza ragione, è mistero insondabile del fato, è destino imperscrutabile.
Con la mentalità occidentale è possibile intrawedere l’origine dell’idea di destino nell’ignoranza delle cause ma, col potenziamento del valore assoluto della relazione causale, è possibile pensare la ricerca delle cause come difesa nei confronti dell’imprevedibilità del destino. In fondo il determinismo causale presenta gli stessi caratteri del destino. È cieco e non realizza disegni, non odia né favorisce gli uomini, non ha scopi futuri, ma oltrepassa il passato e il futuro in un presente che ripete se stesso, ottemperando a una legge che non conosce deroghe né eccezioni. La differenza è che la legge non è al di sopra degli uomini e degli dèi, ma è conosciuta, anzi posta dagli uomini come valida anche per gli dèi. Dopo aver matematizzato “il gran libro della natura”, Galilei osserva, infatti, che se la conoscenza posseduta da Dio extensive (quanto al numero delle cose conosciute) supera quella posseduta dall’uomo, intensive (quanto al modo di conoscere le cose conosciute) è identica (47, 127).
Conoscere la causa significa prevedere l’effetto, prepararsi al suo evento, sottrarsi all’accadimento imprevisto, ridurre il timore, placare l’ansia in un sapere che sa di sé e del corso immutabile delle cose. Se l’immutabilità del volere del destino intimorisce l’uomo, l’immutabilità del corso delle cose, che non derogano dalla legge causale pre-posta alla comprensione del loro accadimento, lo rassicurano.
Per Eraclito erano le Erinni, donne furibonde e avide di vendetta, a controllare il corso inquieto della natura: “Il sole non andrà al di là della sua misura, perché se lo facesse, le Erinni, ministre di Dike, lo metterebbero a posto” (DK., fr. 94). Per Democrito è il determinismo rigoroso della causalità, per cui “niente avviene a caso, ma ogni cosa accade per ragione e necessità” (DK., fr. 68). Le due posizioni non esprimono semplicemente due diverse interpretazioni della natura, ma nella loro successione cronologica indicano un tragitto che, dall’inquietudine propria di chi si pensa deciso dal destino, conduce alla quiete di chi sa che “nulla avviene a caso”, perché conosce la legge secondo cui tutto avviene. Il desiderio di superare l’inquietudine generata dall’imprevedibile dischiude quel cammino che, non a caso, si conclude neìYataraxta e nell’aponia, nella quiete della mente e del corpo.
La vendetta di cui sono avide le Erinni della mitologia greca e la giustizia di cui sono ministre confermano il contesto esistenziale da cui ha preso le mosse la ricerca della causa. La vendetta pensata come legge (lex talionis), quindi come espressione di giustizia, pareggia le offese nella modalità della causa e dell’effetto, che poi troviamo nella consequenzialità rigorosa della colpa e della pena. Il principio causa aequat effectum può essere capito solo se si considera che la pena non può essere né maggiore né minore della colpa, perché altrimenti non si seguirebbero i dettami della giustizia.
Infine la relazione causale precede l’effetto come è necessario che la colpa sia commessa prima che venga comminata la pena. In questo modo si connette il concetto di tempo con quel
lo di causa e lo scorrere del tempo rappresenta il corso della giustizia. Le Erinni sono infatti nate dal sangue di Urano caduto su Gea perché Crono (il tempo?) vendicò l’ingiustizia del padre verso i figli, castrandolo. Così vendetta e retribuzione, colpa e pena, giustizia e tempo compaiono nel mito come quelle figure che verranno definitivamente assestate dal pensiero razionale nella semplice e al tempo stesso potente relazione di causa ed effetto che fornirà ad ogni cosa il suo fondamento, la sua spiegazione, la sua causa, la sua ragion d’essere.
Incomincia il tempo della filosofia come ricerca delle cause: “La filosofia — dice Aristotele — è la scienza delle cause e dei principi (…) È dunque evidente che per noi è necessario conseguire la scienza delle cause prime. Infatti ogni cosa noi diciamo di sapere quando pensiamo di conoscerne la causa” (Metafisica, A, 983 a). L’efficienza, la finalità, la forma e la materia offriranno la ragione di ogni cosa, mentre il senso, che non ha né causa né ragione, né spiegazione né fondamento, si assenta da un pensiero che ha dimenticato il destino per l’assidua e rigorosa ricerca della causa.
L’opposizione destino-causalità è, tra le antitesi, quella che maggiormente ha tormentato l’umanità nel suo pensarsi già decisa o in grado di decidere tutte le cose. Ogni lingua, anche se ha già conosciuto la scienza e l’impostazione causale del pensiero, possiede un certo numero di parole adombrate dal senso del destino; tali sono: sorte, fatalità, caso, predestinazione, vocazione, individuazione. Sono cifre, non concetti. Su di esse gravita un’immagine del mondo che non è l’immagine che l’uomo s’è razionalmente costruito. Il destino sfugge alla logica della ragione che l’idea di causalità sostanzia, mentre alla causalità sfugge il senso del mistero che il destino gelosamente custodisce.
Se la legge causale è un vincolo che l’angoscia dell’uomo impone all’accadere, se è una profonda difesa dell’uomo che tenta di controllare, mediante il potere del concetto, il tormentoso enigma della successione degli eventi, l’enigma si fa ancora più assillante per un intelletto ormai dominatore che dal senso di questo enigma si sente contraddetto? Per risolvere l’enigma non basta ricondurre le cose alle loro cause, dando così a ciascuna il proprio nome. Chiamare qualcosa col suo nome significa esprimere potere su di essa, ciò fa parte essenziale delle arti magiche primitive.
Un tempo si dominavano le potenze malvagie chiamandole con il loro nome, si indeboliva o si uccideva il proprio nemico eseguendo certi procedimenti magici sul suo nome. Con la nascita della scienza queste estrinsecazioni primordiali dell’angoscia primitiva riapparvero in quella tendenza volta ad eliminare quanto risultava inafferrabile alle categorie della ragione che, con la consequenzialità logica, si difese dall’ineluttabilità del destino e, con la magia della concettualità, dalla magia del mistero, il cui volto inaccessibile ha generato nel pensiero primitivo un timore rispettoso, e nel pensiero occidentale un’angosciata e perciò prepotente reazione.
Ma il destino (Geschick), che destina ogni evento, destina anche quell’evento, la ragione occidentale, che tenta la soppressione del destino e del mistero in esso racchiuso. Questa terminologia, che richiama il linguaggio religioso, non deve far pensare alle porte dell’inferno che non prevarranno (portae inferi non praevalebunt), perché qui l’inferno non è l’antitesi, ma il volto attuale del destino, ciò che il destino lascia essere di sé in occasione del suo assentarsi: l’assenza di senso e quindi la domanda che lo richiede.
È una domanda che non si rivolge alla ragione, e tantomeno a un inconscio costruito, come quello di Freud, a sostegno della ragione; è una domanda che non si rivolge a, ma attende in quel luogo dove, come dice Jung, “non si rimanda a cose note” (83, 485). Questo luogo, proprio perché non ha avuto luogo, lo possiamo chiamare inconscio, ma questo alla sola condizione di non trovarvi, appena dissepolto, le impronte della ragione, ma ciò che la ragione ha tralasciato, perché incompatibile con la sua opera di razionalizzazione.
4. L’inconscio e la razionalità dell’Occidente
Se neiridentità (questo è questo e non altro) e nella causalità (questo dopo questo e per effetto di questo) riconosciamo i principi su cui s’è costruita la coscienza occidentale, nell’ambivalenza (questo è questo ma anche quello) e nella sincronicità (questo insieme a quello), Jung rinviene i profili di ciò che l’Occidente ha ignorato e, per effetto di questa ignoranza, può dirsi “inconscio”.
Ma ambivalenza e sincronicità sono appunto i connotati del simbolo che non conosce l’uni-vocità della ragione perché, come vuole la parola, simbolo è composizione (sum-bàllein) dell’uno e dell’altro insieme. Nel rifiuto di questa composizione Jung scorge un’espressione deìì‘unùlateralità della ragione, di quello sguardo che, ostinato, non lascia emergere l’altro aspetto della “cosa”, che non è l’irrazionale contrapposto alla ragione, ma “l’uno e l’altro insieme”.
Per questo, scrive Jung, “ci porta molto lontano dalla fonte dei simboli ogni ampliamento e rafforzamento della coscienza razionale, il cui prevalere ne impedisce la comprensione. Questa è la situazione odierna e non si può invertire il giro della ruota e tornare a credere in ciò ‘di cui si sa che non è’. Eppure è necessario rendersi conto del vero senso dei simboli, non solo per conservare alla nostra civiltà tesori incomparabili, ma per aprirsi una nuova via ad antiche verità che, per la stranezza del loro simbolismo, sono perdute per la nostra ragione” (87, 192-193).
Ma una volta preclusa la via del passato perché, giustamente, “non si può invertire il giro della ruota”, quale itinerario rimane aperto per accedere al segreto dei simboli? Se il simbolismo del passato è irrimediabilmente risolto nella razionalità del presente, che ha percorso tutta la terra, ridisegnandone la geo-grafia, la grafìa della terra, la traccia dei segni, dove è possibile, oggi, rintracciare un simbolo? Tra queste a-porie, nel senso letterale degli itinerari preclusi, Jung avanza la sua ipotesi dell ‘inconscio come avvenire. “L’inconscio è la storia non scritta dell’uomo da tempi immemorabili; la formula razionale può bastare al presente o all’immediato passato, ma non all’esperienza umana che, nella sua totalità, esige quella più ampia visione che solo il simbolo può dare. Se questa manca, la totalità dell’uomo non è rappresentata dalla coscienza, e l’uomo rimane un riferimento più o meno causale, una coscienza parziale suggestionabile, in balia di tutte le fantasie utopiche che usurpano il posto vuoto dei simboli” (87, 183).
Come ciò che non ha avuto luogo neirorizzonte dischiuso dalla coscienza razionale, il simbolo è inconscio. A differenza di
Freud, infatti, Jung non si nasconde che l’inconscio è solo una ipotesi: “Definisco ipotetici i processi inconsci, perché l’inconscio, per definizione, non è accessibile all’osservazione diretta, ma può essere soltanto ‘inferito’ ” (89, 182). Ma, prosegue Jung, “Sa forse qualcuno un’espressione migliore per una cosa che, in senso moderno, non è stata ancora compresa?” (87, 184).
Qui il limite linguistico va assunto in tutta la sua portata, perché non rinvia a una deficienza del vocabolario, di un singolo
o di una cultura, ma al limite delYapertura storica della razionalità che ci ospita, i cui confini giungono fin dove giungono le sue parole che nominano i significati compatibili con quell’apertura. Sono confini che non si possono superare con una semplice escogitazione linguistica, a meno che non si voglia “cader vittima dei concetti verbali che la coscienza razionale ha prodotto, e così cacciare il diavolo per mezzo di Belzebù” (86, 277). “È infatti possibile dipendere dalle parole quanto dall’inconscio — osserva Jung — ma la sottomissione alla tirannia delle parole ha come suo grave inconveniente che la ragione si abbandona sempre di più alla sua attività discriminante (diskrimi-merende Tàtigkeit)n (86, 277).
Se questa è l’attività della ragione, ciò che la denota e la connota, l’attività opposta che non discrimina ma compone, non disgiunge ma congiunge, in quanto non ospitata dall’apertura storica della coscienza razionale, rimane inconscia. Questo è il modo in cui Jung fonda Vinconscio, non come supporto alla Mlacunositàn della coscienza, ma come luogo simbolico in cui è la composizione (sum-bàllein) di ciò che la coscienza disgiunge (dia-bàllein).
Ma c’è una composizione e quindi un simbolo che è prima della ragione e una composizione che è dopo la ragione. La prima è inconscia nel senso che è in sé e non sa di sé: “Da quel che sappiamo, scrive Jung, risulta con certezza che la psiche originaria non possiede ancora coscienza alcuna di sé. La coscienza di sé si è andata formando nel corso di uno sviluppo che appartiene parzialmente all’epoca storica… Anzi è probabile, considerate le notevoli possibilità che la coscienza ha di differenziarsi ulteriormente, che oggi questa si trovi ancora su di un gradino relativamente basso. Comunque sia, sembra che, grazie al suo grande sviluppo e alla conseguita autonomia, essa abbia dimenticato la sua dipendenza dalla psiche inconscia. Di questa liberazione essa mena gran vanto” (86, 277).
Un giusto vanto, perché, come si è visto, la ragione discriminante, assegnando ad ogni cosa il suo significato, la sua causa, la sua ragione, il suo perché, ha ridotto l’angoscia. Ma oggi che l’angoscia non è più nell’improvviso sorgere delle cose e nel loro inquietante apparire, ma nella mono-tonia della ragione che, con l’uni-vocità dei suoi significati, determina tutte le cose, producendole nella loro definitiva terminazione, come è ipotizzabile un avvenire se non come recupero del simbolo, al di là delle disgiunzioni e delle de-limitazioni della ragione? Qui il simbolismo, da memoria irraggiunta, da sfondo precosciente che stava agli albori della coscienza, al suo Oriente, può diventare progetto per YOccidente, per questa terra-della-sera (Abends-land) che è vissuta di sola luce diurna, di ragione dispiegata.
Ponendosi come progetto (pro-bàllein) oltre i limiti della pura ragione, il simbolo e la sua dimora, l’inconscio, non potranno essere percorsi, come in Freud, dall ‘ipotesi causale, perché questa è un prodotto della ragione, da cui non si sporge sopprimendone le “lacunosità”, ma percorrendole per intero, in vista di ciò a cui rinvia. In questo itinerario prospettico, la causalità deve cedere il posto alla finalità che, proprio perché oltrepassa le antinomie della ragione, non è categoria della ragione, ma suo al di là.
Oltrepassare la ragione significa oltrepassare la sua attività discriminante e disgiuntiva, il suo dia-bàllein, reso possibile da quell’impianto categoriale che, tenendo lontane le tensioni anti-nomiche, evita quei conflitti di cui si nutrono i simboli, quando nel mandala compongono il cerchio e il quadrato, la terra e il cielo. “La ratio — scrive Jung — si pone sempre ed esclusivamente o da una parte o dall’altra, per evitare ciò che per essa è insopprimibile antinomia. In questo disperato tentativo volto a trattenere quei valori che essa ha scelto in precedenza, la ragione umana cerca di far passare se stessa come ‘sostanza immutabile’, escludendo ogni possibile comprensione simbolica. Ma quando la ratio mostra la sua relatività eliminandosi da sé nelle sue antinomie, essa appare anche come un semplice mezzo volto a un fine, come un’espressione simbolica verso quel punto di passaggio che dischiude un cammino evolutivo” (84, 33).
Questo cammino non può essere percorso dall’ipotesi causale perché “la causa rende impossibile ogni sviluppo. Come esatto contrario di ogni evoluzione prospettica, la reductio ad causam blocca la libido ai dati di fatto elementari. Dal punto di vista del razionalismo questo è senz’altro un bene, ma dal punto di vista della psiche è la non vita, è la noia inguaribile. Con ciò non si intende naturalmente negare che per molti uomini la fissazione della libido ai fatti fondamentali è assolutamente necessaria. Ma quando questa esigenza è soddisfatta, la psiche non può ancorarsi in eterno a questo punto, ma deve continuare a evolversi; allora le cause si trasformano per lei in mezzi che le consentono di raggiungere un fine, in espressioni simboliche di un cammino da percorrere” (84, 32-33).
Senza questo punto di vista prospettico non si raggiunge l’essenza dell’uomo, perché essere uomini non significa essere generati da una causalità che ci trascende, in essa gettati e spinti, secondo quel rigido determinismo che Freud ha meticolosamente descritto fino alla riduzione della felicità e dell’infelicità alla meccanica soddisfazione di un’anonima libido. “Il fatto che noi siamo vissuti dalle forze della vita — scrive Binswanger — è solo una faccia della verità; l’altra faccia siamo noi che determiniamo la nostra vita in quanto nostro destino” (8, 277). Forse recuperando questa soggettività originaria, del tutto ignorata da Freud, avremo meno spiegazioni, ma più possibilità di accostarci al problema del senso e del non senso, dove forse è più probabile rintracciare il significato recondito dell’esistenza umana, anche se questo dovesse trovarsi al di là della ragione e dell’ipotesi causale che la presiede.
Se, infatti, “alienazione” significa allontanamento (Ent-fremd-ung) dell’uomo da sé, non c’è alienazione più grande di quella che l’uomo può patire sotto il potere incondizionato delle categorie della ragione. Là, infatti, dove queste categorie, da metodi escogitati dall’uomo per la decifrazione della terra, assurgono a livello di indiscusso a priori esistenziale in grado di decidere il modo umano di vivere e di pensare, l’uomo finisce con l’appartenere alla ragione più di quanto la ragione non appartenga all’uomo, e perciò, in un modo profondo e crudamente letterale, l’uomo “perde la sua mente”.
Nasce da qui l’esigenza di un simbolo che è dopo la ragione, e che nessun’ipotesi causale, in quanto ipotesi della ragione, è in grado di raggiungere. Compresa questa verità, Jung propone di affiancare al metodo causale di Freud l’itinerario finalistico, perché “ciò che per la coscienza causale è un fatto, per la coscienza finalistica è un simbolo. Tutto ciò che è proprio a uno dei punti di vista è improprio all’altro” (84, 32). Così ad esempio, “la fantasia può essere intesa o in un senso causale o in un senso finalistico. A una spiegazione causale essa appare come un sintomo di uno stato fisiologico o personale che è il risultato di avvenimenti precedenti. Alla spiegazione finalistica invece la fantasia appare come un simbolo che tenta, con l’ausilio dei materiali già esistenti, di caratterizzare o di individuare un determinato obbiettivo o piuttosto una determinata linea di sviluppo” (83, 443).
Quello che qui è detto per la fantasia vale per l’universo psicologico: “Quando si ha a che fare con cose psichiche, il chiedersi: ‘perché si verifica la tal cosa?’ non è necessariamente più produttivo che il domandarsi: ‘a che scopo succede?’ ” (88, 303). In gioco è qui il passaggio dall’ordine della spiegazione (Er-kldrung), presieduto dalle categorie della ragione, all’ordine del senso (Sinn) che dette categorie trascende.
Ma qui la distinzione introdotta da Jung tra il punto di vista causale (kausalen Gesichtspunkt), che approda alla spiegazione (Erklàrung) delle cose, e il punto di vista finalistico ( finalen Gesichtspunkt)i, che si apre a successive linee di sviluppo e quindi a possibili futuri (zukunftige psychologische Entwicklungslinie), non va intesa in senso debole, quasi si trattasse di una semplice precisazione circa la differenza tra due possibili procedure della ragione, dal momento che delle due, solo la procedura causale, che approda alla spiegazione, appartiene alVordine della ragione, mentre l’altra, come diffusamente e ripetutamente ha mostrato Kant “trascende i limiti della pura ragione… perché non potendo esser tratta dall’esperienza, e non essendo necessaria alla possibilità stessa deU’esperienza, non v’è modo di assicurare alla nozione di fine una realtà oggettiva” (92, 271).
Tra causa e fine corre allora tutta quella distanza che separa l’ordine razionale dall’ordine simbolico. Nell’ordine razionale si approda alla spiegazione, cioè alla riduzione di un fenomeno all’ordine legale che la ragione ha anticipato; il risultato di questa riduzione è la produzione di un significato (Bedeutung). Nell’ordine simbolico, invece, si trascende la spiegazione e la conseguente produzione di significati validi per la ragione, per arrischiare un senso (Sinn) che, come dice Kant, “può essere pensato senza contraddizione, ma non determinato categoricamente” (92, 271). In questo rischio “la ragione non ci può seguire — sono sempre parole di Kant — perché quando l’itinerario conduce al trascendente, la ragione è indotta a fantasticare poeticamente, cioè a fare ciò che è suo massimo dovere evitare” (92, 287 ).
Esclusa come possibilità della ragione, la procedura finalistica è riaccolta da Kant quando l’esigenza incondizionata (unbe-dingte Forderung) di un senso si impone al di là della produzione razionale dei significati, “allora — dice Kant — voler escludere interamente il principio teleologico e pretendere di seguire sempre il semplice meccanicismo (…) significherebbe abbandonare la ragione a divagazioni sopra le impenetrabili potenze della natura, divagazioni fantastiche e chimeriche non meno di quelle cui potrebbe essere trascinata da un’esplicazione puramente teleologica, che non facesse alcun conto del meccanicismo naturale” (92, 288).
Nella lettura dei processi psicologici, Jung, assumendo l’ipotesi finalistica, e considerandola più idonea di quella causale adottata da Freud, non solo non ignora la lezione kantiana, ma la cita testualmente: “se vogliamo lavorare veramente da psicologi, allora dobbiamo conoscere il ‘senso’ dei fenomeni psichici (…) Per questo è assolutamente impossibile considerare la psiche in senso ‘solo causale’; dobbiamo considerarla anche in ‘senso fina· le’. Prima di Kant la cosa sembrava impossibile (…) ma, come è noto, Kant ha dimostrato molto chiaramente che il punto di vista meccanicistico e quello teleologico non sono principi costitutivi (oggettivi), e per così dire qualità dell’oggetto, ma solo principi regolativi (soggettivi) del nostro pensiero, e come tali non si contraddicono, giacché io posso senza difficoltà pensare insieme la seguente tesi e antitesi. Tesi: tutte le cose nascono secondo leggi meccaniche. Antitesi: alcune cose non nascono esclusivamente secondo leggi meccaniche. Kant dice: la ragione, però, non può dimostrare né l’uno né l’altro di questi principi, perché noi non possiamo disporre di alcun principio determinante a priori a proposito della possibilità delle cose secondo leggi puramente empiriche della natura (…) Naturalmente io considero necessari entrambi i modi di vedere, quello causale e quello finalistico, ma vorrei far notare che, dopo Kant, sappiamo che i due punti di vista non si contraddicono se vengono considerati come principi regolatori del pensiero, e non come principi costitutivi del processo di natura stesso” (82, 318-319).
Accolta la lezione kantiana, Jung non ne dimentica le cautele, anzi è perfettamente consapevole che la ricerca di un senso, al di là dei significati stabiliti dalla ragione, implica un oltrepassamento dei limiti della pura ragione. Questo oltrepassamento, che dischiude l’orizzonte simbolico, prende avvio, secondo Jung, quando “la spiegazione di un processo naturale non offre un senso soddisfacente (eines befriedigenden Sinnes entbehreY‘ (83, 444).
Ciò è dovuto al fatto che la spiegazione, come riduzione di un fenomeno all’ordine legale che la ragione ha anticipato, offre un significato che rimane circoscritto nell’anticipazione convenuta, e che quindi non trascende l’ipotesi umana che l’ha formulato. Non siamo cioè in presenza di un’apparizione di senso, di una verità nell’accezione greca della parola a-létheia, ma di un risultato ottenuto (ex actu) dalla legislazione della ragione, quindi di una semplice esattezza. Se “si ammette — scrive Jung — che le leggi naturali sono ipotesi formulate dagli uomini per spiegare il processo naturale”, non dobbiamo dimenticare che oltre “a una conformità a leggi nel processo naturale, vi è una conformità a leggi del processo naturale” (83, 444). Con questa affermazione Jung ripercorre in sede psicologica l’itinerario filosofico di Kant che pone, al di là del fenomeno, la cosa in sé, al di là della corrispondenza delle cose alle anticipazioni della ragione, la verità delle cose.
Ma come è possibile accedere alla verità delle cose, al noumeno, alla cosa in sé? Non si percorre qui la grande tautologia di Kant che, partendo dal presupposto che il conoscere produce significati che hanno valore solo per noi (fur uns), si vede poi costretto ad escludere la possibilità di conoscere la cosa in sé (an sich)? E d’altra parte come si può prescindere da quel presupposto se la ragione perviene solo a quei significati che corrispondono alle sue premesse? Se il limite della ragione, come ha indicato Kant, è invalicabile nella direzione del mondo esterno, forse un’itinerario è percorribile in direzione del mondo interno, perché qui la cosa in sé siamo noi.
Questa è la peculiarità della psicologia che, unica tra le scienze, si sottrae a qualsiasi forma di oggettivazione, perché il soggetto che indaga e l’oggetto indagato fanno tutt’uno. “Ogni altra scienza — scrive infatti Jung — ha un al di fuori di se stessa; ma non la psicologia, il cui oggetto è il soggetto di ogni scienza in generale” (90, 240). Per questa peculiarità, in psicologia la distinzione tra fenomeno e noumeno, tra l’essere come appare a noi e l’essere come è in sé, può risolversi, ma per questo è necessario che si conceda alVin sé che c’è in noi di parlare a noi. Ciò è possibile se la ragione che presiede alla costituzione della nostra coscienza si dispone all’ascolto di una parola che la abita a sua insaputa, quindi di una parola inconscia che, nel linguaggio di Jung, è la parola del “Sé che offre all’io motivo di rendersi conto di sé” (86, 253).
Per comprendere questa parola è necessario oltrepassare il linguaggio dell’Occidente, che è un segno della terra, per un linguaggio che, pur essendo ancora un ‘esegesi, non lo è nel senso dell’interpretazione dei segni, ma in quello dell’esodo. Si tratta cioè di uscire da un esilio linguistico dove l’anima (psyché) è straniera, in vista di una terra dove, meglio del concetto, può la metafora che non afferra (cum-capio), ma porta fuori (meta-phoretn). La metafora non è un disimpegno linguistico, ma la segreta verità della parola. Infatti, solo impedendo alle parole di concludersi in ciò che hanno detto, le si rende veramente espressive.
Si fa qui riferimento a un’espressione che non è esplicazione, ma trasgressione del linguaggio, sua metafora che, al di là di tutto ciò che è detto, allude a ciò che ancora resta da dire. Questa allusione è tanto al di là quanto al di qua della parola, perché è la parola stessa ad essere metafora quando è simbolo della sua realtà nascosta, quindi della sua verità esoterica. Forse per questo gli antichi greci chiamavano la verità a-létheia, forse per non disgiungere mai ciò che si andava manifestando, dal fondo che rimaneva nascosto. In questo fondo o sfondo, Platone, nella sua etimologia della parola verità, rinveniva le orme del sacro, le tracce temibili del vagabondare di Dio uàle-theian (Cratilo, 421 b).