2. Metaxy: sogno del mondo e divina follia

… tra sapienza e ignoranza…

… tra uomini e dèi…

PLATONE, Convito, 202 a, 202 d.

Tra la terra e il cielo corre uno spazio intermedio che Platone nomina metaxy. Questa parola compare in contesti così decisivi e così enigmatici che la impongono come parola da pensare. Ci sono infatti dei luoghi in cui il pensiero si sofferma e, quando procede, a quei luoghi ritorna, nominando la sosta con una parola che non rimanda a un contenuto, ma a un passaggio. Non è detto che il passaggio conceda di transitare, ma il solo fatto di esservi capitati dice già deiresigenza di passare, dice di una strada che, senza seguito, non solo sarebbe incompiuta, ma priva di senso, perché è di ogni via ravviare.

Queste soste in cui il pensiero si ferma cercando, sono luoghi privilegiati del pensiero, e le parole che li nominano sono parole importanti. Una di queste è metaxy, la sua traduzione è: tra. Essa nomina tanto l’intervallo tra due realtà diverse, quanto ciò che le due diverse realtà hanno in comune. Metaxy, infatti, deriva dal platonico metéchein che significa “prender parte”, “partecipare”, reso da Aristotele con ypdrchein che troviamo niente di meno che nella prima formulazione aristotelica del principio di non contraddizione, dove è detto che “è impossibile che lo stesso convenga (ypdrchein) e non convenga allo stesso sotto il medesimo rispetto” (Metafisica, IV, 1005 b, 19-20). Ypdrchein, metéchein, metaxy; partecipare, prender parte, convenire in quel mezzo dove gli opposti cercano mediazione.

1. Dove errano i mortali

Nel V libro della Repubblica incontriamo una frase di Socrate che, a chi legge, può dare l’impressione di una battuta di passaggio non essenziale nella serrata sequenza del finale del libro; essa recita:

SOCRATE: SE QUALCOSA EGLI CONOSCE NON NE PORTIAMO CERTO INVIDIA (Repubblica, 476 e).

Chi parla è il fìlo-sofo, l’amante del sapere, colui a cui non porta invidia è il filodoxo, l’amante dell’opinione, della dóxa. Ma che significa non portare invidia? Significa lasciar sussistere anche questo tipo di sapere che Parmenide aveva escluso perché impossibile. Narra infatti il poema parmenideo che

la legge divina e la giustizia conducono lungo una via che è lontana dalTorma deH’uomo (DK., fr. 1, w. 27-28).

Percorrendola, si dischiudono due

vie di ricerca che sole son da pensare: l’una che è, e che non è possibile che non sia, e questa è la via della verità, l’altra che non è, e che è necessario che non sia, e questo è un sentiero inaccessibile ad ogni ricerca. Poiché il nonessere non puoi né conoscerlo (è infatti impossibile), né esprimerlo (DK., fr. 2, w. 2-8).

Da questa via — prosegue la Dea che introduce Parmenide nel Sentiero del Giorno — ti tengo lontano, ma anche da quella su cui errano i mortali che niente sanno, uomini a due teste: poiché è l’incertezza che dirige nei loro petti l’oscillante mente. Ed essi vengono portati avanti, muti e ciechi ad un tempo, attoniti, gente indecisa, per cui Tessere e il nonessere è lo stesso e non è lo stesso, e per cui di ogni cosa vi è una strada che può essere percorsa in due sensi (DK., fr. 6, vv. 3-9).

Tra il Sentiero del Giorno: Tessere, e il Sentiero della Notte, il nonessere, c’è dunque un terzo sentiero, da cui la Dea tiene lontano, “dove errano i mortali” che ritengono che Tessere possa convivere con il nonessere. È il sentiero della dóxa che ha i suoi amanti, i filódoxoi che per Parmenide “niente sanno”, mentre per Platone hanno anch’essi un sapere, a cui, però, non è il caso di “portare invidia”. Platone, dunque, dischiude un campo che per Parmenide era chiuso, conferisce una certa dignità a un sapere che per Parmenide era impossibile.

Per comprendere la qualità di questo sapere che Platone inaugura, senza peraltro “portare invidia a chi lo possiede”, è necessario rifarsi alla celeberrima dottrina delle idee che, nel brano che stiamo esaminando, è così esposta:

SOCRATE: Insomma, amico mio, chi conosce, conosce qualcosa o non conosce nulla?

GLAUCONE: Conosce qualcosa.

SOCRATE: Una cosa che è, o una cosa che non è?

GLAUCONE: Una cosa che è, come vuoi che si conosca una cosa che non è?

SOCRATE: Bene, è allora ammesso che la pienezza dell’essere è anche pienamente conoscibile, mentre la carenza dell’essere è compieta-mente inconoscibile.

GLAUCONE: È COSÌ.

SOCRATE: £ allora se qualcosa si trova nello stesso tempo nella condizione di essere e di nonessere sarà intermedia (metaxy) tra la pienezza assoluta dell’essere e la carenza completa dell’essere.

GLAUCONE: INTERMEDIA (metaxy).

SOCRATE: Allora la conoscenza (gnósis) si riferisce a ciò che interamente è (pantelós ón), la conoscenza nulla (agnosia) necessariamente al nonessere (mé ón). Per la condizione intermedia (metaxy) bisognerà cercare una conoscenza intermedia tra scienza (epistéme) e conoscenza nulla (agnosia).

GLAUCONE: Certamente.

SOCRATE: E NON DOBBIAMO AFFERMARE CHE L’OPINIONE (dóxa) è qualcosa?

GLAUCONE: Come no.

SOCRATE: E l’opinione ha un potere uguale alla scienza, o un potere diverso?

GLAUCONE: Diverso.

SOCRATE: Bene! L’opinione è disposta dunque a un suo fine, a un altro, invece, la scienza (Repubblica, 476 e - 477 b).

2. Gli amanti della verità

Abbiamo riportato per intero il passo per mostrare analiticamente come l’ambito del metaxy richieda, per la sua individuazione, l’impiego delle categorie più forti del pensiero filosofico, quali essere e nonessere, conoscenza e non-conoscenza, epistéme e dóxa. Non si tratta quindi di un ambito marginale, ma di quello spazio conflittuale dove il sapere e il non-sapere decidono i rispettivi statuti.

La decisione avviene con l’introduzione di due categorie che per Platone sono la totalità e Yunità. Così costituendosi, il sapere proprio del filosofo non si allontana dal Sentiero del Giorno, dove le due categorie platoniche sono rintracciabili in quella “ben rotonda verità” che il filosofo di Elea contrapponeva alle “opinioni dei mortali, in cui non vi è vera certezza”.

Dovendo infatti definire “quale sia secondo noi il filosofo”, Socrate, dopo qualche battuta introduttiva, afferma:

SOCRATE: Noi diciamo che amar qualcosa significa, se si dice rettamente, amar tutto e non una parte sì e una parte no (Repubblica, 474 c).

La prima conclusione di questa introduzione del discorso è che dunque:

SOCRATE: Anche il filosofo è amante della sapienza nella sua totalità, e non di un aspetto sì e di un altro no, ma di tutta la sapienza (Repubblica, 475 b).

A questo punto Glaucone equivoca su questo amore totale della sapienza (filosofìa) e intende che anche tutti coloro che amano gli spettacoli e i suoni, desiderosi di godere di tutte le feste di Dioniso, saranno detti filosofi. No, risponde Socrate, perché non si devono confondere gli amanti del farsi spettacolo (philotheà-monas) con gli amanti di certi spettacoli.

La risposta di Socrate lascia intendere che il filosofo si cura deiressenza di una cosa (la spettacolarità) e non delle sue determinazioni (gli spettacoli). L’essenza di una cosa, o idèa, come la chiama Platone, ha i caratteri della totalità (perché la spettacolarità non riguarda alcuni spettacoli sì e altri no), dell’unità (perché prescinde dalla molteplicità degli spettacoli in cui la spettacolarità si determina) e delYimmutabilità (perché della spettacolarità non si può dire, come degli spettacoli, che inizi o che finisca, cioè che divenga). Esprimendo totalità, unità e immutabilità, della spettacolarità ci sarà sapere, mentre degli spettacoli ci sarà opinione. Della spettacolarità si occuperanno i filosofi, definiti da

SOCRATE: Gli amanti del farsi spettacolo della verità (tous tés alétheias philotheàmonas) (Repubblica, 475 e).

mentre gli spettacoli saranno di competenza dei filodoxoi definiti:

SOCRATE: SIMILI AI FILOSOFI, MA NON FILOSOFI (Repubblica, 475 d).

Quello che si è detto per la spettacolarità vale ovviamente per tutte le idee. Così è per il bello e per il brutto:

SOCRATE: Poiché il bello è contrario (enantion) del brutto, essi saranno due, e poiché sono due, ognuno di essi sarà un ‘unità (Repubblica, 475 e-476 a).

Il motivo per cui si sottolinea la necessità che le determinazioni ideali: il bello e il brutto, siano un’unità, è perché ciò serve a distinguerli da ciò che il bello e il brutto divengono quando si mescolano con le azioni, con i corpi e con le cose sensibili, dove il bello e il brutto sono compresenti (e quindi non si oppongono nelle loro unità antitetiche), perché le cose sensibili partecipano (metéchein) dell’uno e dell’altro e, così partecipando, costituiscono il regno del metaxy di competenza dei filodoxoi.

Considerati nella loro pura idealità, cioè come puri significati e non in una comunanza (koinonia) con le cose, il bello e il brutto non incominciano e non cessano di significare ciò che significano, perciò appartengono al mondo degli immutabili che sono sopra il cielo (yper-ourdnios), mentre, sotto il cielo, le cose sensibili acquistano e perdono quelle qualificazioni che in sé sono eternamente qualificanti così come qualificano o significano. Questo acquistare e perdere dice compresenza di essere e nonessere di cui, lo abbiamo visto, non c’è scienza ma opinione, non c’è epistéme ma dóxa, ossia quella condizione intermedia (metaxy) che sta tra la conoscenza di ciò che è (gnósis) e la conoscenza nulla (agnosia).

3. I sognatori del mondo

Dopo aver detto che “Poiché il bello è contrario del brutto, essi saranno due; e poiché sono due, ognuno di essi sarà uno”, il testo aggiunge che lo stesso si dovrà dire di tutte le idee:

SOCRATE: E per la giustizia e l’ingiustizia, la bontà e la cattiveria, e in genere per tutte le specie, vale la stessa cosa. Ciascuna è un che di unico (monachós), mentre in quanto partecipano (metà-chein) alle azioni, ai corpi e alle altre idee, ognuna delle determinazioni ideali appare un che di molteplice (pollachós) (Repubblica, 476 a).

Ogni determinazione ideale è unità considerata come significato (la bellezza è unità e, commisurata con la bruttezza, fa due), mentre quando è considerata in sintesi (koinonia) con le azioni, con i corpi e con le altre idee, ognuna si moltiplica e diventa, nel caso della bellezza: la bella casa, la bella donna, la bella figura, il bel vaso, ecc. Questo serve a Socrate per porre da una parte coloro che amano il molteplice (i filódoxoi) e, dall’altra, coloro che amano l’unità (i filosofi). Dice infatti il testo:

SOCRATE: Separatamente da una parte porremo coloro che amano gli spettacoli… e dall’altra, essi solamente, coloro che uno potrebbe propriamente chiamare filosofi (.Repubblica, 476 b).

All’invito di Glaucone a precisare, Socrate aggiunge:

Gli amanti degli spettacoli amano le belle voci, le belle figure, i bei colori e tutte le cose da questi costituite, ma non sono capaci di vedere il bello come tale e di amarlo (Repubblica, 476 b).

Questa distinzione tra l’idea come unità (monachós) e l’idea che si partecipa (metéchei) nel molteplice (pollachós) sarà quella che condurrà alla distinzione tra i filosofi che amano l’unità e

i filodoxoi che vedono solò la partecipazione e non capiscono che il partecipato è altro da ciò che vien partecipato per cui:

SOCRATE: Trattano il simile non come se fosse simile, ma come se fosse ciò a cui è simile (Repubblica, 476 c).

Così facendo, a differenza dei filosofi “che sono in condizione di veglia” (Repubblica, 476 d), i filodoxoi

SOCRATE: vivono come in un sogno. Durante il sonno, infatti, una cosa che assomiglia a un’altra, la si ritiene non già somigliante, bensì una stessa identica cosa con ciò a cui la cosa assomiglia (Repubblica, 476 c).

Scambiando ciò che è simile con la realtà a cui è simile, il filodoxo è un sognatore, e siccome il suo sogno ignora l’Uno, perché è rivolto solo alle differenze a cui l’Uno si partecipa, la sua conoscenza è il sogno del mondo.

Preoccupato che i filodoxoi possano risentirsi di questa definizione, Socrate aggira la possibile reazione avvertendo che “non gli si porterà invidia se sanno qualcosa”. £ per chiarire l’assenza di questa invidia, introduce la distinzione tra l’essere che pienamente è (l’idea), il nonessere assoluto, e il metaxy, il medio tra Tessere e il nonessere. La dóxa è conoscenza di questo medio. Agli estremi, rispetto a cui il medio è medio, sono da un lato “l’ente che pienamente è”, dall’altro “l’assoluto niente”. Il medio (metaxy) tra questi due estremi “è ciò che partecipa (meté· chei) dell’essere e del nonessere”.

SOCRATE: AL NONESSERE ABBIAMO ATTRIBUITO LA CONOSCENZA NULLA, ALL’ESSERE INVECE L’ATTO PIENO DI CONOSCENZA.

GLAUCONE: Giusto.

SOCRATE: La dóxa non è rivolta all’essere, ma nemmeno al nonessere. GLAUCONE: EH no!

SOCRATE: Ma allora, ti sembra che dóxa sia più oscura di conoscenza piena e più luminosa di conoscenza nulla?

GLAUCONE: Indubbiamente.

SOCRATE: È DUNQUE COMPRESA TRA QUESTI DUE ESTREMI?

GLAUCONE: Sì.

SOCRATE: Dóxa dunque è potenza intermedia (metaxy) tra queste due estreme.

GLAUCONE: Certo (Repubblica, 478 c-d).

Ci siamo accostati a questi passi della Repubblica non semplicemente per conoscere un testo, sia pure celeberrimo, del pensiero platonico, ma per renderci conto che l’inaugurazione del metaxy è niente di meno che l’apertura di quel sentiero che Platone sapeva proibito dal Grande Maestro:

Lo STRANIERO: Ragazzo, Parmenide il grande, quando noi eravamo molto giovani, sostenne, dal principio alla fine, in ogni occasione, sia in prosa, sia in versi: “Non costringere ciò che non è ad essere, mai; ma, cercando, evita questo sentiero, e lontano ne sia il tuo pensiero” (Sofista, 237).

Come medio tra l’essere e il nonessere, il metaxy oltrepassa il divieto parmenideo e inaugura il mondo come luogo del molteplice (dove una cosa non è un’altra) e del divenire (dove una cosa, per il fatto di diventare altro, non è più la stessa). Il mondo è abitato dai molti (oi pollài), mentre

SOCRATE: Pochi (oligoi) sono coloro in grado di contemplare l’idea nella sua impartecipata essenza (Repubblica, 476 b).

Molti quindi i sognatori, che scambiano l’immagine sognata con la realtà, e pochi coloro che vivono in stato di veglia che quella confusione non fanno. Ma mentre Parmenide nega a “i molti” il sapere: “non sanno niente, uomini a due teste, dall’oscillante mente, muti e ciechi, gente attonita e indecisa”, Platone è disposto a riconoscere loro una certa conoscenza, che non è la conoscenza della realtà (gnósis o epistéme), ma la conoscenza del sognato considerato come realtà.

Epistéme non è una parola qualsiasi. Etimologicamente ept-istamai significa: mi impongo. La conoscenza dell’essere (gnósis) nella sua assoluta pienezza si impone, la conoscenza nulla (dgnoia o agnosia) che riguarda il nonessere non si impone; mentre la conoscenza di quell’intermedio (metaxy), che è la conoscenza di essere e nonessere, ossia lo spettacolo offerto dal mondo nella molteplicità delle sue forme e del loro divenire, non si impone come la gnósis e non è impossibile come Yagnosia, perciò è una dóxa, una sembianza che può prendere il posto del-Yepistéme solo imponendosi con la forza (hybris).

Tale è infatti il concetto di hybris che risulta da ypsilon con

lo spirito aspro, che equivale all’epi di epi-stéme, e da bris, che deriva da britho, brido, donde Briareo, il forzuto, colui che esagera la propria forza oltre i limiti che gli sono consentiti. L‘hybris è dunque la tracotanza della dóxa quando questa vuole imporsi oltre la dimensione consentita, quando, da sapere opinabile, pretende di porsi come sapere incontrovertibile, tale, cioè, che non può essere tolto.

Platone, inoltrandosi nel sentiero proibito da Parmenide, inaugura il mondo, ossia queirambito intermedio (metaxy) in cui essere e nonessere convivono, ma non assegna alla conoscenza del mondo lo stesso valore di sapere incontrovertibile che assegna alla conoscenza dell’essere.

SOCRATE: Scienza (epistéme) la ritieni una potenza, o in quale categoria la riponi?

GLAUCONE: Nel genere delle potenze, e di tutte la più vigorosa. SOCRATE: E opinione (dóxa) la riporteremo alle potenze o ad altra categoria?

GLAUCONE: Eh no, non appartiene ad altra categoria. Ciò con cui abbiamo potenza di opinare non è altro se non opinione.

SOCRATE: Ma poco fa ammettevi che opinione e scienza non sono la stessa cosa.

GLAUCONE: E come vorresti che fossero? Ciò che è suscettibile di errore e ciò che non è suscettibile saranno la stessa cosa?

SOCRATE: Benissimo, dunque è chiaro e possiamo dire d’aver concluso: altro è opinione e altro è scienza.

GLAUCONE: Sì.

SOCRATE: Ciascuna dunque di queste due potenze è naturalmente disposta ad altra meta, con facoltà proprie e diverse.

GLAUCONE: Necessariamente.

SOCRATE: La scienza dunque, è chiaro, sarà disposta naturalmente per cogliere ciò che è, in modo da conoscere come sia Tessere. GLAUCONE: SÌ.

SOCRATE: Opinione, invece, è naturalmente contenta di opinare. GLAUCONE: SÌ.

SOCRATE: E ti pare possibile che ci sia opinione sul medesimo oggetto che scienza conosce. Saranno la stessa cosa un argomento opinabile e uno conoscibile? O non è forse impossibile questa conclusione?

GLAUCONE: È impossibile date le premesse (…) Per cui dovremo concludere che non è possibile ammettere che conoscibile per scienza e conoscibile per opinione siano la stessa cosa (Repubblica, 477 d -478 b).

Aperto col metaxy il sentiero proibito, Platone non concede che lungo questo sentiero qualcosa possa imporsi (epuistamai) come verità, e taccia di tracotanza (hybris) tutti quelli che lo pretendono. Sul sentiero proibito è concesso solo avere opinioni; non si dà sapere, ma solo interpretazione o, come noi oggi diremmo, “ermeneutica”.

Perché? Perché il metaxy, lo dice Platone, è amphóteron, è l’uno e l’altro:

SOCRATE: COME INTERMEDIO (metaxy) tra l’essere e il nonessere, partecipa (metéchei) dei due (amphótera), senza essere né uno né l’altro (.Repubblica, 479 c).

Nel metaxy

SOCRATE: NON S’ADUNA TENEBRA PIÙ GRANDE DI QUELLA DEL NONESSERE, QUASI VI SI POTESSE TROVARE UNA QUANTITÀ DI NONESSERE MAGGIORE; NÉ D’ALTRA PARTE NEMMENO LUCE PIÙ VIVA DI QUELLA DELL’ESSERE, COME SE VI SI POTESSE TROVARE QUANTITÀ MAGGIORE D’ESSERE.

GLAUCONE: È PROPRIO COSÌ.

SOCRATE: Eravamo in ogni modo d’accordo che se fosse stata scoperta una simile cosa l’avremmo dovuta chiamare opinabile e non compiutamente conoscibile. Ciò che si aggira, infatti, nella zona intermedia (metaxy) è concepibile con la facoltà intermedia.

GLAUCONE: GIÀ, LO ABBIAMO AMMESSO.

SOCRATE: Allora sarà inesatto chiamar costoro amanti di opinione (philódoxoi) piuttosto che amanti di sapere (philósophoi)? Tu credi che avranno dispiacere se li chiamiamo così?

GLAUCONE: Eh no, non ci si può adirare per causa della verità (Repubblica, 479 c-480).

È dunque la verità a chiedere agli interpreti del mondo, che hanno osato percorrere il sentiero proibito, di accontentarsi delle loro opinioni e di non esporsi alla tentazione deWhybris che induce a scambiare l’opinione con la “ben rotonda verità”. Del resto, lo ricorda lo Straniero di Elea:

Lo STRANIERO: Abbiamo disobbedito a Parmenide e oltrepassato di molto i limiti del suo divieto.

TEETETO: Perché?

Lo STRANIERO: Egli aveva posto un limite alla ricerca e noi lo abbiamo oltrepassato, siamo andati oltre argomentando contro il nostro maestro.

TEETETO: Come?

Lo STRANIERO: Vedi, egli dice, me ne ricordo bene: “Non costringere ciò che non è ad essere, mai; ma, cercando, evita questo sentiero, e lontano ne sia il tuo pensiero.”

TEETETO: Certo, dice proprio così.

Lo STRANIERO: E noi invece abbiamo dimostrato che il nonessere è (Sofista, 258 c-d).

5. Come i bambini

Ma di che natura è questo nonessere di cui parla lo Straniero dopo aver disobbedito a Parmenide e imboccato il sentiero proibito? È il nonessere che è altro (éteron) dall’essere. Altro dall’essere è ogni determinazione che non significa “essere”. La casa, per esempio, per quel tanto che significa “casa” e non “essere” consente di dire che “la casa non è”. Nell’éteron, il nonessere è la diversità semantica tra la determinazione e Tessere: qualsiasi determinazione che non significa “essere”, in quanto diversamente significante, è nonessere, partecipa del nonessere. La coppia essere e nonessere che figura nelYéteron non deve essere confusa con la coppia essere e nonessere che compare nel metaxy, dove in gioco non è la diversità semantica (la casa non è Tessere perché “casa” non significa “essere”), ma proprio quel niente che precede e segue Tessere di ogni cosa (la casa non è Tessere perché prima della sua costruzione era niente e dopo la sua distruzione sarà niente). Questi sono i due significati diversi del nonessere nel Yéteron (altro dall’essere) e nel metaxy (tra Tessere e il nulla).

Rispetto a Parmenide, geloso custode della “ben rotonda verità”, Platone accoglie nelTessere queìYaltro (éteron) dall’essere che è la diversità semantica, perché se è vero che “casa” non significa “essere”, è pur vero che significa “qualcosa”, e

Lo STRANIERO: dire che qualcosa (ti) è niente, è impossibile (adynaton) (Sofista, 237 d).

Fatta questa ammissione, che è poi l’ammissione della molteplicità, lo Straniero di Elea prosegue:

Lo STRANIERO: È chiaro che il divenire è altro (éteron) dall’essere, e noi sosterremo vigorosamente questa tesi (Sofista, 256 d).

Così Platone, dopo aver portato Yéteron nelTessere, ha la possibilità di portarvi anche il metaxy, perché anche il metaxy è pur sempre un aspetto delYéteron. Infatti:

Lo straniero: non se ne ricava forse chiaramente che il divenire non è, e pur è, dato appunto che il movimento partecipa (metéchei) all’essere?

TEETETO: È EVIDENTE (Sofista, 256 d).

Con questa evidenza Platone salva il mondo, accogliendo nelTessere la molteplicità (éteron) e il divenire (metaxy) che sono appunto quegli aspetti del mondo che Parmenide aveva negato perché contraddicevano Yunità e Yimmutabilità dell’essere. In questo senso Platone non è tanto, come solitamente si crede, Tideatore dell’iperuranio, dove dimora l’immutabilità dell’essere, perché questa, piuttosto, è l’ideazione di Parmenide; Platone è l’ideatore del metaxy, colui che, trasgredendo il divieto di Parmenide, apre, tra il Sentiero del Giorno (l’essere è) e il Sentiero della Notte (il nonessere non è), il regno del metaxy dove le cose sono e non sono perché divengono.

Al filosofo, custode della “ben rotonda verità”, Parmenide contrapponeva “gli uomini a due teste (…) per cui l’essere e il nonessere è lo stesso e non è lo stesso” (DK., fr. 6, w. 5-8). Platone, invece, dopo essersi inoltrato nel sentiero proibito che dischiude il regno del metaxy dice, contro coloro che vogliono tener fermo tutto l’essere e contro coloro che vogliono porlo in movimento, che:

Lo STRANIERO: il filosofo dovrà fare come i bambini che quando formulano un desiderio, vogliono l’uno e l’altro insieme; per cui si dovrà dire che quanto è immoto e quanto è mosso, l’una e l’altra cosa, vengono a costituire l’essere e la totalità delle universe cose (Sofista, 249 d).

6. Lamica di terre lontane

Sia i filosofi, sia i filodoxoi, gli uni amanti (philoi) della verità, gli altri degli spettacoli, hanno in comune quella parentela con amore che nel Convito Diotima, l’amica di terre lontane, definisce:

DIOTIMA: demone possente, mediatore tra il mortale e l’immortale (metaxy thnetou kai athanàtou) (Convito, 202 d).

Qui metaxy compare in un contesto assolutamente nuovo rispetto a quello a cui i precedenti testi platonici ci avevano abituato. Si ha l’impressione di trovarsi in una dimensione mitica che ha lasciato alle spalle quel rigore filosofico che, nella Repubblica e nel Sofista, distingueva epistéme e dóxa, essere e nonessere. Eppure nello stesso paragrafo leggiamo:

DIOTIMA: Chi non è sapiente è senz’altro ignorante. Ma ancora non ti sei accorto che c’è un grado intermedio tra sapienza e ignoranza (metaxy sophias kai amathias)?

SOCRATE: Quale?

DIOTIMA: Un retto opinare (orthà doxàzein). Non sai che se non si può dar ragione esatta di una cosa non si può dir d’aveme piena conoscenza? Come è possibile, infatti, aver scienza (epistéme) di ciò di cui non si riesce a dar ragione? Del resto questa retta opinione (orthè dóxa) non è nemmeno completa ignoranza (amathia).

Come si può, infatti, parlare di ignoranza per ciò che in qualche modo attinge Tessere? Diremo allora che la retta opinione è uno stadio intermedio tra saggezza e ignoranza (metaxy phronéseos kaì amathias).

SOCRATE: È VERO.

DIOTIMA: Allora non puoi costringere ciò che non è bello ad esser brutto, o ciò che non è buono ad esser cattivo. Per cui se tu ammetti che Amore non è né bello né buono, non devi per questo dire che sia brutto e cattivo, ma piuttosto che è una condizione intermedia tra questi due estremi (alld ti metaxy toutoin) (Convito, 202 a-b).

Nel Convito, dunque, Diotima insegna a Socrate quello che poi Socrate, nella Repubblica, insegnerà a Glaucone, e lo Straniero di Elea, nel Sofista, insegnerà a Teeteto. Dice l’insegnamento: tra l’essere e il nonessere c’è uno stadio intermedio (metaxy), e tra il sapere che riguarda l’essere e l’ignoranza che riguarda il nonessere c’è la retta opinione (orthé dóxa) che riguarda il metaxy. Ma nello stesso paragrafo, qualche riga sotto, Diotima dice qualcosa di più. Alla domanda di Socrate che chiede che cos’è allora questo intermedio tra il mortale e l’immortale, l’amica di terre lontane risponde:

DIOTIMA: Un essere superiore all’uomo, un demone possente, o Socrate; e la caratteristica dei demoni è di essere intermedi (metaxy) tra dio e il mortale (Convito, 202 d-e).

Ma che significa demone? Nel Timeo si legge che:

Il dio dà a ciascuno come proprio demone la parte dominante dell’anima (Timeo, 90 a).

Esso dimora nella testa, congenere al cielo, e perciò volta verso l’alto. Ed è questo divino (theion) che si tratta di curare, perché:

l’individuo abbia come ospite il demone ben ordinato e divenga eudemonico, cioè felice (Timeo, 69 a).

La felicità dell’uomo è dunque nella cura della sua parte demonica. Prendersi cura del demone è forse l’espressione più alta della libertà dell’anima sancita da Platone nel mito di Er dove, prima deU’incamazione, l’anima, limitata ma non determinata dalla sorte, si sceglie liberamente il modo di vita e quindi

il suo demone come realizzatore della sua scelta (Repubblica, 617 e).

La paideia, quell’itinerario attraverso cui ogni uomo è chiamato a realizzare compiutamente sé, non poteva trovare espressione migliore nell’immagine platonica che presenta la vita dell’anima (psyché) come itinerario “psicologico”, dove ci si prende cura del demone, del divino che c’è in noi. In questo senso è possibile leggere anche il frammento DK. 119 di Eraclito: Éthos anthró-poi dalmon, il demone è per l’uomo la sua condotta, la guida del suo condursi.

L’accostamento di questi testi ci obbliga ad una ricognizione della nozione platonica di psyché che nel Fedone e nella Repubblica troviamo connessa all‘epistéme, mentre qui nel Convito e, come vedremo in seguito, nel Timeo, troviamo connessa al demone che appartiene al mondo del metaxy, ossia a quello stadio intermedio che, come anche nel Convito non si tralascia di ricordare, si colloca tra gnósis o epistéme da un lato, e agnosia

o amathia dall’altro. Come spiegare queste due connessioni? Come comporre l’insegnamento di Diotima a Socrate e l’insegnamento di Socrate a Glaucone? Cosa si determina passando dall’amica di terre lontane “che inizia alla scienza d’amore (tà ero· tikà edidaxen)” (Convito, 201 d) a Socrate che inizia alla filosofìa? Si determina una nuova significazione della nozione di anima che, senza abbandonare la precedente, vi si intreccia creando una configurazione che colloca l‘“anima” di Platone oltre la barriera del Greco e dellOrientale.

Il Greco si era separato dall’Orientale dischiudendo il Sentiero del Giorno, ove si custodisce quella “ben rotonda verità” secondo cui “solo dell’essere è possibile dire e pensare che è” (Parmenide, DK., fr. 6). Il filosofo, a differenza del filodoxo, si eleva a questo tipo di sapere con l’anima (psyché) che è dunque la capacità propriamente umana di astrarre dal sensibile (dove invece l’essere è misto al nonessere, metaxy), e di esprimersi, “in quanto amica delle idee” (Fedone, 67 a) attraverso numeri e anticipazioni matematiche. Quest’anima, che con pieno diritto chiamiamo filosofica, convive in Platone con quella orfica, di origine orientale, legata a riti misterici. È questa l’anima che, nata pura, cadde dal suo splendore e, prevaricando, si mescolò con la materia e col male, caricandosi di catene. Caduta nel cieco carcere del mondo, dopo che il male aveva gettato la sua ombra sugli dèi prima che sugli uomini, ella attende la fine dell’anno cosmico per risorgere. Nel frattempo, ce lo ricorda il fr. 133 di Pindaro serbatoci da Platone, Persefone riceve le singole anime espianti l’antica colpa upoindn palatoti péntheos(Menone, 81 b).

Il contrasto tra le due tradizioni, che è poi l’eterno contrasto dello spirito umano tra la sua capacità intellettiva rivolta all’astrazione e la sua componente psichica immersa nell’irrazionalità delle passioni, verrà risolto da Aristotele che, sopprimendo la tradizione orfica, teatro del dramma psicologico, ridurrà l’anima a principio di funzioni fisiologiche, riservando al noùs la funzione di intelligenza astratta che Platone ancora attribuiva alla psyché. Recita infatti il Timeo:

Iddio ha assegnato a ciascuno di noi, come entità di natura superiore che dimora nella parte più alta del nostro corpo, quello che noi con ragione chiamiamo anima (psyché) che, dalla terra, innalza noi verso natura affine alla nostra, dimorante nei cieli. Noi infatti non siamo una pianta della terra, ma il cielo è nostra patria dove fu la prima origine deiranima e dove Iddio, tenendo sospesa la testa nostra, ossia la nostra radice, tiene sospeso l’intero nostro corpo che perciò è eretto (Timeo, 90a-b).

Ma, sempre nel Timeo, si legge, a proposito delle divine creature preposte alla generazione dei mortali:

Queste, imitando l’Artefice, presero da lui un principio immortale d’anima; in successivo momento, disposero intorno a quest’anima un corpo mortale, e a lei questo corpo nella sua totalità, quasi fosse veicolo, attribuirono; in più un altro tipo d’anima nel corpo fecero dimorare, il tipo mortale. Quest’anima possiede in se stessa terribili e inevitabili passioni. In primo luogo il piacere, esca potentissima di male; in secondo luogo le impressioni di dolore, cause che ci fanno fuggire dal bene; ma poi ancora sicumera e terrore, due assai stolti consiglieri; ancora la passione irascibile, sorda ad ogni ammonimento; la speranza ancora così facilmente sedotta. Tutto questo mescolarono con sensazioni prive di ragione e con sfrenato erotismo, pronto ad osare ogni estremo disegno. In tal modo, sotto l’impero di necessità, formarono la stirpe mortale (Timeo, 69c-d).

Le due anime: la filosòfica e l’orfica, sono così ben descritte. La prima, con la sua capacità di astrarre dal sensibile, approda a quelle pure essenze o idee iperuraniche intorno a cui si ha scienza (epistéme), la seconda, immersa com’è nelle passioni, non esclusa la passione d’amore, è quell’anima non “intellettiva”, ma “psicologica” che, per i suoi caratteri irrazionali, possiamo accostare alla nozione moderna di “inconscio”.

Il Greco, infatti, non ignora la dimensione inconscia; abbiamo visto, ad esempio, che Pindaro la chiama immagine di vita (aionos eidolon) che “dorme quando le membra agiscono, mentre quando l’uomo dorme, spesso mostra nei sogni una decisione di gioia o di avversità futura” (fr. 131 b). Gli sciamani la chiamano “io occulto” e la contrappongono alla vita del corpo che si conduce nella vita quotidiana. “Questa goccia di sangue estraneo nelle vene dei greci”, come la chiama il Rohde (125, 338), non è l’anima razionale di Platone capace di astrazione e di epistéme, ma l’anima che abbiamo chiamato psichica che il Fedro e il Convito connettono col demone (daimon) e con amore (Èros). È all’Èros come daimon infatti che Platone assegna la funzione di:

Diotima: congiungere l’umano al divino (…) colmando l’immenso vuoto che separa i due mondi (Convito, 202).

Ed è significativo che con l’inaugurazione di questo nuovo metaxy, il tema dell’immortalità dell’anima, simbolo dell’indistruttibile capacità umana di astrarre dal sensibile, manchi completamente nel Convito perché, come giustamente osserva il Dodds: “Se Platone l’avesse introdotto, poteva mettere in pericolo la concezione dell’intelletto come entità autonoma, indipendente dal corpo, e questo era un rischio che Platone non voleva correre” (20, 265).

Con l’amica di terre lontane si approda così a una nozione di metaxy che è diversa da quella a cui Socrate approda nella discussione con Glaucone. La differenza è strettamente connessa alla diversa nozione di “anima” in gioco nell’uno e nell’altro dialogo. In presenza della “ben rotonda verità”, l’anima che se ne fa carico è l’anima filosofica che approda a quella piena conoscenza che Platone nomina di volta in volta gnósis o epistéme. Qui il metaxy è quella condizione intermedia tra epistéme e agnosia, che Platone affida alla dóxa, allo scambio di opinioni.

In presenza dei misteri, di cui la tradizione orfica era portatrice, l’anima che se ne fa carico è quella che noi oggi chiameremmo psicologica, e che Platone chiama demonica o erotica. Essa non approda alla piena conoscenza (epistéme), ma alla divina follia (theia mania). Qui il metaxy è ancora condizione intermedia, ma non tra epistéme e agnosia, ma tra i divini e i mortali “metaxy theou. kat thnetou(Convito, 202 e). Lo spazio dischiuso da questo metaxy non è percorso dalla dóxa, ma dalla follia (mania).

7. La divina follia

SOCRATE: I beni più grandi ci vengono dalla follia, naturalmente data per dono divino (Fedro, 244 a).

£ questo uno dei paradossi con cui Platone sconvolge quella visione epistémica e dóxica che i suoi dialoghi andavano dispiegando, per fare un’imprevista concessione all’opinione degli antichi per i quali:

SOCRATE: LA FOLLIA DAL DIO PROVENIENTE È ASSAI PIÙ BELLA DELLA SAGGEZZA D’ORIGINE UMANA (Fedro, 244 d).

Per gli antichi greci la bellezza (tó kdllos) non era, come per noi, una categoria estetica, ma un’espressione geometrica. Essa risultava “dall’ordine che tiene insieme cielo e terra, uomini e dèi” (Gorgia, 508 a); perciò il cosmo è bello, e bella è l’anima (psyché) che sa cogliere l’armonia del cosmo: “la giusta proporzione in cui si mescolano il limite e l’illimitato” (Filebo, 26 b).

Ma questa mescolanza (sunekeràsato) non è Dio, ma l’opera di un dio, anzi di un secondo dio (deùteros theós), dice il Timeo (36 a), che è il demiurgo artefice del mondo. Per bello che sia il mondo, la sua dunque è la bellezza di una copia, e perciò il sapere matematico che lo comprende non è il sapere più alto e quindi neppure il più bello. È infatti il sapere che le anime appresero quando il demiurgo “le fece salire su una specie di cocchio, e l’universa natura del cosmo mostrò, e disse leggi fatali” (Timeo, 41 e).

Qui già si possono scorgere le premesse gnostiche, che nella bellezza cosmica intravvedono la fatalità di un mondo, e nelle leggi che lo governano la volontà di un dio: “Voi avete incontrato il voler mio, vincolo più grande e più possente di quegli altri vincoli con i quali, quando nasceste, foste generati” (Timeo, 41 b). Tra i vincoli di un cosmo risolto in mondo, l’anima è già straniera, e il sapere che la vincola alle essenze ultime delle cose che appaiono nel mondo è già un sapere estraneo. Tó Agathón, infatti, il dio che non ha creato il mondo, è al di là di quelle “ultime ragioni delle cose (mathémata olkà) che si possono raggiungere per la via di raziocinio” (Repubblica, 509 a), è “al di là delle essenze che egli supera in dignità e potenza” (Repubblica, 509 b).

Cogliere l’essenza (ousta) delle cose è lo scopo della filosofia e del suo articolarsi dialettico che, oltrepassando l’opinione (dóxa) che ciascuno si forma nell’ambito del metaxy, dove l’essere è congiunto al nonessere, approda a quella conoscenza piena (epistéme) dell’essere che si sottrae all’oscillazione e alla disparità delle opinioni. Ma Tó Agathón è al di là anche del sapere epistemico e, siccome la dóxa non lo può raggiungere, perché è così inferiore aìl’epistéme da non destare invidia, non resta che “la follia (mania) per dono divino (theiai didoménesY(Fedro, 244 a).

Tra il mortale e il divino c’è dunque uno spazio intermedio ben più ampio dello spazio che tra la conoscenza e la non-cono-scenza è occupato dalla dóxa, perché la dóxa è un metaxy che media tra due possibilità umane (conoscenza e non-conoscenza), mentre quel metaxy che qui si annuncia come follia non media all’interno dell’umano, ma tra l’umano e il divino. Per questo Platone non dice della follia che è una possibilità o una potenza (dynamis) umana, come nella Repubblica aveva detto dell’ept-stéme e della dóxa, ma dice che è un dono (didoménes) divino.

La distanza tra questo dono divino e l’umana possibilità di ragionare viene ribadita da Platone là dove, introducendo il discorso sulla divina follia, dice:

SOCRATE: La profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona, in condizioni di follia (maneisai), fecero un gran bene alla Grecia, sia ai singoli, sia airintera comunità, mentre poco o nulla fecero quando erano nelle condizioni di chi può ragionare (sophronousai) (Fedro, 244 b).

Alle due sacerdotesse sopra menzionate, Platone aggiunge

SOCRATE: la Sibilla e tutti quelli che da qualche dio ispirati (éntheoi) trattarono la profezia (mantiké) (Fedro, 244 b).

Il dio ispiratore viene indicato alla fine della trattazione insieme agli altri dèi a cui sono da ricondurre le altre forme di follia. Scrive infatti Platone:

SOCRATE: Quanto alla divina follia ne abbiamo distinte quattro forme a ciascuna delle quali è preposta una divinità: Apollo per la follia profetica, Dioniso per la iniziatica, le Muse per la follia poetica, mentre la quarta, la più eccelsa, è sotto l’influsso di Afrodite e di Amore (Fedro, 265 b).

Si è molto insistito sulla differenza tra queste quattro forme di follia e sulla corretta attribuzione delle rispettive divinità, ma così facendo si è trascurata quelYidentità che tutte le sottende e le contrappone, in quanto espressioni di follia, all’umana ragione. Se si perde di vista l’identità e la conseguente contrapposizione non si coglie l’intenzione platonica che articola la differenza tra i due metaxy: quello tra la conoscenza piena e la conoscenza nulla che ha nella dóxa la sua mediazione, e quello tra il mortale e il divino che ha la sua mediazione nella mania.

I due metaxy non sono omogenei, perché non sono omogenei gli intervalli che devono mediare. La dóxa, infatti, media tra le umane possibilità conoscitive, la manta media tra queste e la verità (alétheia) del Dio che, secondo l’etimologia platonica, è il suo “errante vagabondare”.

8. L’immenso vuoto

Metaxy tra i mortali e i divini sono dunque dei demoni possenti, dice l’amica di terre lontane e

SOCRATE: Qual è il loro ufficio?

DIOTIMA: Interpretano (ermeneùon) e trasmettono (diaporthmeùon)

agli dèi gli umani desideri; così pure agli uomini i divini voleri. E di quelli, le preghiere e i sacrifìci; di questi, i comandamenti e il ricambio dei sacrifìci. In mezzo tra l’uno e l’altro mondo, colmano intero Γimmenso vuoto che separa i due mondi; e l’universo per tal modo risulta un’unità complessa e composta. Per opera di questi esseri superiori si svolge tutta l’arte che predice l’avvenire; tutto il complesso delle funzioni e delle pratiche sacerdotali: sacrifìci, iniziazioni, incantamenti; l’arte profetica nella sua totalità e la magia. La divinità, vedi, non ha diretto rapporto col genere umano; soltanto per mezzo di demoni ha relazione con noi; ogni suo colloquio con gli uomini, così nella veglia come nel sonno, avviene per il loro tramite. E si dice appunto che chi ha conoscenza sicura di questo è un uomo in rapporto con potenze superiori, un uomo demonico (daimónios). Invece chi sa cose d’altro genere, non è che un uomo comune (bànausos) (Convito, 202 e -203 a).

Di nuovo la distinzione tra i due metaxy, tra la dóxa del bànausos che è in possesso di un sapere mondano e la mania del daimónios che è in rapporto con potenze superiori. Per effetto di questo rapporto, il daimónios è interprete: ermeneus. Questa parola, in greco, non si riferisce all’interprete che tenta chiarimenti o spiegazioni, ma all’interprete che traduce da una lingua straniera. Per questo il discorso di Diotima attacca con un: “interpretano e trasmettono (ermeneuon kai diaporth-meùon)”, il loro compito, infatti, è di tradurre una lingua che, senza di loro, sarebbe incomprensibile all’uomo, perché è parola che proviene dal Dio.

Se il metaxy dischiuso dalla dóxa lascia ancora l’uomo al centro delle sue opinioni o interpretazioni, il metaxy dischiuso dalla mania disloca l’uomo dal centro, dove si incrociano le interpretazioni, a termine di ascolto di una parola che, se non fosse tradotta, resterebbe parola incomprensibile, perché la sua provenienza è al di là dell’umano.

Ma allora, a seconda del metaxy a cui si riferisce, la parola ermeneia muta il suo significato. Nell’ambito della dóxa “a cui gli amanti deìYepistéme non portano invidia”, Yermeneia è l’apertura di quello spazio che è molteplicità e ulteriorità di interpretazioni, dove è consentito dis-correre dall’una all’altra senza legarsi a nessuna, perché là dove l’essere e il nonessere convivono, nulla è vincolante. Nell’ambito della mania, nei cui confronti gli amanti deìYepistéme potrebbero portare qualche invidia, dal momento che “la follia dal dio proveniente è assai più bella della saggezza d’origine umana”, ermeneia non è più consapevolezza dell’assenza di un sapere assoluto, e quindi infinita moltiplicazione delle interpretazioni, ma traduzione e trasmissione di un messaggio che, provenendo da altrove, mette in gioco l’uomo in quell‘“immenso vuoto che separa i due mondi”, dove non è più l’uomo ad avere in mano le regole del gioco, ma il dio che con il suo dono lo gioca.

Se neiritinerario dischiuso dalla dóxa, Yermeneia, nell’impossibilità di un pensare assoluto, si apre a quel pensare che è un ospitare interpretazioni, nella mania si apre a quel pensare che è un passare oltre l‘“immenso vuoto”. In questo passaggio, in gioco è il simbolo che compone i distanti (sum-bdllein), o la metafora che porta fuori (meta-phorein), e che prima di essere un procedimento retorico del linguaggio è l’insorgenza stessa del linguaggio, la cui potenza, anche se non viene nominata, come quella del sole, è già in mezzo alle cose.

Quanti intendono inoltrarsi nei sentieri dei metaxy devono sapere di trovarsi lontano da quella conoscenza piena o epistéme che custodisce la “ben rotonda verità”, perché si sono incamminati verso quel “mondo” che dà ospitalità a tutte le interpretazioni (ermeneia come dóxa), o verso quell‘“immenso vuoto che separa i due mondi” dov’è il messaggio del dio (ermeneia come mania).

Come dóxa, Yermeneia s’inserisce nel “sogno del mondo” dischiuso dall’uomo, e ottiene il suo significato dai rimandi reciproci che rinviano le interpretazioni già disposte nel sogno che la dóxa del bdnausos ha dischiuso; come mania, invece, come metaxy deH‘“immenso vuoto”, Yermeneia non si colloca in un “sogno” già dischiuso dall’uomo, perché è lei che lo dischiude con oracoli che emergono da un abisso che non si lascia mettere del tutto in luce, e che quindi è il fondo di tutti i sogni di cui la voce del dio è la prima parola, che non il bdnausos, ma il dai-mónios traduce.

Questa differenza è fondamentale ed è da ricordare a tutti i sacerdoti dell’ermeneutica che dimenticano le potenze demoniche. Distinguendo due forme di metaxy, Platone ha intuito questa differenza, e, se non ha portato invidia alla dóxa, qualche sospetto rimane per la mania, anche se, dal punto di vista del-Yepistéme, dóxa e mania altro non sono che due modi di queirinevitabile errare dell’uomo in cui, però, forse si specchia l’analogo vagabondaggio del Dio:

SOCRATE: In quanto a verità (alétheia) anche questa è una parola che assomiglia alle altre per la sua composizione. Infatti il diverso flusso dell’essere è stato indicato col nome alétheia quasi a intendere la verità come un errante vagabondaggio divino: theia die (Cratilo, 421 b).