abilità) diede una delle sue feste da ballo, invitandovi, come era sua

consuetudine, chiunque avesse un conto corrente superiore ai cinquecento

scudi. Pertanto Becky ebbe diritto a un biglietto d invito e presenziò a uno dei

sontuosi ricevimenti offerti dal principe e dalla principessa Polonia. La

principessa apparteneva alla famiglia Pompili e discendeva in linea retta dal

secondo re di Roma e da Egeria, della casa di Olimpo, mentre il nonno del

principe, Alessandro Polonia, vendeva saponette, profumi, tabacco e affini,

sbrigava commissioni per conto dei gentiluomini e gli prestava qualche

sommetta in denaro. Nelle sale del principesco palazzo si dava convegno la più

eletta società della capitale: principi, duchi, ambasciatori, artisti, violinisti,

prelati, aristocratici rampolli in viaggio d'istruzione, in altre parole una folla

assai varia per censo e ceto. I saloni splendevano di luci, che facevano

scintillare le cornici dorate dei quadri, non altrimenti dalle molteplici

suppellettili di assai opinabile antichità che popolavano le stanze, nonché la

grande corona dorata e lo stemma del principe raffigurante un fungo d'oro in

campo cremisi (ossia il colore dei fazzoletti che un tempo soleva vendere),

mentre la fontana d'argento dei Pompili brillava sul soffitto, sulle cimase delle

porte, sui pannelli, in ogni angolo della casa e sui baldacchini apprestati per

ricevere papi e imperatori.

Becky, giunta in diligenza da Firenze e scesa in una modesta

pensioncina, ricevette pertanto l'invito al ballo del principe Polonia. Si fece

vestire e pettinare dalla cameriera con cura affatto particolare, dopo di che si

recò al suddetto ballo al braccio del maggiore Loder, col quale in quel momento

viaggiava (lo stesso personaggio che l'anno dopo, a Napoli, sparò un colpo di

revolver al principe Ravoli e fu preso a bastonate da Sir John Buckskin il quale,

mentre giocava a carte con lui, aveva scoperto che nascondeva tre re nel

cappello, oltre a quelli che teneva in mano). Dicevamo dunque che Becky e il

maggiore si recarono al ballo insieme, e nella folla la nostra amica riconobbe

un buon numero di facce che aveva conosciuto in tempi a lei più fausti, quando

non era certo una santarellina, ma quantomeno non era stata ancora

smascherata. Per parte sua il maggiore Loder conosceva parecchi stranieri,

gente dall'occhio sempre vigile, con nastrini sporchi all'occhiello e scarsa

biancheria in vista, ma ci volle ben poco per constatare che i suoi connazionali

lo schivavano. Anche Becky conosceva qualche signora: signore francesi

separate dal legittimo consorte, nobildonne italiane dal titolo alquanto

sindacabile e comunque tutte vittime dei mariti. Ma suvvia, chi altri dovremmo

menzionare fra gli esponenti di questa feccia, di questa manica di mascalzoni,

noi che abbiamo vissuto in mezzo al fior fiore della Fiera della Vanità?

Se proprio vogliamo giocare, facciamolo con un mazzo di carte pulite,

non con delle carte luride. Tutti coloro che hanno appartenuto al folto stuolo

dei viaggiatori, ne hanno visti di questi scrocconi predatori, che al pari di Nym

e di Pistol si aggregano al grosso delle forze, indossano come gli altri la divisa

del re, si proclamano ai suoi ordini, ma si danno al saccheggio a proprio

esclusivo beneficio e di tanto in tanto finiscono impiccati sul ciglio della strada.

Becky entrò dunque al braccio del maggiore Loder, con lui percorse i

saloni e andò al buffet a bere una coppa di champagne dopo l'altra. Quivi tutti

si urtavano e sgomitavano per bere qualcosa, ma in modo precipuo le truppe

irregolari del maggiore Loder. Becky e il maggiore si allontanarono poi dal

buffet per raggiungere il salotto di velluto rosa della principessa. Il locale era in

fondo, proprio al termine della fuga di sale. Era il salotto che ospitava la statua

di Venere e del pari la grande specchiera veneziana dalla cornice d'argento e

dove la famiglia principesca aveva invitato a cena i suoi ospiti di maggior

riguardo. Era una cenetta fra intimi, non diversa da quelle alle quali Becky

rammentava di aver partecipato in casa di Lord Steyne: sì, proprio Lord Steyne

che ora rivide, al banchetto del principe Polonia. La cicatrice sulla fronte,

causata dalla spilla di diamanti, spiccava rosso porpora sulla fronte ampia,

lucida e bianca. I favoriti, tinti di un color rosso cupo, accentuavano il pallore di

quel viso. Lord Steyne indossava il collare, le decorazioni e le insegne

dell'Ordine della Giarrettiera. Anche in questa circostanza egli era il

personaggio di maggior prestigio, ancorché alla tavola sedessero un duca

regnante e un principe del sangue, nonché un folto stuolo di principesse.

Acconto a Sua Signoria sedeva l'avvenente contessa di Belladonna, née

Glandier. Suo marito, il conte di Belladonna, universalmente noto in virtù della

sua collezione entomologica, era assente da gran tempo, in missione presso

l'imperatore del Marocco.

Non appena Becky ebbe rivisto quel viso illustre e al tempo stesso

familiare, avverti immantinenti la volgarità del maggiore Loder e il lezzo di

tabacco che emanava dalla persona dell'odioso capitano Rook. Di punto in

bianco ritrovò il tono e gli atteggiamenti del gran mondo, e cercò di sentirsi e

di mostrarsi come ai bei tempi di Mayfair. «Quella donna ha l'aria stupida e

antipatica,» pensò. «Sono certa che accanto a lei si annoia da morire. E

pensare che insieme a me non si annoiava mai!» Nel suo cuore si affollarono

confusamente speranze, rimembranze e timori, mentre fissava il gentiluomo

con gli occhi luccicanti, esaltati dal rossetto che le accendeva la sommità degli

zigomi. Quando le circostanze lo esigevano, Lord Steyne sapeva assumere un

tono e un tratto oltremodo pomposi e solenni, e adottare un eloquio confacente

al suo rango. Becky lo guardava, ammirata, mentre lui sorrideva con distacco e

sussiego. Ah, Bon Dieu, quello sì era un amico ideale! Quale stile, qua I e

conversazione, quale brio nella sua parola! E lei lo aveva perduto per trovarsi

al fianco un individuo come il maggiore Loder, che puzzava di sigaro e di

brandy, e per un capitano Rook coi suoi scherzi volgari e il gergo di un

allenatore di pugilato! Per gente così! «Chissà se mi riconoscerà...» pensò

Becky. Lord Steyne, che stava ridendo e scherzando con una dama altolocata

che gli stava al fianco, alzò improvvisamente il capo e la vide.

Quando i loro sguardi s'incrociarono, Becky, eccitata e confusa, sciorinò il

suo sguardo più suadente e contrito. Per un istante lui la fissò sgomento, come

Macbeth al cospetto dell'ombra di Banco, poi indugiò a guardarla senza

profferir parola sino a quando sopravvenne quell'orrendo ceffo del maggiore

Loder e la portò via.

«Venite a cenare, signora,» le disse. «A vedere questi nobilazzi che si

rimpinzano mi è venuta una fame, sapeste! Andiamo ad assaggiare lo

champagne del vecchio,» aggiunse, mentre Becky pensava che ne avesse già

bevuto abbastanza.

L'indomani andò a passeggio al Pincio, ossia all'Hyde Park dei romani,

nella segreta speranza d'imbattersi un'altra volta in Lord Steyne. Al suo posto

trovò Mr. Fiche, l'uomo di fiducia di Sua Signoria, il quale si portò la mano al

cappello in un gesto di saluto piuttosto disinvolto. «Ero certo di trovarvi qui,»

disse. «Vi ho seguita fin dall'albergo. Devo darvi un consiglio.»

«Da parte di Lord Steyne?» chiese Rebecca facendo appello a quel tanto

di dignità personale che ancora aveva, mentre in cuor suo si sentiva sconvolta

dall'attesa e da una vaga speranza.

«No,» rispose, «il consiglio è mio. Roma non è una località salubre.»

«In questa stagione è un luogo sanissimo, Monsieur Fiche. Solo dopo

Pasqua...

«Neanche adesso è salubre, ve lo posso assicurare Madame. Quel

ventaccio che soffia dalle palude ha ragione di molti, in tutte le stagioni.

Vedete, Mrs. Crawley, voi siete sempre stata bon enfant ed io vi sono

sinceramente devoto, parole d'honneur. Accettate il mio consiglio: andatevene

da Roma, altrimenti vi ammalerete e non sopravviverete alla malattia.»

Becky scoppiò a ridere, di una risata rabbiosa. «Come sarebbe a dire?

Addirittura uccidermi! Una cosa veramente romantica! Forse Sua Signoria ha

sostituito i corrieri con dei sicari? Forse che tiene dei pugnali celati nella

carrozza? Ebbene, vi rispondo che rimango, non foss'altro per fargli dispetto.

Finché rimango qui, avrà qualcuno disposto a difendermi.

Questa volta toccò a Monsieur Fiche scoppiare in una risata.

«Difendervi?» esclamò. «E chi dovrebbe difendervi? Il maggiore, il capitano o

qualcun altro di quei vostri amici dediti al gioco, che sarebbero pronti ad

uccidervi per cento luigi? La sappiamo lunga sul conto del maggiore Loder, il

quale, fra l'altro, è maggiore quanto io sono marchese. Ne ha fatte da

meritarsi dritto dritto la galera. Noi sappiamo tutto, abbiamo amici

dappertutto. Sappiamo benissimo con chi abbiate bazzicato, a Parigi, e che

razza di parenti vi abbiate ritrovato. È inutile che mi guardiate con tanto

d'occhi, siamo al corrente di tutto. E dite, perché mai non esiste un solo

ambasciatore in tutta Europa che si degni di ricevere vossignora? È molto

semplice: perché avete offeso una persona che conta, e questa persona al solo

rivedervi ha sentito rimontare in seno tutta la sua collera. Iersera, quando è

rientrato, smaniava come un pazzo. Madame de Belladonna gli ha fatto una

sfuriata per causa vostra, una delle sue solite scene di rabbia isterica.

«Ah, ora capisco,» esclamò Becky. «Dunque è stata Madame de

Belladonna!» Si sentiva alquanto risollevata, dopo le allarmanti notizie fornitele

da Fiche.

«Siete in errore, Madame non conta affatto. Lei è sempre gelosa. Ve l'ho

già detto, Monseigneur era furente. Presentarglisi davanti agli occhi è stata una

pessima idea. Andatevene dunque, o dovrete pentirvene. Badate a quel che vi

dico. Ed ora andatevene, ecco il calesse di Sua Signoria!» Fiche afferrò Becky

per un braccio e la trascinò via facendole percorrere a viva forza un vialetto

secondario, nel momento stesso in cui la carrozza di Lord Steyne, splendente

di stemmi e di svolazzi dorati svoltava descrivendo una curva elegante nel

viale principale, trainata da splendidi destrieri, e trasportando Madame de

Belladonna, bruna, prosperosa e imbronciata, sprofondata mollemente nei

cuscini. In grembo teneva un king Charles, e si proteggeva il capo con un

parasole bianco. Al suo fianco se ne stava adagiato Lord Steyne, livido e cupo

in volto. A tratti quegli occhi scintillavano ancora di collera, di desiderio o di

odio, ma più sovente si posavano spenti su un mondo che non aveva più nulla

di attraente da offrire a quel vecchio libertino.

«Monseigneur non si è più ripreso dopo il colpo di quella notte,» riprese

Monsieur Fiche. «Mai più.» In quel momento la carrozza transitava veloce

accanto a loro, e Bedky scrutava Lord Steyne, non vista, dal folto di cespugli in

mezzo al quale si era nascosta. «Ho almeno questo conforto,» pensò. Non è

mai stato possibile assodare con certezza se Lord Steyne nutrisse realmente

propositi omicidi nei confronti di Becky, come asseriva Monsieur Fiche (il quale,

dopo la morte di Sua Signoria, sarebbe rientrato in patria, non senza aver

previamente assunto, acquistandolo dal suo signore e padrone, il titolo di

barone Ficci), propositi che il suo tirapiedi si era comunque rifiutato di tradurre

in atto; o se invece quest'ultimo avesse più semplicemente ricevuto l'incarico

di spaventare Becky, onde indurla a lasciare la città ove Sua Signoria si

proponeva di turco della Mezzaluna, Primo Lord Camerlengo e paggio della

Scala Segreta, colonnello del Reggimento del Gaunt, ossia della milizia

personale di Sua Altezza Reale il Reggente, fiduciario del British Museum,

membro decano della Trinity House e governatore dei White Friars, morì in

seguito ai colpi apoplettici, causati, a quel che si disse, dal dolore per la caduta

della secolare monarchia borbonica in Francia. trascorrere l'inverno, e dove egli

paventava come cosa altamente sgradevole il doverla incontrare. Sta di fatto,

comunque, che la minaccia sortì il suo effetto, perché Becky non tentò più di

ritrovarsi faccia a faccia col suo antico protettore.

È a tutti nota la dolorosa fine di questo nobilissimo gentiluomo,

sopravvenuta a Napoli due mesi dopo la Rivoluzione che aveva scosso la

Francia nel 1830, anno in cui il molto onorevole George Gustavus, marchese di

Steyne, conte di Gaunt e di Gaunt Castle, nobile d'Irlanda, visconte di

Hellborough, barone di Pitchly e Grillsby, Cavaliere del nobile Ordine della

Giarrettiera, della Freccia d'Oro di Spagna, dell'Ordine russo di prima classe di

San Nicola, dell'Ordine

Un settimanale pubblicò il nutrito e minuzioso elenco delle sue virtù,

della sua magnificenza, del suo talento, dei suoi innumerevoli meriti. La sua

sensibilità, la sua devozione alla Casa dei Borboni alla quale affermava di esser

legato da vincoli di parentela, erano tali da non consentirgli di sopravvivere alla

sventura che aveva colpito il suo augusto consanguineo. Le sue spoglie

vennero inumate a Napoli, mentre il suo cuore - quel cuore che aveva sempre

palpitato di sentimenti così nobili e schietti - venne riportato a Castle Gaunt

entro un'urna d'argento. «Con lui,» commentò Mr. Wagg, «i poveri e le arti

hanno perduto un protettore munifico; la società uno dei suoi elementi più

vividi e geniali, e l'Inghilterra uno dei suoi statisti e patrioti più illuminati...» e

così via.

Il suo testamento diede luogo a interminabili contese. Né mancò il

tentativo di sottrarre a Madame de Belladonna il celebre anello denominato

«l'occhio dell'ebreo», che Sua Signoria portava sempre al dito indice e si

raccontava che lei gli avesse tolto subito dopo la morte di lui. Ma Monsieur

Fiche, cameriere personale e confidente di Lord Steyne, ebbe agio di

dimostrare che il gioiello in questione era stato donato alla summenzionata

contessa due giorni prima di spirare. Non altrimenti del denaro, dei gioielli e

dei titoli di Stato napoletani e francesi custoditi nella cassaforte di Lord Steyne,

e che i suoi eredi esigevano perentoriamente dalla nobildonna offesa.

LXV • DENSO DI AFFARI E SVAGHI DIVERSI

Il giorno dopo l'incontro al tavolo da gioco, Jos si fece bello con insolita

cura ed eleganza; poi, senza ritenersi in obbligo di rivelare a un membro

purchessia della famiglia gli avvenimenti della sera innanzi, o di chiedere a

qualcuno di fargli compagnia durante la sua passeggiata, si mise alacremente

in moto di buon'ora. Poco dopo fu visto da qualcuno nell'atto d'informarsi alla

porta dell'Hotel Elefante. In occasione delle fêtes l'albergo brulicava di gente. I

tavoli davanti alla facciata erano affollati di gente che fumava e beveva la

bevanda nazionale, ovverossia la birra, mentre le salette del bar erano avvolte

in una grande nuvola di fumo. Mr. Jos, dopo aver chiesto con la sua aria

pomposa e nel suo tedesco approssimativo della persona che cercava, venne

indirizzato all'ultimo piano, né più né meno in solaio. Superò il primo, popolato

di venditori ambulanti che avevano messo in bella mostra i loro gioielli e

broccati. Il secondo piano era occupato dall'état-major del gruppo dei

giocatori. Il terzo, infine, era retaggio di una tribù di gitani acrobati. Superò

anche il terzo piano e raggiunse gli abbaini del sottotetto, ove tra studenti,

piccoli viaggiatori di commercio e contadini calati in città per i festeggiamenti,

Becky si era fatta il suo piccolo nido, il più lurido nel quale avesse mai trovato

rifugio una bellezza femminile.

Ma a Becky una siffatta esistenza andava abbastanza a genio. In mezzo

ai venditori ambulanti, ai giocatori, ai pagliacci, agli studenti e ad altra

eterogenea umanità, si sentiva - lo si sarebbe detto - a suo agio. Aveva

un'indole irrequieta e indomita, non altrimenti da quella dei genitori che, per

vocazione e un po' per puro caso, avevano entrambi un che di zingaresco. Se

non aveva la fortuna di poter discorrere con un Lord, era ben lieta di scambiar

due chiacchiere col suo postiglione. Il chiasso, il movimento, il fumo e il vino

cui si abbandonavano i frequentatori di un luogo siffatto, il vociare fitto e

sommesso dei venditori ambulanti ebrei, gli atteggiamenti spavaldi e tronfi dei

poveri saltimbanchi, il conversare sournois dei giocatori di mestiere, i canti e la

boriosa baldanza degli studenti, l'andirivieni e il brusio di quel posto

suscitavano la divertita compiacenza della nostra piccola amica, anche quando

le accadeva di perdere e non sapeva più a chi appellarsi per riuscire a pagare il

conto. Com'era più piacevole, per lei, quella chiassosa farragine di gente, ora

che il suo borsellino era pieno del denaro che il piccolo Georgy aveva vinto per

lei la sera prima!

Quando Jos, ormai senza fiato, ebbe raggiunto l'ultima rampa di scale

scricchiolanti sotto il suo peso, e si fu arrestato sul pianerottolo ad asciugarsi il

sudore, volse lo sguardo attorno a sé per cercare la camera numero 92, dove,

a quanto gli era stato detto, avrebbe trovato la persona che cercava. La porta

della camera numero 90, proprio di fronte a lui, era aperta: uno studente, che

indossava un paio di stivaloni e un sudicio schlafrock, se ne stava sdraiato sul

letto a fumare una lunga pipa, mentre un suo compagno dai lunghi capelli

biondi, con una giacca gallonata estremamente elegante ma parimenti sudicia,

se ne stava in ginocchio davanti alla porta della camera 92, rivolgendo

suppliche alla persona che l'occupava attraverso il buco della serratura.

«Andatevene,» disse una voce ben nota, che fece fremere Jos. «Aspetto

una visita. Aspetto mio nonno, non deve trovarvi qui.»

«Angel Engländerinn!» strillava lo studente inginocchiato, con le sue

chiome inanellate giallastre e un grande anello al dito. «Abbiate compassione

di noi, ve ne scongiuro. Dateci un appuntamento. Cenate con me e con Fritz

nella locanda del parco. Gusteremo fagiano arrosto e birra, pudding e vini

francesi. Se rifiutate ne morremo di dolore.

«È vero,» intervenne il giovane nobiluomo sdraiato sul letto. E tale fu la

conversazione che Jos ebbe modo di udire, anche se non capì una sola parola

per la semplice ragione che non aveva mai studiato la lingua nella quale si

svolgeva.

«Niumero cattervang duss, si vous plait,» disse Jos nel tono più solenne,

quando alla fine riuscì a parlare.

«Quatter fen tuss!» disse lo studente, rimettendosi prontamente in piedi

e rifugiandosi tosto nella sua camera di cui chiuse accuratamente la porta a

chiave; di là Jos lo udì ridere insieme al suo compagno coricato sul letto.

Il nostro gentiluomo bengalese era ancora esitante, sconcertato dalla

scena alla quale aveva assistito, quando la porta della camera 92 venne aperta

e si affacciò il volto di Becky, atteggiato a un'espressione quanto mai ironica e

impertinente. Mosse incontro a Jos. «Ah, siete voi! Vi ho atteso così a lungo! Vi

prego, pazientate un istante prima di entrare.» Con rapida mossa nascose

sotto le coperte una scatola di belletto, una bottiglia di brandy e un piatto di

carne mangiata a mezzo, poi si ravviò i capelli e finalmente lasciò entrare il suo

visitatore.

Indossava, a guisa di vestaglia, un domino rosa, una cosuccia da nulla

alquanto sbiadita e macchiata di pomata, ma le sue braccia che uscivano dalle

maniche molto ampie, erano bianche, splendenti, perfette. Il domino era legato

in vita onde dar risalto alla sua vezzosa figura. Prese Jos per mano e lo guidò

all'interno della sua soffitta. «Accomodatevi, vi prego,» disse, «venite a

chiacchierare un poco con me. Sedete su quella sedia.» Diede una piccola

stretta alla mano del funzionario e ridendo lo esortò ad accomodarsi. Per parte

sua sedette sul letto (non sul piatto e sulla bottiglia, beninteso, ove invece

sarebbe finito Jos, qualora vi si fosse seduto al suo posto), dopo di che prese a

discorrere col suo antico ammiratore.

«Si direbbe che per voi gli anni non siano trascorsi,» disse con

un'espressione di tenero interesse. «Vi avrei riconosciuto ovunque. un grande

conforto, tra tanti volti estranei, ritrovare quello di un caro e fedele amico.»

Quel volto buono e leale aveva in quel momento un 'espressione ch'era

tutto fuorché buona e leale. Al contrario, appariva oltremodo inquieta e

turbata. Jos stava osservando, stupefatto, la strana abitazione dove albergava

la sua antica fiamma. C'era un abito abbandonato sul letto, un altro era appeso

a un gancio sulla porta. La lastra dello specchio era oscurata a mezzo da una

cuffietta, e quivi posava altresì un graziosissimo paio di stivaletti color bronzo.

Sul comodino, accanto a una candela di sego, c'era un romanzo francese.

Becky per un momento aveva pensato di celare anche quello sotto le coperte,

ma poi si era limitata a nascondere la cuffietta della quale si era servita la sera

prima per spegnere la candela prima di addormentarsi. «Sì, vi avrei

riconosciuto ovunque,» riprese poi. «Una donna non dimentica mai certe cose.

Voi... voi siete stato... il primo uomo che abbia mai conosciuto.»

«Davvero?» disse Jos. «Dio mio, dite proprio sul serio?...»

«Quando arrivai da Chiswick con vostra sorella ero poco più di una

bambina,» continuò Becky. «Come sta quel tesoro di Amelia? Ah, suo marito

era un pessimo soggetto, e per dire la verità ero io a motivare la gelosia di

quella povera ragazza. E pensare che a me non importava nulla di quel tipo!

Quando c'è qualcun altro... Ma no, non parliamo del passato.» E si asciugò gli

occhi con un fazzoletto orlato di merletto sbrindellato.

«Non vi sembra strano un posto simile,» aggiunse poi, «per una donna

che ha vissuto in un mondo totalmente diverso? Ma ho avuto tanti dolori e ho

patito tanti torti, Joseph Sedley. Mi hanno fatto soffrire così crudelmente che a

volte mi sembra di impazzire. Non riesco più a starmene tranquilla in un posto,

non faccio che vagare da un luogo all'altro, senza trovar pace. Tutti i miei amici

si sono rivelati falsi amici! Tutti. Non esistono uomini onesti, a questo mondo.

Io sì che sono stata una moglie onesta, anche se ho sposato mio marito per

ripicca perché un altro uomo.., ma lasciamo stare. Sono stata la più tenera

delle madri. Non avevo che lui, il mio adorato ragazzo; era ogni mia speranza,

ogni mia gioia, lo tenevo avvinto a me con tutta la tenerezza che può

effondersi dal cuore di una madre. Era la mia vita, la mia preghiera, la mia... la

mia benedizione. E loro me lo hanno strappato.» E nel dir questo Becky si posò

una mano sul cuore un gesto melodrammatico di disperazione, celando per un

istante il volto tra le coperte del letto.

Sotto, la bottiglia di brandy cozzò contro il piatto col pezzo di salsiccia

fredda. Non c'è dubbio che fossero commossi per quella scena di dolore. Dietro

la porta Max e Fritz ascoltavano esterrefatti i piagnistei e i singhiozzi di Mrs.

Becky. Anche Jos era oltremodo preoccupato nel vedere la sua antica

innamorata in quello stato. Lei peraltro riprese tosto a parlare e rifece tutta la

sua storia. E il suo racconto fu così semplice, così spontaneo, così persuasivo,

che chiunque si sarebbe convinto che se mai un angelo in bianca veste era

disceso dal cielo per essere abbandonato in balìa delle infernali macchinazioni e

delle perversità dei demoni che vivono sulla terra, ebbene, quell'angelo, quella

sventurata e innocente martire era lei, Becky, seduta davanti a Jos su quel

letto: su quel letto e su una bottiglia di acquavite.

Seguì pertanto una lunga e amichevole e schietta conversazione nel

corso della quale Jos venne a sapere (ma in modo ch'egli non ne restasse

spaventato o offeso) che era stata la sua seducente presenza a far palpitare

per la prima volta il tenero cuore di Becky; che George Osborne l'aveva

corteggiata, ancorché lei non lo avesse in alcun modo provocato, suscitando

così la gelosia di Amelia e la conseguente rottura dei loro rapporti, ma che per

parte sua lei non aveva mai incoraggiato le avances di quello sventurato

ufficiale: anzi, lei non aveva mai cessato di pensare a Jos dal giorno in cui lo

aveva conosciuto, ancorché (inutile precisarlo) i suoi doveri di moglie le

avessero sempre imposto un contegno irreprensibile, contegno che aveva

sempre osservato e che avrebbe continuato a osservare sino alla morte, o sino

al giorno in cui il clima notoriamente deleterio nel quale viveva il colonnello

Crawley l'avesse liberata da un giogo che la perfidia del consorte le aveva reso

né più né meno odioso.

Quando Jos prese congedo da lei, era convinto che fosse la più virtuosa

delle donne, così com'era la più affascinante fra tutte, e andava rimuginando

dentro di sé ogni sorta di generosi progetti onde allietare la di lei vita in

avvenire. Bisognava assolutamente che quella persecuzione contro di lei

avesse termine. Becky doveva essere reintegrata in quella società di cui era

stata un prezioso ornamento. E questo era compito suo, di Jos. Per prima cosa

avrebbe lasciato un luogo simile, occorreva trovarle un'abitazione più

decorosa. Poi Amelia avrebbe dovuto farle visita e attestarle la sua amicizia. Sì,

se ne sarebbe occupato lui stesso, e allo scopo si sarebbe consultato col

maggiore. Nell'accomiatarsi da lui Becky pianse lacrime di sincera

riconoscenza, e strinse la mano al corpulento gentiluomo che si chinava a

baciare la sua.

Becky prese commiato da Jos con il medesimo grazioso inchino, che gli

avrebbe riservato se quella spelonca fosse stata un palazzo dove lei avesse

fatto gli onori di casa. Poi, non appena il pingue personaggio ebbe discese le

scale, Max e Fritz sbucarono dalla loro stanza con la pipa in bocca, e Becky,

sbocconcellando la salsiccia e alternandola a copiose sorsate della sua bevanda

preferita, ossia di brandy allungato con l'acqua, si divertì a rifare il verso a Jos,

tra il sollazzo dei due studenti.

Quest'ultimo si recò dritto filato a casa di Dobbin, e quivi con grande

sussiego gli impose la cronistoria delle commoventi vicende delle quali era

stato appena informato, omettendo peraltro di menzionare l'incontro della sera

avanti nella casa da gioco. E mentre i due gentiluomini si consultavano a

vicenda sul miglior modo di aiutare Mrs. Becky, lei terminava di consumare

l'interrotto dejeuner à la fourchette.

Come mai era capitata in quella cittadina? Come mai non aveva amici e

si spostava a casaccio da un luogo all'altro in solitudine? Da bambini,

apprendiamo dai primi testi dilatino che la strada che scende nelle profondità

dell'Averno è quanto mai agevole. Sorvoliamo pertanto sulla fase della sua vita

durante la quale ella percorse quel piano inclinato. Del resto, Becky allora non

era peggiore di quanto lo fosse nei giorni della sua prospera agiatezza.

Limitiamoci a dire che non era altrettanto baciata dalla fortuna.

Quanto a Mrs. Amelia, era una donna così tenera, e di un così cieco

candore, che le bastava sapere che qualcuno soffriva perché il cuore le si

sciogliesse di compassione. E dal momento che lei non aveva mai fatto né

pensato niente che potesse considerarsi veramente colpevole, non provava per

il male l'orrore che ne hanno invece i moralisti più agguerriti e consapevoli. Se

lusingava chiunque l'avvicinasse con la sua cortesia e le sue parole

complimentose, se chiedeva scusa al personale di servizio per aver osato

suonare il campanello o al commesso che le mostrava una pezza di seta, se

sorrideva allo spazzino elogiandolo per aver scopato la strada a dovere -

poiché Amelia era capacissima di fare questo genere di cose - non c'è dubbio

che l'infelicità di una sua vecchia conoscente non poteva non toccarle il cuore.

Men che meno avrebbe accettato l'idea che una persona purchessia potesse

meritarsi la propria infelicità. Se fosse stata lei a redigere le leggi, il mondo

non sarebbe stato un luogo molto metodico e ordinato; ma le donne come lei

sono poche, o quanto meno scarseggiano tra coloro che la sorte ha collocato al

vertice della piramide sociale. Sono sicuro che questa buona signora avrebbe

abolito le carceri, le punizioni, le manette, la fustigazione, l'indigenza e la fame

nel mondo. Era una donna (siamo costretti ad ammetterlo) di mentalità

alquanto ristretta, che sarebbe stata disposta a perdonare anche un'offesa

mortale.

Quando il maggiore ebbe udito dalla viva voce di Jos la patetica

avventura che gli era testé capitata, non provò, confessiamolo, lo stesso

interesse del nostro amico bengalese. Al contrario, la sua reazione fu quasi

diametralmente opposta a quella di Jos, tant'è che usò all'indirizzo di Becky

un'espressione tutt'altro che compita, e a maggior motivo in quanto rivolta a

una signora che versava in siffatte difficoltà. Per l'esattezza il maggiore disse:

«È dunque ricomparsa, quella sfacciata?» Quella donna non gli era mai andata

a genio; anzi, aveva sempre provato nei suoi riguardi un sentimento di

diffidenza istintiva, sin da quando gli occhi verdi di Becky avevano fissato i

suoi, per poi subito evitarli.

«Quel demonio provoca guai ovunque vada,» continuò il maggiore con

irriguardosa franchezza. «Chi è in grado di dire che razza di vita sia stata, la

sua? E cosa ci fa, all'estero, da sola? Non venite a raccontarmi di persecutori e

di nemici. Una donna onesta ha sempre amici, e soprattutto non si allontana

da casa sua. Perché ha abbandonato suo marito? Sì, lui è un uomo abietto.

Ricordo benissimo come usasse truffare il povero George. Mi pare tuttavia di

aver udito parlare di uno scandalo connesso alla loro separazione.» In effetti il

maggiore Dobbin non era uomo da tender l'orecchio, incuriosito, ai pettegolezzi

mondani. Invano Jos si sforzò di convincere l'amico che Mrs. Becky era sotto

ogni aspetto la più virtuosa e la più vilipesa delle donne.

«Be', chiediamone a Mrs. Osborne,» rispose quel perfetto diplomatico del

maggiore. «Andiamo senza indugio a sentire il suo parere al riguardo. Vorrete

riconoscere che lei è sempre buon giudice, e che sa sempre optare per il

comportamento più opportuno, in simili congiunture.»

«Uhm, sì, Emmy può andare,» rispose Jos, che non teneva in grande

considerazione sua sorella.

«Può andare?» proruppe Dobbin. «Ma se è la signora più eletta e distinta

che abbia conosciuto in vita mia! Andiamo subito da lei, vi ripeto,» aggiunse

balzando in piedi. «Chiediamole se a suo parere sia il caso di andare a far

visita a quella donna. Io mi rimetto al suo giudizio.» Da scaltro furfante qual

era in quel momento, Dobbin pensava che Emmy, almeno stando a quanto

ricordava, era terribilmente quanto giustamente gelosa di Rebecca. Non

riusciva a pronunciarne il nome senza rabbrividire e sentirsi pervasa da un

senso d'intimo disgusto. Una donna gelosa non perdona, pensava Dobbin.

Pertanto i due uomini attraversarono la strada per recarsi da Mrs. Osborne, la

quale in quel momento era lietamente impegnata nella sua lezione di musica

con Madame Strupff.

Quando costei se ne fu andata, Jos diede la stura al discorso con ]a

pomposa magniloquenza che gli era abituale. «Mia cara Amelia,» prese a dire,

«ho avuto poc'anzi la più straordinaria... sì, ehm, che Dio mi protegga... la più

straordinaria delle avventure.., sì, una vecchia amica, una tua vecchia amica,

una donna molto interessante... Un'amica dei tempi lontani, vorrei dire. È

appena arrivata e sarei lieto che tu le facessi visita...»

«Farle visita?» disse Amelia. «Ma di chi si tratta? Per favore, maggiore

Dobbin, non mi rovini le forbici.» Infatti il maggiore, non senza rischio per i

propri occhi, faceva roteare le forbici tenendole per la catenella con la quale

talvolta Emmy se le legava alla cintura.

«È una donna che detesto,» precisò il maggiore in tono adirato, «una

donna che voi non avete alcun motivo di amare.»

«È Rebecca, sono sicura che è Rebecca,» disse Amelia arrossendo.

«Avete ragione, voi avete sempre ragione,» osservò Dobbin. Bruxelles,

Waterloo, il passato, dolori, angosce, ricordi si affollarono nel cuore tenero di

Amelia, piombandola in uno stato di dolorosa ansietà.

«Non intendo vederla,» disse poi, «no, non mi sento d'incontrarla.»

«Ve lo avevo detto,» disse Dobbin a Jos.

«Ma è molto infelice.., e... e altre cose così,» obiettò Jos. «in miseria, e

non ha nessuno che la protegga. E poi è stata malata, molto malata. Quel

lestofante di suo marito l'ha piantata in asso.

«Ah,» disse Amelia.

«Non ha un amico al mondo,» continuò Jos, non senza una certa abilità

nel scegliere i suoi argomenti. «Mi ha detto che sente di poter contare su di te.

È così infelice, Emmy, che le sembra d'impazzire dal dolore. Ammetto

sinceramente che la storia delle sue vicende mi ha profondamente commosso.

Tutti l'hanno perseguitata ma lei ha sopportato queste angherie con la bontà di

un angelo. La sua famiglia si è comportata crudelmente verso di lei.»

«Povera creatura» disse Amelia.

«Se non riesce a trovare un amico, dice che morirà,» continuò Jos con

voce sommessa e tremante. «Mio Dio, non lo sai che ha tentato di uccidersi?

Porta sempre del laudano con sé, ho visto la boccetta nella sua stanza: una

stanzetta squallida in una pensioncina di terz'ordine, «L'Elefante». Abita in una

soffitta, sotto il tetto. Ci sono andato io stesso.»

Questa precisazione non parve sorprendere Emmy, che ebbe un

impercettibile sorriso. Forse si figurava Jos nell'atto di salire faticosamente le

scale.

«È quasi pazza di dolore,» disse ancore Jos. «Quella povera donna ha

dovuto sopportare le sofferenze più atroci. Aveva un figlio della stessa età di

Georgy.»

«Sì, sì, mi pare di ricordarlo,» intervenne Amelia. «Ebbene?»

«Un bambino stupendo,» disse Jos, che al pari di tutte le persone molto

grasse si commuoveva con facilità. In effetti il racconto di Becky lo aveva

profondamente colpito. «Un vero angelo che adorava sua madre. Quei mostri

glielo hanno strappato urlante dalle braccia e non le hanno più permesso di

rivederlo.

«Caro Joseph,» esclamò Amelia, alzandosi in piedi di scatto, «andiamo

subito a trovarla.» Si affrettò in camera da letto, indossò la cuffietta in preda a

una viva agitazione, poi ricomparve con lo scialle posato sulle braccia e

ingiunse al maggiore di accompagnarla.

Lui la seguì e le pose lo scialle sulle spalle. Era uno scialle di cachemire

che il maggiore in persona le aveva portato dall'India. Si rendeva conto che la

miglior cosa era ubbidire. Lei lo prese sottobraccio e si avviarono insieme.

«La sua camera è la 92, al quarto piano,» disse Jos che forse non aveva

molta voglia di risalire quelle scale. E infatti si mise alla finestra del salotto,

donde indugiò a osservare la coppia che attraversava la piazza dirigendosi

verso «L'Elefante».

Fortuna volle che Becky li vedesse dalla finestra della soffitta! Stava

ancora ridendo e cianciando coi due studenti, dopo aver scherzato con loro

sino a poc'anzi sull'aspetto del sedicente nonno che avevano visto arrivare e

andarsene. Ebbe così il tempo di allontanarli dalla sua stanza e fare un poco di

ordine prima che il padrone dell'albergo, cui era ben noto il favore che Mrs.

Osborne incontrava a Corte, li accompagnasse fino alla soffitta, incoraggiando

Miladi e Herr Major mentre salivano le scale.

«Signora, gentilissima signora,» chiamò bussando all'uscio, lui che sino

al giorno prima l'aveva sempre trattata con disobbligante sufficienza.

«Chi è?» domandò Becky mettendo fuori la testa. Poi si lasciò sfuggire un

gridolino di stupore: davanti a lei c'erano Amelia, tutta tremante, e il maggiore

col suo bastoncino da passeggio.

Lui rimase immobile a guardare, molto incuriosito dalla scena; ma Emmy

senza ulteriori indugi mosse incontro a Rebecca a braccia aperte, e la baciò e

abbracciò di tutto cuore concedendole all'istante il suo perdono. Ah, sventurata

creatura, quando mai sulle tue labbra si è posato un bacio altrettanto puro?

LXVI • AMANTIUM IRAE

La schiettezza e la gentilezza di Amelia erano cosa tale, da riuscire a

commuovere persino una reproba incallita come Becky. Ella pertanto rispose

alle espansioni e alle espressioni affettuose di Emmy con un sentimento non

molto lontano dalla riconoscenza, e altresì con un impeto di commozione che,

per quanto fuggevole, in quel preciso momento non mancò di una sua

sincerità. Indubbiamente quella trovata del figlioletto «strappato urlante dalle

sue braccia» era stata un'idea azzeccata e felice. In virtù appunto di quella

straziante congiuntura Becky era riuscita a riconquistare il cuore dell'amica; ed

è proprio questo l'argomento - possiamo esserne certi che Emmy nel suo

candore affrontò prima di ogni altro avviando la conversazione con l'amica

ritrovata.

«A quanto sento ti hanno strappato il tuo amato bambino,» prese a dire

la nostra ingenua amica. «Ah, cara Rebecca, mia infelice amica, io ben so cosa

significhi perdere il proprio figlio, e quindi posso capire quelli che hanno

perduto il loro. Ma voglia il cielo che la tua creatura ti venga restituita, così

come la misericordiosa Provvidenza ha voluto che mi fosse resa la mia.»

«Il figlio.., mio figlio? Ah, sì, ho sofferto angosce terribili,» rispose Becky,

forse non senza un'oncia di rimorso. La imbarazzava il vedersi costretta a dar

subito la stura alle menzogne rispondendo a quella candida fiducia. Ma tale, in

effetti, è l'autocondanna di chi si vota a codesto genere di mendacio. Non

appena la prima fandonia sta per esaurire il proprio ruolo, ecco che bisogna

fare appello ad un'altra. In tal modo si è costretti a mettere in circolazione un

crescente il numero di frottole, e proporzionalmente aumenta di pari passo il

pericolo di venir scoperti.

«Sì, ho passato momenti di angoscia terribile,» continuò Becky, e

frattanto pensava: «Speriamo che non si sieda sulla bottiglia.» «Quando me lo

hanno portato via ho creduto di morire. Fortunatamente ho avuto un attacco di

febbre cerebrale. Il medico mi vedeva già condannata, e invece.., invece sono

guarita ed ora sono qua, sola, senza un amico al mondo.»

«Quanti anni ha?» chiese Emmy.

«Undici,» rispose Becky.

«Undici!» esclamò l'altra. «Ma come! Se è nato lo stesso anno di Georgy,

che ha...»

«È vero, è vero!» la interruppe Becky, che si era completamente

dimenticata l'età di Rawdon. «Il dolore, cara Amelia, mi ha fatto perdere la

memoria di tante cose. Sapessi come sono cambiata. In certi momenti mi

sembra di non essere in me. Che Dio lo benedica, lui e il suo bel visino. Aveva

undici anni quando me lo hanno strappato. Da quel giorno non l'ho più

riveduto.»

«È biondo o bruno?» chiese Emmy, del tutto incongruamente. «Hai una

ciocca dei suoi capelli?»

Poco mancò che Becky non scoppiasse a ridere davanti a tanta

dabbenaggine. «No, ora no, carissima. Purtroppo non è ancora giunto il mio

bagaglio da Lipsia. Provengo da laggiù, infatti. Ti mostrerò anche un suo

ritratto che ho fatto io stessa ai bei tempi felici.»

«Povera Becky, poverina!» esclamò Emmy. «Quanto debbo essere grata

al Cielo!» (per quanto mi concerne dubito fortemente che quel particolare

sentimento di pietà in noi inculcato dalle donne sin da quando siamo bambini,

e in forza del quale dovremmo esser grati alla sorte di essere in condizioni

preferibili a quelle altrui, rifletta un razionale principio religioso). E Emmy,

come sempre, indulse a pensare che il proprio figlio fosse il più bello, il più

saggio, il più intelligente fra i ragazzi di tutto il mondo.

«Vedrai il mio Georgy,» disse Emmy. E fu tutto quello che le riuscì di

pensare a consolazione di Becky, convintissima che se nulla al mondo poteva

confortare la sua amica; la vista di suo figlio sarebbe pervenuta a quello scopo.

Così le due donne continuarono a parlare per un paio d'ore, nel corso

delle quali Becky ebbe agio di fornire all'altra una versione compiuta e

particolareggiata delle sue vicende. Sostenne che le sue nozze col colonnello

Crawley non erano mai andate a genio alla famiglia; che la cognata

(un'intrigante) le aveva aizzato il marito contro; che gli amici di Rawdon lo

avevano distolto da lei; che l'amato consorte l'aveva costretta a sopportare

indifferenza, sufficienza, indigenza, finché il miserabile non aveva esitato a

chiederle di compromettere la sua reputazione pur di procurarsi la benevolenza

di un personaggio influente, un uomo a sua volta senza scrupoli, ossia quel

mostro infame del marchese di Steyne.

Becky si diffuse a raccontare questa fase cruciale della sua vita con

delicata circospezione femminile, e accenti di indignata virtù. Dopo averla

messa in condizione di disertare il focolare domestico per sottrarsi a

quell'ignobile ingiunzione, lo scellerato si era vendicato privandola del

figlioletto. E Becky in tal modo riuscì a motivare in modo sufficientemente

plausibile il suo vagare per il mondo, povera e infelice, senza un amico che le

desse soccorso.

È lecito immaginare, conoscendola, con quali sentimenti Emmy abbia

ascoltato quella storia raccontata con dovizia di particolari. Si sentiva indignata

al pensiero di quell'abominevole Rawdon e di quella canaglia di Steyne. E il suo

sguardo esprimeva l'indignazione in lei suscitata dalle frasi che Becky andava

via via profferendo per illustrare l'indegno comportamento dei parenti del

marito nei suoi riguardi e il distacco di Rawdon da lei (Becky evitò

rigorosamente di esprimersi in termini ingiuriosi nei confronti del marito. Ne

parlava più con dolore che con ira. Lo aveva amato troppo, e poi non era il

padre del suo diletto figliolo?) Quando Becky recitò la scena della separazione

dal bimbo, Emmy celò il volto dietro il fazzoletto, onde quella commediante

consumata non poté non compiacersi con se stessa per l'effetto che produceva

sul suo uditorio.

Mentre le due signore erano impegnate nella loro conversazione,

l'assiduo accompagnatore di Amelia, ossia il maggiore (il quale non intendeva

certo interrompere quello sproloquio fra donne, ma non per questo era meno

annoiato di camminare su e giù per l'angusto corridoio urtando nel soffitto con

la sommità del cappello) discese al pianterreno ed entrò nella sala comune

riservata agli ospiti dell'«Elefante», che si apriva proprio di fronte alla prima

rampa di scale. Il locale era pieno di fumo, col pavimento generosamente

irrorato della birra consumata dagli avventori. Sul piano di un tavolino bisunto

erano schierati in lunga fila dei candelieri d'ottone, in ciascuno dei quali era

confitta una candela di sego ad uso dei clienti dell'albergo. Sopra il tavolo,

appesa al muro, si scorgeva una lunga fila di chiavi. Poco prima Emmy aveva

attraversato arrossendo quella sala, nella quale si davano convegno persone di

ogni risma: venditori di guanti tirolesi e venditori di biancheria danubiani, con

gli involti delle loro mercanzie, studenti che si rifocillavano con panini imbottiti

di carne, perditempo che giocavano a domino sui tavolini luridi e sparsi di

chiazze di birra, saltimbanchi che si concedevano una tregua nell'intervallo tra

uno spettacolo e l'altro; in altre parole, tutto il fumum e lo strepitus di una

bettola tedesca in tempo di fiera. Il cameriere portò di sua iniziativa un boccale

di birra al maggiore, senza che questi lo avesse ordinato. Dobbin prese un

giornale, trasse di tasca un sigaro e trovò qualche conforto in questo pernicioso

vegetale, in attesa che la sua protetta scendesse a reclamare la sua

compagnia.

Poco dopo discesero anche Max e Fritz, il berretto di sbieco, gli speroni

tintinnanti, le pipe vistosamente adorne di piastrine con stemmi e fregi di vario

tipo. Appesero al chiodo la chiave della camera numero 90 e sedettero accanto

al maggiore, non senza chiedere al cameriere la loro razione di panini e birra.

Dopo di che avviarono una conversazione cui il maggiore non poté esimersi dal

tendere almeno in parte l'orecchio. Parlavano precipuamente di Fuchs e di

Philister, di duelli e di sfide tra bevitori nella vicina università di

Schoppenhausen, quel celebrato cenacolo del sapere da cui, a quanto era lecito

dedurre, erano appena giunti a bordo dell'Eilwagen insieme con Becky per

assistere alle fêtes organizzate a Pumpenickel. «A quanto pare l'inglesina si

trova en bays de gonnaissance, » disse Max, che conosceva il francese, al

collega di studi Fritz. «Quando quel ciccione del nonno ha levato il disturbo, è

arrivata un'altra inglese molto graziosa. Le ho sentite chiacchierare insieme, e

a un certo punto piangevano.»

«Dobbiamo prendere i biglietti per il concerto,» disse Fritz. «Hai qualche

soldo, Max?»

«Bah,» rispose l'altro, «si tratta di un concerto in nubibus. Hans ha detto

che lei ne aveva già annunciato uno a Lipsia. I Burschen avevano comprato un

mucchio di biglietti, e invece lei è partita senza aver cantato. Ieri in carrozza

ha raccontato che il suo accompagnatore al piano era rimasto a Dresda,

bloccato da una malattia. Giurerei che non sa cantare: ha una voce rauca come

la tua, incallito bevitore di birra!»

«Sì, è vero, sembra una cornacchia. L'ho sentita ieri mentre se ne stava

alla finestra a provare De Rose upon de Balgony, una ballata inglese

veramente schrecklich. Saufen und singen non possono andar d'accordo,»

commentò Fritz col suo naso rosso, il quale in modo palese preferiva il primo

dei suddetti divertimenti. «Non comprarli, i biglietti. Ieri ha vinto al tavolo del

Trente et Quarante. L'ho vista io. Ha fatto giocare un ragazzino inglese a

proprio favore. I quattrini ce li spendiamo qui o a teatro, oppure la invitiamo a

bere vino francese e cognac all'Aurelius Gardens. Ma i biglietti non li

compriamo, mai e poi mai. Che ne diresti di berci un'altra birra?» E dopo che

entrambi ebbero immerso dentro la bevanda spumeggiante i loro vistosissimi

mustacchi, se li arricciarono e con passo dinoccolato si avviarono in direzione

della fiera.

Il maggiore, che li aveva appena visti nel gesto di appendere la chiave

della camera 90 e aveva seguito i conversari di quelle due giovani colonne

dell'Università, non aveva faticato a comprendere che stavano parlando di

Becky. «Quella canaglia sta tentando di mettere in atto uno dei suoi soliti

trucchetti,» pensò, e sorrise tra sé ripensando al passato, quando aveva

assistito di persona alle sue trame per sedurre Jos e alla grottesca conclusione

di quell'avventura. Più tardi, in varie occasioni, aveva avuto modo di riderne

assieme a George, ma solo fino a qualche settimana dopo il matrimonio di

quest'ultimo con Amelia, quando anche George era stato preso nella rete della

piccola Circe e con lei aveva avuto un'avventuretta che il suo amico aveva

intuito, pur preferendo ignorarla formalmente. William ne era stato oltremodo

rattristato, e aveva evitato di far domande per il timore di squarciare il velo su

quel poco edificante mistero, sebbene una volta George, probabilmente spinto

dal rimorso, vi avesse fatto una precisa allusione. Il fatto era accaduto la

mattina stessa della battaglia di Waterloo, mentre i due giovani se ne stavano

insieme davanti alle truppe schierate e scrutavano la massa cupa dei francesi

stipata sulle antistanti alture, sotto la pioggia che cominciava a cadere. «Mi

sono lasciato coinvolgere in uno stupido intrigo con una donna,» aveva detto

George, «e sono contento che sia giunto l'ordine di marciare e combattere. Se

morissi, voglio augurarmi che Emmy ne rimanga all'oscuro. Vorrei tanto che

questa faccenda non fosse mai iniziata.» William si era compiaciuto del fatto

che Osborne, dopo essersi accomiatato da Emmy e dopo il combattimento di

Quatre Bras, gli avesse parlato del padre e della moglie con molta concretezza

e serietà, e più volte aveva consolato la povera vedova raccontandole questo

episodio. Su questa circostanza aveva insistito altresì col vecchio Osborne nel

corso delle ripetute conversazioni con lui, e valendosi di un siffatto argomento

era riuscito a riconciliarlo con la memoria del figlio.

«Così questo demonio non demorde, continua a brigare e a intrigare,»

pensava William. «Ah, come vorrei che fosse mille miglia lontano da qui!

Semina zizzania ovunque vada.» Se ne stava con il capo stretto fra le mani e la

Pum-Pernickel Gazette della settimana innanzi sotto il naso, funestato da turpi

presentimenti, quando qualcuno gli batté su una spalla col parasole. Egli alzò

lo sguardo: era Amelia.

Ella aveva un suo modo affatto particolare di esercitare la sua tirannia su

Dobbin (anche le persone di poco carattere sentono il bisogno di esercitare la

loro autorità su qualcuno), onde gli dava ordini, gli batteva sulla spalla, gli

ingiungeva di andare a prendere questa o quell'altra cosa, come se fosse stato

un cane di Terpanova. Lui, per così dire, sarebbe stato pronto a gettarsi a

capofitto nell'acqua, se lei gli avesse detto: «Dai, Dobbin», e a trotterellarle

accanto reggendole la borsa in bocca. Questa storia avrebbe davvero poco

costrutto se a questo punto il lettore non si fosse ancora reso conto che in

amore Dobbin era uno sciocco.

«Perché mai, signore, non mi avete atteso per scortarmi sino al

pianterreno?» domandò Amelia, rialzando il capo con comica alterigia e

accennando a un inchino sussiegoso.

«Non riuscivo a stare in piedi in quel corridoio,» rispose lui, ed era

alquanto buffo con quell'aria di volersi scusare. Nondimeno fu molto lieto di

darle il braccio e di portarla fuori da quell'orrenda stanza piena di fumo. Stava

anzi per andarsene senza pagare la consumazione se il cameriere non lo

avesse rincorso fermandolo sulla soglia dell'albergo e sollecitando il pagamento

della birra. Emmy rise, dandogli del furfantello che cerca di svignarsela senza

pagare il dovuto, e gli rivolse altre frasi scherzose particolarmente idonee alla

circostanza. Era euforica, di ottimo umore, e attraversò speditamente la piazza

del mercato. Voleva parlare a Jos seduta stante: il che fece sorridere il

maggiore, dal momento che accadeva di rado che Amelia desiderasse vedere

suo fratello «seduta stante».

Trovarono il funzionario nel suo salotto al primo piano. Anch'egli,

smanioso di parlare a sua sorella, aveva atteso in preda a un'ansia frenetica,

mordendosi le unghie e camminando avanti e indietro per la stanza e gettando

ripetute occhiate nella piazza del mercato in fondo alla quale sorgeva

l'«Elefante», per tutto il tempo durante il quale Amelia aveva conversato con la

sua amica nella stanzetta all'ultimo piano e il maggiore aveva continuato a

tamburellare con le dita sul piano del tavolo bisunto e chiazzato di birra.

«Be'?» disse in tono interrogativo.

«Cara, povera creatura! Quanto ha sofferto!» esclamò Amelia.

«Che Dio mi protegga, è proprio vero,» incalzò Jos scuotendo il capo,

cosicché le ganasce gli tremolarono come fossero state di gelatina.

«Potremmo darle la stanza della Payne, lei si aggiusterà di sopra,»

propose Emmy. La Payne era la cameriera personale di Mrs. Osborne, fatta

oggetto delle ovvie quanto galanti attenzioni del corriere, che Georgy era solito

«spaventare» con agghiaccianti racconti a base di spiriti e briganti tedeschi.

Costei non faceva che brontolare da mattina a sera, impartire ordini ad Amelia

ed esternare il suo proposito di ritornare la mattina dopo nel suo natìo villaggio

di Clapham. «Direi proprio che possiamo sistemarla nella stanza della Payne.»

«Come, come? Non avrete intenzione di ospitare quella donna in questa

casa?!» sbottò il maggiore balzando in piedi.

«Certo che sì,» reagì Amelia nel tono più innocente del mondo. Non

adiratevi che mi rompete i mobili, maggiore Dobbin. Perché mai non

dovremmo ospitarla?»

«Si capisce che l'ospiteremo,» fece eco Jos.

«Ne ha patite tante, povera infelice! Il suo banchiere è fallito ed è

scappato. Quel lestofante di suo marito l'ha piantata in asso e le ha sottratto il

figlio...» E qui Amelia strinse i pugni e li protese in un gesto così minaccioso,

che il maggiore rimase affascinato dalla visione di quell'intrepida virago.

«Povera cara! «completamente sola ed è costretta a dar lezioni di canto per

comprarsi un boccone di pane! Ed io non dovrei accoglierla!»

«Prendete pure lezioni da lei, cara Amelia,» esclamò il maggiore, «ma

non portatevela in casa, vi scongiuro!»

«Poh!» fece Jos.

«Voi che siete sempre così buono e gentile, o quanto meno finora lo siete

sempre stato... Sono stupita di voi, maggiore William! Non è forse questo il

momento di offrirle aiuto? È la mia più vecchia amica ed io non...»

«Non sempre vi è stata amica, Amelia,» la interruppe Dobbin, ormai

palesemente alterato dalla collera. Quest'allusione fu troppo per Amelia, la

quale, squadrando il maggiore con espressione corrucciata, gli disse:

«Vergognatevi, maggiore Dobbin,» dopo di che, sparato questo colpo, uscì

solennemente dalla stanza, chiudendo sonoramente la porta dietro di sé, e la

sua dignità oltraggiata.

«Permettersi una simile allusione!» esclamò, quando la porta fu

rinchiusa. «E avere il coraggio di rammentarmi certe cose! Quale perversità da

parte sua!» E lanciò un'occhiata al ritratto di George, appeso come sempre alla

parete sopra quello del figlio. «stato veramente crudele da parte sua. Io ho

dimenticato: perché lui si permette di riparlarmene? È stato dalle sue labbra

che io ho saputo quanto fosse ingiusta e malvagia la mia gelosia; è stato lui a

rivelarmi che tu eri puro, eri innocente, o mio santo che stai in paradiso!

Tremante d'indignazione, prese a muoversi su e giù per la stanza. Poi si

accostò ai cassettone sopra il quale era appeso il ritratto, e quivi indugiò a

contemplarlo. Gli occhi di George sembravano fissarla con un'espressione di

crescente rimprovero. Le riaffiorarono alla mente i primi tempi di quella sua

ineffabile stagione d'amore. La ferita che gli anni non erano riusciti a

cicatrizzare tornò ad aprirsi e a sanguinare dolorosamente. Non riusciva a

tollerare il rimprovero che il marito le rivolgeva dalla propria effigie appesa di

fronte a lei. No, non poteva sopportarlo, né avrebbe mai potuto.

Povero Dobbin, povero vecchio William! Quella frase infelice aveva avuto

il potere di distruggere una vita di amore e di fedeltà, un lavoro durato anni ed

anni; un complesso, paziente edificio eretto su occulte, intime fondamenta ove

giacevano sepolte passioni ignorate, lotte segrete, sacrifici nascosti agli occhi

del mondo! Era bastata una parola a far crollare tutto quel castello di speranze.

Una parola, e l'uccellino che per tutta la vita si era sforzato di convincere a

rispondere al suo richiamo era volato via!

Sebbene William avesse compreso dal comportamento di Amelia che la

stessa era piombata in una grave crisi di sconforto, nondimeno continuò a

scongiurare Jos con le espressioni più energiche affinché stesse alla larga da

Rebecca. Lo supplicò di non accoglierla tra loro in termini impetuosi, quasi

esasperati. Esortò Sedley a informarsi più a fondo su di lei. Gli confessò di aver

appreso che si faceva accompagnare in viaggio da giocatori e gente di dubbia

fama. Gli ricordò tutto il male di cui era stata causa in passato; gli rammentò

come lei e Crawley fossero stati la causa della rovina di George; gli fece

osservare che il marito l'aveva abbandonata (Rebecca stessa non poteva non

ammetterlo) presumibilmente per colpa di lei. Infine gli fece osservare quale

perniciosa compagnia sarebbe stata per Amelia, così ingenua e ignara dei mali

di questo mondo. Insomma, William fece appello a tutte le risorse della sua

eloquenza, dando prova altresì di un'energia insospettata, nel rivolgere le sue

supplici istanze a Jos onde impedire che Rebecca ponesse piede in quella casa.

Se Dobbin fosse stato più accorto e meno veemente, forse le sue

preghiere a Jos avrebbero ottenuto l'effetto tanto sperato, ma il nostro

funzionario era indispettito dal tono di superiorità che il maggiore (tale almeno

era la sua convinzione) usava costantemente nei suoi riguardi. (Anzi, per

essere esatti, Jos aveva confidato questa sua impressione a Mr. Kirsch, il loro

accompagnatore, e dal momento che il maggiore gli controllava sempre i conti,

costui si disse pienamente d'accordo col suo padrone). Pertanto Jos diede

corso a uno sproloquio alquanto confuso, nel corso del quale vantò la sua

capacità di difendere il proprio onore e disse di non avere alcun desiderio che

gli altri ficcassero il naso nelle sue faccende personali. In altre parole, diede

prova di volersi opporre all'ascendente autoritario del maggiore. Ma a questo

punto il loro colloquio, che era stato alquanto burrascoso e si era protratto più

del prevedibile, venne interrotto nel modo più risolutivo dal sopraggiungere di

Becky in persona, accompagnata da un facchino dell'«Elefante» che portava il

suo miserrimo bagaglio.

Becky salutò il suo ospite con affettuosa deferenza e fece un rapido ma

amichevole cenno dì saluto al maggiore Dobbin, il quale - l'istinto glielo suggerì

all'istante - era suo nemico e senza dubbio aveva sparlato di lei. Il tramestìo e

il vociare suscitati dall'arrivo di Rebecca richiamarono Amelia dalla sua stanza.

Ella abbracciò l'amica con grande effusione, affatto incurante del maggiore cui

si limitò a lanciare un 'occhiata collerica, forse lo sguardo più ingiusto e

indignato che fosse mai affiorato sul volto di quella povera donnina da quando

era al mondo. Ma aveva segrete ragioni da far valere, e aveva deciso di

sfogare la sua ira su di lui. Al che Dobbin, offeso non per la sconfitta ma per

l'ingiustizia patita, prese commiato con un inchino non meno altezzoso di

quello col quale Amelia si era congedata da lui.

Quando se ne fu andato, Emmy si mostrò particolarmente cordiale ed

espansiva con Rebecca. Prese ad aggirarsi per l'appartamento e installò la sua

ospite nella camera che le era stata destinata, dando prova di un fervore e di

un'attività che in lei erano affatto inconsueti. Quando si vuoi commettere

un'ingiustizia, e a commetterla è chiamato un debole, tanto vale agire senza

indugio. Emmy era convinta che il suo contegno fosse indice di saldo carattere

e di costante venerazione per la memoria del defunto capitano Osborne.

Georgy arrivò dalle fêtes all'ora di cena, in tempo per constatare che,

come al solito, sulla tavola c'erano quattro coperti, ma che uno dei posti era

occupato da una signora anziché dal maggiore Dobbin. «Salve, dov'è Dob?»

chiese il ragazzo con la franca disinvoltura che gli era congeniale. «Credo che il

maggiore Dobbin ceni fuori, stasera,» gli rispose la madre. Lo attirò a sé, lo

baciò con grande affetto e gli scostò i capelli dalla fronte; poi lo presentò a

Becky. «Questo è mio figlio, Becky,» disse Mrs. Osborne nel tono con cui

avrebbe detto: «È forse possibile produrre qualcosa di così perfetto al mondo?»

Mrs. Crawley lo guardò estatica, poi gli afferrò una mano con grande calore.

«Che caro ragazzo!» esclamò. «Sembra proprio il mio...» Ma l'emozione le

ruppe la frase nella gola, ed Amelia comprese, come se avesse parlato, ch'ella

stava pensando al suo adorato figliolo. Nondimeno la compagnia dell'amica

valse a consolare Mrs. Crawley, poiché infatti mangiò con vigoroso appetito.

Durante il pasto ebbe modo di dedicarsi ampiamente alla conversazione,

e Georgy non smise un momento di ascoltarla e osservarla. Al dessert Emmy si

alzò assentandosi brevemente per occuparsi di varie mansioni domestiche; Jos

sonnecchiava in poltrona davanti al suo «Galignani», mentre Georgy e la nuova

arrivata sedevano l'uno accanto all'altra. Lui aveva continuato a fissarla, ora

più intenzionalmente di poc'anzi, finché alla fine posò lo schiaccianoci e disse:

«Sentite...»

«Cosa debbo sentire?» chiese Becky ridendo.

«Non siete voi, forse, la signora che ieri sera sedeva al Rouge et Noir?»

«Zitto, furbacchione!» gli ingiunse Becky prendendogli una mano e

baciandolo. «C'era anche tuo zio, ma la mamma non lo deve sapere.»

«Oh, certo, certo, non glielo dirò,» rispose il ragazzino.

«Come vedi, siamo già diventati buoni amici,» disse a Becky, che

rientrava in quel momento nella stanza. E dobbiamo riconoscere che Mrs.

Osborne aveva aperto la sua casa a una persona quanto mai amabile e

assennata.

William, in preda alla più viva indignazione, ma ancora ignaro del

tradimento di cui stava per esser fatto oggetto, continuò a vagare senza meta

per le strade della città, sino a quando s'imbatté in Tapeworm, il segretario

della Legazione inglese, che lo invitò a cena. Durante il pasto, mentre stavano

conversando di svariati argomenti, Dobbin colse l'occasione per chiedere al suo

interlocutore se per caso sapesse qualcosa di una certa Mrs. Rawdon Crawley,

la cui condotta, per quanto ne sapeva, aveva suscitato molto scalpore a

Londra. Tapeworm che, inutile dirlo, era perfettamente al corrente di tutti i

pettegolezzi della capitale, e che per giunta era imparentato con Lady Gaunt,

riversò nelle orecchie dell'esterrefatto maggiore un resoconto delle gesta di

Becky tale da lasciarlo né più né meno allibito. E si diffuse altresì su tutte le

circostanze marginali riferite nel presente libro, giacché proprio a quella tavola

chi scrive ebbe il piacere, anni addietro, di ascoltarne il racconto. Tutto,

Steyne, i Crawley, tutti i casi attinenti la vita passata di Becky vennero riferiti

con estrema minuzia dall'arcigno diplomatico. E dal momento che

sull'argomento era minuziosamente informato, fece all'ingenuo maggiore le più

sconvolgenti rivelazioni. Quando poi Dobbin rivelò che Mrs. Osborne e Mr.

Sedley l'avevano accolta in casa, Tapeworm si abbandonò a un accesso di risa

che fece sussultare il maggiore, dopo di che gli chiese, sarcastico, se non

sarebbe stato meglio recarsi alla prigione e prelevarne uno di quei distinti

ospiti dalla testa rapata che, incatenati a due a due, spazzavano le strade di

Pumpernickel, e assumerlo in qualità di precettore di quel birichino di Georgy.

Queste notizie ebbero l'effetto di sbalordire e sgomentare il maggiore. La

mattina (prima che avesse luogo l'incontro con Rebecca) era stato deciso che

quella sera Amelia sarebbe andata al ballo a Corte. Quello dunque era il luogo

in cui egli avrebbe avuto agio di parlarle. Il maggiore tornò a casa, indossò la

sua uniforme e raggiunse la reggia, e qui l'attese. Ma Amelia non venne.

Quando Dobbin rientrò, le luci dell'appartamento occupato dai Sedley erano

tutte spente. Non riuscì a vederla sino al mattino seguente. C'è da chiedersi

come abbia dormito quella notte, in compagnia di un così atroce segreto.

L'indomani mattina, non appena fu un'ora decente, incaricò un servitore

di portare ad Amelia un biglietto col quale le diceva di avere urgente bisogno di

parlarle. Gli fu risposto che Mrs. Osborne stava male e non intendeva lasciare

la sua stanza.

Anche lei non aveva chiuso occhio. Aveva ripensato a qualcosa che già in

altre occasioni aveva provocato la sua ansietà. Cento volte era stata in procinto

di cedere, e cento volte era arretrata, rifiutandosi di accettare un sacrificio

ch'era superiore alle sue forze. No, non poteva, ad onta dell'amore ch'egli le

portava, della sua costanza, della sua dedizione; non poteva nonostante la

considerazione, la gratitudine, il rispetto ch'ella nutriva per la sua persona. Ma

cosa sono, in conclusione, la costanza, il merito? Quali sono i benefici che se

ne traggono? Il ricciolo di una ragazza, un pelo di una basetta hanno il potere,

di punto in bianco, di far pendere in modo determinante il piatto della bilancia.

Merito e costanza contavano, agli occhi di Emmy, né più né meno che agli

occhi di ogni altra donna. Li aveva messi alla prova, avrebbe voluto che

avessero il sopravvento, ma non poteva. E quella piccola donna spietata aveva

colto al volo un pretesto per salvaguardare la sua libertà.

Quando finalmente, nel pomeriggio, il maggiore riuscì a farsi ricevere da

Amelia, anziché dal saluto affettuoso e cordiale al quale era abituato, fu accolto

da un secco inchino e da una piccola mano guantata che tosto si ritrasse.

Nella stanza c'era anche Rebecca, che gli mosse incontro sorridendo, con

la mano tesa. «Vogliate scusarmi, signora,» disse il maggiore, «ma è mio

dovere avvertirvi che non sono qui in veste di vostro amico.»

«Maledizione, smettiamola con queste storie!» sbottò Jos, allarmato, e

preoccupato di evitare una scena incresciosa.

«Vorrei sapere che cosa il maggiore Dobbin abbia a ridire sul conto di

Rebecca» esclamò Amelia con voce bassa e decisa, appena scossa da un

leggero tremito, e con uno sguardo deciso negli occhi.

«Non voglio cose del genere nella mia casa,» incalzò Jos, «decisamente

non ne voglio. Quindi, caro Dobbin, vi prego di smetterla.» Si volse, turbato e

acceso in volto, e si diresse verso la sua stanza.

«Ma no, caro amico, restate,» intervenne Becky, «lasciate che il

maggiore Dobbin spieghi ciò che ha contro di me.»

«Ripeto che non voglio sentir nulla,» strillò Jos con voce stridula, poi si

avvolse nella vestaglia e se ne andò.

«Ora siamo solo due donne,» disse Amelia, «non avete che da parlare,

maggiore.

«Questo modo di rivolgermi la parola non vi si addice, Amelia,» rispose

con alterigia. «Né credo si possa tacciarmi di essere solitamente aspro con le

donne. Il dovere che sono venuto a compiere mi riesce oltremodo penoso.»

«Vi invito ad assolverlo il più in fretta possibile, maggiore Dobbin,» disse

Amelia con crescente irritazione. E mentre lei parlava in quel tono imperioso, il

volto di Dobbin assunse un'espressione tutt'altro che incoraggiante.

«Sono venuto a dirvi, e dal momento che voi siete qui Mrs. Crawley,

debbo dirlo in vostra presenza, che non vi ritengo degna di rientrare nel novero

dei miei amici. Una donna separata dal marito, che viaggia sotto false

generalità e frequenta le case da gioco...»

«Io, veramente, ero andata al ballo...» lo interruppe Becky.

«Non è certo la compagnia che si addice a Mrs. Osborne e a suo figlio,»

continuò Dobbin. «E posso aggiungere che qui vi sono persone che vi

conoscono, e sono in grado di precisare circostanze sul vostro conto ch'io non

oso nemmeno menzionare in presenza... in presenza di Mrs. Osborne.»

«Il vostro è un tipo di calunnia molto facile, molto comodo, maggiore

Dobbin,» rispose Rebecca. «Mi scaricate addosso il peso di un'accusa che

peraltro non viene esplicitamente formulata. Di che si tratta? Si dice forse ch'io

abbia tradito mio marito? Io mi faccio beffe di una siffatta accusa e vi sfido a

provarla. Sfido voi e chiunque altro. Il mio onore è intatto, maggiore, come lo

è quello del mio peggiore nemico che mi ha diffamata. O invece l'accusa che mi

si muove è quella di essere povera, infelice, abbandonata da tutti? Sì, di questi

peccati è lecito imputarmi, ma sono peccati che sconto ogni giorno. Lascia che

me ne vada, Emmy: mi basterà pensare di non averti incontrata e che oggi sia

una giornata né peggiore né migliore di ieri; mi basterà pensare che la notte

sia ormai trascorsa e che questa povera donna errante deve rimettersi in

cammino. Non rammenti la canzone ch'ero solita cantare nei bei tempi andati?

Da allora non ho fatto che vagabondare... Sono una povera derelitta, vilipesa

perché povera e insultata perché sola. Lasciami andare: la mia presenza qui

intralcia i programmi di questo signore.

«Proprio così, signora,» disse il maggiore, «Se ho un poco di autorità in

questa casa...»

«Autorità? Non ne avete nessuna,» lo interruppe Amelia. «No, Rebecca,

tu resterai con me. Io non intendo certo lasciarti perché sei stata perseguitata,

e nemmeno insultarti perché... perché il maggiore Dobbin ha ritenuto di farlo.

Andiamocene, cara.» E le due donne mossero verso la porta.

William l'aprì, ma mentre le signore varcavano la soglia prese Amelia per

mano: «Vi spiacerebbe trattenervi un istante solo? Vorrei parlarvi...

«Desidera parlarti da solo a sola,» osservò Becky in tono melanconico.

Amelia, a mo' di risposta, le afferrò una mano.

«Giuro sul mio onore che non intendo parlare di voi,» disse Dobbin.

«Amelia, restate, ve ne prego.» Amelia si fermò interdetta. Dobbin accennò a

un inchino all'indirizzo di Mrs. Crawley, poi le richiuse la porta alle spalle.

Amelia lo guardò, appoggiandosi alla specchiera. Il volto, persino le sue labbra

erano pallidissime.

«Ero fuori di me quando ho parlato, poco fa,» prese a dire il maggiore

dopo un breve indugio. «Temo di avere usato a sproposito la parola (autorità).

«Dite il vero,» rispose Amelia, battendo i denti.

«Tuttavia,» continuò Dobbin, «credo di avere il diritto di essere

ascoltato.»

«È generoso da parte vostra rammentarmi quanto vi è dovuto,» ribatté

lei.

«Ciò che posso pretendere è semplicemente quanto mi è stato accordato

dal padre di George.»

«Voi ne avete profanata la memoria. È così e lo sapete benissimo. Non

potrò mai perdonarvelo. Mai.» Amelia pronunciava ogni frase tremando tutta,

in preda alla collera e alla più viva emozione.

«Voglio augurarmi che non parliate sul serio, Amelia.» disse William,

amaramente. «Non vorrete affermare che le mie parole, profferite in un

momento di esasperazione, abbiano il potere di render vana un'intera vita di

devozione, non ho certo inteso profanare la memoria di George, e se proprio

vogliamo scambiarci dei rimproveri, è certo ch'io non ne merito alcuno dalla

vedova di George e dalla madre di suo figlio. Ripensateci, quando me ne sarò

andato, e vedrete: la vostra coscienza ritratterà l'accusa. Anzi, lo sta già

facendo.» Amelia chinò il capo.

«Ma non è stato il discorso di ieri,» continuò Dobbin, «a indurvi a un

siffatto contegno. Quello è stato solo un pretesto. Se così non fosse, invano vi

avrei studiata e amata per quindici anni della mia vita. Credete che tutto

questo tempo non mi sia valso a imparare a interpretare i vostri sentimenti, a

leggere nei vostri pensieri? Io conosco i moti del vostro cuore. So che il vostro

cuore è capace di mantenersi fedele a un ricordo, di cullarsi in una sua

fantasia; ma è incapace di nutrire un sentimento atto a contraccambiare quello

ch'io provo per voi, quello che sarei riuscito a destare in una donna più

generosa di voi. No, voi non siete degna dell'amore che vi ho tributato per

tanti anni. Ho sempre saputo che ciò a cui miravo era inferiore al valore ch'io

gli attribuivo, che anch'io indulgevo a svenevolezze sentimentali, che barattavo

tutta l'intensità della mia passione col tiepido affetto che voi vi benignavate di

accordarmi. Ma ora non sono più disposto a un simile baratto. Mi ritiro. Non vi

attribuisco nessun torto. Siete buona, nella sostanza, e avete fatto ciò che il

vostro istinto vi suggeriva, ma non siete stata in grado di portarvi all'altezza

che i miei sentimenti necessariamente implicavano. Uno spirito più elevato del

vostro sarebbe stato orgoglioso di contraccambiarmi. Addio, Amelia. Ho avuto

modo di osservare la vostra lotta. Ora è meglio ch'essa abbia fine. Ne siamo

provati entrambi.»

Amelia, silenziosa e sgomenta, contemplava William, il quale di punto in

bianco spezzava le catene con le quali ella lo aveva sempre tenuto avvinto a sé

ed affermava la propria indipendenza, la propria superiorità. Era stato ai suoi

piedi per un così lungo lasso di tempo, che la piccola donna si era assuefatta a

calpestano. Non intendeva sposarlo, ma al tempo stesso voleva averlo accanto

a sé. Non voleva dargli nulla, ma esigeva che lui le desse tutto. un contratto

tutt'altro che infrequente in amore.

La netta presa di posizione di William l'aveva prostrata. Da tempo ormai

l'ascendente femminile ch'ella aveva esercitato su di lui sembrava essersi

esaurito senza rimedio.

«Dunque, a quanto capisco voi ve ne andate, William... È così?»

Lui rise di una risata melanconica e amara. «ne sono già andato una

volta e sono tornato dopo dodici anni. Allora eravamo giovani, Amelia. Addio.

Ho già sprecato una quota troppo importante della mia vita in questo gioco.»

Mentre parlavano, la porta che dava nella stanza di Mrs. Osborne si era

socchiusa. In realtà Becky aveva tenuto la mano posata sulla maniglia mentre

Dobbin, chiudendo, aveva staccato la sua, e tosto l'aveva girata. Pertanto non

aveva perduto una sola parola della conversazione che si era svolta fra i due.

«Che cuore nobile ha quest'uomo,» pensò fra sé, «è semplicemente

ignominioso che questa donna si permetta di trattarlo così!» Nutriva per

Dobbin un sentimento di ammirazione, non gli portava rancore per aver preso

netta posizione contro di lei. Era una mossa del gioco, e una mossa leale. «Ah,

se avessi avuto un marito di questa fatta!» pensò. «Un marito dotato di cuore

e di cervello! Avrei chiuso un occhio su quei piedi troppo grandi!» Poi, di botto,

le venne un'idea: corse nella sua stanza e scrisse un biglietto al maggiore

esortandolo a trattenersi ancora qualche giorno, a rinunciare a quella partenza

precipitosa perché lei era convinta di potergli essere utile a proposito di «A».

Il commiato si era ormai concluso. Una volta ancora il povero William si

avviò verso la porta e se ne andò. La piccola vedova, ossia l'autrice di questa

bella pensata, aveva ottenuto vittoria e indugiava ad assaporarla come meglio

poteva. Lasciamo che le signore invidino il suo trionfo.

Alla romantica ora di pranzo Georgy fece la sua comparsa, e una volta di

più notò l'assenza del «vecchio Dob». I nostri amici consumarono il pasto in

silenzio. Jos non dava prova di aver perduto l'appetito, ma Emmy non toccò

cibo.

Dopo pranzò, mentre Amelia si affaccendava per la stanza, Georgy si

coricò mollemente sui cuscini del divano posto sotto la finestra, un finestrone

le cui vetrate aggettanti si affacciavano sulla piazza ove sorgeva l'«Elefante», e

notò un certo tramestìo davanti alla porta della casa dove alloggiava il

maggiore, sul lato opposto della strada.

«Guarda, guarda» esclamò, «ecco la baracca di Dob.» La «baracca» in

questione era una carrozza malandata che il maggiore aveva acquistato per sei

sterline, motivo dei lazzi e del dileggio continuo dei suoi amici.

Emmy ebbe un piccolo sussulto, ma non aprì bocca.

«Guarda!» continuò Georgy. «Ecco Francis che esce con i

portemanteaux, e Kunz, il postiglione guercio, che attraversa il mercato con tre

schimmels. Guarda che stivali! Che buffa quella casacca gialla! Ma... come mai

stanno attaccando i cavalli alla carrozza di Dob? Dove va?»

«Parte per un viaggio,» rispose Amelia.

«Parte per un viaggio? E dove va? E quando torna?»

«Non... non tornerà,» rispose Amelia.

«Non tornerà!» gridò Georgy balzando in piedi. «Non ti muovere,

signorino,» disse Jos. «Resta qui,» disse la madre. Il suo volto era molto

malinconico. Il ragazzo rimase, ma prese a girare inquieto per la stanza, a

porsi in ginocchio sul divano sotto la finestra, a scenderne e a risalirne

palesando agitazione e curiosità.

I cavalli erano attaccati. I bagagli, trattenuti dalle cinghie, erano stati

accatastati sulla carrozza. Francis uscì dall'albergo reggendo la sciabola,

l'ombrello e il bastone da passeggio del suo padrone legati assieme; li sistemò

nel retro del veicolo, poi ripose sotto il sedile la cartella da viaggio e la

cappelliera di stagno. Infine portò fuori il vecchio mantello blu tutto macchiato,

rivestito di cammello rosso, che da ben quindici anni avvolgeva il corpo del suo

titolare, e aveva manchen Sturm erlebt, come diceva una canzone in voga in

quel momento. Nuovo all'epoca della battaglia di Waterloo, aveva riparato

George e William durante la notte successiva al combattimento di Quatre Bras.

Poi uscì anche il padrone di casa, il vecchio Burke, e di nuovo comparve

Francis recando altri bagagli, e alla fine il maggiore William. Burcke volle a tutti

costi abbracciarlo. William si faceva benvolere da tutte le persone che avevano

modo di avvicinarlo, onde stentò alquanto a sottrarsi alle effusioni di quella

dimostrazione di affetto.

«Per Giove, io vado da lui!» gridò George.

«Dagli questo,» gli disse Becky cogliendo la palla al balzo. E gli mise tra

le mani un bigliettino.

Il ragazzo percorse le scale difilato e in pochi istanti attraversò di corsa la

strada, proprio mentre il postiglione in casacca gialla faceva schioccare

mollemente la frusta.

William, testé districatosi dall'abbraccio del padrone di casa, era salito in

carrozza. George vi salì a sua volta, come fu possibile constatare dalle finestre,

gettò le braccia al collo del maggiore e lo tempestò di domande. Poi infilò la

mano nella tasca del panciotto e ne trasse il biglietto. William lo afferrò con

gesto avido e concitato, lo aprì tremante, ma subito mutò espressione, lo

stracciò e lo gettò fuori del finestrino. Poi baciò Georgy sul capo, e questi scese

dalla carrozza, aiutato da Francis, coprendosi gli occhi con i pugni serrati.

Indugiò ancora un attimo, la mano posata sulla maniglia della portiera. Fort,

Schwager! Il postiglione in casacca gialla fece schioccare la frusta, Francis si

issò a cassetta e gli schimmels partirono al galoppo, mentre Dobbin reclinava il

capo sul petto. Non levò lo sguardo nemmeno quando passarono sotto le

finestre di Amelia, mentre George, solo in mezzo alla strada, scoppiava in

lacrime davanti a tutti.

Durante la notte la cameriera di Emmy lo udì che piangeva, e per

consolarlo gli portò un po' di conserva di albicocche. Poi unì i suoi lamenti a

quelli di lui. I poveri, gli umili, gli onesti, tutte le persone buone che lo

conoscevano amavano quell'uomo semplice e generoso. Quanto ad Emmy, non

aveva forse fatto il suo dovere? A titolo di consolazione, poteva sempre

rivolgersi al ritratto di George.

LXVII • NEL QUALE SI TRATTA DI NASCITE, MATRIMONI E MORTI

Quale che fosse il piano di Becky, volto a far sì che il sincero amore di

Dobbin fosse coronato da un meritato successo, ella preferì mantenere il

segreto. E dal momento che la nostra amica attribuiva alla sua persona un

interesse senza dubbio superiore a quello che provava per il prossimo, aveva

ben altre cose cui pensare e a cui dare la precedenza rispetto alla felicità del

maggiore Dobbin.

Di botto, eccola in una stanza spaziosa e confortevole, circondata dalle

premure dei suoi amici, da gente buona e alla mano quale non le accadeva di

frequentare da anni. Sebbene la sua indole e le circostanze la spingessero a un

perpetuo vagabondaggio, pure una sosta di tanto in tanto le giovava. Come

l'arabo rotto alla fatica e assuefatto a percorrere il deserto sul dorso del

cammello ama far sosta sotto un palmizio e dissetarsi a una sorgente, oppure

entrare in città, aggirarsi per i bazar, pregare in una moschea e rinfrescarsi ai

bagni pubblici prima di riprendere il suo solitario cammino, così la tenda e il

pilau di Jos riuscivano molto accetti alla piccola ismaelita. Una sosta nel mezzo

di quella sua esistenza che non conosceva pace né riposo alcuno le giungeva in

quel momento oltremodo gradita.

Soddisfatta della sua situazione contingente, fece appello a tutte le sue

energie per rendersi accetta a tutti, e noi sappiamo che in quest'arte ella

eccelleva. In quanto a Jos, sin dal loro incontro nella stanzetta all'ultimo piano

dell'e Elefante», aveva saputo riconquistarselo quasi del tutto. Non era

trascorsa un'intera settimana, e già il nostro funzionario era diventato suo

schiavo e cieco ammiratore. Non si abbandonava più al consueto pisolino dopo

pranzo, consuetudine alla quale indulgeva quando sua unica compagna era

quella, assai meno stimolante, di Amelia. Usciva a passeggio con Becky nella

sua carrozza aperta; organizzava piccoli ricevimenti e anche qualche modesta

festicciola, allo scopo di intrattenere piacevolmente la sua ospite. Tapeworm, lo

Chargé d'Affaires che ne aveva sparlato con tanta crudeltà, venne anch'egli a

cena, invitato da Jos, e da quel giorno tornò regolarmente a porgere i suoi

ossequi a Rebecca. La povera Emmy, che non aveva mai brillato in fatto di

conversazione e con la partenza di Dobbin si era fatta ancor più mesta e

silenziosa, venne pressoché dimenticata non appena fece la sua comparsa

quella donna di superiore intelletto. Il diplomatico francese ne subiva il fascino

al pari del suo collega e rivale inglese. Quanto alle signore tedesche, sempre

alquanto corrive in fatto di moralità e a maggior motivo trattandosi in questo

caso di un 'inglese, andavano in visibilio davanti allo spirito di cui dava prova la

cara amica di Mrs. Osborne. Sebbene Becky non sollecitasse mai di avere

accesso a Corte, pure le Loro Trasparenze, che ivi regnavano, sapevano del

suo brio e del suo fascino e anelavano di conoscerla. Quando poi corse voce

ch'ella sortiva da un'antica famiglia dell'aristocrazia inglese, ed era sposata a

un colonnello delle Guardie nonché governatore di un'isola, separato dalla

consorte a causa di uno di quei malintesi che hanno scarso rilievo in un paese

dove si legge ancora il Werther e dove Le affinità elettive di Goethe è ritenuto

un libro morale e edificante, nessuno ritenne possibile precluderle l'accesso alla

più eletta società del piccolo ducato; le signore le diedero subito del tu e le

tributarono le più calorose attestazioni d'affetto, prodigandosi in cortesie assai

più di quanto avessero fatto con Amelia. Amore e libertà vengono interpretati,

da questi germanici sempliciotti, in termini che la brava gente dello Yorkshire e

del Somersetshire stenta alquanto ad intendere. In una di quelle civilissime e

filosofiche cittadine tedesche una signora è liberissima di divorziare quanto

volte le garba, e non per questo cesserà di essere rispettata. Da quando Jos

aveva messo casa per conto proprio, non gli era mai accaduto di organizzare

ricevimenti così riusciti, e il merito ne andava tutto a Rebecca. Cantava,

suonava il pianoforte, era vivace e spiritosa, si esprimeva in due o tre lingue

diverse. Chi frequentava la casa ci veniva per intrattenersi con lei, ma Rebecca

riusciva a dare a intendere a Jos che tutta quella gente confluiva in casa sua in

virtù del suo spirito e della sua socievolezza.

In quanto ad Emmy, che aveva cessato di essere la padrona in casa (a

meno che si trattasse di pagare. i conti), Becky non tardò a escogitare il modo

di blandirla e di accattivarsela. Le parlava in continuazione del maggiore

Dobbin, deplorando che lo avesse congedato in quel modo; né esitava a

dichiararsi un'incondizionata ammiratrice di un uomo così dabbene,

rimproverando Amelia per esser stata così ingiusta con lui. Emmy difendeva il

proprio contegno sostenendo di aver agito in armonia ai propri principi

religiosi. Una donna, sosteneva, una volta che si era sposata con un angelo

come quello che aveva avuto la fortuna di sposare eccetera eccetera, era

sposata per sempre. Non per questo aveva da obiettare qualcosa al fatto che

Becky tessesse le lodi del Maggiore. Del resto, lei stessa nel corso della

giornata lo nominava ad ogni piè sospinto.

Con la stessa facilità Becky trovò il modo di conciliarsi la simpatia di

Georgy e del personale di servizio. Come già abbiamo visto, la cameriera di

Amelia era solidale senza riserve col generoso maggiore. In un primo tempo

aveva provato un moto di avversione per Becky, in quanto era colpa di costei

se la sua padrona aveva bandito il maggiore dalla di lei presenza, ma in un

successivo momento si lasciò conquistare da Mrs. Crawley non appena ebbe

agio di accertare che quest'ultima era un ammiratrice incondizionata del

maggiore Dobbin, e che non cessava di sostenerne la causa. Nei solenni

conciavi ai quali si abbandonavano le signore dopo i ricevimenti, Miss Payne,

mentre era impegnata a spazzolare i capelli, ossia i riccioli biondi dell'una e le

trecce corvine dell'altra, ella non mancava mai di inserirsi nella conversazione

spezzando in vario modo una lancia a favore del caro, carissimo maggiore

Dobbin. Questa difesa ad oltranza di William da parte della sua cameriera non

irritava minimamente Amelia, così come non la irritava il fatto che Becky lo

portasse in palmo di mano. Gli faceva scrivere da Georgy con molta frequenza,

e immancabilmente aggiungeva un postscriptum con i saluti affettuosi della

mamma. E la sera, quando contemplava il ritratto del marito, questo non la

rimproverava più, ora che Dobbin se n'era andato. E chissà che non fosse lei,

ora, che rimproverava il ritratto.

Emmy non sembrava molto felice, dopo il suo eroico sacrificio. Era molto

distraite, nervosa, taciturna, palesemente contrariata. I familiari non l'avevano

mai vista così irascibile. Si fece pallida, sofferente. Si provava a cantare certe

romanze (quali ad esempio Einsam bin ich nicht alleine, il tenero canto

d'amore di Weber che un tempo, quando voi signorine non eravate ancor nate,

tutte le ragazze cantavano poiché anche loro sapevano cosa significasse saper

amare e cantare), certe romanze, dicevo, che piacevano in modo particolare al

maggiore. Mentre le accennava nella penombra del salotto, si interrompeva a

mezzo e fuggiva nella camera attigua, senz'alcun dubbio per cercare rifugio

accanto al ritratto del marito.

Dopo la partenza di Dobbin, furono ancora rinvenuti in casa vari libri che

gli appartenevano: tra gli altri un dizionario tedesco che recava sul frontespizio

la dicitura «William Dobbin, . . .° Reggimento», una guida turistica con le

iniziali, e altri due o tre volumi di sua proprietà. Emmy li ripose nel cassettone

in cui teneva la sua scatola da lavoro, la cartella per scrivere, la Bibbia, il libro

di preghiere, sotto il ritratto dei due George. E dal momento che Dobbin se

n'era andato dimenticando anche i guanti, accadde che Georgy, qualche tempo

dopo, frugando nel cofanetto della madre, ve li trovò ripiegati con cura,

conservati in quello che si sarebbe potuto designare come il cassetto segreto

del cofanetto stesso.

Poiché la vita di società non l'attirava minimamente, ed anzi accentuava

la sua malinconia, ciò che più allietava Emmy erano le passeggiate che si

concedeva con Georgy nel corso di quelle lunghe serate estive, e mentre Becky

s'intratteneva con Jos, madre e figlio parlavano del maggiore in un modo che

faceva sorridere persino il ragazzo. Emmy si dichiarava convinta che il

maggiore Dobbin fosse l'uomo migliore del mondo, il più gentile, il più

benevolo, il più coraggioso, il più modesto. E insisteva a ripetergli che tutto

quanto possedevano era frutto delle attenzioni che il caro Dobbin aveva avuto

per loro. E via di questo passo, ricordandogli ch'egli era rimasto loro amico

quando erano poveri, infelici, abbandonati da tutti, e come li avesse protetti

quando non c'era anima viva che avesse cura di loro. E parimenti gli ricordò

che tutti i suoi commilitoni lo ammiravano ancorché lui non parlasse mai delle

azioni coraggiose che lo avevano visto impegnato in varie campagne belliche.

«Anche il papà di Georgy,» aggiungeva, «aveva fiducia in lui più che in

qualunque altro, ed era stato legato a William da un vivo sentimento di

amicizia. Sai? Tuo padre diceva sempre che, quando era ragazzo, una volta

William lo ha difeso dalle prepotenze di un compagno di scuola. Quel giorno ha

avuto inizio la loro amicizia, un'amicizia finita solo il giorno in cui tuo padre è

morto.»

«Dobbin ha ucciso il soldato che ha ammazzato papà?» domandò

Georgy. «Sono sicuro che lo ha fatto, o che lo avrebbe fatto se gli fosse

riuscito di acciuffarlo. Quando diventerò soldato, odierò i francesi, questo è

poco ma sicuro.»

Tale era l'indole della conversazione alla quale indulgevano madre e figlio

quando erano assieme. La donna, nel suo candore ingenuo, aveva fatto del

figliolo il suo confidente: probabilmente perché, fra quanti conoscevano a

fondo William, Georgy gli era più amico di ogni altro.

Nel frattempo Mrs. Becky, per non esser da meno in fatto di sentimento,

aveva appeso anch'essa una miniatura alla parete della sua stanza: un ritratto

che lasciava tutti stupefatti e interdetti e mandava in brodo di giuggiole

l'effigiato, dal momento che costui altri non era che il nostro amico Jos.

Quando aveva accondisceso a onorare i Sedley della sua presenza, la cara

donnina, che si era presentata con un bagaglio alquanto modesto e malandato,

forse aveva provato un moto di vergogna per l'aspetto miserando delle sue

valigie e cappelliere; cosicché parlava spesso, e con grande sussiego, degli

effetti personali che aveva lasciato a Lipsia e che avrebbero dovuto inoltrarle

dalla suddetta città. Quando un viaggiatore ti parla senza posa dello splendore

del bagaglio che non ha con sé, guardati da costui, caro amico: dieci contro

uno, è un impostore.

Senonché Jos ed Emmy ignoravano questa massima piena di buonsenso.

Per loro il fatto che Becky disponesse di cataste di vestiti in cataste di bauli

immaginari era una circostanza affatto priva di rilievo. Ad ogni modo i vestiti

che Becky indossava nella realtà erano alquanto malridotti: un motivo più che

valido perché Amelia gliene regalasse di propri o la portasse nelle migliori

sartorie per rinnovarle il guardaroba da cima a fondo. Erano spariti i colletti

sbrindellati e le sete sbiadite che le ricadevano flosce sulle spalle! Mutata la

sua situazione, Becky cambiò anche determinate abitudini: abolì il belletto e

rinunciò a un'altra piacevole consuetudine cui da tempo era assuefatta, o alla

quale, quantomeno, indulgeva nell'intimità: come quella sera d'estate (Emmy e

Georgy erano andati a fare una delle loro solite passeggiate) ch'ella si lasciò

persuadere da Jos a bere un po' di brandy e acqua. Ma se lei non beveva,

Kirsch beveva, eccome. Quel lestofante era sempre attaccato alla bottiglia, al

punto che, quando cominciava, non era in grado di dire quando avrebbe

smesso. Non dimeno talvolta anch'egli era sorpreso nel constatare quanto

rapidamente scemasse il brandy di Mr. Sedley. Be', be', questo è un

argomento spinoso. Limitiamoci a dire che Becky, da quando era ospite di una

famiglia dabbene, cercava di moderarsi nel bere.

Finalmente i tanto menzionati bagagli giunsero da Lipsia. Tre colli in tutto

e per tutto. Non erano né belli né grandi, e tanto meno Becky ne estrasse abiti

eleganti, nastri Q cappellini. Ma da uno dei bauli, rigurgitante di ogni sorta di

scartoffie (lo stesso che Rawdon Crawley aveva messo sottosopra nella

frenetica ricerca del presunto denaro nascosto di Becky) trasse, molto

divertita, una miniatura che appese in camera e fece poi vedere a Jos. L'effigie

riproduceva le sembianze di un giovanotto, disegnate a mattina ma col volto

tinteggiato di rosa. Il gentiluomo cavalcava un elefante. Nello sfondo si

scorgevano qualche palma da cocco e una pagoda: in poche parole, uno

scenario orientale.

«Mio Dio, ma questo è il mio ritratto!» esclamò Jos. Era proprio lui,

smagliante di bellezza e di gioventù, in giacca di Nanchino conforme alla moda

del 1804. Si trattava del ritratto che in tempi ormai lontani era appeso nella

casa di Russell Square.

«L'ho comperato all'asta,» precisò Becky, con la voce che le tremava per

l'emozione. «Ero andata a vedere se potevo rendermi utile ai miei cari amici.

Non mi sono mai separata da questo ritratto, né lo potrò mai.»

«Davvero?» chiese Jos, il viso atteggiato a un'espressione di estrema

compiacenza. «Lo apprezzate forse per amor mio?»

«Proprio così, e lo sapete benissimo,» rispose Rebecca. «Ma è meglio non

parlarne; non guardiamo al passato, è troppo tardi ormai.»

La conversazione di quella sera fu deliziosa, per Jos. Emmy rientrò

soltanto per andare a letto. Si sentiva stanca e pervasa da un confuso

malessere. Quanto a lui, ebbe con la sua incantevole ospite un meraviglioso

tête-à-tête, e sua sorella, che se ne stava coricata nella stanza attigua, udì la

voce di Rebecca che intonava le vecchie canzoni del 1815. E quella notte - oh,

stupore! - anche lui al pari di Amelia non riuscì a dormire.

Era giugno, ovvero il culmine della stagione londinese. Jos, che ogni

giorno leggeva dalla prima riga all'ultima l'impareggiabile «Galignani» (il più

fedele amico degli inglesi in esilio) soleva durante i pasti elargire quelle

primizie alle signore. Una volta la settimana il giornale offriva notizie

dettagliate sui movimenti delle truppe: cosa che suscitava lo spiccato interesse

di Jos, nella sua qualità di ex militare. Un giorno lesse questa notizia:

«Rimpatrio del ...° Reggimento. Gravesend, 20 giugno. Il Ramchunder, nave di

linea indiana, è giunta stamane in porto. Reca a bordo quattordici ufficiali e

centotrentadue uomini, tra ufficiali e soldati, appartenenti al glorioso

reggimento. Da quattordici anni mancavano dall'Inghilterra, ossia dal loro

imbarco avvenuto l'anno dopo la giornata di Waterloo, la gloriosa giornata nella

quale essi svolsero un ruolo rilevante, così come più tardi si distinsero nella

campagna di Birmania. Il vecchio colonnello Sir Michael O'Dowd, K.C.B., è

sbarcato ieri assieme alla moglie e alla sorella. Con loro sono scesi dalla nave i

capitani Posky, Stubble, Macraw, Malony: i tenenti Smith, Jones, Thompson, F.

Thompson; i sottotenenti Hicks e Grady. Sul molo la banda suonava l'inno

nazionale, mentre la folla applaudiva fragorosamente i prodi veterani che si

recavano al Wayte Hotel, dove era stato allestito un sontuoso banchetto in

onore dei difensori della Vecchia Inghilterra. Durante il pasto che, inutile

precisarlo, venne servito in conformità alla miglior tradizione del Wayte, gli

applausi continuarono a scrosciare con tale entusiasmo che il colonnello

O'Dowd e la consorte si videro costretti ad affacciarsi al balcone e bere alla

salute dei compatrioti con un boccale colmo del miglior Bordeaux del Wayte.»

Qualche giorno dopo, Jos lesse un breve comunicato col quale si dava

notizia che il maggiore Dobbin aveva raggiunto il reggimento a Chatham.

Successivamente lesse della presentazione a Corte del colonnello Sir Michael

O'Dowd, K.C.B., e di Lady O'Dowd, nata Mrs. Molloy Malony di Ballymalony, e

di Miss Glorvina O'Dowd. Dopo queste notizie si leggeva che Dobbin era stato

promosso tenente colonnello, dal momento che il vecchio colonnello Tiptoff era

morto durante la traversata da Madras all'Inghilterra, e che Sua Maestà si era

benignata di promuovere il colonnello Sir Michael O'Dowd, appena tornato

dall'Inghilterra, al grado di maggiore generale, pur conservando beninteso la

qualifica di colonnello del glorioso reggimento che aveva comandato per tanti

anni.

Amelia era già parzialmente informata di queste novità, dal momento che

la corrispondenza tra Georgy e il suo tutore non si era mai interrotta. Anzi, a

dire il vero, William aveva scritto un paio di volte anche a lei, ma in tono molto

freddo e distaccato, onde la sventurata si era resa pienamente conto di aver

perduto ogni ascendente sul maggiore il quale, come le aveva detto al

momento del commiato, ormai si considerava libero. L'aveva lasciata, ed ora

lei si sentiva infelice. Il ricordo dei suoi innumerevoli servigi, delle sue nobili e

affettuose attenzioni, le tornava senza posa alla memoria, quasi un rimprovero

che la opprimeva notte e giorno. E com'era nella sua natura, continuava a

pensarvi e a meditarvi sopra, e agli occhi della sua mente apparve infine la

purezza e la bellezza di un amore ch'ella aveva tenuto in così poco conto, e

deplorò se stessa per aver sprecato un simile tesoro.

E davvero lo aveva gettato via. William le aveva dato tutto se stesso.

Ora, pensava, non l'amava più quanto l'aveva amata in passato. Non avrebbe

più potuto amarla così. L'affetto che lui le aveva elargito per anni ed anni con

cieca abnegazione ed era stato gettato, ridotto in frantumi, non poteva essere

riparato senza lasciare cicatrici indelebili. Quella piccola, irragionevole tiranna

lo aveva distrutto. «No,» pensava e ripensava William, «sono io che mi sono

illuso, sono io che ho perseverato nell'errore. Se fosse stata degna dell'amore

che le portavo, da gran tempo lo avrebbe corrisposto. È stato un grave errore,

ma d'altronde la vita non è altro che una sequela di errori. E anch'io, del resto,

quand'anche fossi riuscito a conquistarla, chi può dire che non me ne sarei

stancato il giorno stesso del suo errore? Perché dunque vergognarmi della

sconfitta subita o macerarmi nel dolore?» E più indugiava a ripercorrere con la

mente l'iter di quel periodo della sua vita, più si consolidava in lui il

convincimento di essersi ingannato. » Riprenderò il mio servizio nell'esercito,»

si diceva, «e farò il mio dovere là dove al Cielo piacerà di assegnarmi.

Sorveglierò che le reclute abbiano i bottoni ben lucidi e controllerò i conti dei

sergenti. Mangerò alla mensa e ascolterò pazientemente le barzellette del

chirurgo scozzese. Poi, quando sarò vecchio, me ne andrò in pensione e mi

sorbetterò i mugugni delle mie sorelle. Io ho geliebt und gelebet, come dice la

ragazza di Wallenstein. La mia parabola è finita. Paga il conto e dammi un

sigaro, Francis, e dà un'occhiata agli spettacoli. Vediamo un poco dove posso

andare, stasera. Domani c'imbarchiamo sul Batavier. » Ma di tutto questo

Francis, che camminava al fianco di Dobbin lungo il molo di Rotterdam, poté

udire soltanto le ultime frasi. Il Batavier era all'ancora. William guardava il

ponte sul quale si era seduto con Emmy durante la lieta traversata che li aveva

portati all'estero. Ma cosa diamine intendeva dirgli, la piccola Mrs. Crawley?

Chissà! Ad ogni modo domani si torna in Inghilterra. Si torna a casa e al

lavoro.

Alla fine di giugno l'esigua schiera di eletti che frequentava la Corte di

Pumpernickel era solita separarsi in conformità all'usanza tedesca, e ciascuno

si trasferiva nell'una o nell'altra di quelle stazioni termali di cui la Germania è

ricchissima, per andare a passare le acque, a cavalcare i somarelli, a giocare

nelle redoutes (a patto di avere la voglia e i denari necessari) e a gettarsi

insieme a stuoli di compatrioti sulle irresistibili gourmandises offerte dalle

tables d'hôtes, trascorrendo così un'estate fatta di oziosi svaghi. I diplomatici

inglesi si recavano a Toeplitz o a Kissingen, mentre i loro antagonisti francesi

chiudevano la chancellerie e s'involavano alla volta del beneamato Boulevard

de Gand. Quanto alle loro Trasparenze, ossia ai vari membri della famiglia

regnante, se ne andavano anch'essi in qualche località di cura o si ritiravano

nei casini di caccia. Chiunque attribuisse qualche importanza alla propria

persona trascorreva l'estate altrove. E tra costoro si annoveravano, inutile

precisarlo, il dottor Glauber il medico di Corte, e la baronessa sua moglie. La

stagione dei bagni era particolarmente proficua per il dottore, sotto il profilo

professionale, onde egli aveva agio di unire l'utile al dilettevole. La sua

stazione turistica preferita era Ostenda, molto frequentata anche dai tedeschi,

e dove il dottore e signora si concedevano ciò che lui definiva «un tuffo in

mare».

Il suo interessante paziente, ossia Jos, era per il dottore la classica

mucca da mungere. Non ebbe difficoltà a convincere l'obeso funzionario,

tirando in ballo il pretesto della sua salute e di quella di sua sorella (pessima,

in verità) a passare l'estate in quell'abominevole città portuale. Ad Emmy non

importava andare o restare. Georgy invece era esultante per il cambiamento.

In quanto a Rebecca, era logico che andasse ad occupare il quarto posto nella

carrozza acquistata da Jos. I due servitori sedevano davanti, a cassetta. Becky

si domandava con una punta di ansietà quali amici avrebbe incontrato a

Ostenda. Non si poteva escludere che qualcuno potesse riferire circostanze

sgradevoli. Ma no, dopotutto si sentiva ormai abbastanza sicura per affrontarli

e difendersi. Aveva agganciato Jos con un'ancora così pesante che solo un

uragano spaventoso sarebbe riuscito a spazzarlo via. L'espediente del ritratto

era valso a soggiogarlo del tutto. Pertanto Becky prese il suo elefante e lo

ripose nella scatola che Amelia le aveva donato tanti anni prima. Anche Emmy

se ne andò tirandosi appresso i suoi Lari, ossia i due ritratti, e finalmente la

comitiva prese dimora in una scomodissima e costosissima casa di Ostenda.

Quivi Amelia prese a fare i bagni di mare e a trarne ogni possibile

vantaggio; e sebbene svariate conoscenze di Becky le passassero davanti

senza degnarla di uno sguardo, Mrs. Osborne, che le camminava al fianco, non

conoscendo nessuno, non era in grado di capacitarsi del trattamento riservato

all'amica che molto sagacemente si era scelta quale compagna. Naturalmente

Becky non reputò opportuno informarla di quanto stava accadendo sotto i suoi

occhi innocenti.

Purtroppo però non mancarono altri conoscenti di Mrs. Crawley che la

salutarono con una sollecitudine della quale lei sarebbe stata ben lieta di fare a

meno. Tra costoro si annoveravano il maggiore Loder (in aspettativa, scapolo)

e il capitano Rook (già appartenente ai Fucilieri) che ogni giorno si trovavano

puntualmente sulla Dike a fumare e a occhieggiare le donne, e che riuscirono

senza difficoltà veruna a intrufolarsi nella casa accogliente e nella cerchia così

esclusiva di Mr. Joseph Sedley. Né d'altronde c'era modo di liberarsene.

Piombavano in casa inopinatamente, indipendentemente dal fatto che Becky ci

fosse o no, s'insediavano nel salotto di Mrs. Osborne appestandolo col lezzo dei

loro mantelli e dei loro mustacchi puzzolenti, si rivolgevano a Jos con l'epiteto

di «vecchio bestione» e si piazzavano a tavola indugiandovi per ore a bere e a

gozzovigliare.

«Ma cosa intendeva dire ieri il maggiore,» chiese Georgy, che non poteva

soffrire quei due figuri, «quando diceva a Mrs. Crawley: "No, no, Becky, non

puoi tenerti il vecchio bestione tutto per te, lasciaci almeno le ossa, altrimenti

parliamo"? Cosa intendeva dire il maggiore, mamma?»

«Maggiore! Ti proibisco di chiamare (maggiore) quell'individuo. Ad ogni

modo non so assolutamente cosa intendesse dire.» La presenza di

quell'individuo e del suo compare suscitavano nella garbata signora un

sentimento insormontabile di repulsione e timore. Costui le faceva delle

avances cui lei reagiva con ripugnanza e orrore e a tavola le lanciava occhiate

invereconde. Il capitano, a sua volta, l'assediava con le sue attenzioni galanti,

e Amelia provava soltanto disagio e imbarazzo, tant'è che evitava di trovarsi a

tu per tu con lui e cercava che almeno fosse presente Georgy.

Rebecca - riconosciamolo a onor del vero - non permetteva mai che l'uno

o l'altro di questi ceffi restasse da solo a solo con Amelia. Per giunta il

maggiore era scapolo e aveva giurato di sedurla. Quei due manigoldi si

contendevano una creatura innocente, se la «giocavano» sedendo alla sua

stessa tavola; e sebbene lei non fosse consapevole di codeste ignobili trame,

nondimeno in loro presenza non provava che raccapriccio e disagio e

desiderava solamente fuggire.

Pregava, supplicava Jos di partire, ma lui non sentiva ragioni. Esitava a

decidersi, legato com'era al suo dottore, e verosimilmente ad altri vincoli che

quivi lo trattenevano. Infatti Becky non era certo ansiosa di tornare a calcare il

suolo inglese.

Alla fine Amelia prese una grave decisione. Fece il gran passo. Scrisse

una lettera a un amico che si trovava sulla sponda opposta della Manica: una

lettera di cui non fece parola a chicchessia e che lei stessa portò alla posta,

nascondendola sotto lo scialle. Soltanto Georgy, incontrandola, si accorse che

era molto turbata, il volto coperto di rossore. Quella sera Amelia fu

particolarmente premurosa e affettuosa col figlio, e lo baciò più volte. Di

ritorno dalla passeggiata si chiuse nella sua stanza e Becky ne dedusse che la

presenza del maggiore Loder e del capitano Rook l'avesse infastidita.

«Non può continuare a starsene qui,» si disse Rebecca. «Se ne deve

andare, questa scioccherella. Frigna ancora sulla morte di quell'idiota di suo

marito, che è morto da quindici anni, e ben gli sta. Non deve finir sposata a

uno di questi due figuri. Loder stia attento a non esagerare. No, deve sposare il

bastone di bambù. Ma a questo penso io, e stasera stessa.»

Dopo di che Becky portò una tazza di tè ad Amelia nella sua stanza, e la

trovò in compagnia dei soliti ritratti, in condizioni di spirito quanto mai

melanconico e depresso. Posò la tazza di tè.

«Grazie,» disse Amelia.

«Ascoltami, Amelia,» disse Becky, prendendo a camminare su e giù per

la stanza e osservandola con una sorta di sprezzante condiscendenza. «Debbo

parlarti. Bisogna che tu te ne vada di qui, lontano dalla sfrontatezza di quei

due individui. Non sopporto che continuino a importunarti, e se insistessi a

rimanere finirebbero con l'insultarti. Credimi, sono due lestofanti, gente da

galera. Come e perché io li. conosca non ha importanza, io conosco gente

d'ogni risma. Jos non è in grado di offrirti un'adeguata protezione, e in quanto

a te non sai cavartela nella vita più di quanto sa fare un lattante. Devi sposarti,

Amelia, altrimenti tu e il tuo amato figliolo finirete male. Devi sposarti,

sciocchina. Uno dei migliori uomini che abbia mai conosciuto ti si è proposto

centinaia di volte. Me ne sono accorta io stessa, e tu sei stata così sventata dal

respingerlo. Sei stata sciocca, ingrata e senza cuore!»

«Ma io ho tentato, ho tentato, Rebecca...» reagì Amelia con voce

lamentosa. «Solo che io non riuscivo a dimenticare...»

E s'interruppe, levando il viso sul ritratto.

«Non riuscivi a dimenticare... chi? Lui?» esclamò Rebecca. «Quel

presuntuoso, quell'egoista, quel bellimbusto da strapazzo, quell'idiota pieno di

boria che non aveva spirito, né educazione, né cuore, e che non può essere

paragonato al tuo amico dal bastone di bambù più di quanto si possa

paragonare te alla regina Elisabetta? Figuriamoci! E pensare che era stanco di

te, e ti avrebbe piantata in asso se l'amico Dobbin non lo avesse indotto a

mantenere la parola data. Me lo ha confessato lui stesso. Non gli è mai

importato niente dite. Più di una volta si è divertito a canzonarti, con me! Ti

aveva sposata da una settimana, e già lui mi faceva la corte!»

«È falso, è falso!» gridò Amelia balzando in piedi.

«E allora guarda, scioccherella che non sei altro,» continuò Rebecca

senza perdere quel suo sarcastico buonumore. Sfilò un biglietto dalla cintura,

lo spiegò e glielo gettò in grembo. «La scrittura la riconosci, immagino. Lo ha

scritto a me, questo biglietto... Mi proponeva di fuggire con lui... Me lo ha dato

sotto il tuo naso, il giorno prima di finire ucciso... E ben gli sta,» ripeté Becky.

Emmy non l'ascoltava più. Leggeva la lettera. Era quella che George

aveva infilato furtivamente nel mazzolino e dato a Becky la sera del ballo della

duchessa di Richmond. Rebecca aveva detto il vero: quel fatuo giovinotto la

esortava a fuggire con lui.

Emmy chinò il capo e diede corso a qualcosa che per l'ultima volta, forse,

le circostanze la incoraggiarono a fare: la nostra amica si sciolse in lacrime. La

testa le ricadde sul petto, si coperse gli occhi con le mani e, per qualche

istante, ella diede libero sfogo alla sua emozione. Becky, in piedi dinnanzi a lei,

la guardava. Chi è in grado di indagare nella natura di quelle lacrime e stabilire

se fossero dolci o amare? Era addolorata perché il suo idolo le era caduto ai

piedi in frantumi, o indignata nel constatare che il suo amore era stato

disprezzato, oppure felice perché finalmente era stata abbattuta la barriera che

la modestia aveva innalzato tra lei e l'ipotesi di un nuovo affetto coniugale?

«Ora non c'è più nulla che me lo impedisca,» pensava. «Ora sono libera di

amarlo con tutto il mio cuore. Lo farò. Lo voglio fare, se lui me lo permetterà,

se lui sarà disposto a perdonarmi.» Di tutti i sentimenti che si agitavano in quel

suo cuore gentile, propenso a credere che questo fosse il più forte. Per dire il

vero non pianse nemmeno quanto Becky si aspettava. Mrs. Becky, dando

prova di una comprensione inaspettata, cercava di consolarla e di calmarla, la

blandiva e baciava. La trattava come se fosse stata una bambina, le carezzava

il capo... «E adesso prendiamo penna e inchiostro e scriviamogli di venire

senza indugio,» disse.

«Io... io gli ho scritto questa mattina,» rispose Emmy arrossendo.

Becky scoppiò in una risata sonora. « Un biglietto? » cantò sull'aria di

Rosina, « eccolo qua! », e tutta la casa risuonò dei suoi gorgheggi.

Due giorni dopo questa scenetta, sebbene piovesse e tirasse vento, e per

parte sua avesse trascorso una notte insonne tendendo l'orecchio a quelle

raffiche impetuose e volgendo un pensiero compassionevole a chiunque in quel

momento viaggiasse per mare o per terra, Amelia si alzò di buon mattino e

volle a tutti i costi andare a passeggio con Georgy sulla diga. Quivi giunta,

prese a camminare avanti e indietro con la pioggia che le percuoteva il viso,

scrutando a occidente la linea dell'orizzonte, oltre i marosi che venivano a

frangersi spumeggiando contro la riva. Solo a tratti madre e figlio si

scambiavano poche parole: o meglio, era il ragazzo a rompere di tanto in tanto

il silenzio per attestare alla timida compagna comprensione ed affetto.

«Voglio augurarmi che non abbia affrontato la traversata con un tempo

simile,» disse Amelia.

«E invece sì, scommetto dieci contro uno,» rispose Georgy. «Guarda,

mamma,» aggiunse, «si vede il fumo del bastimento.» Aveva ragione: era

proprio il fumo della ciminiera.

Ma il fatto che quel pennacchio di fumo si stesse avvicinando non

implicava necessariamente ch'egli fosse a bordo del vapore. Poteva darsi che

non avesse ricevuto la lettera, o che avesse deciso di non venire affatto. Cento

e cento timori diversi si affollavano e accavallavano in quel piccolo cuore, rapidi

come le onde che si avventavano contro la diga.

Dopo il fumo, ecco apparire la sagoma della nave. Georgy, che aveva un

bellissimo cannocchiale, riuscì con molta destrezza a mettere a fuoco il battello

e, da esperto marinaio qual era, si permise altresì qualche commento sulle

manovre che l'imbarcazione, beccheggiando sulla cresta delle onde, stava

compiendo per accostarsi a riva. Sul pennone del pontile venne issata una

bandierina, a indicare che c'era un 'imbarcazione inglese in vista. Il cuore di

Mrs. Amelia non era meno squassato di quella nave.

Emmy tentò a sua volta di osservare la nave col cannocchiale al di sopra

delle spalle di Georgy, ma non le riuscì di veder nulla, se si eccettua una nera

sagoma ellittica che si alzava e abbassava davanti ai suoi occhi.

Georgy tornò a impugnare il cannocchiale e continuò a osservare la nave.

«Come balla!» esclamò. «Uh, che ondata spaventosa a prua! Sul ponte ci sono

soltanto due persone e il timoniere. C'è un uomo sdraiato, e poi c'è un tizio con

mantello che... urrah!... È Dob! Perdinci, è proprio lui! Fece rientrare il

cannocchiale con un piccolo colpo secco della mano e gettò le braccia al collo di

sua madre. In quanto a lei, lasciatemi dire ciò che fece con le parole del mio

poeta favorito: $Äáêñõóåí ãåëáóáóá$. Sì, era William, lo sentiva, non poteva

esser altri che lui. Ciò che aveva detto poc'anzi, e cioè che sperava non si fosse

messo in viaggio con un tempo simile, altro non era che pura ipocrisia. Ma

certo che sarebbe venuto, che altro poteva fare se non venire? Lei sapeva che

sarebbe venuto.

La nave si avvicinava sempre più. Si avviarono all'approdo, ma le

ginocchia di Amelia tremavano a tal punto, ch'ella temette di non riuscire a

camminare. Avrebbe voluto inginocchiarsi ed elevare al Cielo una prece di

ringraziamento. Ah, sì, pensava, lo avrebbe ringraziato per il resto dei suoi

giorni.

Il tempo, quel giorno, era così infame, che nel luogo d'attracco non

c'erano nemmeno i soliti sfaccendati che sostavano sulla banchina per

assistere allo sbarco dei passeggeri. Scarseggiavano anche i facchini e i

fattorini. Ma a un certo punto si constatò ch'era scomparso anche quel

birbantello di Georgy, cosicché, quando il signore dal mantello foderato di

rosso pose piede a terra, ben poche persone ebbero modo di assistere a ciò

che avvenne in quel momento, e che potremmo riassumere press'a poco in

questi termini:

Una signora avvolta in uno scialle, con una cuffietta bianca gocciolante di

pioggia, gli mosse incontro con le piccole mani protese, e un attimo dopo era

praticamente scomparsa tra le pieghe del vecchio indumento, e gli baciava una

mano con indicibile trasporto. E lui, con l'altra mano, presumo che se la

tenesse stretta al cuore (all'altezza del quale lei giungeva si e no con la

sommità del capo), per impedire che si accasciasse al suolo. La signora

mormorava parole sconnesse, qualcosa come: «Perdono, caro William...

perdono... caro, caro, carissimo amico... un bacio, un bacio, un bacio...» E le

cose sotto il mantello continuarono in questa assurda maniera.

Quando Emmy ne emerse, teneva ancora stretta una delle mani di

Dobbin, poi levò lo sguardo su di lui. Il volto dell'uomo era atteggiato a

un'espressione di mestizia, di tenero amore e di pietà. Lei vi colse un muto

rimprovero e chinò il capo.

«Era ora che mi mandaste a chiamare, cara Amelia,» disse lui.

«Non ve ne andrete mai più, vero William?»

«Mai,» rispose Dobbin. E una volta ancora si strinse al cuore quella cara,

dolce creatura.

Mentre uscivano dal recinto doganale, Georgy gli corse incontro

brandendo ancora il cannocchiale e salutandolo festosamente con una risata

sonora; poi, mentre gli faceva strada verso casa, continuò a saltellargli e a

caracollargli allegramente intorno, gesticolando e assumendo comici

atteggiamenti. Jos non si era ancora alzato. In quanto a Becky, sebbene

avesse spiato il loro arrivo attraverso le persiane della finestra, era sparita

dalla circolazione. Georgy si affrettò a controllare che la colazione fosse pronta,

ed Emmy, che aveva abbandonato scialle e cuffietta in corridoio, affidandoli a

Miss Payne, prese ad armeggiare con la fibbia del mantello di William. In

quanto a noi... se non vi dispiace seguiremo le orme di Georgy e andremo a

vedere se sia pronta la colazione per il colonnello. Ormai la nave è giunta in

porto. Il nostro amico ha ottenuto il premio che per tutta la vita ha cercato di

procacciarsi. Finalmente l'uccellino si è rassegnato a entrare nella sua gabbia.

Eccolo qua, con la testolina ripiegata sulla spalla di lui, che tuba accanto al suo

cuore con le morbide ali dispiegate. Egli lo ha desiderato per diciotto anni, ogni

giorno, ogni ora. Ed ecco... la vetta è stata conquistata, la meta agognata è

raggiunta. Siamo alla fine, all'ultima pagina. Addio, colonnello.., che Dio ti

benedica, buon William. E addio anche a te, cara Amelia: che tu possa rifiorire

rigogliosa, fragile rampicante parassita, intorno al ruvido tronco al quale ti

abbarbichi e avvolgi!

Forse a spingerla alla sua decisione fu il rimorso che provava nei

confronti di quella dolce e semplice creatura che per prima non le aveva

mostrato ostilità e aveva assunto le sue difese, o forse fu la sua idiosincrasia

per le scene sentimentali: fatto sta che Rebecca, paga del ruolo svolto nella

faccenda, non si fece più vedere dal colonnello Dobbin né dalla signora che

divenne sua moglie. Disse che «affari personali» esigevano la sua presenza a

Bruges; e quivi, in effetti, si recò, onde Georgy e lo zio furono i soli a

presenziare alle nozze. Poi, quando tutto fu finito e Georgy ebbe raggiunto i

genitori, Becky ritornò (ma solo per pochi giorni) onde confortare il mesto

scapolo solitario, Joseph Sedley. Questi dichiarò di preferire la vita sul

Continente, e si rifiutò di andare a convivere con la sorella e il cognato.

Nel segreto del suo cuore Emmy era felice di aver richiamato il marito

prima di aver letto o saputo della lettera di George a Becky. «Io l'ho sempre

saputo,» disse William, «ma come potevo servirmi di un'arma simile contro la

memoria di quello sventurato giovane? È stato questo a farmi tanto soffrire

quando tu...»

«Non parlare più di quel giorno,» lo supplicò Emmy, e la sua voce era

così umile, così contrita, che William fu indotto a cambiare discorso e a parlare

di Glorvina e della cara Peggy O'Dowd, in compagnia delle quali egli si trovava

quando aveva ricevuto la lettera. «Se non mi avessi mandato a chiamare,

chissà quale sarebbe, ora, il nome di Glorvina!» aggiunse con una risata.

Attualmente si chiama Glorvina Posky: o, per essere più esatti, è la

consorte del maggiore Posky. Quando costui è rimasto vedovo, lo ha sposato in

ossequio al suo proposito di maritarsi soltanto con qualcuno che appartenesse

al reggimento. Ma anche Lady O'Dowd è attaccata al reggimento, al punto che

- dice - se mai dovesse capitare qualcosa al suo Mick, anch'essa non potrebbe

che risposarsi con uno dei suoi ufficiali. Ma in verità il maggiore generale gode

di ottima salute e conduce vita fastosa a O'Dowdston circondato dalla muta dei

suoi bracchi, e se si eccettua il suo vicino, Hoggarty di Castel Hoggarty, può

essere considerato il più splendido signore della contea. Per parte sua, Lady

O'Dowd balla ancora la giga, e al ballo del Luogotenente ha saputo tenere testa

al Master of the Horse. Sia lei che Glorvina hanno dichiarato che Dobbin si era

comportato «ignominiosamente» nei riguardi di quest'ultima; ma poi, per

fortuna, si era fatto avanti Posky, Glorvina si era consolata e uno splendido

turbante giunto appositamente da Parigi era valso a sedare la collera di Lady

O'Dowd.

Dopo il matrimonio il colonnello prese congedo dall'esercito e andò a

stabilirsi in una bella casa di campagna, nello Hampshire, a poca distanza da

Queen's Crawley dove, ormai dopo l'approvazione del Reform Bill, Sir Pitt e i

suoi familiari risiedono costantemente. Perduti i due seggi alla Camera dei

Comuni, era definitivamente svanita la sua speranza di diventare Pari. Questa

grave iattura aveva determinato nel baronetto pesanti conseguenze finanziarie

e morali. La sua salute declinò, mentre le sue miserande condizioni di spirito lo

inducevano a profetizzare l'ormai prossima fine dell'impero.

Lady Jane e Mrs. Dobbin diventarono grandi amiche: c'era un continuo

andirivieni di carrozze tra il castello ed Evergreens, ossia la casa che il

colonnello aveva preso in affitto dall'amico maggiore Ponto, che si trovava

all'estero con la famiglia. Lady Jane fu madrina di battesimo della figlia di Mrs.

Dobbin. Pertanto la piccola ebbe il suo nome e venne battezzata dal reverendo

James Crawley, il quale era succeduto al padre nelle sue mansioni quando

questi era ancora in vita. Anche i due ragazzi, Georgy e Rawdon, diventarono

ottimi amici: durante le vacanze andavano a caccia insieme, frequentavano lo

stesso college universitario a Cambridge e litigavano per i begli occhi della

figlia di Lady Jane della quale inutile dirlo - erano entrambi innamorati. Il

matrimonio tra George e costei avrebbe certo avuto il beneplacito delle

rispettive genitrici, ma a me risulta che Miss Crawley fosse invece attratta dal

cugino.

Né l'una né l'altra famiglia profferiva mai il nome di Rebecca Crawley: e

con giustificato motivo, dal momento che la stessa seguiva passo passo Joseph

Sedley, tallonandolo ovunque andasse, al punto che quello sciagurato era

ormai ridotto totalmente suo schiavo. Il colonnello venne a sapere dai suoi

legali che il cognato aveva contratto una cospicua assicurazione sulla vita: dal

che non si stentava a dedurre che avesse prosciugato le sue risorse finanziarie

per tacitare i debitori. Inoltre continuava a chiedere licenze alla Compagnia

delle Indie, e per vero dire la sua salute andava rapidamente deteriorandosi.

Nell'apprendere di quell'assicurazione sulla vita, Amelia, oltremodo

allarmata, pregò il marito di recarsi a Bruxelles, ove Jos si trovava in quel

momento, e di indagare sull'andamento dei suoi affari. Il colonnello parti a

malincuore giacché stava lavorando a una sua Storia del Punjab che lo

assorbiva gran parte della giornata e lo tiene occupato tuttora, ed era ancora

in ansia per la sua bambina, che lui adora e in quel momento era

convalescente di scarlattina. Nondimeno raggiunse Bruxelles, e scoprì che Jos

spendeva e spandeva, alloggiando in uno dei più costosi alberghi della città.

Quanto a Mrs. Crawley, che teneva carrozza e dava un ricevimento dopo

l'altro, occupava un appartamento in quello stesso albergo.

Inutile precisare che il colonnello non desiderava affatto abboccarsi con

la suddetta signora, onde non reputò opportuno annunciare il suo arrivo ad

altri che a Jos. Pertanto gli inoltrò un biglietto per mezzo di un servitore. Jos gli

fece sapere ch'era ansioso di vederlo: lo andasse a trovare quella sera stessa:

Mrs. Crawley era attesa a una soirée ed essi avrebbero avuto agio di

conversare a tu per tu.

William trovò il cognato in condizioni di salute pietose, e dominato dal

timore panico di Rebecca, della quale peraltro diceva ostentatamente ogni

bene. Disse che per lui era stata una figlia, che lo aveva curato con amorosa

pazienza nel corso di ripetute e penosissime infermità. Ma... ma... per l'amor di

Dio,» prese a piagnucolare il poveretto, «venite anche voi ad abitare vicino a

me. E... e... venite a trovarmi di tanto in tanto.» Il colonnello aggrottò la

fronte. «Non ci è possibile, Jos,» gli rispose. «Date le circostanze non è

pensabile che Amelia venga a farti visita.»

«Te lo giuro...» farfugliò Joseph, «è innocente come una fanciulla,

innocente come tua moglie. Te lo posso giurare sulla Bibbia.» E fece l'atto di

baciare il libro sacro.

«Può darsi,» rispose il colonnello, corrucciato, «ma Amelia non può

venirti a trovare. Comportati da uomo, Jos. Spezza questo legame disdicevole,

torna a casa, rientra in famiglia. A quanto pare, sei nei pasticci con gli affari.»

«Nei pasticci?» reagì Jos. «Chi vi ha raccontato queste calunnie? Tutto il

mio denaro è investito nel modo più proficuo. Mrs. Crawley... sì, voglio dire... e

investito al massimo interesse.»

«Non avresti debiti, dunque? E come mai, allora, hai fatto

un'assicurazione sulla vita?»

«Ho pensato... di farle un piccolo regalo.., caso mai mi capitasse

qualcosa... Come sai la mia salute è molto compromessa... Si tratta di un

gesto di pura gratitudine... Io intendo lasciare a voi tutto il mio denaro. So

amministrarmi, figurati che riesco a risparmiare sulla mia rendita... Proprio

così, te lo assicuro!» concluse a voce concitata il povero cognato di William.

Dobbin lo esortò a partire senza indugio, a tornare in India ove Mrs.

Crawley non avrebbe avuto modo di raggiungerlo, a fare tutto ciò che rientrava

nelle sue possibilità per porre fine a una relazione gravida, per lui, di funeste

conseguenze.

Jos gli afferrò le mani: «Sì, sì, tornerò in India,» gridò, «farò tutto quello

che volete. Solo, datemi tempo; non dite nulla a Mrs. Crawley. Mi... mi

ucciderebbe se lo sapesse. È una donna terribile, credimi,» concluse lo

sventurato.

«E allora perché non parti subito, perché non vieni via con me?» propose

Dobbin. Ma Jos non ne aveva il coraggio. Si sarebbero rivisti la mattina dopo,

ma per nessuna ragione Dobbin doveva lasciar capire che si erano già

incontrati. Ora doveva andarsene: Becky poteva rientrare da un momento

all'altro.

E Dobbin se n'era andato, carico di cupi presentimenti. Non lo avrebbe

riveduto mai più: Jos sarebbe morto tre mesi dopo, ad Aquisgrana.

Il suo patrimonio era stato dissipato in speculazioni di vario genere,

rappresentate da azioni senza valore in quanto espressione di società

inesistenti. Tutti i suoi beni consistevano nelle duemila sterline

dell'assicurazione sulla vita, somma che venne equamente spartita tra la sua

beneamata sorella Amelia e la sua ottima amica nonché insostituibile

infermiera Rebecca, moglie del colonnello Rawdon Craxley. C.B., la quale per

giunta era stata nominata esecutrice testamentaria.

Il legale della Compagnia di assicurazione non esitò a dichiarare che si

trattava del caso più ambiguo che mai gli fosse occorso nella sua carriera.

Avanzò l'ipotesi di inviare una commissione d'inchiesta ad Aquisgrana per

svolgere indagini sulle circostanze di quella morte e la Compagnia si rifiutò di

versare il premio. Ma Mrs. Crawley, o Lady Crawley come lei si faceva

chiamare, si precipitò a Londra scortata dai suoi legali, i signori Burke, Thurtell

e Hayes, del Collegio degli Avvocati di Thavies, e sfidò la Compagnia a rifiutare

il pagamento suddetto. Gli avvocati sollecitarono l'invio della commissione

d'inchiesta affermando che Mrs. Crawley era vittima di un'ignobile congiura, la

stessa che l'aveva perseguitata nel corso dell'intera sua esistenza, e finirono

così con lo spuntarla. Il premio venne pagato e la reputazione della cliente

salvaguardata, ma il colonnello Dobbin non volle incassare la propria quota e la

respinse alla Compagnia di assicurazione, rifiutandosi di avere ulteriori rapporti

con Rebecca.

Sebbene insistesse nel farsi chiamare Lady Crawley, Rebecca non riuscì

mai a diventarlo di fatto. Sua eccellenza il colonnello Rawdon Crawley morì di

febbre gialla a Coventry Island, tra il generale compianto, sei settimane prima

della scomparsa di suo fratello Sir Pitt. Pertanto la proprietà e il titolo

passarono all'attuale baronetto, Sir Rawdon Crawley.

Anch'egli si è rifiutato di intrattenere rapporti con la madre, alla quale

peraltro passa una pingue rendita, ancorché, a quanto si dice, lei sia già

largamente agiata. Il baronetto risiede a Queen's Crawley con Lady Jane e sua

figlia, mentre Rebecca, ossia la sedicente Lady Crawley, trascorre il suo tempo

tra Rath e Cheltenham, ove una folta schiera di persone in tutto e per tutto

rispettabili la reputano la più calunniata delle donne. Non che le manchino i

nemici. Chi non ne ha? Ma la sua vita è la miglior risposta ch'ella possa dare a

costoro. Frequenta la chiesa, ove si mostra sempre e soltanto accompagnata

da un domestico. Il suo nome figura in tutti i comitati di beneficenza: la

Venditrice d'Arance Derelitta, la Lavandaia Abbandonata, il Venditore di

Ciambelle Reietto hanno in lei l'appoggio più longanime e generoso. In

occasione delle fiere benefiche a favore di questi sventurati, ella è sempre

preposta a qualche banco di vendita.

Un giorno, tempo addietro, Emmy, i suoi figli e il colonnello, che

momentaneamente si trovavano a Londra, se la trovarono inopinatamente

dinnanzi ad una di queste fiere. Lei chinò pudicamente gli occhi, e sorrise

quando gli altri ostentatamente la evitarono: Emmy allontanandosi

immediatamente al braccio di Georgy, che nel frattempo si era fatto un

bellissimo giovanotto, e il colonnello sollevando tra le braccia la sua piccola

Janey che ama più di ogni cosa al mondo... persino più della sua Storia dei

Punjab.

«Persino più di me,» pensa Emmy con un sospiro. Lui peraltro non le dice

mai una parola che non sia affettuosa e gentile, né gli accade di indovinare un

desiderio di sua moglie senza affrettarsi a soddisfano.

Ah, Vanitas Vanitatum! Chi di noi è felice, in questo mondo? Chi riesce a

soddisfare le sue aspirazioni? Echi si sente pago, quand'anche vi riesca?

Suvvia, venite, bambini, riponiamo il teatrino e le marionette. La commedia è

finita.