3. Sessualità e follia
Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa vogliono l’uno dall’altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a essere insieme. È allora evidente che l’anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio.
PLATONE, Convito, 192 c-d.
Non bisogna leggere Platone in modo “platonico”, cioè ascetico, edificante, “cristiano”. Non bisogna intendere la mortificazione del corpo come mortificazione dei piaceri, delle passioni, della sessualità. Platone guarda più alto, i problemi che gli stanno a cuore sono quelli della dicibilità e dell’indicibilità, quindi le regole della ragione e gli abissi della follia.
Guardando “le cose d’amore” o, come dice il testo citato in epigrafe, i tà aphrodisia, Platone si chiede che cosa con esse l’anima riesce e non riesce a dire (eipein). E dove il dire si interrompe e la regola non basta a portare la parola ad espressione si apre lo sfondo buio del presagio (manteuetai) e dell’enigma (ainittetai). La sessualità appartiene all’enigma e l’enigma alla follia (manta).
1. Mania
Anche la follia è per Platone un’esperienza dell’anima, non nel senso del suo collasso, della chiusura al senso, dell’ottundi-mento dell’ordine dei significati, ma nella consapevolezza che le esperienze dell’anima sfuggono a qualsiasi tentativo che cerchi di fissarle e disporle in successione ordinata perché, al di là di ogni ordine razionale, l’anima sente che la totalità è sfuggente, che il non-senso contamina il senso, che il possibile eccede sul reale, che ogni tentativo di comprensione totale emerge da uno sfondo abissale che è caos, apertura, spalancamento, disponibilità per tutti i sensi.
Platone nell’edifìcare il cosmo della ragione, il solo che gli uomini possono abitare, non chiude l’abisso del caos, ma lo riconosce come minaccia e dono, come sede di parole incontrollabili, come dimora degli dèi, perciò nel Fedro può dire: “I beni più grandi ci vengono dalla follia (mania) naturalmente data per dono divino” (244 a) e, poco dopo: “La follia dal dio proveniente è assai più bella della saggezza (sophrosyne) d’origine umana’’ (244 d).
Si è soliti porre queste espressioni ai margini del testo platonico, per ricondurle alle esperienze misteriche a cui Platone era stato iniziato in Egitto da Sechenuf. Così marginalizzate, esse diventano inespressive, semplici residui biografici, connessioni inessenziali a credenze e pratiche religiose ancora diffuse ad Atene, espressioni comunque inconciliabili con la dottrina dell’anima e delle idee come è esposta nel Fedone e nella Repubblica.
Ma non è così. Proprio perché inaugura l’anima razionale, Platone sa da quale fondo psichico l’ha liberata, conosce le passioni che hanno alimentato la crisi di cui s’è fatta interprete la tragedia, non ignora la temibile apertura verso la fonte opaca e buia di ogni valore sociale che chiama in causa il fondamento stesso della città, sa che la ragione e il sapere che la esprime si ottengono, come la buona armonia nella città, espellendo il kàtharma, il residuo del sacrificio, il rifiuto del discorso che non sta alla regola, ma sa anche che bisogna sacrificare agli dèi perché è da quel mondo che vengono le parole che poi la ragione ordina in sequenza non oracolare e non enigmatica.
Quel mondo che sta prima della ragione e che offre alla ragione i contenuti da ordinare per una produzione compiuta di senso è il mondo che Platone chiama della divina follia (theia mania) dove le cose trasgrediscono le loro definizioni e si offrono come irradiazioni di immagini rinvianti a quell’ulteriorità di senso che anche le più comuni esperienze non cessano di diffondere, quando sfuggono al controllo dell’anima razionale. Per questo “La profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona, in condizioni di follia (maineisai), fecero un gran bene alla Grecia, sia ai singoli, sia all’intera comunità, mentre poco o nulla fecero quando erano nelle condizioni di chi può ragionare (sophronein)n (Fedro, 244 b). Alle due sacerdotesse sopra menzionate, Platone aggiunge “la Sibilla e tutti quelli che da qual che dio ispirati trattarono la profezia” (ibidem). Il dio ispiratore viene indicato alla fine della trattazione insieme agli altri dèi a cui sono da ricondurre le altre forme di follia: “Quanto alla divina follia — scrive infatti Platone — ne abbiamo distinto quattro forme a ciascuna delle quali è preposta una divinità: Apollo per la follia profetica, Dioniso per la follia iniziatica, le Muse per la follia poetica, mentre la quarta, la più eccelsa, è sotto l’influsso di Afrodite e di Amore” (Fedro, 265 b).
Si è molto insistito sulla differenza fra queste quattro forme di follia e sulla corretta attribuzione delle rispettive divinità, ma così facendo si è trascurata quell’identità che tutte le sottende e le contrappone, in quanto espressioni di follia, all’umana ragione. Se si perde di vista l’identità e la conseguente contrapposizione non si coglie l’intenzione platonica che articola la differenza tra la conoscenza del mondo affidata all’umana ragione e la conoscenza di sé che non è possibile se non come dono del dio.
2. Epistéme
Provenendo dal mondo del linguaggio senza regole, Socrate non sa niente e non perde occasione per ribadirlo. Il suo dialogo con sacerdoti, medici, retori, sofisti e uomini di giustizia avviene nella forma dell’interrogazione: che cos’è santo, che cos’è buono, che cos’è giusto? Ciò che Socrate vuole ottenere è la definizione della cosa che ponga fine all’oscillazione continua e alla proliferazione incontrollata del suo significare. Raggiunta la definizione, procede ad articolare un discorso che per reggersi non abbia bisogno dell’autorità di chi lo enuncia o della persuasione indotta da una retorica seduttiva, ma sia in grado di stare in piedi da solo. Epistéme è appunto ciò che sta (istemi) su (epi) da sé, e, così stando, ha ragione di tutti i discorsi che l’incalzare dell’interrogazione via via travolge.
Nei dialoghi di Platone, Socrate ha sempre ragione; a conferirgliela è il metodo da lui inventato per rendere univoco il linguaggio. Questa univocità fa di Socrate il Signore di tutte le ragioni e di tutte le significazioni che nascono al di là dell’oracolo e deirenigma. L’oscuro antro del Signore di Delfi cede alla luminosità dell’agorà, i messaggi diffusi dalle foglie sparse dall’oracolo si disperdono, sostituiti dalle parole ordinate dalle categorie.
L’anima abbandona l’inquietudine dell’enigma per la quiete del sapere; non è più esposta alle vicissitudini narrate dai miti, ma è tesa alla conoscenza delle idee in cui è l’essenza delle cose che le definizioni riproducono. Il dialogo genera il logos e nel logos i significati stanno fermi: epistéme.
Ma Socrate non considera l’anima razionale da lui inaugurata, e a cui ha reso testimonianza con la sua stessa morte, nella sola prospettiva dell’ordine a cui contribuisce. Sa infatti da quale caos l’ha evocata, da quale abisso l’ha chiamata fuori; un giorno una donna l’ha disordinato e ha insegnato a lui, che non sa nulla, quell’unica cosa che sa, la scienza delle cose d’amore: “Vi assicuro, di nulla ho sapere (oudén epistasthai) se non delle cose d’amore (tà erotikà)” (Convito, 177 d).
La parola impiegata da Socrate è epistéme, non più riferita all’ordine dispiegato dell’anima razionale, ma al disordine che l’anima patisce fra le cose d’amore. Ma, ci avverte Socrate: “Amore è un demone possente che sta tra i mortali e gli immortali (metaxy thnetou hai athanàtou)19 (Convito, 202 d). Dunque non dispiega la sua azione tra gli uomini, ma tra gli uomini e gli dèi. Per questo dicevamo all’inizio di non leggere Platone in modo ascetico, edificante, “cristiano”, perché lo spazio che Platone assegna alle cose d’amore è quelYintervallo tra l’umano e il divino che, lo abbiamo visto, è percorso dalla violenza che sempre accompagna la violazione, l’espulsione e l’esposizione al sacro.
fi un intervallo dove l’uomo ha giocato le sue sorti quando è uscito da quello sfondo preumano abitato indifferentemente dagli animali e dagli dèi: proiezioni antropologiche di istinti e pulsioni che l’anima patisce e perciò legge come Valtro da sé. Socrate conosce questo intervallo, ne ha epistéme, sa da che sfondo l’anima s’è liberata, e distingue tra l’uomo comune che ha dimenticato la sua provenienza e l’uomo demonico che ne conserva memoria: “E si dice appunto che chi ha conoscenza sicura di questo è un uomo in rapporto con potenze superiori, un uomo demonico (daimónios). Invece chi sa cose d’altro genere non è che un uomo comune (bànausos)” (Convito, 203 a).
Socrate non è un uomo comune perché, disponendo di un’epi-stéme sulle cose d’amore, non le riduce a vicende tra uomini, ma a quel rapporto inquietante che gli uomini hanno sempre avvertito tra loro e gli dèi. Ma gli dèi sono dentro di noi e la loro follia ci abita. Sapere le cose d’amore significa allora sapere che con le cose d’amore siamo in rapporto con l’altra parte di noi stessi, con la follia da cui un giorno ci siamo emancipati, senza però lasciarla alle nostre spalle come il ricordo di un passato. Ogni volta, infatti, che abbiamo a che fare con le cose d’amore, se non siamo “uomini comuni” sappiamo d’avere a che fare con questa follia. Socrate, che è uomo demonico, assicura di averne epistéme.
3. Atopia
L’amore di cui parla Socrate non ha la forma di un sentimento umano, ma quella più inquietante della possessione (ka-tokoché) di un Dio. L’entusiasmo (enthousiasmós) che genera, lungi dall’essere un sentimento di esuberanza o di particolare eccitazione, dice che l’uomo, in quella circostanza, è abitato da un dio, ha dentro di sé un dio (en-theós), per cui non è l’anima razionale a proferir parola, ma il dio che la possiede: “Deus inclusus corpore iam, non Cassandra loquitur”, dice Cicerone nel De Divinatione (I, 31), quasi riprendendo i versi di Euripide: “Quando invero il dio entra possente nel corpo / fa dire il futuro a coloro che infuriano” (Baccanti, 299-300).
Qualcosa del genere accade con le cose d’amore. Esse non appartengono al racconto dell’anima razionale perché, in loro presenza, l’anima subisce una dislocazione (<utopia) che, spostando il regime delle sue regole, indebolisce il possesso di sé. La sua trama viene interrotta da qualcosa di troppo che, spezzando la continuità del dire e l’ordine del discorso, porta verso itinerari di fuga che l’anima non riesce a inseguire. Pulsioni (ormài) e desideri (prothumiai), infatti, irrompendo come significanti incontrollati nell’ordine dei significati statuiti, producono nel senso quel controsenso che fa ruotare i discorsi senza immobilizzarli intorno a un dispositivo ideale che l’anima ha faticosamente raggiunto come sua connessione.
Ma ci sono altri nessi, altri ordini, altri intrecci i cui nodi affondano nell’altra parte di noi stessi. A questo allude l’etimologia che vuole sexus derivato da nexus. Per comprendere i nessi che il sesso inaugura dobbiamo dislocare la nostra riflessione e incominciare a pensare a partire dal sesso e non dall’io che ha un sesso. Il sesso, infatti, non è qualcosa di cui l’io dispone, ma se mai è qualcosa che dispone dell’io, qualcosa che
lo incrina, che lo apre alla crisi, che lo toglie dal centro della sua egoità, dall’ordine delle sue connessioni per nessi di tutt’al-tro genere e forma e qualità. Per questo Socrate, a proposito delle cose d’amore parla di possessione, di katokoché.
Nel recarsi con Aristodemo al convito di Agatone, Socrate, sentendosi dominare da una strana forza, “andava per la strada restando via via indietro (…) tutto rivolto a se stesso” (Convito, 174 d), finché, completamente afferrato da una strana condizione che tutto lo pervade, si toglie dal trambusto di una via “per mettersi nel vestibolo della casa vicina dove se ne sta in piedi immobile” (ibidem, 175 a). I convitati mandano un servo a chiamarlo, ma Aristodemo interviene dicendo: “Eh no, lasciatelo stare. È un’abitudine sua. Avviene spesso che si fa in disparte e se ne sta lì immobile. E ciò in qualunque luogo. Verrà fra poco, ne sono sicuro. Non lo disturbate, lasciatelo stare piuttosto” (ibidem, 175 b).
Che cosa faccia Socrate, Platone non lo dice; si limita ad ascrivere questa curiosa abitudine alla sua nota atopia (ibidem, 221 d), un termine che viene solitamente tradotto con “stranezza”, ma forse sarebbe meglio dire “dislocazione” (à-topos). L’amore, infatti, porta fuori dal luogo (tópos) dove solitamente si svolge la vita, crea uno stato di sospensione in cui spazio e tempo perdono estensione e durata. Estraneo airordinato scorrere della quotidianità, l’amore è àtopos, è fuori luogo.
Giunto fra i convitati, Socrate indugia immobile per circa mezz’ora, giusto il tempo perché il pranzo giunga a metà, e poi, quando, ebbro, Alcibiade inizia a parlare del suo amore per Socrate, accenna a un altro episodio in cui Socrate, per ventiquattro ore “da un’aurora alla successiva aurora se ne stette immobile (…) spiato dai compagni che volevano sapere quanto in quella condizione sarebbe durato” (ibidem, 220 c). Questi episodi sarebbero trascurabili se Amore fosse solo un sentimento umano e non qualcosa di demonico, anzi “il segno di un dio (tó toù theoù semeion)” (Apologia di Socrate, 40 b), “qualcosa di divino e di demonico (theion ti kat daimónion gignetai)M (ibidem, 31 d).
Come sempre l’irruzione del divino scompagina un ordine, frantuma le regole, immette nuovi sensi, ma soprattutto separa l’io dal possesso di sé, dal luogo che si è dato e dalla presenza che in quel luògo la sua ragione dispiega. Gli ateniesi condannarono Socrate a morte; con lui si comportarono come ci si comporta con la vittima espiatoria che viene sacrificata per convincere il dio ad abbandonare la città con tutto il seguito delle sue violenze e delle sue violazioni. Socrate, uomo demonico, conosceva il dio, sapeva che la ragione umana, che egli stesso andava inaugurando, poteva essere continuamente violata dall’irruzione divina. Non aveva separato l’ordine della ragione dalla sua genesi, non ignorava il disordine da cui si era emancipato, e che nei momenti di atopia lo abitava, con quella “naturale veemenza”, scrive Nietzsche, di cui sono capaci “le più grandi forze istintive” (98, 92).
“Chi, attraverso gli scritti di Platone, ha rintracciato anche soltanto un soffio di quella divina ingenuità e sicurezza dell’indirizzo di vita socratico, sentirà anche come l’immane ruota che muove il socratismo logico è in azione, per così dire, al di là di Socrate, e come essa debba essere contemplata attraverso Socrate come attraverso un’ombra. Che tuttavia egli stesso presagisse questo rapporto, si manifesta nella serietà dignitosa con cui egli fece valere dappertutto, e perfino davanti ai suoi giudici, la sua vocazione divina. Confutarlo in ciò era in fondo tanto impossibile quanto approvare la sua influenza dissolutrice sugli istinti” (ibidem, 92).
Nietzsche, che ha colto molto bene il rapporto tra la ragione socratica e la follia da cui si emancipa, avverte che, per imporsi e per valere, la ragione doveva rimuovere la sua genesi, doveva nascondere il suo aspetto di semplice regola nel gioco concitato delle passioni, perché questo non le avrebbe consentito di assurgere al rango di forma della verità. Come luogo della verità la ragione doveva essere garantita da ogni cedimento, nessuna dislocazione, nessuna a-topìa doveva mettere in crisi il tópos da essa raggiunto. Per questo Socrate doveva morire, la sua vita e il suo erotismo, la sua atopia e la sua tentazione demonica erano memoria e testimonianza indiscussa che la ragione, lungi dall’essere il luogo della verità, è quella tecnica di contenimento, quell’impianto di regole necessario per produrre un discorso che possa essere messo “in comune” 0xynón) e una forma di vita in grado di concedere la “comune” convivenza.
Per queste regole, scrive Nietzsche, per le leggi che regolano la città, “Socrate andò incontro alla morte con quella stessa calma con cui, secondo la descrizione di Platone, egli lasciò il simposio, ultimo dei bevitori, al primo albeggiare, per cominciare un nuovo giorno, mentre dietro di lui rimanevano, sui sedili e in terra, i convitati addormentati, per sognare di Socrate, il vero erotico. Il Socrate morente divenne l’ideale nuovo, mai prima contemplato, della gioventù nobile greca: prima di tutti Platone, il tipico ateniese ellenico, si gettò ai piedi di quest’immagine con tutta l’ardente dedizione della sua anima entusiastica” (ibidem, 92-93).
4. Penìa
Come ultimo dei bevitori, Socrate, nella casa di Agatone, aveva narrato la nascita di Èros da Penìa e Póros. Il mito è noto: “In occasione della nascita di Afrodite gli dèi fecero un banchetto e, come è costume nelle feste, venne a mendicare Penia. Quando Poros, ebbro di nettare, entrò nel giardino di Zeus e, appesantito, si pose a dormire, Penia si stese al suo fianco e divenne gravida di Eros” (Convito, 203 b-c).
Penìa significa “povertà”, “penuria”, “mancanza”, Póros, invece, significa “via”, “passaggio”, “guado”, ma anche “mezzo per passare”, “espediente per accedere”, quindi “entrata”, “risorsa”, “acquisto”. Come figlio di Penia e Poros, Eros è il farsi strada della mancanza, è la ricerca dell’espediente per soddisfarla. Come mancanza, la sua apparizione è un atto infondato che trova insopportabile ogni gesto della ripetizione, della regola che ribadisce se stessa, e perciò si trova in ogni inciampo, in ogni atto mancato, in ogni para-dosso che, come uno scoglio, obbliga l’orto-dossia del discorso al vortice.
Nell’ordine razionale provoca la parentesi, l’interposizione; insinuandosi nella tesi la fa traboccare, esponendola ad un altro senso che quasi sempre è fuorviante rispetto all’esigenza unitaria della ragione, al tentativo sempre reiterato di ricondurre il diverso all’identico. Intervenendo a rendere inconciliabili le differenze, incompatibili i divari, percorre trasversalmente l’ordine, incrinando la disposizione gerarchica delle parole e dei sensi. Rifiutando il privilegio di una dimensione sull’altra, Eros rende impossibile l’adeguamento a un modello. In quanto scarto, in quanto trasgressione, in quanto marginalità, il suo recupero produttivo e la sua iscrizione sono essenziali al mantenimento dell’ordine della ragione e formano le condizioni del suo esercizio. Eros, infatti, è un movimento verso un punto di perdita (penia). Non forma un altro linguaggio parallelo, autonomo o alternativo, ma solo eventi il più delle volte fra loro irrelati, non il sistema.
Come il vagabondo sfugge a ogni serie che pretende di includerlo come proprio elemento, e per il suo girovagare al di fuori di ogni struttura è perseguito, così Eros si muove al di fuori di ogni contesto che imprigiona il senso dell’interrogazione, e la sua erranza è perseguita come errore. Un errore che non è il contrario della verità, ma la sua rottura. Eros, infatti, sfugge alla logica dell’opposizione, non conosce il vero e il falso, e tanto meno il principio di non-contraddizione che li regola e, regolandoli, prepara quel regime di equivalenze con cui la ragione annoda la sua rete.
Estraneo ad ogni logica, Eros gioca, ma il suo gioco non ha regole, perché le regole servono all’esclusione, al “fuori gioco”. Nel gioco di Eros le mosse non rispondono a un calcolo e non hanno un esito determinato. Lasciando agire in modo eccentrico dei significanti imprevisti, Eros decentra il sistema verso linee di fuga, dove si smarrisce il senso che l’ordine della ragione ha faticosamente accumulato. “Povero sempre — riferisce Socrate — Eros non è affatto delicato e bello, come per lo più si crede; bensì duro, ispido, scalzo, senza tetto; giace per terra sempre, e nulla possiede per coprirsi; riposa dormendo sotto l’aperto cielo, nelle vie e presso le porte. Insomma riferisce chiara la natura di sua madre, dimorando sempre insieme con povertà” 0Convito, 203 d).
Ma Eros è anche figlio di Poros, la via, il passaggio, il guado che dalla scena, dove la ragione recita il suo testo, conduce ai margini della scena, ai bordi del linguaggio dove i termini subiscono quello s-terminio che offre lo spettacolo dell’o-sceno. Qui non c’è più identità e tantomeno relazione. I nomi con cui la ragione ha costruito la sua visione del reale precipitano in quella molteplicità irrelata di sbocchi, accompagnata da altrettanti straripamenti che portano il discorso su un’altra articolazione che non è stabilita né prevista.
Così Eros concede alla follia il suo transito, il suo passaggio, il suo guado. Questa, irrompendo nell’ordine dei significati che la ragione ha costruito per espellerla, produce quel controsenso che denuncia la maschera eretta sull’elusione della follia. E qui la direzione del discorso si lascia intuire: Eros non è godimento dei corpi, Eros è molto di più. Occupando “il posto intermedio tra l’uno e l’altro estremo (metaxy touton amphoté-ron)” (ibidem 204b), Eros si fa interprete (ermenéuei) tra la ragione che l’uomo ha costruito e la follia che ancora lo abita.
5. Ermeneia
La parola ermeneia, riferita a colui che interpreta, avvicina Eros a Ermes (o Ermete): l’interprete, il messaggero degli dèi, colui che accompagna le anime nell’altro mondo. Anche Eros svolge una funzione analoga, e l’altro mondo che dischiude è il mondo della follia che l’uomo ha preso a disabitare quando s’è congedato dagli dèi. Allora le pietre divennero soltanto pietre, gli alberi alberi, le cose, gli uomini, gli animali non furono più questo o quel dio, ma semplici aspetti della natura (physis) che la ragione dell’uomo poteva conoscere e dominare.
Il congedo dagli dèi fu solo apparente, cacciati dal mondo esterno essi riapparvero nel mondo interiore dove l’uomo li riconosce come eventi istintuali, come aspetti indomabili della natura, come minaccia dell’ordine faticosamente costruito. L’anima razionale ha sempre visto nel riflesso istintuale la sua controparte rimossa e, nel ritorno del rimosso, ha sempre temuto la rovina del suo ordine. Per questo la sessualità turba e la sua comparsa non è mai disgiunta dall’angoscia.
Pan, il dio della sessualità, è anche il dio del panico (66, 6576). Come espressione pura e semplice dell’istinto, la sua irruzione segna il collasso della ragione, il disordine nel cuore stesso dell’ordine, il cedimento dell’io. Con Pan non c’è conoscenza, ma solo il gioco cieco dell’istinto che, cadenzato dalla masturbazione, dallo stupro e dal panico, dà al ritmo della sua danza la scansione tragica della violenza del piacere che non dimette l’angoscia dell’incubo.
La distanza tra l’umano e il divino è abolita, non c’è mediazione che renda compossibili i linguaggi. L’uomo torna ad essere abitato dal dio e dai suoi effetti devastanti. Lo spettacolo che si apre è quello della follia e non dello scambio dei messaggi tra la ragione e la follia. Per questo è necessario Eros che Socrate, riferendo il discorso di Diotima, descrive come “un essere superiore all’uomo, un demone possente che è intermedio (metaxy) tra i mortali e i divini. Il suo ufficio, come quello di tutti gli esseri demonici, è di interpretare (ermeneuein) e trasmettere (diapothmeuein) agli dèi gli umani desideri, così pure agli uomini i divini voleri. E <ii quelli le preghiere e i sacrifici; di questi i comandamenti e il ricambio dei sacrifìci. In mezzo tra l’uno e l’altro mondo, questi esseri superiori colmano intero l’immenso vuoto che separa i due mondi e l’universo per tal modo risulta un’unità complessa e coerente. Per opera loro si svolge tutta l’arte che predice l’avvenire, tutto il complesso delle funzioni e delle pratiche sacerdotali: sacrifìci, iniziazioni, incantamenti, l’arte profetica nella sua totalità e la magia. La divinità, vedi, non ha diretto rapporto col genere umano; soltanto per mezzo di demoni ha relazione con noi; ogni suo colloquio con gli uomini, così nella veglia come nel sonno, avviene per il loro tramite. E si dice appunto che chi ha conoscenza sicura di questo è un uomo in rapporto con potenze superiori, un uomo demonico (daimónios). Invece chi sa cose d’altro genere non è che un uomo comune (bdnausos)” (Convito, 202e-203 a).
Non c’è testo che non si conceda alla rilettura per un’ulteriore offerta di significato; noi che abbiamo già letto questo testo per cogliere la differenza tra l’uomo comune e l’uomo demonico, lo rileggiamo per oltrepassare la concezione comune della sessualità e accedere alla concezione demonica. Se “sesso”, come abbiamo visto, è parola che viene da “nesso”, ed Eros è “connessione” tra l’umano e il divino, il rapporto che Eros instaura non è tra uomini, come vuole la concezione comune della sessualità, ma tra la parte razionale delVuomo e la sua parte folle o divina.
Nell’indicarla Socrate parla di atopia, di dislocazione dell’io dal luogo che s’è dato, di cedimento dell’ordine da lui istituito, perché ciò da cui l’io s’è difeso possa di nuovo affacciarsi e giocare con i fondamenti stessi della costruzione egoica. La sessualità è questo gioco, e nel gioco della sessualità l’io, da interprete, diventa interpretato.
Non essendo una negazione assoluta come la morte, né un’affermazione generalizzata dell’altra parte di noi stessi, come può essere la follia, la sessualità attraversa i confini egoici non per abolirli, ma per mostrare il loro carattere arbitrario, convenzionale, utile, necessario se si vuole, ma non definitivo. Il suo gesto non affonda tanto nella carne, quanto nel limite che l’io s’è dato per difendersi dal mondo senza regole. Per questo la sessualità che Eros inaugura non è come quella di Pan licenziosa, oscena, violenta, ma cadenzata, ritmica come un passo di danza tra sacro e profano dove a esser “profanato” non è il sacro, che è piuttosto il mondo degli animali e degli dèi, ma il profano, dove, fuori del tempio (fanum) si svolge la vita scandita dalle regole e dai divieti che la ragione s’è data e che la sessualità infrange consumando, in una profondità che ignora ogni misura, i limiti che l’io s’è assegnato per conoscere se stesso e ribadire la sua identità.
Come gesto che riguarda i confini dell’io, limite e sessualità devono l’uno all’altra la densità del loro essere. Non c’è infatti limite aH’infuori del gesto che lo attraversa, così come non c’è gesto se non nell’oltrepassamento del limite. La sessualità non sta quindi al limite come il bianco sta al nero, come l’escluso all’incluso, come il permesso al proibito; ciò verso cui la sessualità si scatena è il limite che la incatena. La sessualità è la glorificazione del limite nel momento stesso della sua infrazione.
Attraversato dalla sessualità, l’io cede il suo limite per ribadirlo a un livello superiore. Entrando in contatto con l’altra parte di se stesso, l’io va oltre la fascinazione e il desiderio per raggiungere quell‘“immenso vuoto” dove si compie la decisione ontologica, dove l’essere raggiunge il suo limite e dove il limite definisce l’essere. Così parla Socrate a proposito di Eros: “In mezzo tra l’uno e l’altro mondo, Eros colma l’immenso vuoto che separa i due mondi; e l’universo per tal modo risulta un’unità complessa e coerente” (Convito, 202 e). Così Eros si fa interprete non del gioco dei sensi, ma dei confini dell’io e del suo sconfinamento, della dissolvenza da esperire in ogni atto di dissoluzione.
6. Mateusis
Ma che ne è dell’io e dell’altra parte di sé quando Eros li accoglie? Che ne è dell’uomo e del dio quando Eros li interpreta? Nel Convito (200 e), fin dalle prime battute del discorso di Socrate “Eros è amore di qualcosa”, l’elemento intenzionale che
lo connota è “la bramosia di procreare nella bellezza” (ibidem, 206 c). C’è quindi in Eros un’intenzione generativa che “porta fuori quel fondo ascoso di cui ciascuno è gravido, ponendo fine alle doglie” (Repubblica, VI, 490 b).
La madre di Socrate era una levatrice, aiutava a partorire (mateusis). Lo stesso Socrate ama definire maieutica l’educazione che impartisce ai giovani perché, nella sua ignoranza, ritiene di non trasmettere una verità, ma di aiutare gli altri a partorirla da sé. Egli assiste al parto, al lavoro faticoso della generazione che pone fine alle doglie.
Se la sessualità, come Socrate ce l’ha descritta narrando le vicende di Eros, non è tanto un rapporto con l’altro, quanto ima relazione con l’altra parte di noi stessi, quindi un cedimento dell’io per liberare in parte la follia che lo abita, la sessualità ha a che fare con quei limiti ontologici che sono per l’esistenza la nascita e la morte. Morte dell’io per dissoluzione dei suoi confini, sua rinascita in nuove configurazioni. Questa oscillazione, che ogni atto sessuale porta con sé, ha bisogno della presenza dell’altro come memoria della realtà che si lascia e come possibilità di ritorno dal mondo estraneo a cui ci si è concessi nella dissolvenza dell’io.
L’avvinghiarsi al corpo dell’altro, prima di un contatto, è dunque ima presa. Per il solo fatto di esserci accanto, l’altro ci concede di perderci nella nostra follia e di riprenderci. Assistendo al cedimento del nostro Io, con la sua sola presenza, come la levatrice durante il parto, l’altro aiuta la nostra nascita. Ma questa avviene dopo l’esperienza della morte che ci strappa dalla nostra ostinazione a veder durare quell’io che noi siamo. Il desiderio di immortalità che qui entra in gioco è il desiderio di conservare la sopravvivenza de\V individuo, dell’essere personale che la totalità dell’essere, mai percorsa dalla morte, dissolve. La totalità dell’essere, infatti, non ha nulla a che fare con la morte, al contrario, la morte dell’individuo manifesta la sua eternità. Qui forse sono le origini remote del sacrificio che gli antichi praticavano per dischiudere l’orizzonte del sacro, ossia quella totalità dell’essere che si rivelava a quanti, nel corso della cerimonia, assistevano alla morte di un essere individuale. Con la morte violenta, infatti, con il sacrifìcio dell’individualità, ciò che i convenuti colgono è la totalità dell’essere a cui è ricondotta la vittima, la stessa totalità che Eros dischiude quando colma “l’immenso vuoto che separa i due mondi in modo che appaia il tutto in sé connesso (sumpleroi òste tó pàn autó autói xundedésthai)” (Convito, 202 e).
Il mondo dell’Eros è dunque l’offerta di questa esperienza che si offre in quell’apice della sessualità dove non c’è alcun desiderio, alcun istinto, alcuna passione, alcun amore, per la semplice ragione che in quell’apice non solo non ci sono due persone, ma neppure una; non c’è esperienza di quel momento perché l’apice della sessualità è l’evacuazione di ogni esperienza. Ruotando intorno alla morte, l’individualità, come la vittima sacrificale, è uccisa dalla semplice intensità del godimento che la percorre, e che nell’attimo del piacere la sottrae al sistema del tempo per immergerla in quel tempo astorico dove il soggetto non è più l’io, ma la dialettica della materia giocata da un corpo non più in nostro possesso. L’io e il tu, infatti, si dissolvono come il gioco del vedere e dell’esser visto, e questa rinuncia al proprio Io e all’immagine del proprio corpo è resa possibile dalla fiducia nell’altro, senza la quale non potrebbe essere superata la profonda paura che l’apice della sessualità possa condurre alla perdita di sé come nella morte. La fiducia garantisce il ritorno, ma non evita che per un istante, per quell’istante in cui si perde il proprio Io per entrare nell’altra parte
di noi stessi, il nulla si introduca furtivamente nella nostra vita.
Se da un lato sopportiamo a fatica la condizione che ci lega a un’individualità casuale e mortale, e nello stesso tempo abbiamo un desiderio di durare nel nostro Io destinato a perire, dall’altro non siamo immuni dalla nostalgia della totalità originaria che, annullandoci, ci collega all’essere. Da questa nostalgia ci difende il divieto, che però si lascia infrangere dalla sessualità che lo percorre in quell’ambivalenza tra la conservazione della propria individualità e la sua dissoluzione, che è alla base di ogni episodio d’amore e di ogni evento di morte.
Se l’essere amato diventa, per chi lo fa oggetto d’amore, la trasparenza del mondo, se ciò che attraverso di lui appare è l’essere pieno, illimitato che oltrepassa di gran lunga i limiti dell’individualità, è pur vero che tutto ciò è possibile solo nella violazione della sua e della nostra individualità, quindi in un atto che richiama, nella metafora dell’omicidio e del suicidio, la dissoluzione della morte. Lungi dall’essere l’approvazione della vita fin dentro la morte, l’amore è l’anticipazione della morte nel corso della vita, quel gioco rischioso intorno al limite dove si affollano divieti e trasgressioni.
Ma per comprendere tutto questo occorre seguire Diotima che coglie l’essenza di Eros non nel fascino destato dalla persona amata, ma nel conflitto dell’amante, nel suo travaglio, nelle sue doglie: “Eccoti, Socrate, la natura di questo demone. E non è strano certamente il giudizio che hai fatto su Eros. Oh! hai creduto, da quanto posso arguire, che Eros sia la cosa amata, non l’amante. Questo il motivo per cui Eros ti appariva tutto bello. E in effetti il vero oggetto d’amore è bello, soave, perfetto, degno di ogni beatitudine. Invece chi ama si trova in una condizione ben diversa, come appunto ho cercato di spiegarti” (Convito, 204 c).
7. Omilia
La condizione dell’amante è percorsa dal disagio che sempre accompagna la relazione e il commercio (omilia) con la follia che ogni volta si apre quando l’io abbandona i suoi confini. Ornili a non è “mescolanza”: “Il divino non si mescola mai con l’umano (Theòs dè anthrópoi ou mignutai)” 0Convito, 203 a), precisa Diotima, ma col divino l’umano sta insieme (omiléo), instaura relazioni, rapporti, dialoghi (diàlektos) che non hanno la forma tranquilla della conversazione, ma la scansione violenta del divieto e della trasgressione. Là dove è in gioco l’umano e il suo distacco dal divino, l’ordine della ragione e il suo distacco dalla follia, il dialogo ha toni forti, come forti sono i segnali che si raccolgono intorno ai limiti.
L’omilia, lo stare insieme dell’uomo col dio, avviene in uno scenario dischiuso da situazioni-limite dove ne va della conquista umana, dell’ordine della ragione che, come il fuoco di Prometeo, un giorno è stata strappata agli dèi. Giocando sul registro della follia e della morte, Yomilia non dimentica che divieti sessuali e divieti contro la violazione dei cadaveri fecero la loro comparsa dovunque l’umanità fece la sua, e, col divieto, la trasgressione che non elimina la proibizione, ma semplicemente la sospende. Se, da quando è esistita, l’umanità ha sentito il bisogno di seppellire i cadaveri, ciò è avvenuto più per mettersi al riparo dalla morte che per mettere il morto al riparo. La morte, infatti, costituiva per i primitivi un pericolo magico, il pericolo di una violenza in agguato, capace di agire per un “contagio” che, partendo dal cadavere, si legava a immagini di decomposizione che psicologicamente potevano investire le sorti delle prime società nascenti.
Di qui il divieto di lasciare i morti insepolti, non, come dice Freud (35, 43), per opporsi al desiderio di toccarli, ma perché agli occhi dei primitivi il decesso è sempre la conseguenza di una violenza che bisogna esorcizzare, tenere lontana dagli occhi, mettere al riparo, per evitare che si scatenino forze analoghe a quelle delle quali il defunto è stato vittima. Al cospetto della morte la società primitiva reagisce col sentimento del proibito, ma il divieto ha efficacia solo all’interno della comunità; al di fuori di essa, nei confronti dello straniero è subito trasgressione. La trasgressione del divieto è l’aureola dell’eroe, quasi che il divieto non fosse che il mezzo per investire di gloria quel che esso respinge. Gioco dell’omi/ia, dello “stare insieme” di uomini e dèi.
Come la violenza omicida, così i rapporti sessuali sono proibiti all’interno delle società arcaiche e comandati all’esterno, quasi i primitivi avessero intuito il profondo legame che Freud ha intravisto tra l’amore e la morte e gli effetti dissolventi che possono derivare dalla loro indiscriminata generalizzazione. Posti a difesa della natura umana, i divieti, oltre a separare l’uomo dall’animale che non li osserva, circoscrivono il territorio non-umano della trasgressione, che è poi il territorio del sacro e del sacrificio. Per questo gli animali, che non conoscono i divieti, assumevano agli occhi dei primitivi il carattere del sacro e venivano sacrificati. La vittima era sacra per il solo fatto di essere animale, per il solo fatto di essere al di fuori della regola del divieto, aperta alla violenza che presiede al mondo della morte e della sessualità selvaggia. Lo spirito della trasgressione è lo spirito del dio animale che muore, e morendo rafforza l’ordine dei divieti che proteggono l’umanità, impedendo la realizzazione di quei desideri che, da allora in poi, saranno detti “bestiali” e “selvaggi”.
C’è una profonda affinità tra il sacrifìcio e l’atto d’amore, un’affinità che non è sfuggita neppure al cristianesimo, anche se questa religione ha cercato di addolcire ciò che in questi due atti trasgressivi viene in primo piano: la carne dell’animale sacrificato e la carne che nell’atto d’amore eccede i limiti posti dal divieto sociale. Benché l’amore inizi là dove la bestialità finisce, la bestialità è così ben conservata nell’erotismo che le immagini tratte dall’animalità non cessano mai di essergli legate. Ma forse proprio per questo l’amore è sacro; come attività trasgressiva che si oppone al divieto, l’amore è vicenda divina, dove l’umano “eccede”, compie l’eccesso.
Nel sacrificio dell’animale la violenza trasgressiva abbatte la vita, nella trasgressione erotica la vita, in un punto e per un certo tempo, resta incrinata dalla voluttà che gode d’esser cieca e d’aver dimenticato. Nella sospensione dei divieti che difendono la vita, la voluttà evoca la morte, e negli spasmi, nei respiri faticosi, la sessualità registra questa profonda affinità. Da un lato la convulsione della carne è tanto più precipitata quanto più è vicina al “cedimento”, dall’altro il cedimento favorisce la convulsione voluttuosa. Omilia dell’incontro amoremorte, scambio simulato di sintomi, trasgressione dell’ordine abituale delle norme della vita che simula quel “trasgredire”, quell‘“andare oltre” la vita che si vuol trattenere nei limiti umani.
Ma la trasgressione è lo spazio degli animali divini, e poi degli dèi e di coloro che li rappresentano, che hanno in comune la possibilità di sottrarsi al divieto che regola la vicenda umana. Per questo i sacerdoti prima, e poi i signori della terra “dovevano” possedere per la prima volta la donna che andava a nozze; segno che il primo contatto era violazione del comune divieto, dove solo sacerdoti e sovrani potevano intervenire senza troppo rischio per le cose sacre. Poi la ripetizione sessuale era affidata agli uomini sottoposti ai divieti, perché, se l’abitudine da un lato ha il potere di approfondire ciò che l’impazienza ignora, dall’altro è immune dal fascino dell’illecito che, solo, ha il potere di infondere all’amore ciò che esso ha di più forte del divieto.
Ma la società antica, man mano che andava regolando l’amore nel matrimonio, parallelamente ritualizzava le trasgressioni nell’orgia. Non era un caso che durante le orge dei saturnali l’ordine sociale venisse rovesciato, e il padrone servisse lo schiavo, e lo schiavo se ne stesse disteso sul letto del padrone. Voluttà sessuale e capovolgimento sociale andavano di pari passo, quasi a ribadire che per la difesa della società e del suo ordine erano nati divieti e proibizioni in quel tempo profano contrapposto al carattere sacro dell’orgia.
Nell’orgia non si esprime il fasto della religione quale noi oggi lo conosciamo nel carattere maestoso, calmo e solenne della religione cristiana che si è conciliata con l’ordine profano; nell’orgia si esprime il lato nefasto di una religione, dove il sacro non si è ancora diviso dal male, non l’ha cacciato lontano da sé, ma lo trattiene per quel tanto che è costitutivo della natura umana, e lo esprime in quel cieco precipitare verso la distruzione e la perdita che è il momento decisivo di ogni orgia religiosa.
L’immenso disordine degli individui smarriti l’uno per l’altro, immersi in quell’atmosfera di carne, di vittime sgozzate, di morte, ribadiva nella trasgressione ritualizzata la necessità del divieto, il limite che l’umano s’era posto alle soglie del sacro, del divino. Tentare di introdursi, varcare la soglia, trasgredire era immettersi in un disordine di grida, in un tumulto di gesti violenti, di danze, di amplessi sconnessi, di sentimenti annichiliti neH’agitarsi crescente della convulsione. Ritualizzando la trasgressione, l’orgia faceva sperimentare il male inteso come distruttività, perdita, fuga neirindistinto, dove non v’è più nulla che non si confonda come sempre avviene nel mondo degli dèi.
Lo spettacolo che la sessualità così dischiude serve a rilanciare un ordine; non si deborda infatti dai limiti se non per padroneggiare la comparsa di nuovi elementi. L’omilia, lo stare assieme degli uomini con gli dèi ha i toni forti di questa scansione dove spingersi fino ai margini dell’umano apre quella sfida nei confronti della deriva che, se non inghiotte, consente la costruzione di più solidi margini.
8. Symbolon
Se ci portiamo all’origine possiamo ricostruire le parole e le scene, rivedere il contrasto tra uomini e dèi, le ferite inferte e le cure concesse. “L’antica nostra natura non era la medesima di oggi” riferisce Platone nel Convito (189d-193d). In principio gli uomini erano l’uno e l’altro (amphóteroi), la loro forma era circolare (kùklos), il loro aspetto intero e rotondo (pe-ripherés), “non generavano per reciproca unione, ma per unione con la terra (ouk eis allélous, alVeis gén)”.
Un giorno “Zeus, volendo castigare l’uomo senza distruggerlo, lo tagliò in due”. Da allora “ciascuno di noi è il simbolo di un uomo (Ékastos oùn emón estin anthrópou symbolon), la metà che cerca l’altra metà, il simbolo corrispondente”. Nell’antica Grecia, lo abbiamo visto, era diffusa la consuetudine di tagliare in due un anello, una moneta o qualsiasi oggetto, e darne una metà a un amico o a un ospite. Queste metà, conservate dall’una e dall’altra parte, di generazione in generazione, consentivano ai discendenti dei due amici di riconoscersi. Questo segno di riconoscimento si chiamava simbolo. Tale è il senso originario della parola. Dopo la divisione (dia-bàllein) inflitta da Zeus ciascuno di noi è simbolo di un uomo che cerca la metà corrispondente per la sua ricomposizione (sum-bàllein).
Per curare l‘“antica ferita”, Zeus, dopo averla inflitta, inviò Eros “fra gli dèi l’amico degli uomini, il medico (…) colui che riconduce all’antica condizione. Cercando di far uno ciò che è due, Eros cerca di medicar l’umana natura”. Da allora gli uomini si congiungono tra loro e così generano, non più per unione con la terra, ma per unione reciproca. La sessualità è dunque connessa alla condizione simbolica deWuomo.
“Noi fummo interi — dice Platone — e il desiderio (epithu-mia) dell’antica unità così come la sua ricerca ha per nome Eros”. Ma l’antica unità è la condizione preumana: “Quattro erano le mani, d’ugual numero le gambe, e i volti due, su collo rotondo, perfettamente simili. La testa invece, per ambedue i volti opposti, unica; quattro le orecchie, due i genitali. Il resto
lo si può dedurre facilmente da queste caratteristiche” (Convito, 190 a).
Con questo aspetto mostruoso Platone coglie l’uomo prima del contrasto col divino, prima della sua separazione dall’area del sacro che è sempre popolata di mostri, ma nello stesso tempo, col “desiderio dell’antica unità”, Platone ribadisce che una completa separazione dal sacro, con tutto il suo corredo di violenza, mostruosità e indistinzione, non è possibile, se non privando l’uomo del segreto che la sua condizione simbolica sa trafugare al divino ogni volta che va alla ricerca dell’altra metà di se stesso.
Infatti, prima degli “altri” che sono fuori di noi e a cui ci indirizza Eros, l‘“altro” ci abita intimamente come ciò da cui ci siamo separati per dare origine alla nostra storia. Ma il fondo non-storico da cui la nostra storia ha preso avvio ancora ci possiede come follia rimossa. Chi tocca questa follia ci affascina e ci induce a quel progressivo cedimento di noi stessi che rende possibile la liberazione di quella follia di cui si contorna Eros.
Mediatore tra gli uomini e gli dèi, egli interviene al limite dell’umano dove il senso gioca col non-senso e dove non si dà nuova parola se non liberando ad ogni istante l’antica follia.
Così la condizione simbolica, che Mnon consente all’uomo di distogliere l’occhio dal proprio taglio”, restituisce alla sessualità il suo senso: non solo vicenda di corpi, ma traccia di una lacerazione, e quindi ricerca di quella pienezza (plesmoné) di cui ogni amplesso è memoria, tentativo e sconfìtta.