3. Oralità, scrittura e giochi di verità

Come giocattolo di Dio, l’uomo non può che giocare, attendendo ai giochi più belli.

PLATONE, Leggi, 803 c.

1. I vasi di bronzo

Un profondo equivoco percorre l’interpretazione secondo cui per i greci antichi, e in particolare per Platone, la parola parlata aveva un primato rispetto alla parola scritta. Certo, conforti a questa tesi non ne mancano, ma si tratta di letture superficiali che fanno reagire le espressioni fra di loro, dimenticando lo sfondo da cui provengono e a cui non si accede se non pensando in modo greco e con parole greche.

È vero che presso i greci nessun dio ha inventato la scrittura e Tha donata agli uomini, come Apollo il verso e l’arte della cetra. “La scrittura — ci riferisce Friedlaender — fu portata da un uomo della Fenicia e, prima degli influssi orientali del tempo di Alessandro, appena in qualche luogo ha posseduto per essi una forza sacra oppure magica. Presso di loro non ci sono geroglifici. Non conoscono neanche il libro sacro delle religioni orientali o, più precisamente, lo conoscono solo là dove ci troviamo ai margini della grecità vera e propria: nei circoli orfici. Così l’epos omerico è stato messo per iscritto soltanto per essere recitato. Porre in iscritto una poesia pindarica aveva importanza per conservarla e ricordarla: essa viveva tutta e solo nel momento della celebrazione quando era cantata in onore del vincitore, della sua stirpe e della sua patria; e non altrimenti accadeva con ogni rappresentazione drammatica” (31, 144-145).

Il primato della parola parlata rispetto alla parola scritta ha, come è noto, in Platone il suo più convinto e autorevole sostenitore. La tesi di Platone non è occasionale, non è limitata alla parte conclusiva del Fedro, dove la trattazione è più articolata e diffusa, ma è rintracciabile nell’intera produzione del filosofo, dai dialoghi giovanili alle Lettere. Così nel Protagora (329 a) So* crate contrappone il suo modo di disputare ai lunghi discorsi dei sofisti e dei politici: “Se uno fa loro delle domande, succede loro come ai libri: non hanno nulla da rispondere né da domandare; ma se uno chiede loro anche solo un poco di quanto sta scritto in essi, risuonano come vasi di bronzo percossi, non smettendola se qualcuno non li ferma/1

La scrittura, dunque, non è dialogica, ma siccome in Platone il dialogo non è che la rappresentazione viva e concreta della dialettica con cui si articolano le “idee”, possiamo anche dire che la scrittura non è dialettica, ma, come un vaso di bronzo percosso, si limita a diffondere sempre lo stesso suono.

Dal brano e dalla metafora che lo percorre sorge il sospetto che l’inferiorità della scrittura rispetto all’oralità non sia tanto nella differenza in cui nei due casi si materializza il linguaggio, quanto nella distanza che la scrittura non-dialogica e non-dialet-tica possiede rispetto alle idee, che proprio nella dialettica hanno la loro articolazione e il loro ordinamento. La distanza dalle idee e dalla modalità (dialettica) con cui esse sono in relazione fra loro esprime quindi il criterio che istituisce la gerarchia. Le idee, allora, sono quella Scrittura, quel Testo la cui articolazione, imitata dal dialogo orale, è smarrita in quell’imitazione dell’imitazione che è la scrittura con cui si compongono i testi.

2. I simulacri

Conferme in tal senso le abbiamo nel Fedro dove Platone, riprendendo indirettamente la disputa che aveva diviso Isocrate e Alcidamante circa il primato del discorso improvvisato rispetto a quello scritto, sposa la tesi di quest’ultimo, per il quale la parola che sorge immediatamente dal pensiero “è viva e animata (émpsychós esti kai zé) (Sopra i Sofisti, § 28). Non solo, ma Platone sente il bisogno di rafforzare l’argomento di Alcidamante con l’unica concessione che Isocrate aveva accordato alla parola orale rispetto a quella scritta: “Quando lo scrittore è assente, allora allo scritto manca l’aiuto” (Isocrate, Epistola I, § 3).

Nel raffronto col testo platonico, quello che colpisce è la ripresa quasi letterale delle espressioni. Se Alcidamante aveva detto del discorso orale che émpsychós esti kai zé, Platone dice che è lógon zónta kai émpsychon (Fedro, 276 a). Se la scrittura per Alcidamante è gioco (paidià) (Sopra i Sofisti, § 5), gioco è anche per Platone: Paidids chdrin paizein (Fedro, 276 d), che conviene con Isocrate là dove, proseguendo la metafora del gioco infantile, dice che il discorso scritto: “ha sempre bisogno del padre per aiuto perché non è in condizione di difendersi e di reggersi da sé” (Fedro, 275 e). Non solo, ma se per Alcidamante un discorso scritto non è per nulla un vero discorso, ma solo “una sua copia, uno schema, un’imitazione (eidola kai schémata kaì mimémata)”, esso non assomiglia a un corpo vivente, ma “a persone scolpite o dipinte” perché è immobile come queste, come i vasi di bronzo del Protagora, come i simulacri (eidola) nominati nel Fedro.

Ma le espressioni quasi letterali non devono trarre in inganno. Impiegate da Platone, esse non sono più le stesse, perché alle loro spalle gioca quella metafìsica delle idee, quella Scrittura che, a espressioni identiche, conferisce uno spessore e un senso assolutamente nuovo e del tutto insospettato sia per Alcidamante, sia per Isocrate. Dice testualmente Platone nel Fedro (276 a-b):

FEDRO: TU INTENDI LA PAROLA DI CHI SA (eidótos) vivente e animata, di cui, in tutta giustizia, si potrebbe dire che la parola scritta è un’immagine (eidolon)?

SOCRATE: INDUBBIAMENTE.

La domanda di Fedro gioca sulla contrapposizione: eidótos/ eidolon, una contrapposizione su cui si è ampiamente diffuso Platone nel VII libro della Repubblica dove, a proposito del mito della caverna, contrappone il sapere che nasce dallo sguardo rivolto alle idee (eidos) a quello consentito allo sguardo rivolto alle ombre (eidolon). Del primo è capace l’anima (psyché), di cui nel Fedone (80 d) si dice coerentemente che è “amica delle idee”, alla cui contemplazione può accedere quando si è liberata dalle catene che la trattengono nella corporeità definita, sempre nel Fedone (67 a), suo “carcere” e nel Cratilo (400 c) sua “tomba”.

In questo contesto acquistano una rilevanza particolare gli aggettivi zónta kai émpsychon. Essi non dicono genericamente che il lògos non scritto è più “vivo e animato” di quello scritto, ma dicono che il lògos di chi conosce le idee è un lògos di cui è capace la psyché quando ha raggiunto la pienezza della sua vita (zoé). Una pienezza a cui l’anima perviene, secondo l’insegnamento del Fedone (67 a), quando si è liberata dai lacci della corporeità con “l’esercizio di morte (meléte thanàtou)”.

Se accediamo a questa lettura, allora la vera opposizione per Platone non è tanto tra il discorso orale e quello scritto, quanto tra il discorso di chi conosce le idee (tòn toù eidótos lògos lé-gheis) nella piena vita dell’anima (zònta kai émpsychon) e quel

lo di chi invece conosce solo le ombre tratteggiate sulla parete della caverna (tò ghegramménon eidolon).

Ma le idee, lo sappiamo, sono norme, sono modelli, sono la vera Scrittura che l’anima viva, amica delle idee, riproduce, mentre l’opera scritta imita, come si imita la copia di una riproduzione. Gli aggettivi che Alcidamante impiega per connotare l’opera scritta, e di cui Platone nel Fedro utilizza solo il primo (eidolon), possono essere qui di seguito impiegati per designare la distanza tra il modello e la sua imitazione. Un lògos scritto, dice Alcidamante, non è per nulla un lògos, ma “una sua immagine umbratile, un suo schema, una sua imitazione” (Sopra i Sofisti, § 28).

Che il problema di Platone non sia tra orale e scritto, ma tra chi parla conoscendo le idee e chi si limita a scriverne senza conoscerle, lo deduciamo dalla II Lettera (314 a) che Platone scrive tra il 360 e il 357 a Dionigi: “Guardati che questa mia dottrina non capiti tra uomini ignoranti. Non ci sono, infatti, dottrine capaci più di questa a muovere il riso della gente; come d’altra parte non esistono dottrine che, in chi è adatto, formino oggetto di più alta ammirazione, dottrine capaci di infondere più viva fiamma d’entusiasmo. Bisogna farsele dire più e più volte, bisogna incessantemente ascoltarne l’esposizione, per molti anni; finalmente, come fossero oro, purissime appaiono.”

La diffidenza che Platone nutre per la scrittura non dipende dunque da un presunto privilegio che egli accorderebbe all’oralità, ma dal fatto che la scrittura si diffonde fra chiunque, col pericolo che si confonda Yeidos con Yeidolon, la verità delle idee con l’ingannevole apparenza di chi con le idee “non ha avuto per molti anni la necessaria consuetudine” (Fedro, 228 a).

Tra questi possiamo comprendere lo stesso Dionigi che ha composto uno scritto teorico sulla filosofia platonica, come annuncia Platone stesso nella VII Lettera. A ciò deve riferirsi l’ammonizione al tiranno: “Guarda di non aver da pentirti per qualche indiscrezione che ti ha fatto oggi divulgare quanto non si doveva. Prowederai nel modo più sicuro a salvare la dottrina non affidandola alla scrittura. Sarà bene imparare tutto a memoria. Vedi, le cose scritte è impossibile che non finiscano preda del volgo. Per questo motivo appunto io non ho mai affidato alla scrittura una sola parola relativa a questi argomenti. Non vi è quindi una scrittura di Platone, nessuna; non ce ne sarà mai; e quelle che si vanno indicando come tali sono di Socrate, quand’era nel tempo bello e nella pienezza della vita” (// Lettera, 314 b-c).

Infine, nella VII Lettera, Platone se la prende con coloro che scrivono, non per privilegiare quanti comunicano oralmente, ma per distinguere in maniera radicale tra chi, a proposito delle idee, “si esprime con parole” (orali o scritte) e chi invece si astiene preferendo “una lunga convivenza” col mondo delle idee, in attesa che improvvisamente si accenda una luce nell’anima: “Tanto ho da dire — scrive infatti Platone — su tutti quelli che hanno scritto e scriveranno, in quanto affermano di aver conoscenza di ciò cui si rivolge il mio più serio interesse, sia che l’abbiano appreso da me o da altri, sia che l’abbiano trovato da sé: questi, secondo me, non possono intender nulla di tali cose. Dunque, da parte mia almeno, non c’è nessun scritto su tale argomento e non ve ne sarà. Non è possibile esprimerlo con parole come l’oggetto delle altre scienze. Ma dalla lunga convivenza, dalla trattazione in comune di esso, nasce improvvisamente una luce neiranima, come accesa da un fuoco sfavillante e poi si nutre di se medesima” (VII Lettera, 341 b-d).

3. Le imitazioni

A questo punto si potrebbe obiettare che scritte sono anche le leggi e, nonostante Platone ne abbia quel rispetto che possiamo dedurre dalla sua opposizione alla tirannide e dalla sua consuetudine con Socrate, non per questo riserva loro un trattamento diverso da quello riservato a tutte le cose scritte: “Se poi si vedono scritti di qualcuno, siano leggi di un legislatore

o scritti di qualsiasi altro tipo, se quegli è davvero serio, non è stata per lui questa la cosa più seria, la quale sta nella parte più bella che egli possiede. Ma se la cosa più seria è stata da lui con piena serietà affidata allo scritto, allora davvero non gli dèi bensì gli uomini gli hanno tolto il senno, per dirla con Omero” (VII Lettera, 344 c-d).

È noto che Platone scrisse leggi per diversi anni, prima per Siracusa, poi per il suo immaginario Stato cretese. Eppure anche per questa nobile attività, Platone nelle Leggi usa la stessa espressione: scherzo, gioco (paidià) che nel Fedro aveva impiegato per le cose scritte. Dice infatti testualmente l’Ateniese: “Questo dobbiamo ora prendere in considerazione ed esaminare bene noi che con le leggi giochiamo un saggio gioco (paizontas paidiàn) da vecchi e così ovviamo alle fatiche del viaggio” (Leggi, 685 a).

Il senso di queste parole è rintracciabile in un passo del Politico (293 d) dove si dice che il re si distingue da tutti perché guida del suo agire sono “scienza e giustizia (epistéme kai tó dikaio proschrómenoiY. Epistéme e Dike non sono parole che possono passare inosservate o addirittura essere sostituite da altre che siano loro simili. Sono infatti parole che troviamo all’alba della filosofia per designare ciò che accade secondo necessità, e quindi è sottratto airoscillazione delle opinioni e delle azioni arbitrarie degli uomini.

Per Anassimandro “le cose che sono subiscono l’un l’altra punizione vendetta per la loro ingiustizia (adikia) secondo l’ordine del tempo” (DK., fr. 1). Per Eraclito la relazione tra gli opposti è regolata da Dike: “Non conoscerebbero il nome di Dike se non vi fossero queste cose” (DK., fr. 23). Per Parmenide “all’essere, né il nascere né il perire gli concesse Dike, allentando i legami, ma lo tiene ben fermo” (DK., fr. 8, w. 17-19). E infatti “Dike che molto punisce a tenere le chiavi dell’altemo uso” (DK., fr. 1, vv. 13-14).

Per quanto concerne Y epistéme ci è nota la sua contrapposizione alla dóxa. Si tratta delle due vie indicate da Parmenide, l’una che conduce a ciò che sta ben saldo su di sé (epuistemi), l’altra che si perde tra le opinioni degli uomini, tra le loro persuasioni che si appoggiano a ciò che sembra (dokel). Per Platone “su di sé” (epistéme) sta la dottrina delle idee, mentre alla dóxa appartengono le opinioni che gli uomini si fanno guardando quell’imitazione (tà mimémata) delle idee che sono le cose del mondo sensibile.

La contrapposizione omerica tra dèi e uomini, ripresa da Platone nella VII Lettera a proposito di chi ritiene di aver fatto la cosa più bella e più seria scrivendo leggi, è qui riproposta nel Politico come contrapposizione tra la verità delle idee e quell’imitazione della verità che sono le leggi: “Le leggi sono copie della verità (mimémata tés aletheiasY (Politico, 300 c). Per questo le leggi sono gioco (paidid), passatempo per uomini anziani. E questo non perché sono scritte (ghegramména), ma perché sono imitazioni (mimémata) della verità, sono quel secondo cammino, Hdeùteros plous(Politico, 301 a) che resta agli uomini quando il primo, quello della vera scienza delle idee, resta impedito.

Il re, allora, sta al di sopra della legge non nel senso dell’arbitrio tirannico, ma nel senso del sapere filosofico che, partecipe delle idee, è al di sopra delle loro imitazioni. Se ne deduce che le leggi sono svalutate non in quanto scritte, ma perché, in quanto imitazioni, non possiedono la somma giustizia: “ouk orthóta· tos o nómosn (Politico, 294 d). Scriverle è un gioco, come un gioco è scrivere poesie “quando altri — come dice Socrate — si danno ad altri giochi, ubriacandosi nei banchetti e cose simili” (Fedro, 276 d).

4. I giochi

La svalutazione delle leggi e della poesia da parte di Platone legislatore e poeta non dipende dal fatto che queste sono forme di imitazione di quella verità che il re-filosofo contempla nell’atto della meditazione e dell’esercizio dialettico. In questo senso esse occupano “il terzo posto dopo il re e la verità” (Repubblica, 597 e). La gerarchia non è articolata in base al criterio oralità/scrittura, ma in base alla distanza che intercorre tra gioco (paidià) e serietà (spoudé). Serio è occuparsi delle idee o modelli originari, sede e dimora della verità, gioco è riprodurre questi modelli con azioni imitative (prdttontas mimeitai) (Repubblica, 503 c) che approdano alla scrittura, sia essa legislativa o poetica.

Anche la svalutazione del poetico non dipende dal fatto che la poesia è scritta, ma dal fatto che essa attinge alla parte irrazionale dell’anima che è la più lontana e la più cieca a discernere la dialettica delle idee. In questo senso il poeta è “un cattivo ordinatore politico dell’anima del singolo” (Repubblica, 605 b), a differenza del filosofo che, educando la parte razionale deiranima, “stimola nell’uomo la vera serietà” (Timeo, 59 d).

Nella lettera ai discepoli di Asso, Platone parla “del gioco e della serietà come di due fratelli” (VI Lettera, 323 d). L’uno, la serietà, è “prerogativa di Dio” (Leggi, 803 b) e “di chi dirige l’occhio a Dio” (Leggi, 804 b), l’altro, il gioco, è proprio dell’uomo “la cui vita non è degna di grande serietà” (Leggi, 803 b). Anche qui non ci troviamo di fronte all’intonazione pessimistica di un Platone ormai vecchio, se non altro perché, già nella Repubblica (604 c), si legge che “non bisogna mai dar troppo peso alle umane vicende”, ma piuttosto alla ripresa del motivo fondamentale della sua filosofia che distingue tra la serietà delle idee (eidos) e il gioco delle sue imitazioni (eidolon) siano esse orali o scritte, legislative, poetiche o pittoriche.

“L’educazione (paideia) è per noi l’affare più serio” dicono le Leggi (803 d) e, come “giocattolo nelle mani di Dio, l’uomo non può che giocare attendendo ai giochi (paidià) più belli” (Leggi, 803 c). Rispetto all‘“ubriacarsi nei banchetti e cose simili” (Fedro, 276 d), scrivere leggi e poesie sono giochi più belli, ma restano sempre giochi “perché non conoscono quell’attrazione (olké) in cui consiste l’educazione propriamente detta” (Leggi, 809 a). Non dunque tra oralità e scrittura cade la barra di Platone, ma tra Yessere attratto da numeri e idee umdthema olkón(III Lettera, 319 b), o il perdersi tra i giochi, compresi i più belli. Forse per questo la leggenda riferisce che Platone aveva fatto scrivere sul frontespizio della sua Accademia: “Non si entra qui se non si è geometri” (137, 386), se non si è attratti da quel mondo numerale e ideale rispetto a cui ogni arte umana, orale

o scritta che sia, è puro e semplice gioco.

5. Le regole del gioco

Se non ci lasciamo sedurre dall’oggetto tematico, ma dal modo in cui è messo a tema, possiamo senz’altro dire che la differenza che Platone instaura tra “oralità e scrittura” non riguarda le parole che si pronunciano rispetto a quelle che si scrivono, ma le verità eterne rispetto alle convenzioni che gli uomini fra loro stipulano.

Questa distinzione permane finché la verità, gettata nel tempo, dimette il volto dell’immutabile e dell’eterno, per offrirsi in quel suo farsi e disfarsi che coincide col prodursi e il dissolversi dei volumi di senso. In questo trapassare, che la successione epocale del tempo scandisce ogni volta che un ordine consolidato di verità si mescola e sconfina in un nuovo ordine che sta per nascere, di eterno resta solo il gioco del vero e del falso di cui occorre reperire le regole che, dopo Nietzsche, non stanno più scritte nel cielo.

Finché c’era un cielo e un’anima che guardava il cielo, l’uomo era inserito in un ordine che doveva limitarsi a riprodurre. Dal-l’iperuranio di Platone alla sostanza atemporale di Spinoza, dall’ordine immutabile dei cieli, come lo descrive Aristotele, all’armonia invisibile di Leibniz, la verità non era compromessa col tempo, e perciò nulla incrinava la possibilità di una sintesi assoluta. Ma quando, prima con Kant e poi con Hegel, il tempo incomincia a celebrare le sue vittorie, le epoche prendono il posto delle categorie e te idee da eterne diventano epocali. A questo punto Yordine della ragione cede il posto alle ragioni discorsive,

i campi di gioco si moltiplicano e con essi le regole che, senza escludere la modificabilità del gioco, ne garantiscono la regolarità, ossia il contesto entro cui le parole appaiono e fanno testo.

Non c’è infatti stabilità delle parole se non all’interno del gioco in cui appaiono. Prese per sé, nella loro materialità, le parole sono come le carte da gioco, il cui valore dipende di volta in volta dalle regole che governano il gioco in cui sono inserite. Rispetto a Platone, che conosceva solo un campo di gioco fatto valere come originario, per noi oggi le parole e le cose non possiedono più una loro autoevidenza, non sono più note per sé, ma sono notificate dalle regole che di volta in volta definiscono il contesto della loro apparizione. A questo punto Yepistéme cessa di essere quel discorso assoluto che, sciolto da (solutus ab) ogni legame, sta su di sé, perché la sua autosussistenza dipende solo dall’ignoranza del carattere storico ed epocale della sintassi che alle sue spalle è presupposta e fatta valere come immutabile ed eterna.

L’irruzione del tempo produce la storicizzazione delle regole e, ribadendone la contingenza, ne consente la modificabilità. L’ordine della necessità abbandona la materialità dei contenuti per raccogliersi nell’ineluttabilità della forma. Di necessario resta solo che ci devono essere delle regole senza di cui non si produce alcun significato; quali siano poi queste regole è lasciato al tempo e alle convenzioni epocali.

La filosofia continua ad essere prima (próte) fra tutte le scienze, come bene aveva visto Aristotele (Metafisica, I, 982 b), non perché dice come stanno (epistéme) le cose, ma perché individua le regole per cui le cose stanno come stanno. Ciò consente alla filosofìa di prelevare dei significati e di operare migrazioni di senso modificando le regole con cui significati e sensi si organizzano. Non genera un sapere, ma individua gli ambiti entro cui i saperi si costituiscono.

6. Le peripezie tra i confini

Jaspers, che ha compreso la natura temporale dell’essere che abitiamo: “Noi non viviamo immediatamente nell’essere (Sein), perciò la verità non è nostro possesso definitivo; noi viviamo nell’essere temporale (Zeitdasein): la verità è nostra via” (81, 1), ha definito la filosofia come un “essere tra i luoghi (Philoso-phie als Zwischensein)” (80, I, 268). Senza una propria specifica conoscenza, la filosofia è “tra le conoscenze che orientano nel mondo” (ib., 166), non per dettare gli statuti e le leggi fondamentali con le loro anticipazioni, ma alla maniera della povertà che abita quel luogo di nessuno che risulta dai limiti che definiscono la proprietà di ciascuno.

Come Èros, che Platone definisce “filosofo perché non è sapiente come gli dèi, né ignorante, ma abita quel frammezzo tra ignoranza e sapienza (metaxy sophias kai amathias)” (Convito, 202 a), così la filosofìa percorre sentieri che delimitano campi che non possiede, individuando confini da cui possono nascere mappe diverse. In questo suo itinerario non intende stabilire fondamenti (Grund), ma, come dice Jaspers, abitare il limite (Grenze) e la sua mobilità. Spostandosi senza mai chiudere, la filosofìa naufraga (scheitert) come sistema per aprirsi come sistematica, come controllo delle migrazioni dei sensi e come ricognizione dello spostamento dei volumi di significato che non può apparire a chi abita un luogo, ma solo a chi itinera fra i luoghi.

Nel non-luogo che abita, la filosofìa incontra l’essenza dell’uomo, sconosciuta a tutte le scienze, anche alle scienze propriamente umane, perché anche queste, oggettivando l’uomo dal loro particolare punto di vista, lo perdono come itinerante fra

i vari luoghi: “der Mensch als Zwischenwesen” (80, II, 296). Così modificato, il soggetto non appare più come identità, ma come limite mobile, si estingue come principio costitutivo del sapere per scoprirsi relativo, anzi correlativo ai confini che esplora.

Attraversando Taleatorietà e qualificando di volta in volta i campi di gioco tramite i confini che individua, la filosofia può abitare il suo non-luogo, che è il frammezzo (Zwischenseitt) fra tutti i luoghi, che è quell’intreccio di sentieri che delimitano i campi, solo disabitandolo, perché, se lo abita stabilmente, lo traduce da non-luogo a luogo d’abitazione, e quindi lo nega come accesso ad altri luoghi. Così sottratto M’ontologia, al sistema generale del sapere, da cui ogni particolare forma di sapere dovrebbe dipendere, il non-luogo della filosofia diventa il luogo di tutti i luoghi, non come statuto che vale per tutti i luoghi, ma come via per accedere realmente ai diversi luoghi dove si formano i linguaggi e dove si articolano le conoscenze che in essi si raggiungono.

Se rinuncia al confine, la filosofia rinuncia alla sua peripezia; ma proprio qui, nell’evitare di mettersi in gioco, diventa cieca per i giochi che a sua insaputa si fanno. Non ci si salva chiamandosi fuori della storia alla ricerca di un fondamento immutabile ed eterno, perché la storia è accadere e l’accadere non ha bisogno di alcuna giustificazione, se mai di diagnosi. Per questo è necessario tornare ai campi di gioco e individuare nelle regole gli strumenti che tengono gli elementi nel gioco e in quel gioco, per il tempo che il gioco si gioca. Naturalmente l’indagine sugli strumenti e l’indagine sul tempo diventano essenziali solo se ancora si riconosce alla filosofia il compito che Platone le aveva assegnato quando, inaugurandola, l’aveva pensata come indagine intorno alla formazione del sapere e al problema della verità.

4. L’anima e le figure del tempo

Prima che rampollasse (prima del “prima” a dire il vero), il Tempo riposava in seno all’Essere, come pura idea. Entrò allora un potere senza pace, ΓAnima, vogliosa di trasferire in un diverso la visione suprema. Essa non era paga che la totalità del mondo ideale le fosse presente in blocco e in eternità, ma a frammenti e a successioni: così ella temporalizzò se stessa e impose alla creatura del mondo di servire al Tempo in cui l’aveva immersa.

PLOTINO, Enneadi, III, 7, 11.

Così Plotino ci separa da Platone e dal suo scenario immutabile ed eterno. L’atemporalità dell’ordine, com’era disegnato nell’iperuranio platonico, compromettendosi col tempo, comincia a incrinare la possibilità di un sapere assoluto. L’anima, che a questo sapere era deputata, appena nata, comincia a morire.

A questo passaggio epocale fa riferimento Plotino anche se, nel consegnare la verità al tempo, tenta insieme di emanciparla da un abbraccio totale. Così, se da un lato la verità non si manifesta più come insieme di idee eterne, se l’anima umana non è più l’invariante rispetto a tutto ciò che è storico, la storia continua ad essere decifrabile secondo l’unità di un télos o di un destino che deve condurre all’e-stasi temporale, all’uscita dal tempo. Eppure, nonostante questa incongruenza, la via è ormai aperta, e basterà attendere la fine del cristianesimo per vedere anche la storia completamente consegnata ad una temporalità senza più scopi né fini.

Nel nuovo scenario che così si dischiude, la natura dell*anima non è più rintracciabile nel suo rinvio alla trascendenza della verità, ma nell’incrocio delle relazioni tra i soggetti storici in cui la verità risulta disseminata. Questi soggetti, a loro volta, non sono da pensare come singoli individui, ma come processi generativi di sé per integrazione di molteplici riferimenti.

Concedendosi al tempo, l’anima cambia natura; la sua visione, per il solo fatto di essere prospettica, è perciò stessa impura; intorno ad essa non si fa più sistema, e questo non solo nel senso di un sistema eterno, ma anche nel senso di un sistema temporale, perché ogni prospettiva gioca una sua temporalità, dove il passato, il presente e il futuro non hanno sempre lo stesso senso e l’eco che diffondono non ha sempre lo stesso suono.

Tempo è parola latina; i Greci non avevano una parola per dire “tempo”, ma molte. Per loro il tempo era una complessità di cui erano a tal punto consapevoli che, per costruire un sapere che potesse valere per tutti, non trovarono via migliore che costruirlo fuori del tempo, sub specie aetemi.

Scavando questa complessità, che la filosofìa greca ha poi messo a tacere, riscopriamo le radici e insieme ci avviciniamo al nostro tempo, evitando la tirannide dell’attualità che, con· traendo la dilatazione del tempo, rende impossibile l’abitare. Non c’è più scenario. Cielo e terra si sono fatti lontani. Come massima antitesi deU’etemità, anche l’attualità ci sradica perché ci toglie la possibilità di disporre del tempo che gli uomini un giorno hanno sottratto all’eternità degli dèi. Questa sottrazione, questo furto i Greci l’hanno raffigurato nel grandioso scenario delle montagne del Caucaso dove, stagliati l’uno contro l’altro, sono il risentimento di Zeus e la passione di Prometeo.

Consegnando agli uomini la tecnica, Prometeo dona loro una temporalità assolutamente nuova rispetto a quella che regolava cielo e terra secondo destino e necessità. Dopo il dono di Prometeo il corso del tempo ha una finalità (télos) che non è più il suo compiersi nel ciclo (kuklos), ma il suo ancorarsi a uno scopo (skopós). In vista di questo scopo si dà inizio (àrchein) a qualcosa. La vicenda umana nasce con questo tempo. Prima non era possibile, perché non c’è inizio e non c’è scopo dove il tempo è ciclico, dov’è immutabile ripetizione dell’identico, secondo necessità.

1. Il tempo ciclico

La prima parola della filosofìa che la tradizione ci ha consegnato parla proprio del tempo ciclico: “Da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’un l’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo” (Anassimandro, DK., fr. 1). Anassimandro chiama questo tempo che fa giustizia chró· nos, esso dispiega la totalità del tempo rispetto a cui ogni epoca (aión) sorge e svanisce. Con Nietzsche, quindi col volgere della filosofìa verso la sua fine, il tempo ciclico riappare come eterno ritorno all’uguale: “Stemma della necessità! Tavola di eterne figure!Dell’essere costellazione suprema che nessun desiderio raggiunge, che nessuno contamina, eterno sì dell’essere, / eternamente io sono il tuo sì” (109, 61).

Nel ciclo ogni epoca non ha una finalità, ma semplicemente una fine. Il finito è perfectum, perché è compiuto, perché non lascia nulla fuori di sé. Con la sua fine raggiunge il suo fine. I due significati trovano la loro identità nel télos, la cui radice tei significa girare intorno, compiere per intero il proprio giro, donde teléo che vuol dire “portare a compimento”, tradotto dai latini con perficere, da cui perfectum, ossia compiuto, finito. Non c’è sporgenza nel ciclo che, come ha ben visto Nietzsche, non ospita né desideri né dinieghi. In esso le eterne figure “governano a turno mentre il ciclo si svolge, e gli uni finiscono e crescono secondo il turno che spetta” (Empedocle, DK., fr. 26).

Nel ciclo raggiungere il télos significa raggiungere la propria fine, e nella fine la propria forma. Se la forma è il fine dell’opera, questo fine è raggiunto solo alla fine. A questo alludono le parole aristoteliche enérgheia ed entelécheia; tra loro non c’è contrapposizione, quasi che Yenergia appartenga al mondo meccanicistico della natura e Yenteléchia a quello finalistico della progettualità umana. Nel ciclo non c’è finalità ma solo compimento, e l’opera (érgon) appare quando è compiuta, quando l’attività (enérgheia) che, prendendo avvio (drchein), l’ha promossa, è giunta alla fine (entelécheia). Entelé écho significa infatti: “ho raggiunto il compimento”, “sono compiuto”, perciò Aristotele può dire: “In realtà è fine l’opera, e l’atto si identifica con l’opera e perciò anche il nome stesso di atto (enérgheia) deriva da opera (érgon) e tende verso l’atto perfetto (entelécheia)” (Metafisica, 1050 a, 21-24).

Nel tempo ciclico c’è dunque identità tra il fine e la fine. A sancirla è la morte che, conducendo le singole forme alla loro distruzione per consentire la riproduzione di nuove forme, appare come il giudice implacabile che amministra il ciclo, non nel senso che lo destina a qualcosa, ma nel senso che lo ribadisce come eterno ritorno, permettendogli così di durare eternamente come ciclo.

Nel ciclo non c’è rimpianto e non c’è attesa. Il télos che lo percorre non ha aspettative né pentimenti, la temporalità che esprime è la pura e semplice regolarità del ciclo, dove nulla può accadere che non sia già accaduto e nulla può avvenire se non con-formandosi al già avvenuto. Nel tempo ciclico non c’è futuro che non sia la pura e semplice ripresa del passato che il presente ribadisce. Non c’è nulla da attendere, se non ciò che deve ritornare.

Dal tempo ciclico nascono alcune figure della temporalità che condizioneranno l’antropologia dell’uomo occidentale. Tra esse ricordiamo: Yirreversibilità del tempo rispetto ai singoli individui che nel ciclo sono destinati a perire; Yuniformità del tempo rispetto all’identica riproduzione delle forme e delle specie. Inoltre, se ciò che deve accadere è già accaduto, organo del tempo sarà la memoria. Questo spiega da un lato la vera essenza del mito che non è favola o leggenda, ma deposito di memoria, dalTaltro il sorgere della filosofìa come contemplazione, perché, se ciò che avverrà in certo modo è già avvenuto, per “sapere” sarà sufficiente “guardare”. Infine la verità come s-velamento (a-létheia) sarà alla base sia della filosofìa sia dell’arte che avrà come compito quello di svelare ciò che nel ciclo della natura è già contenuto, quello di liberare le sue qualità segrete. Architetto sarà colui che con la tecnica (téchne) darà inizio (drchein) a questa liberazione. Ciò che si tratta di liberare sono innanzitutto le misure segrete della natura di cui il temp(i)o è la prima figura.

2. Il tempo progettuale

Si diceva della scena del Caucaso dove Prometeo strappa agli dèi, prima del fuoco e della tecnica, un’altra temporalità senza la quale né il fuoco né la tecnica avrebbero senso. L’uno e l’altra, infatti, sono in vista di uno scopo che né il cielo né la terra, percorsi dal tempo ciclico, possono ospitare. Skopós è parola greca che significa tanto “colui che osserva e sorveglia” quanto “l’oggetto su cui si fissano gli occhi”, quindi il “bersaglio”, la “meta”. Connesso a skopós è il verbo skopéo che significa “pensare in anticipo”, “pro-(v)-vedere”, quindi “progettare”. Prometeo è colui che pensa (methés) in anticipo (prò).

Questa temporalità non guarda il passato, ma il futuro; a presiederle non è la figura del ritorno, ma quella del perseguimento del bersaglio. Qui il fine continua a identificarsi con la fine perché, quando lo scopo è raggiunto, è per ciò stesso consumato, ma ciò che si ha in vista non è la consumazione, la morte come nel tempo ciclico, ma il raggiungimento della meta. Lo scopo, infatti, il bersaglio può anche essere mancato, e ciò introduce, rispetto al tempo ciclico, una dimensione di aleatorietà, come se il vincolo della necessità non garantisse quei fini che si sono eletti a bersaglio.

Rispetto al tempo ciclico che era il tempo della natura in ordine agli individui, il tempo progettuale è il tempo dell’individuo in ordine alle sue intenzioni che, misurate sul tempo ciclico, altro non possono avere se non l’amaro sapore delle illusioni, “puro e semplice gioco” direbbe Nietzsche, rispetto al “tempo senza meta” (105, 274). Il campo di gioco è qui definito dall’oggz e dal domani, ossia da quel breve intervallo che corre tra elezione dei mezzi da effettuare nella situazione presente e realizzazione dei fini in un futuro strettamente connesso al presente, altrimenti ne potrebbe risultare una sostanziale inefficacia dei mezzi.

Dominante in questa temporalità è il tempo opportuno che

i greci nominavano kairós, una parola il cui primo significato è quello di “giusta proporzione”. Quando la proporzione perde la sua giusta misura e il campo tra presente e futuro si dilata s-misuratamente, nasce Yutopia che per questo è irrealizzabile.

Come il tempo ciclico, anche il tempo progettuale non è regolato dal vero e dal falso, dal bene e dal male, perché lo scopo, giusto o sbagliato che sia, è assunto; decisivi sono qui i valori economici che riguardano Yutilità dei mezzi rispetto agli scopi. La differenza aristotelica tra volontà e proponimento ribadisce questa categoria: “Tutti infatti vogliamo ciò che ci siamo proposti, però non tutte le cose che vogliamo ce le proponiamo” (Etica eudemia, 1226 b, 17-19). Nello scarto tra volontà e proponimento c’è tutto lo spazio del desiderio che occupa l’intervallo che corre tra il presente e il futuro, tra l’intenzione e la sua realizzazione.

I desideri non possono essere sconfinati perché il tempo progettuale è comunque iscritto nel tempo ciclico. La morte dell’individuo, che è legge di questo tempo, limita la progettualità e agisce sull’elezione degli scopi che sono realizzabili solo se il tempo progettuale non ha dimenticato la scansione del tempo ciclico. La distinzione freudiana tra principio della realtà e principio del piacere dipende dalla memoria o dall’oblio che il tempo dell’uomo e delle sue azioni non può essere sciolto dal tempo deU’universo che, per il fatto di essere ciclo, è anche nemesi.

Di qui l’importanza del kairós, la cui radice krr dice unione, nodo, armonia. Ciò che si tratta di unire e annodare armonicamente è il recente passato che conferisce al presente le condizioni per operare sull’immediato futuro. Solo nel buon intreccio di questo nodo qualcosa può configurarsi come scopo. Se invece

il nodo si dilata e il futuro da relativo diventa assoluto, se l’interrogazione non riguarda il domani, ma l’ultimo giorno, se lo scopo si dispone lontano fino ai confini del ciclo, allora la progettualità si dissolve a favore di un’altra temporalità che è fuori della portata dell’uomo e che risuona insignificante per il ciclo della natura. È la temporalità deìYéschaton che dischiude tut-t’altro tempo e altri impianti di significazione.

3. Il tempo escatologico

Éschaton, che nella direzione dello spazio significa lontano e nella direzione del tempo significa ultimo, è la forma superlativa di ek, ex che significano fuori. Véschaton è dunque ciò che è fuori portata. Non è nelle mani dell’uomo che può abitare solo

il tempo progettuale, non è nelle espressioni della natura che non conosce una fine perché la sua ciclicità percorre il ritorno. Questo tempo, in versione religiosa, è il tempo di Dio, in versione atea è il tempo déiYutopia e della rivoluzione. In comune queste versioni sono percorse dalla convinzione che la storia dell’uomo abbia un senso o già scritto aU’origine del tempo o da realizzare col tempo. Ciò che inaugurano è una temporalità che si ribella all’insignificanza della ciclicità della natura e alla brevità della progettualità deirindividuo.

Rispetto al tempo ciclico, dove il fine era espresso dalla fine, nel tempo escatologico è la fine a far apparire in tutta luce il fine di tutto ciò che è apparso nel tempo. In vista del fine che apparirà alla fine la prospettiva escatologica conferisce al tempo quella dimensione qualitativa che trasforma il puro divenire in storia. Guardare il tempo come storia è possibile solo se già si è ospitati dalla prospettiva escatologica, dove il primato del fine sulla fine irradia sul tempo la figura del senso. Alla fine si adempie ciò che all’inizio era stato voluto.

Come tempo della fine Yéschaton è apocalisse. Apo-kalypto significa dis-occultare, svelare il celato. La radice kelt da cui il celo latino, significa: occulto, copro, nascondo. L’apocalisse svela il senso rimasto occulto nel divenire del tempo e, svelandolo, fa nascere la storia che dunque è un evento dell’ultimo giorno. Non c’è storia prima dell’apocalisse, prima deìYéskaton, prima dell’ultimo giorno, perché prima il senso non è svelato. La storia nasce il giorno in cui si conclude.

Inaugurando il punto di vista della fine, Yéskaton inaugura una temporalità che è assoluto futuro, un futuro che non dipende dall’uomo, ma che irradia sul tempo dell’uomo i tratti della colpa o comunque della negatività. Non c’è mitologia che non abbia il bene tutto all’inizio e viva il presente come nostalgia e come attesa. “Nostalgia” è composta da due parole greche che dicono il dolore (dlgos) del ritorno (nóstos); non si tratta del ritorno ciclico della natura, ma del ritorno in patria. Àlgos, come intensivo di légo, dice che solo quando si sarà approdati in patria ci sarà comprensione (lògos) del lungo itinerare, prima c’è solo il dolore dell’attesa.

Le mitologie primitive leggono il tempo a partire da un paradiso perduto e in attesa di un possibile ritorno in cui prende figura la salvezza. Rispetto zXYéschaton, il télos perde il suo carattere di svolgimento ciclico, e lo skopós il suo carattere di proponimento, in quanto ciò che si compie è già da sempre predisposto. Se con il tempo progettuale l’uomo ha cercato di strappare alla natura briciole di senso, col tempo escatologico pretende la totalità del senso, ma in questa pretesa sta la sua sconfitta perché, in chiave escatologica, il tempo non è più dell’uomo ma di Dio. Per questo Yéschaton è la fine del mondo, la fine dello spazio e del tempo umano. Alla figurazione escatologica del tempo appartengono la scienza, l’utopia e la rivoluzione, ciascuna con le sue varianti, determinate dal diverso modo con cui le figurazioni del tempo si contaminano tra loro correggendosi reciprocamente.

La scienza moderna porta a compimento il dominio della natura sottraendolo a Dio che, essendo sempre meno accessibile alla ragione, finisce con Tessere sempre più confinato nella fede. Prendendo il posto di Dio, la ragione diventa legislatrice, non “impara” dalla natura, come succedeva quando la natura era considerata il disegno dispiegato di Dio, ma obbliga la natura a rispondere alle sue interrogazioni. In questo modo la natura non ha in sé alcun senso se non quello che assume alTintemo del progetto umano che tende a farne un fondo a disposizione dell’uomo.

Come nell‘éschaton, con la scienza nasce una storia che ha il suo sigillo nel progresso e nella crescita e il suo senso nel domi-nio dell’uomo sulla natura. Parlare di progresso significa infatti aver abbandonato la temporalità ciclica che, se mai, conosce solo

lo sviluppo fino a quella svolta da cui prende avvio il ritorno. Il progresso si afferma come skopós, ma qui lo scopo non vive il breve respiro del kairós, dell’opportunità, ma il grande respiro della crescita eretta a senso della storia. Allora valenze escatologiche si abbattono sugli scopi, e nasce l’interrogazione: a che scopo progredire per progredire?

Ma quando lo scopo va oltre il breve tragitto compreso tra il passato recente e Yimmediato futuro, per porsi come senso della storia, nasce Yutopia come intenzione della volontà su tutta la natura. Non a caso lo spirito dell’utopia, con Moro, Bacone, Campanella, nasce col sorgere della scienza moderna, dove si fa chiaro che conoscere significa non più contemplare, come quando il tempo era ciclico, ma dominare. All’epoca, però, era troppa la distanza tra i mezzi dati e i fini, per cui non c’era nessun luogo (u-topta) in cui il progetto poteva realizzarsi. L’utopia è allora quel non-luogo come proiezione infinita di un’estrema possibilità. Quanto bastava perché il progettare divenisse la forma della storia, non nel senso di realizzare questo o quel progetto, ma di instaurare la progettualità come senso e forma del tempo. Lo skopós, così divinizzato, assume i caratteri delYéschaton, e oggi è nei risultati di questa infinita progettazione che gli uomini scorgono tanto la salvezza quanto l’apocalisse.

Il modo di pensare è ancora religioso e si nutre delle figure laicizzate del tempo escatologico. Nello spirito dell’utopia la triade religiosa: colpa, redenzione, salvezza, trova la sua riformulazione in quell’omologa prospettiva dove il passato appare come malattia, la scienza come redenzione, il progresso come salvezza.

L’utopia guarda al futuro con un’etica terapeutica dove i mali si eliminano tramite il controllo razionale degli effetti.

Al tempo escatologico è legata anche l’idea di rivoluzione che alla fine prevede un rovesciamento dal dominio del male a quel

lo del bene, da questo tempo a un altro tempo. Forse per questo dopo tutte le rivoluzioni s’è sentito il bisogno di dare il via a nuovi calendari, a una nuova misurazione del tempo, perché, a differenza dell’utopia che ha bisogno di tanto futuro, la rivoluzione prende fuoco per un altro futuro.

Se Yonnipotenza è la chiave àeìYéschaton, quella dell’utopia ha un carattere progressivo nell’ordine del tempo e nella determinazione degli scopi, mentre quella della rivoluzione ha un carattere esplosivo perché segna un’accelerazione del tempo verso la fine, per l’irruzione dell’elemento salvifico e risolutore. Se nell’utopia il tempo escatologico è cadenzato dal tempo progettuale, nella rivoluzione la progettualità è dissolta nell’apocalisse àeìYéschaton come rivelazione totale di quanto era stato finora celato, e inaugurazione di un mondo nuovo a partire dalla rivelazione avvenuta.

Gli esempi qui introdotti mostrano come non si possa parlare di una realtà del tempo, ma solo di figure che, intrecciandosi in vario modo, generano quelle rappresentazioni e quei sentimenti del tempo che di epoca in epoca caratterizzano il nostro modo di abitare la terra. Altro è infatti abitare la salvezza, altro la speranza, altro il progresso, altro la rivoluzione. Ogni costruzione della storia risente dell’abitazione, perché l’abitare vien prima del costruire. Si possono infatti costruire cose solo perché già si abita un tempo, la cui figura è poi la forma che ritroviamo nelle cose.

A questo punto, pensarsi in relazione al tempo non significa pensarsi figli del tempo, adeguati al tempo, come richiede il tempo. Non ci sono gli uomini e poi il tempo. Il tempo non è fuori di noi o dentro di noi. Il tempo è la trama con cui l’anima svolge se stessa in una metamorfosi di figure. E ad ogni intreccio incontriamo una sua costruzione che in sé raccoglie alcuni fili di quella rete polinodale tessuta per noi dalle figure del tempo.