maschile mentre vengono sistematicamente respinte e disprezzate dalle mogli.

Tra costoro figura, per esempio, Mrs. Firebrace, una signora stracarica di

braccialetti che ogni giorno abbiamo agio di incontrare in Hyde Park, circondata

dai più ambiti giovanotti di tutto quanto l'impero. Un'altra della stessa specie è

Mrs. Rockwood, i cui ricevimenti vengono annunciati con la massima evidenza

da tutti i giornali alla moda, e le cui cene sono frequentate assiduamente da

diplomatici e innumerevoli signori dell'alto patriziato. Potremmo dilungarci

facendo altri nomi, se le signore di questa fatta avessero attinenza con la

nostra storia. Ma se le persone semplici affatto estranee al gran mondo,

oppure quelle che vivono in campagna ma s'interessano ai casi della nobiltà,

incontrano queste signore nei pubblici ritrovi circonfuse da un'aura di splendore

e segretamente le invidiano, altre, meglio informate, potrebbero rivelare che

queste pretese dame, oggetto di tanta invidia, non hanno maggiori possibilità

di entrare a far parte della vera «società» di quante ne abbia un piccolo nobile

di campagna relegato nel Somerset, il quale s'informa sulle loro gesta

leggendole nelle cronache del «Morning Post». I londinesi conoscono

perfettamente questa agghiacciante verità: sanno benissimo che molte

signore, in apparenza ricche e di adeguato rango sociale, vengono

sistematicamente tagliate fuori dalla «società». Gli sforzi inauditi che mettono

in atto per esservi accolte, le umiliazioni alle quali si assoggettano, le villanie

che incassano sono motivo di stupefatta indagine per tutti coloro che si

applicano allo studio della natura umana, con particolare riguardo a quella

femminile. La battaglia che si deve affrontare per entrare in «società», gli

ostacoli che occorre superare, potrebbero costituire un tema di straordinaria

risorsa per uno scrittore eccezionalmente dotato, che avesse lo spirito e il

tempo necessari, nonché un'idonea conoscenza della lingua inglese, per

poterne narrare la storia.

Le poche signore di cui Mrs. Crawley aveva fatto la conoscenza durante i

suoi soggiorni all'estero si rifiutarono di andare a farle visita quando ella si

trasferì nuovamente da questa parte della Manica. Peggio: incontrandola nei

locali pubblici, finsero di non vederla. Fu davvero curioso constatare come le

dame dell'alta società ignorassero inesorabilmente Rebecca, anche se è lecito

arguire che Rebecca non gradisse per nulla la cosa. Lady Bareacres incontrò

Rebecca all'Opera, e quando la vide trasse a sé le figlie, come se Mrs. Crawley,

sfiorandole inavvertitamente, potesse contaminarle; poi, indietreggiando di un

passo o due, indugiò a squadrare immobile la sua nemica. Ma per ottenere che

Rebecca arrossisse, bisognava disporre di uno sguardo assai diverso da quello

che sprigionavano gli occhi melensi e acquosi della vecchia e insulsa Lady

Bareacres. Un giorno che Lady de la Mole, la quale a Bruxelles aveva cavalcato

innumerevoli volte fianco a fianco con Becky, incontrò la carrozza di

quest'ultima in Hyde Park divenne completamente cieca e non riuscì

assolutamente a riconoscere colei che una volta era stata sua amica. Persino

Mrs. Blenkinsopo, la moglie del banchiere, evitò di salutarla incontrandola in

chiesa. Infatti adesso Becky frequentava regolarmente la funzione: che

spettacolo edificante vederla entrare accanto al marito reggendo tra le mani

due libri di preghiere dalla rilegatura dorata e seguendo compunta il servizio

religioso!

Sulle prime Rawdon era furibondo ed. esasperato per le scortesie di cui

sua moglie era oggetto. Minacciava di sfidare a duello i mariti, o i fratelli, di

quelle screanzate che non trattavano la di lui consorte coi dovuti riguardi. Solo

in seguito alle pressanti esortazioni, anzi ordini perentori di Rebecca, fu

possibile indurlo a mutare contegno. «Non puoi pretendere di farmi entrare in

società a colpi di pistola,» diceva lei con voce pacata. «Non dimenticarti, mio

caro, che io sono solo un'istitutrice, e tu godi fama di essere un giocatore, uno

sperperatore di denaro... Ne hai combinate di ogni genere, suvvia! A poco a

poco riusciremo a farci le amicizie che ci stanno a cuore; nel frattempo

comportati assennatamente e bada di fare in tutto e per tutto ciò che t'insegna

la tua maestra. Ricordi che collera ti ha preso quando siamo venuti a sapere

che tua zia aveva lasciato tutta la sua sostanza a Pitt? Se non ti avessi tenuto

a freno lo avresti spifferato a tutta Parigi. E sai dove saremmo adesso? Nella

prigione per debitori di Saint-Pélagie. E invece, eccoci qui, in una bella casa di

Londra, con tutti i comforts possibili e immaginabili. Nel tuo furore, eri pronto a

uccidere tuo fratello, come Caino. E quale utile ne avremmo avuto, dallo sfogo

delle tue iraconde intemperanze? Tutta la collera di questo mondo non

varrebbe a ottenerci il denaro di tua zia, e d'altro canto è molto meglio essere

in buoni, anziché in cattivi rapporti, con la famiglia di tuo fratello. Del resto,

quando morirà tuo padre, avremo modo di passare l'inverno a Queen's

Crawley. Una soluzione ottima, per me e per te. Se saremo rovinati, tu potrai

sempre aggiustarti in qualche modo, ed io farò da istitutrice alle figlie di Jane.

E poi, perché rovinati? Sciocchezze. Lascia fare a me: vedrai che prima o poi ti

troverò un buon posto. Senza contare che Pitt è suo figlio possono morire, e in

questo caso io e te diventeremo Sir Rawdon e Lady Crawley. Finché c'è vita c'è

speranza, mio caro, ed io persevero nel mio proposito di far di te un vero

uomo. Chi ha venduto i cavalli? Chi ha saldato i tuoi debiti?» Rawdon non

poteva fare a meno dal riconoscere che doveva molto a sua moglie e quindi

riporre fiducia in lei anche per l'avvenire.

In effetti, quando Miss Crawley se ne andò all'altro mondo e alla resa dei

conti il denaro per i quali tutti avevano lottato con tanta tenacia andò a Pitt,

Bute Crawley, che si era trovato un legato di cinquemila sterline anziché di

venti come si attendeva, si abbandonò a un tale accesso di collera che per

sfogare la propria delusione copri di contumelie il nipote. Seguì una serie di

litigi così violenti che si arrivò a una rottura completa. Per contro il

comportamento del fratello, che dalla zia aveva ereditato solo un centinaio di

sterline, lasciò allibito il fratello e suscitò l'apprezzamento della cognata che

nutriva simpatia per tutti i parenti del marito. Da Parigi Rawdon scrisse al

fratello una lettera molto esplicita, molto dignitosa e al tempo stesso cordiale.

Sapeva benissimo, diceva, come il suo matrimonio gli avesse alienato l'affetto

della zia, e sebbene non potesse celare il suo rammarico per non essere

riuscito a mitigare quell'inflessibile condanna, pure si compiaceva che il

patrimonio fosse rimasto legato allo stesso ramo della famiglia, e di tutto cuore

si rallegrava col fratello per la fortuna occorsagli. Inviava i migliori saluti alla

cognata e sperava che avrebbe riservato un'amichevole accoglienza a sua

moglie. La lettera terminava con un postscriptum per Pitt vergato da Rebecca.

Anche lei pregava di accettare, insieme a quelle del marito, le sue

congratulazioni: avrebbe sempre ricordato le cortesie che Mr. Crawley le aveva

usate quando lei era solo una povera orfana abbandonata da tutti nonché

l'istitutrice delle sue sorelline, alle quali, del resto, non aveva mai cessato di

pensare con affetto. Gli augurava che la vita coniugale gli fosse foriera di ogni

possibile felicità; lo pregava di porgere i suoi ossequi a Lady Jane (della cui

bontà tutti le avevano parlato) e confidava che prima o poi le fosse offerta

l'occasione di far conoscere allo zio e alla zia il suo bambino, per il quale

auspicava, da parte loro, benevolenza e protezione.

Pitt Crawley gradi quel messaggio molto più di quanto la defunta Miss

Crawley avesse mostrato a suo tempo di apprezzare le forbite esercitazioni

epistolari concepite da Rebecca e ricopiate da Rawdon. Lady Jane, da parte

sua, fu talmente sorpresa dal tono e dal contenuto di quella lettera, che le

parve logico attendersi dal marito un'istantanea rinuncia a mezza eredità in

favore del fratello a Parigi.

Ma la stupefazione della nobildonna fu tanto maggiore quanto constatò

che il marito si rifiutava di «sistemare» il fratello con un assegno di trentamila

sterline; e con munifico gesto si limitava a offrire a Rawdon il suo appoggio

qualora fosse ritornato in patria e ne avesse avuto bisogno. Ringraziò lui e Mrs.

Crawley per i buoni sentimenti che nutrivano nei suoi confronti e in quelli di

Lady Jane e manifestò ogni più calorosa intenzione di esternare la sua

benevolenza verso il loro figliolo.

Così i due fratelli pervennero a una specie di riconciliazione. Quando

Rebecca fece ritorno a Londra, Pitt e la moglie non c'erano. Più volte ella si

recò alla porta di quella casa che conosceva tanto bene, per vedere se

avessero preso possesso della dimora di Miss Crawley, ma la nuova famiglia

non si era ancora fatta viva. Solo da Mr. Raggles seppe delle loro manovre.

Tutto il personale di Miss Crawley era stato licenziato con generose elargizioni.

Quanto a Mr. Pitt, si era mostrato a Londra una sola volta sostando nella casa

di Park Lane solo alcuni giorni. Aveva discusso con gli avvocati e aveva

venduto a un libraio di Bond Street tutti i romanzi francesi della defunta zia.

Becky aveva ragioni affatto personali per auspicare un pronto arrivo della

nuova parente. «Quando Lady Jane sarà in città, ci penserà lei a farmi entrare

nella buona società di Londra. Quanto alle donne... Oh, in quanto a loro, non

appena si accorgeranno che gli uomini desiderano vedermi non esiteranno a

invitarmi.»

Una signora nella suddetta posizione ha bisogno, fra altri «articoli» quali

una carrozza e un mazzolino di fiori, anche di una dama di compagnia. Ho

sempre provato la più viva ammirazione per le dolci creature che, incapaci di

vivere senza esser circondate da persone che manifestino nei loro riguardi un

sentimento di simpatia, pagano una squallidissima esponente del loro sesso

per farne la loro inseparabile compagna. La vista di quell'immancabile

personaggio di sesso femminile, che in abito liso e dimesso siede dietro la cara

amica nel palchetto all'opera, oppure sul sedile posteriore della carrozza,

produce sempre su di me un effetto benefico e veramente salutare, un allegro

monito alquanto simile al teschio che i bons vivant dell'antico Egitto erano soliti

mettersi dinanzi agli occhi durante i festini: un monito davvero curioso e

sarcastico in questa Fiera della Vanità. Incredibile! Persino la bellissima,

perfida, sfrontata Mrs. Firebrace, che fece morire il padre di crepacuore;

persino l'incantevole e spregiudicata Mrs. Mentrap, non meno esperta di un

uomo nel superare a cavallo qualsiasi ostacolo (guida di persona i suoi cavalli

bai per i viali di Hyde Park, mentre la madre gestisce tuttora un banco da

erbivendola a Bath), persino le donne tanto ardite da lasciar credere che siano

disposte ad affrontare impavide qualsiasi situazione, non hanno il coraggio di

andare incontro al mondo senza avere quel tipo di amica al loro fianco. È ben

raro imbattersi in una di costoro senza che sia scortata da quella deprimente

accompagnatrice, in abito di seta. ritinto, che le siede alle spalle,

dissimulandosi il più possibile.

«Rawdon,» uscì a dire Becky una sera a tarda ora, mentre alcuni amici

sedevano nel suo salotto davanti al caminetto ove scoppiettava un'allegra

fiammata (gli uomini si recavano a casa sua a conclusione della serata, ed ella

offriva sempre il miglior caffè e i migliori gelati di tutta Londra) «ho bisogno di

un cane da guardia.»

«Un... che cosa?» chiese Rawdon stupefatto, levando il capo dalla tavola

dell' écarté.

«Un cane da guardia!» esclamò il giovane Lord Southdown. «Che

stravaganza, mia cara Mrs. Crawley! E perché non un alano, allora? Ne

conosco uno alto come una giraffa. Proprio così, per Giove! Riuscirebbe a

trainare la vostra carrozza! O vi andrebbe a genio un levriero (scusatemi, sto

solo scherzando...) O invece un maltese così piccolo da entrare nella

tabacchiera di Lord Steyne? Un tale che abita in Bayswater ha un tal naso

(segno il re e gioco) che ci si potrebbe appendere il cappello.

«Segno il punto,» fu la risposta di Rawdon. Di solito si concentrava nel

gioco trascurando di seguire la conversazione, a meno che non si parlasse di

scommesse e di cavalli.

«Ma insomma, che cosa vorreste farne di un cane da guardia?» incalzò

Lord Southdown.

«Intendevo dire un cane da guardia in senso metaforico! » rispose Becky,

alzando lo sguardo su Lord Steyne.

«Che diavolo significa?» chiese Sua Signoria.

«Un cane che sappia tenermi lontani i lupi,» continuò Rebecca. «Una

dama di compagnia.»

«Caro, piccolo, innocente agnellino, ne avete proprio bisogno!» rispose il

marchese sporgendo la mascella. E prese a ridacchiare in modo sgradevole,

mentre i suoi occhietti vogliosi scrutavano Rebecca.

In piedi accanto al caminetto, il grande Lord Steyne sorbiva il caffè. Il

fuoco guizzava e scoppiettava allegramente, e intorno al caminetto brillavano

le fiammelle di non meno di cento candele infisse in candelabri di varie fogge:

dorati, di bronzo, di porcellana. La loro luce s'irraggiava dolcemente sulla

graziosa figura di Rebecca che sedeva sul canapè rivestito di seta a fiorami.

Indossava un abito rosa e appariva fresca come un fiore. Le braccia e le spalle,

di un candore abbagliante, erano a mezzo coperte da una sciarpa trasparente

attraverso la quale s'intravedevano i boccoli che le ricadevano sul collo. Tra le

pieghe della veste spuntava uno dei suoi piedini, il più grazioso piedino

rivestito della più vezzosa scarpina e ricoperto dalla più leggiadra calza di seta

del mondo.

Le stesse candele illuminavano altresì la testa calva di Lord Steyne con la

sua corona di residui capelli rossicci. Aveva folte sopracciglia, occhi piccoli e

lucenti, iniettati di sangue e circondati da un fitto reticolo di rughe. Le mascelle

erano molto pronunciate, e quando rideva due denti bianchi sporgevano dalle

labbra e scintillavano conferendogli un'espressione crudele. Quella sera aveva

pranzato con qualche membro della famiglia reale, cosicché indossava le

insegne dell'Ordine della Giarrettiera. Era di bassa statura, con un largo torace

e gambe arcuate, ma andava fiero della finezza del suo piede e della sua

caviglia, e si accarezzava di continuo il ginocchio ov'era fissata la giarrettiera.

«Vorreste dire che il pastore non è di valida guardia alla sua pecorella?»

«Il pastore è troppo impegnato a giocare a carte e ad andare al club,»

rispose Becky ridendo.

«Mio Dio, che debosciato Coridone!» esclamò il marchese, «e che

bocchina degna di un flauto!»

«Scommetto tre contro due,» disse Rawdon, sempre assorbito al tavolo

da gioco.

«Guardatelo, guardatelo il nostro Melibeo!» disse il marchese con un

sogghigno. «È impegnato in una mansione veramente pastorale: infatti sta

tosando un Southdown. Che innocente montone! E che lana candida,

accidenti!»

Gli occhi di Becky ridevano di malizia. «Voi, però, Milord, siete un

cavaliere dell'Ordine!» Infatti Lord Steyne recava al collo l'emblema del Toson

d'Oro, conferitogli dai sovrani di Spagna ritornati sul trono.

Da giovane Lord Steyne era stato noto per il coraggio e la fortuna a

carte. Una volta aveva giocato a dadi con Mr. Fox per due giorni e due notti

consecutive. Aveva vinto denaro giocando con i più eccelsi personaggi del

Regno. Si diceva che avesse vinto al tavolo da gioco persino il marchesato. Ma

non gradiva che si alludesse a quelle trascorse fredaines. Rebecca vide che

sopra le folte sopracciglia la piega delle rughe gli si accentuava.

Si alzò dal divano e con un piccolo inchino andò a togliergli la tazzina di

caffè dalle mani. «Sì,» disse, «bisogna che mi prenda un cane da guardia, ma

a voi non abbaierà.» Dopo di che passò nell'attiguo salottino, sedette al

pianoforte e prese a cantare alcune canzoni francesi con voce tanto soave e

suadente che il marchese, ammansito, non tardò a raggiungerla. Ristette in

piedi accanto allo strumento e prese a segnare il tempo con moti del capo.

Nel frattempo Rawdon e compagni continuarono a giocare all' écarté fino

a quando ne ebbero abbastanza. Il colonnello vinceva, ma anche se vinceva

spesso e volentieri, i ricevimenti di questo tipo, che si ripetevano più volte alla

settimana (e nel corso dei quali sua moglie era al centro della conversazione e

dell'ammirazione generali, mentre lui sedeva in disparte silenzioso, senza

capire un'acca dei frizzi e dei sottintesi di quella sorta di linguaggio in codice

che veniva usato intorno a lui), annoiavano a morte l'ex dragone.

«Come sta il marito di Mrs. Crawley?» Così era solito interpellarlo Lord

Steyne quando lo incontrava. E in effetti quello era il suo ruolo nella vita:

Rawdon non era più il colonnello Crawley, ma il marito di Mrs. Crawley.

Quanto al piccolo Rawdon, se finora non ce ne siamo occupati affatto è

solo perché se ne sta nascosto in qualche soffitta, oppure è sgattaiolato gattoni

fino in cucina, alla ricerca di qualcuno che gli faccia compagnia. Sua madre non

se ne curava. Finché la bonne francese era rimasta al servizio dei Crawley, il

piccolo Rawdon passava le giornate al suo fianco. Poi, quando se n'era andata,

il piccino, che la notte piangeva in totale solitudine, aveva suscitato la

compassione di una cameriera che lo aveva sottratto alla nursery deserta per

portarselo a letto nella sua soffitta, e consolarlo.

Rebecca, Lord Steyne e altre due o tre persone stavano bevendo il tè al

ritorno dall'opera quando dal piano di sopra giunse l'eco del pianto del

bambino. «È il mio tesoruccio che piange perché vuole la sua nanny,»

commentò la padrona di casa, ma non fece nemmeno l'atto di alzarsi per

andare da lui. «Non vi affannate troppo per lui!» esclamò Lord Steyne,

sarcastico. «Bah!» rispose lei arrossendo appena, «a furia di piangere finirà

con l'addormentarsi.» E ripresero a chiacchierare commentando lo spettacolo.

Rawdon però, senza che nessuno se ne accorgesse, era andato a dare

un'occhiata al bimbo piangente, e tornò fra gli amici solo quando vide che la

brava Dolly era andata a consolarlo. All'ultimo piano c'era anche lo spogliatoio

del colonnello, ed era lì che in gran segreto Rawdon s'intratteneva col figlio.

S'incontravano la mattina mentre lui si radeva. Il piccolo Rawdon sedeva su

uno scatolone accanto al padre e assisteva a quell'operazione divertendosi un

mondo. Erano grandi amici. Il padre gli metteva in serbo i dolci che venivano

serviti in tavola, riponendoli in una scatola da spalline dove il bimbo andava a

cercarli; e quando li trovava rideva felice. Rideva, ma badando a non far

troppo chiasso, perché dabbasso la mamma dormiva. Rebecca si concava

sempre a tarda ora e non si alzava mai prima di mezzogiorno.

Rawdon comperava al piccino tanti libri illustrati e gli riempiva la

cameretta di balocchi. Le pareti erano ricoperte di quadretti che il padre vi

aveva appeso con le sue mani, dopo averli comperati pagandoli con moneta

sonante. Quando non era di servizio ad Hyde Park per fungere da scorta alla

consorte, trascorreva ore ed ore col figlioletto che gli montava sulla schiena

per andare a cavalluccio, gli tirava i baffi come fossero stati le redini di un

cavallo e ruzzava con lui facendo ogni sorta di capriole. La stanza aveva il

soffitto molto basso, e una volta, quando il bambino non aveva ancora cinque

anni, facendolo saltare verso l'alto a forza di braccia, Rawdon gli aveva fatto

battere la testa contro il plafone con tanta violenza, che per poco, al colmo

dello spavento, non lo aveva lasciato cadere a terra.

Il piccolo aveva piegato la bocca in una smorfia che sembrava preludere

a un pianto cui del resto aveva diritto, dal momento che il colpo era stato

proprio forte, ma proprio mentre si accingeva a farlo il padre glielo impedì:

«Per l'amor di Dio, Rawdy, non svegliare la mamma!» esclamò. Al che il

piccino, guardando il padre con un'espressione che nondimeno palesava la sua

sofferenza, si morse le labbra, strinse i piccoli pugni e non emise un gemito.

Rawdon riferì quell'episodio al club, alla mensa, a qualsiasi interlocutore gli

capitasse davanti. «Se sapeste che ometto in gamba è il mio bambino!»

diceva. «È proprio un fenomeno. Per poco non gli facevo sfondare il soffitto con

la testa e lui non ha fiatato perché non voleva disturbare il sonno di sua

madre!»

Di tanto in tanto - sì e no un paio di volte la settimana - la padrona di

casa faceva la sua comparsa di sopra, ove il figlioletto passava le sue giornate.

Entrava, dolce e sorridente, simile a un figurino vivente del «Magasin des

Modes», sempre vestita di uno splendido abito, di scarpe e guanti nuovi. La

sua persona era adorna di scialli raffinati, di trine, di gioielli. Ogni volta aveva

in capo un cappellino nuovo, reso più attraente da bellissimi fiori oppure

ricurvo da piume di struzzo, soffici e candide come petali di camelia. Con due o

tre cenni del capo manifestava la sua compiacenza per quanto faceva il piccolo,

che per guardare sua madre sollevava il visetto dal piatto o dai soldatini che

stava colorando. E quando se ne andava, nella camera aleggiava profumo di

rose o di qualche altra squisita fragranza. Agli occhi del bimbo era una creatura

ultraterrena, decisamente superiore al padre e a qualsivoglia creatura di

questa terra; una persona da amare e adorare, ma a debita distanza. Andare

in carrozza in compagnia di tanta dama era un rituale solenne: il bambino

sedeva sul sedile posteriore e non osava aprir bocca: con occhi spalancati

contemplava la principessa in abito da fiaba che gli stava dinanzi; signori che

trottavano in sella a splendidi cavalli si facevano accosto per conversare con

lei, ed ella salutava graziosamente agitando la piccola mano. Quando usciva

con lei, il bimbo indossava un vestitino rosso nuovo. Il vecchio, color marrone,

andava bene per quando se ne stava in casa. Qualche volta, quando la madre

era uscita e Dolly le rifaceva il letto, il piccolo aveva modo di penetrare nella

stanza. Gli pareva la dimora di una fata, un luogo di meraviglie indicibili, di

mistici splendori. Nel grande armadio erano appesi quegli abiti stupendi,

azzurri, rosa, di tutti i colori. E poi c'era il cofanetto dei gioielli chiuso da una

serratura d'argento, e sul tavolino da toeletta la mano di bronzo carica di

innumerevoli anelli scintillanti. Ed ecco la specchiera, quello strano, magico

marchingegno nel quale riusciva a stento a intravedere la sua faccina

stupefatta e la sagoma di Dolly curiosamente capovolta, come se stesse

sprimacciando e lisciando i guanciali appesi al soffitto. Povero piccino, solo e

abbandonato! «Mamma», sulle labbra e nel cuore dei bambini, è il nome di

Dio. Ed eccone uno, povero infelice, che adorava una pietra!

Invece il colonnello Rawdon Crawley, per quanto fosse un perfetto

esemplare di mascalzone aveva una certa virile inclinazione a nutrire autentici

affetti. Un bimbo, una donna, sapevano suscitare in lui impeti di tenerezza. E

per il piccolo Rawdy nutriva appunto una segreta tenerezza che non era

sfuggita all'occhio vigile di sua moglie, anche se Rebecca con lui non ne aveva

mai fatto cenno. La cosa non la disturbava affatto (in fondo era una donna

indulgente) ma quella constatazione valse ad accentuare il disprezzo che

nutriva per il marito. Del resto anche Rawdon si vergognava un poco di quelle

sue debolezze di padre, le teneva celate alla moglie e vi si abbandonava solo

quando era a tu per tu col bambino.

Era solito portarlo a spasso con sé la mattina: prima lo portava a vedere

le scuderie, poi lo conduceva a Hyde Park. Il piccolo Lord Southdown, l'uomo

più generoso del mondo, sempre pronto a regalare anche il cappello che

portava in capo e la cui occupazione più gradita consisteva nel comperare ogni

sorta d'inezie per poterne far dono a qualcuno, aveva regalato al bimbo un

pony delle Shetland le cui dimensioni - aveva dichiarato il donatore - non

superavano di molto quelle di un grosso topo, e il baldanzoso genitore del

piccolo Rawdon era fierissimo di far montare al figlioletto quel pigmeo dal pelo

nero e di cavalcare con lui lungo i viali del parco. Gli faceva piacere rivedere la

sua vecchia caserma di Knightsbridge e i suoi ex commilitoni della Guardia.

Cominciava a ripensare con un certo rimpianto ai bei tempi in cui era scapolo,

e dal canto loro i vecchi compagni d'arme erano lieti di rivedere il loro

superiore d'un tempo e facevano un mucchio di feste al suo bambino. Il

colonnello, inoltre, si divertiva a cenare alla mensa dei suoi ex camerati.

«Maledizione!» diceva spesso, «lo so di non essere alla sua altezza. Per lei non

sono abbastanza raffinato. D'altra parte figuriamoci se Rebecca sente la mia

mancanza!»

Rawdon aveva ragione. Becky non s'accorgeva nemmeno delle sue

assenze. Si mostrava affezionata al marito, era sempre gentile con lui, sempre

di umore lieto. Per giunta sapeva dissimulare con sufficiente abilità la modesta

considerazione che aveva di lui. Forse le andava bene proprio perché non era

intelligente. Era il capo dei suoi domestici, una sorta di maître d'hôtel. Andava

a farle le commissioni, obbediva alle sue disposizioni senza far domande,

l'accompagnava a passeggio in carrozza senza protestare; l'accompagnava

all'Opera e durante lo spettacolo se ne stava al club per poi andarla a prendere

all'uscita, puntuale e mansueto. Certo, avrebbe gradito che lei si mostrasse più

attaccata al bimbo, ma anche a questo trovava una spiegazione valida:

«Maledizione,» diceva, «lei è una donna così intelligente! Io invece non sono

un uomo istruito, un letterato, questo genere di cose, insomma...» Infatti,

come abbiamo già detto, non è indispensabile avere una mente d'eccezione per

saper giocare a carte o al biliardo, e Rawdon non pretendeva di avere qualsiasi

altra forma di talento.

Quando Rebecca ottenne la dama di compagnia, i doveri domestici di

Rawdon diminuirono alquanto. La moglie lo esortava di continuo a cenare fuori,

non pretendeva nemmeno che si sottoponesse al pesante ufficio di

accompagnarla all'Opera. «Non c'è ragione che tu rimanga a casa, stasera,» gli

diceva. «C'è un gruppo d'invitati coi quali ti annoieresti di sicuro. Non li

inviterei, ma sai benissimo che lo faccio nel tuo interesse. Ora poi ho un cane

da guardia, quindi non ho alcuna paura di rimanere sola.»

Un cane da guardia... una dama di compagnia! Becky Sharp con una

dama di compagnia! Si può forse immaginare qualcosa di più buffo?» diceva

fra sé Mrs. Crawley. Dotata com'era di senso dell'umorismo, la cosa le pareva

divertentissima.

Una domenica mattina, mentre Rawdon Crawley come di consueto

passeggiava nel parco col bambino e il pony, s'imbatté in una vecchia

conoscenza: il caporale Clink, del suo reggimento. Quest'ultimo stava

chiacchierando con un vecchio signore il quale reggeva tra le braccia un

bambino suppergiù dell'età del piccolo Rawdon. Il piccolo aveva afferrato la

medaglia di Waterloo del caporale e la osservava divertito.

«Buon giorno, Vostro Onore,» rispose Clink, in risposta al «Salve, Clink,»

del colonnello. «Questo giovanotto ha press'a poco l'età di vostro figlio,»

aggiunse il caporale.

«Anche suo padre ha combattuto a Waterloo,» disse il vecchio signore

che teneva in braccio il bambino. «Vero, Georgy, che papà ha combattuto a

Waterloo?»

«Sì,» rispose Georgy. Frattanto lui e il bimbetto in sella al pony si

squadravano con molta serietà, come fanno i bambini.

«Era un ufficiale di fanteria,» disse Clink in tono solenne.

«Era capitano nel ...° Reggimento,» precisò il vecchio con una certa

fierezza. «Il capitano George Osborne... Forse lo avete conosciuto: è caduto

combattendo eroicamente contro il tiranno corso».

Il colonnello Crawley arrossì: «L'ho conosciuto benissimo,» rispose. «E

sua moglie, quella sua cara, piccola moglie... come sta?»

«È mia figlia, signore,» disse il vecchio posando a terra il bimbo. Poi, con

gesto solenne levò di tasca un biglietto da visita e lo porse al colonnello. C'era

scritto: «Mr. Sedley, rappresentante della Black Diamond and Anti-Cinder Coal

Association, Bunker's Wharf, Thames Street, e Anna-Maria Cottages, Fulham

Road West.»

Il piccolo Georgy si fece accosto per osservare il pony delle Shetland.

«Ti piacerebbe fare un giro?» chiese dalla sella Rawdon junior.

«Sì,» disse Georgy. Il colonnello, che fino a quel momento aveva

indugiato a guardarlo con un certo interesse, lo prese in braccio e lo posò sulla

sella, dietro il figlio.

«Stringiti forte a lui, Georgy,» gli disse, «cingi il mio bambino alla vita. Si

chiama Rawdon.» I due bambini cominciarono a ridere.

«Credo proprio che stamani qui non ci sia una coppia più graziosa di

questa,» disse il buon caporale. E il colonnello, il caporale e il vecchio Mr.

Sedley col suo ombrello presero a camminare di fianco ai due bambini.

XXXVIII • UNA FAMIGLIA IN AMBASCE

Proviamo a immaginare che il piccolo George Osborne, cavalcando sul

pony, da Knightsbridge sia giunto sino a Fulham, dove ci fermiamo per

informarci sugli amici che vi abbiamo lasciato. Come sta Amelia dopo la bufera

di Waterloo? Vive e gode buona salute? E si hanno nuove del maggiore Dobbin,

di cui abbiamo visto la carrozza aggirarsi insistentemente in questi paraggi? E

del ricevitore di Boggley Wollay, quali nuove? Ecco, in breve, i fatti che

concernono quest'ultimo.

Il nostro degno e grasso amico Joseph Sedley aveva fatto ritorno in India

poco dopo la fuga da Bruxelles. Quanto alle ragioni, vertevano forse sul timore

d'incontrare qualche testimone del suo pavido comportamento in Belgio. O, più

semplicemente, aveva terminato la sua licenza. Sta di fatto che tornò a

svolgere le sue mansioni nel Bengala poco dopo l'inizio dell'esilio di Napoleone

a Sant'Elena, ove Jos vide l'imperatore deposto. A sentirlo parlare a bordo del

piroscafo, si sarebbe potuto credere che Mr. Sedley e il corso si fossero

incontrati più di una volta, e che il borghese avesse dato del filo da torcere al

generale francese a Mont-Saint-Jean. Sapeva migliaia di episodi sulle battaglie,

conosceva a menadito la posizione d'ogni singolo reggimento e le perdite che

avevano subito. Non negava di esser stato partecipe di quelle vittorie. Anzi:

sosteneva di aver vissuto quell'esperienza con l'esercito e di aver recato

dispacci destinati al duca di Wellington. Descriveva ciò che il duca aveva detto

e fatto in ogni minimo frangente della memoranda giornata di Waterloo, dando

prova di conoscere i pensieri di Sua Grazia come poteva conoscerli solo chi

avesse trascorso quelle ore al fianco del conquistatore, anche se, non essendo

un combattente, il suo nome non era citato nei documenti della battaglia.

Forse riuscì a convincersi di aver realmente fatto parte dell'esercito. Certo che

a Calcutta per un certo periodo godette d'indubbia popolarità, e per tutta la

durata di questa sua nuova permanenza nel Bengala venne chiamato «Il

Sedley di Waterloo».

Le tratte che Jos aveva firmato per assicurarsi il possesso di quegli

sventurati cavalli vennero puntualmente pagate da lui e dalla sua banca.

Nessuno lo udì mai parlare di quell'acquisto, né si sa con certezza quale sorte

abbiano avuto i cavalli e Isidor, il domestico belga. Quest'ultimo, peraltro, fu

visto vendere un cavallo grigio in tutto simile a quello che Jos cavalcava a

Valenciennes in certi giorni imprecisati dell'autunno 1815.

La banca di Jos a Londra aveva ordine di pagare 120 sterline annue ai

suoi genitori a Fulham, e questa somma costituiva il loro cespite maggiore.

Infatti le speculazioni tentate dal vecchio Sedley dopo il suo fallimento non

valsero certo a rimettere in sesto le sue finanze. Si provò col commercio dei

vini, con quello del carbone, si diede a fare l'organizzatore di lotterie... Ogni

qual volta avviava un nuovo commercio spediva prospetti appositamente

stampati a tutti i suoi amici, ordinava una nuova targa d'ottone per la porta di

casa e con molta solennità esternava il suo fermo proposito di rifarsi una

fortuna. Ma la Fortuna non si riaccostò mai più al povero vecchio, ormai stanco

e indebolito da tante prove. Anche i suoi amici a poco a poco gli voltarono le

spalle, stufi di comperare vino scadente e carbone troppo caro. Solo la moglie

continuava a riporre fiducia in lui, e a credere che quando la mattina si recava

alla City vi andasse realmente per affari in corso. Rientrava prostrato,

strascicando i piedi. La sera frequentava un piccolo club che aveva sede in una

taverna, dove con grande sicumera trinciava giudizi sulle finanze del regno. Era

stupefacente vedere con quale disinvoltura parlava di milioni, di aggio, di tassi

di sconto, di quello che facevano i Rothschild o decidevano i Baring. Si

riempiva la bocca di somme così cospicue che i membri del club - il farmacista,

l'impresario di pompe funebri, l'impresario edile della zona, il sacrestano della

parrocchia la cui presenza non era «regolare» ma tollerata, e la nostra vecchia

conoscenza Mr. Clapp - rispettavano il vecchio signore. «Una volta ero in

condizioni finanziarie migliori delle attuali,» ripeteva spesso agli habitués del

club. «Mio figlio attualmente è il primo magistrato di Rampunge, nel Bengala,

con uno stipendio di quattromila rupie al mese. Mia figlia potrebbe risposarsi

con un colonnello, se lo volesse. Io in qualsiasi momento potrei emettere un

assegno di duemila sterline a nome di mio figlio, il primo magistrato, e

Alexander lo pagherebbe sui due piedi! Proprio così, sui due piedi! Ma i Sedley

sono sempre stati una famiglia orgogliosa!» Anche io e voi, caro lettore,

potremmo di punto in bianco trovarci in condizioni analoghe. Non abbiamo

forse un mucchio di amici che già lo sono? La fortuna potrebbe anche volgerci

le spalle, le forze abbandonarci e il nostro ruolo essere assunto da mimi più

giovani e più valenti. Le occasioni offerte dalla vita potrebbero dileguarsi e noi

ritrovarci sul lastrico. Sapete cosa accadrebbe, allora? La gente, incontrandoci,

attraverserebbe la strada, oppure (cosa ancor più squallida) ci porgerebbe due

dita con aria di sufficienza e sprezzante compatimento. Poi, appena voltate le

spalle, il nostro caro amico di un tempo comincerebbe a dire: «Poveraccio,

quante stupidaggini ha commesso! Quante occasioni si è lasciato sfuggire,

quell'allocco!» Be'... alla resa dei conti una carrozza e una rendita di tremila

sterline annue non sono il massimo a cui un uomo debba necessariamente

aspirare, e non sono nemmeno il giudizio di Dio. Se i ciarlatani s'impinguano

con la stessa frequenza con cui si riducono in miseria, se i buffoni hanno

successo e i lestofanti fanno fortuna (o viceversa) soggetti come sono agli

incerti della buona e della cattiva sorte né più né meno come lo sono gli uomini

onesti e virtuosi, io penso, fratello, che non dobbiamo attribuire soverchia

importanza ai doni e ai piaceri che elargisce questa Fiera della Vanità, e

probabilmente... Ma ci stiamo scostando dal tema della nostra storia.

Se Mrs. Sedley fosse stata una donna energica, dopo la rovina finanziaria

del marito avrebbe potuto darsi da fare. Aveva una casa grande, adatta ad

accogliervi dei pensionanti. Quanto a Mr. Sedley, sarebbe stato perfettamente

a posto nelle vesti di marito della proprietaria di una pensione. Sarebbe stato il

Muñoz del focolare domestico, il signore e padrone titolare, il dispensiere,

l'economo e il sottomesso consorte di colei che avrebbe occupato quel piccolo,

traballante trono. Ho visto uomini dotati di ottima intelligenza e buona

educazione (e, in altri tempi, di belle speranze nonché pieni di energie), gente

che in gioventù aveva dato ricetto a persone di tutto riguardo e posseduto cani

e cavalli, affettare melanconicamente cosciotti di montone per vecchie signore

irascibili, e addirittura aver l'aria di sovrintendere alla deprimente frugalità di

quella tavola. Ma, come dicevamo poc'anzi, Mrs. Sedley non aveva l'energia

necessaria per trovare i «pochi, scelti ospiti, desiderosi di entrare a far parte di

una famiglia simpatica e cordiale, amante della musica,» come talvolta accade

di leggere sul «Times». Arenatasi sulla spiaggia ove il Fato l'aveva gettata, ivi

si accontentava di restare, ed era chiaro che la condizione di quella coppia non

aveva ormai alcuna probabilità di mutare.

Non credo che fossero veramente infelici. Forse nell'indigenza erano

sorretti dall'orgoglio più di quanto non lo fossero al tempo dell'agiatezza. Agli

occhi di Mrs. Clapp, la padrona di casa, Mrs. Sedley era pur sempre una gran

signora, quando quest'ultima scendeva arredata di tutto punto, nei recessi del

seminterrato o nella cucina dove trascorreva molte ore in sua compagnia. Le

cuffie e i nastri di Betty Flanagan, la camerierina irlandese, la sua

impertinenza, la sua indolenza, lo spreco che faceva di candele in cucina, il

consumo incontrollato di zucchero e di tè, riuscivano ad occupare e a distrarre

piacevolmente la vecchia signora quasi quanto l'occupava l'andamento

domestico ai tempi in cui per la sua casa circolavano Sambo, il cocchiere, il

domestico e una governante che capitanava un plotone di cameriere: tutta la

servitù che in passato aveva avuto e della quale Mrs. Sedley parlava in

continuazione. Oltre che su Betty, Mrs. Sedley esercitava la sua sorveglianza

su tutte le domestiche tuttofare del vicinato. Sapeva se gli inquilini dei vari

cottages pagavano regolarmente l'affitto oppure no. Si scansava al passaggio

di Mrs. Rougemont, all'attrice, accompagnata dalla sua poco raccomandabile

famiglia, e alteramente gettava il capo all'indietro quando Mrs. Pestler, la

moglie del farmacista, transitava a bordo del piccolo calesse che solitamente

suo marito usava per esercitare la sua professione. Sprecava un mucchio di

parole con l'erbivendola per comperare un soldo delle rape che piacevano tanto

a Mr. Sedley. Teneva d'occhio il lattaio e il garzone del panettiere, e si recava

di persona dal macellaio, il quale molto probabilmente sprecava meno tempo e

meno fiato a vendere buoi interi che non a smerciare la lombata di montone a

Mrs. Sedley. Contava le patate sotto l'arrosto della domenica giorno in cui,

vestita nel miglior modo consentitole dalle sue possibilità, si recava in chiesa

due volte, e la sera leggeva i sermoni di Blair.

Era questo il giorno in cui il vecchio Sedley (essendone impedito dai suoi

«affari» durante la settimana) aveva la gioia di accompagnare Georgy, il suo

nipotino, nei vicini giardini pubblici, oppure a Kensington Gardens a vedere i

soldati o a dar da mangiare alle anatre. A Georgy quelle giubbe scarlatte

piacevano moltissimo, e il nonno gli raccontava che suo padre era stato un

famoso soldato. Lo presentava a sergenti e altri graduati sul cui petto fosse

appuntata la medaglia ricordo della battaglia di Waterloo, e precisava con

molta fierezza che quel bimbo era figlio del capitano Osborne del ...°

Reggimento, caduto gloriosamente nella gloriosa giornata del 18 giugno.

Talvolta si spingeva fino ad offrire a quei militari sconosciuti un bicchiere di

porto, e durante le prime di queste uscite domenicali si era messo a viziare

smodatamente il nipotino, rimpinzandolo di mele e biscotti allo zenzero a

scapito della sua salute; fino a quando Amelia dichiaro che Georgy non sarebbe

più uscito col nonno se questi non avesse promesso solennemente, e sul suo

onore, di non dare al bambino pasticcini, caramelle e qualsivoglia altro

dolciume in vendita sulle bancarelle.

Tra Mrs. Sedley e sua figlia era sorta una certa freddezza e una segreta

gelosia nei confronti del bimbo, dacché una sera, mentre Amelia lavorava nel

salottino (e sua madre ne era uscita senza che lei quasi se ne accorgesse)

aveva udito piangere Georgy. Accorsa nella stanza del piccolo vi aveva trovato

Mrs. Sedley intenta a somministrargli l'Elisir Daffy. Amelia, la creatura più

dolce e remissiva tra quante ne annoverano i mortali, nello scoprire

quell'intromissione che non teneva conto della sua autorità materna, fu scossa

da un brivido e tutte le sue membra furono percorse da un fremito di collera.

Le guance, sempre pallide, si fecero di porpora come quando aveva dodici

anni. Senza esitare tolse il bimbo dalle braccia della nonna, poi le strappò di

mano anche la bottiglia lasciando la vecchia signora furibonda e interdetta, con

il colpevole cucchiaino levato in aria.

Amelia scaraventò la bottiglia nel caminetto, ove si fracassò. Poi,

cullando violentemente il bimbo che stringeva con ambo le braccia, guardò la

madre con occhi fiammeggianti ed esclamò: «Non ti permetto di avvelenare

mio figlio, mamma!»

«Avvelenarlo, Amelia?» ribatté la vecchia signora. «Come ti permetti di

usare con me un simile linguaggio?»

«Non deve prendere nessuna medicina all'infuori di quella che Mr. Pestler

ha prescritto. Mn. Pestler dice che l'Elisir Daffy è un veleno.»

«Benissimo. Dunque, secondo te io sarei un'assassina,» replicò Mrs.

Sedley. «È con queste parole che ti rivolgi a tua madre. Ho avuto tante

disgrazie, sono precipitata agli infimi ranghi della scala sociale, una volta avevo

una carrozza a disposizione ed ora mi tocca andare a piedi; ma non sapevo

ancora di essere un'assassina e ti ringrazio di cuore per avermi dato questa

bella notizia».

«Mamma,» rispose la povera ragazza che stava per scoppiare in lacrime,

«non essere così dura con me. Io... io non volevo dire che tu volessi far del

male al bambino.., solo che...»

«Ma certo, tesoro mio.., hai detto semplicemente che sono un'assassina,

e in questo caso farei il mio dovere presentandomi all'Old Bailey. Però quando

eri una bambina, non ti ho avvelenato; anzi, ti ho dato la migliore educazione,

ho cercato gli insegnanti più costosi che fosse possibile procurarsi a suon di

denaro. Sì, è vero, ho avuto cinque figli e me ne sono morti tre; ma la mia

prediletta, quella che ho curato quando ha avuto la difterite, il morbillo, la

pertosse, quando metteva i denti, quella che ho fatto istruire dai migliori

maestri stranieri, quella che ho mandato alla Minerva House (a differenza di

quanto è stato fatto per me quando ero una ragazza, ma io ero ben lieta di

onorare mio padre e mia madre, onde vivere lungamente su questa terra, e

cercavo di rendermi utile invece di starmene rinchiusa in una stanza, inerte e

malinconica, a darmi arie da gran signora), quella stessa figlia ora mi dà

dell'assassina, Ah, Mrs. Osborne, io prego che tu non debba patire la stessa

mia sorte: quella di allevarti una serpe in seno.»

«Mamma, mamma!» gridò la giovane sconvolta. E il bimbo, tra le sue

braccia, diede inizio a una sequela di strilli disperati.

«Un'assassina, questo è ciò che hai detto. Inginocchiati e prega il Signore

di purificare il tuo cuore malvagio e ingrato, Amelia, e possa Egli perdonarti

come io ti perdono.» Dopo di che Mrs. Sedley uscì impettita dalla stanza

profferendo un'ultima volta la parola «veleno» e concludendo così quella sua

caritatevole benedizione.

Sino alla fine della sua vita la madre non volle o non seppe sanare questa

frattura con la figlia. La disputa recò numerosi vantaggi alla vecchia signora,

sfruttati con ingegnosità e pervicacia prettamente femminili. Tanto per

cominciare, per settimane intere dopo l'incidente a stento rivolse la parola ad

Amelia. Ammonì i familiari dal toccare il bimbo perché Mrs. Osborne se ne

sarebbe sicuramente offesa. Invitò sua figlia a verificare che non ci fosse del

veleno nelle pappe che giornalmente venivano preparate per Georgy. Se i vicini

le chiedevano come stesse il bimbo, rispondeva d'informarsi direttamente

presso Mrs. Osborne: lei non s'arrischiava mai a domandare se stesse bene o

no: lei non poteva toccare il piccino, sebbene fosse suo nipote e il suo

tesoruccio, perché lei di bambini non capiva nulla e avrebbe potuto nuocergli.

Ogni qual volta il dottor Pestler veniva a visitare il bimbo, lei lo accoglieva in

tono di tale spregio e sarcasmo, da indurlo a confessare che nemmeno Lady

Tistlewood, ch'egli aveva avuto l'onore di curare, si dava le arie della vecchia

Mrs. Sedley, con l'aggravante che quest'ultima non lo pagava mai. Da parte

sua, è molto probabile che anche Emmy fosse gelosa come del resto lo sono

tutte le madri - di chiunque potesse accostarsi al bimbo per aver cura di lui e

aspirare al primo posto nel suo affetto. Sta di fatto che, quando qualcuno al di

fuori di lei teneva Georgy fra le braccia, lei in certo qual modo ne soffriva. Non

permetteva né a Mrs. Clapp né alla domestica di accudire al piccolo e di

vestirlo, così come non permetteva a nessuno di spolverare la miniatura del

marito appesa sopra il suo piccolo letto: lo stesso lettino ch'ella aveva lasciato

per passare nel suo letto di sposa, e al quale ora era tornata per trascorrervi

anni di solitudine e di lacrime, e tuttavia di felicità.

In quella camera c'era tutto il cuore di Amelia, ed erano conservati tutti i

suoi tesori. Qui badava al bambino, qui lo aveva curato nel corso delle

molteplici malattie infantili, con costante, appassionato amore. Sotto un certo

profilo, col bimbo le era tornato George, persino migliore, quasi fosse stato un

dono del cielo. Nello sguardo, nei movimenti, in molti tratti della persona il

piccolo somigliava moltissimo al padre, e quando se lo stringeva al seno il

cuore della povera vedova era pervaso da un fremito di gioia. Spesso il

bambino le chiedeva perché mai piangesse, e Amelia, nel suo candore, gli

rispondeva ch'era a causa della sua somiglianza col papà. Spesso parlava al

piccino, a quella creatura così ingenua e ignara di tutto, del padre morto e di

quanto amore aveva nutrito per lui, molto più di quanto ne avesse parlato allo

stesso George o a qualcuna delle sue amiche d'infanzia. Coi genitori, al

contrario, rifuggiva da quest'argomento, rifiutandosi istintivamente di

abbandonarsi con loro a qualsiasi confidenza. È assai probabile che il piccolo

George non fosse in grado di capirla più di quanto l'avrebbero capita loro: e

nondimeno era a lui, alle sue orecchie e a quelle soltanto, ch'ella affidava i

segreti del suo cuore. Per lei persino la gioia era dolore, o per meglio dire, era

una gioia fatta di tenerezza, capace di esprimersi solo attraverso le lacrime. La

sua sensibilità era così debole, così fragile, che forse non si dovrebbe

nemmeno parlarne nelle pagine di un libro. Il dottor Pestler (oggi rinomato

ostetrico, con una carrozza verniciata di verde cupo, la prospettiva di esser

presto fregiato dell'onorificenza di cavaliere e una casa in Manchester Square)

ebbe a confidarmi che il dolore di Amelia fu tale, quando suo malgrado dovette

svezzare il bimbo, che avrebbe commosso perfino Erode. Occorre precisare che

parecchi anni addietro il dottor Pestler era un uomo di cuor tenero, e per molto

tempo sua moglie fu gelosa di Amelia.

Del resto, può darsi che la gelosia di Mrs. Pestler fosse a modo suo

motivata: quella gelosia era condivisa da parecchie donne della ristretta

cerchia di Amelia, esasperate per l'entusiastica simpatia che Amelia suscitava

in tutti gli esponenti del sesso maschile. Quasi tutti gli uomini che avevano

modo di avvicinarla si innamoravano di lei, anche se ne sono certo - non

avrebbero saputo spiegarne la ragione. Non aveva qualità brillanti, non era

particolarmente spiritosa e molto intelligente; né si può dire che fosse

veramente bella. Ma ovunque andasse commuoveva e affascinava gli uomini,

suscitando per contro sentimenti di ostilità e di sprezzo fra le donne. Forse la

sua attrattiva principale risiedeva in quella sorta di debolezza, di tenera

sottomissione, che sembrava sollecitare appoggio e comprensione nelle

persone del sesso opposto al suo. Abbiamo già visto come Amelia avesse

conosciuto ben pochi fra i commilitoni del marito; eppure tutte le sciabole dei

giovani ufficiali che sedevano alla mensa del reggimento sarebbero uscite

all'istante dai rispettivi foderi, se fosse stato necessario battersi per lei. Non

stupisce pertanto che anche nel cottage e nella esigua cerchia delle conoscenze

di Fulham lei suscitasse l'interesse e la simpatia generale. Nemmeno se fosse

stata Mrs. Mango in persona, della cospicua ditta Mango, Plantain & Co. di

Crutched Friars, la solenne proprietaria dei Pineries di Fulham che d'estate

dava cene alle quali erano invitati conti e duchi, e che si aggirava per il

quartiere con una carrozza dalle splendide livree gialle trainata da cavalli bai

quali non vantavano nemmeno le reali scuderie di Kensington, nemmeno -

ripeto - se fosse stata Lady Mango, oppure sua nuora, Lady Mary Mango, figlia

del conte di Castelmoudy che si era abbassata a sposare il titolare della

suddetta azienda, i negozianti e i vicini di casa si sarebbero mostrati più cortesi

e solerti di quanto lo fossero con quella giovane, graziosa vedova, quando

passava davanti alle loro porte, oppure entrava nelle loro botteghe per farvi i

modesti acquisti consentiti dalle sue disponibilità.

Dunque non era solo il dottor Pestler, che dirigeva l'ambulatorio medico,

ma anche il giovane assistente dottor Linton, il quale curava le fantesche e i

piccoli negozianti, e passava le giornate in ambulatorio leggendo il «Times», ad

esternare senza reticenze la propria devozione a Mrs. Osborne. Linton era un

giovanotto gradevole, e la sua presenza in casa Sedley era più accetta di

quanto non lo fosse quella del suo superiore. E quando Georgy non stava bene,

era pronto ad accorrere anche tre o quattro volte al giorno senza nemmeno

curarsi di mandare la parcella. Prelevava di nascosto dai cassetti

dell'ambulatorio pastigliette, polpa di tamarindo e altre cose buone per portarle

al piccolo Georgy, e gli preparava medicine e misture così dolci e di grato

sapore, che per il piccino ammalarsi diventava quasi piacevole. Lui e il suo

capo dottor Pestler vegliarono due notti intere il bimbo nel corso di quella

funesta, drammatica settimana in cui fu ammalato di morbillo (a giudicare dal

terrore della madre si sarebbe detto che mai, prima di allora, qualcuno al

mondo fosse stato malato di morbillo). Avrebbero agito così anche per gli altri?

Si comportarono allo stesso modo per quelli dei Pineries, quando Ralph

Plantagenet, Gwendoline e Guiniver Mango si ammalarono dello stesso morbo?

Vegliarono al capezzale della piccola Mary Clapp, la figlia del padrone di casa,

che dopo tutto era stata contagiata proprio da Georgy? Onestà esige che si

dica di no. Non lo fecero. Rimasero tranquillamente a dormire; o, se non

dormirono, non fu per causa sua: dissero che si trattava di una forma blanda

che sarebbe guarita senza bisogno di cure, o quasi. Le mandarono qualche

pozione e aggiunsero un poco di chinino a conclusione del decorso della

malattia, ma senza nascondere la più assoluta indifferenza e solo per salvare la

forma.

C'era poi il piccolo cavaliere francese che abitava nella casa di fronte e

insegnava la sua lingua natia in varie scuole del quartiere. La sera suonava

minuetti e gavotte grattando un violino malandato. Ogni volta il garbato e

incipriato vecchierello (che presenziava immancabilmente al servizio religioso

in Hammersmith e la pensava in modo del tutto diverso dai barbuti, grossolani

suoi connazionali che ancor oggi lanciano anatemi contro la perfida Albione

scrutandovi dietro il fumo dei loro sigari nella Quadrant Arcade); ogni qual

volta - dicevo - il vecchio chevalier du Talonrouge parlava di Mrs. Osborne,

dapprima terminava di aspirare la sua presa di tabacco, gettava i frustoli

residui con un vezzoso gesto della mano, poi riuniva le dita e portandole alle

labbra le apriva in un gesto che designava un bacio, un bacio destinato a lei.

« Ah, la divine créature! » esclamava. Giurava e spergiurava che quando Amelia

percorreva le vie di Brompton i fiori spuntavano sotto i suoi passi. Chiamava

«Cupido» il piccolo Georgy e gli chiedeva notizie di «Venus», la sua mamma,

mentre a Betty Flanagan, intontita e stupefatta, diceva che era una delle

Grazie, la compagna prediletta della Reine des Amours.

Si potrebbero recare altre prove di questa generale simpatia che Amelia

si era conquistata rapidamente e senza sforzo alcuno. Forse che Mr. Binny, il

curato della piccola chiesa che i Sedley erano soliti frequentare, non si recava

spesso in visita alla giovane vedova? Forse che non si compiaceva di far saltare

Georgy sulle sue ginocchia proponendo di insegnargli il latino, con gran rabbia

di sua sorella, una matura vergine che badava alle faccende domestiche? «Ma

non ti accorgi che è insignificante, Beilby?» gli diceva costei. «Quando viene a

prendere il tè non apre bocca per tutta la sera. È una creatura scipita, e sono

convinto che è anche senza cuore. Voi uomini vi lasciate incantare da lei solo

per quella sua faccetta graziosa. Secondo me Miss Grits (che possiede un

capitale di cinquemila sterline e ne erediterà ancora un bel po') ha una

personalità molto più spiccata, e a mio gusto è decisamente più gradevole.

Sono sicurissima che, se fosse bella, voi uomini non le trovereste il minimo

difetto.»

Indubbiamente Miss Binny non aveva tutti i torti. Un bel faccino suscita

simpatia nel cuore degli uomini, questi eterni malandrini. Una donna potrebbe

essere la castità in persona, avere la saggezza di Minerva; ma se è brutta non

la degniamo di uno sguardo. Quale follia non farebbero perdonare due occhi

stellati? Quali sciocchezze non renderebbero accettabili due labbra rosee e una

voce vellutata? È così che le signore, con quel senso della giustizia che è loro

congeniale, asseriscono che, se una donna è bella, ha il dovere di essere

stupida. Ahi, ahi! Quante fra voi signore non sono né belle né intelligenti!

Il nostro cortese lettore avrà ormai compreso perfettamente che la vita

della nostra eroina non comporta nessun avvenimento di rilievo, e se qualcuno

avesse voluto annotare i casi della sua vita nei sette anni successivi alla

nascita del figlio, non avrebbe registrato alcun evento più significativo del

morbillo di cui abbiamo parlato poco fa. Sì, è pur vero che un giorno, con

grande stupore di Amelia, Mr. Binny facendosi rosso come un papavero, le

propose di mutare il cognome di Osborne col suo. Al che la giovane donna,

facendosi a sua volta tutta rossa, e con le lacrime negli occhi e nella voce, gli

espresse la sua profonda gratitudine per i sentimenti ch'egli nutriva per lei e il

suo piccino, gli esternò del pari la sua riconoscenza per le attenzioni di cui la

faceva oggetto, ma aggiunse che mai, mai avrebbe potuto dedicare i suoi

pensieri a un uomo che non fosse il suo defunto consorte.

Il 25 aprile e il 18 giugno, anniversari rispettivamente del suo

matrimonio e della sua vedovanza, li dedicava interamente al ricordo del suo

compagno perduto. Per tutto il giorno restava chiusa nella sua stanza

pensando al marito scomparso: cosa che d'altronde faceva ogni notte per ore

ed ore, mentre il bimbo dormiva accanto a lei nel suo lettino. Di giorno peraltro

era più attiva: doveva insegnare a Georgy a leggere, a scrivere, ed anche un

poco di disegno. Leggeva dei libri per poterne ricavare delle favole che poi

raccontava a suo figlio. Più tardi, quando gli occhi del bimbo si aprirono e la

sua mente si fece più vivace a contatto del mondo circostante, cominciò a

parlargli, come meglio le riusciva, del Creatore del Mondo. Ogni sera ed ogni

mattina (in quell'inquietante e commovente comunione che non può non

suscitare un fremito di tenerezza in chi è stato testimone della scena e tuttora

la ricorda) madre e figlio recitavano insieme il Padre Nostro: la madre

mettendo tutto il suo cuore nella preghiera e il piccolo ripetendo

meccanicamente ogni sua parola. Ogni volta pregavano Dio di concedere la

Sua benedizione al caro papà, come se fosse stato vivo e presente in quella

stanza.

Trascorreva ore e ore della giornata a lavare e a vestire il bambino. La

mattina, prima di colazione, lo portava brevemente a passeggio; poi, quando

suo padre rientrava dal giro di «affari», con mani straordinariamente abili, la

parsimoniosa vedova tagliava e cuciva per Georgy un'infinità di bellissimi

vestitini, ricavandoli dagli indumenti che avevano costituito il suo corredo da

sposa. Quanto a lei, indossava sempre e soltanto un abito nero e una cuffietta

di paglia con un nastro nero: cosa che incontrava l'irritata disapprovazione di

sua madre la quale, soprattutto dopo il tracollo finanziario, mostrava di

apprezzare più che mai l'eleganza e la raffinatezza. Il tempo che le rimaneva,

Amelia lo dedicava ai genitori. Si era ingegnata a imparare il cribbage, e nelle

sere in cui egli non si recava al circolo, s'intratteneva a giocare col padre.

Inoltre di tanto in tanto gli cantava qualche canzone, quando ne aveva voglia,

e il risultato era che suo padre si addormentava regolarmente. Si scriveva per

lui un numero incredibile di memorandum, lettere, programmi, prospetti

pubblicitari. Erano cartoncini coi quali ella informava di suo pugno gli ex amici

e conoscenti di Mr. Sedley di come quest'ultimo fosse diventato l'agente

esclusivo della Blach Diamond and Anti-Cinder Coal Company, e avrebbe

pertanto potuto fornire ai suddetti amici il carbone più selezionato al prezzo di

tot sterline il quintale. Quanto al padre, tutto quel che faceva era di apporre un

ghirigoro a mo' di firma e di aggiungere l'indirizzo vergandolo con la sua

malcerta scrittura da vecchio impiegato. Uno di questi cartoncini venne

inoltrato anche al maggior Dobbin del ...° Reggimento, presso la Banca Cox &

Greenwood; ma siccome in quel momento il maggiore si trovava a Madras, è

lecito arguire che non aveva alcun bisogno di carbone. Ciò non gli impedì di

riconoscere la mano che aveva compilato quella circolare. Ah, cosa avrebbe

dato per poterla stringere fra le sue! In seguito giunse un altro cartoncino col

quale il maggiore veniva informato che la Ditta J. Sedley & Co., avendo aperto

succursali a Oporto, a Bordeaux e a St. Mary, era in grado di fornire agli amici

e al pubblico in genere i porto, xeres e bordeaux delle marche più pregiate a

prezzo di assoluta convenienza e con svariatissimi vantaggi. Nell'apprendere

ciò, il maggiore Dobbin riuscì a convincere ad acquistare i suddetti vini, il

governatore, il comandante della piazza, i giudici, i reggimenti e chiunque altro

conoscesse nel presidio di Madras; e inviò alla ditta Sedley & Co.

un'ordinazione che lasciò letteralmente di stucco Mr. Sedley e Mr. Clapp, il

quale, in questa ditta, fungeva da «Co.». Ma dopo quell'avvio incoraggiante, in

seguito al quale Mr. Sedley era stato tentato di insediare una ditta nella City

con uno stuolo di dipendenti, uno scalo merci apposito e rappresentanti sparsi

in tutto il globo, ordinazioni non ce ne furono più. Il vecchio signore, che era

stato un ottimo intenditore di vini, ora aveva cessato di esserlo; e sul capo

dello sventurato Dobbin piovvero le maledizioni di tutti i reggimenti di Madras a

causa dell'ignobile beverone che per colpa sua veniva servito alle mense. Anzi,

si vide costretto a ricomperare di tasca propria gran parte di quei vini, che poi

rivendette all'asta con grave scapito delle sue finanze. Da parte sua Jos, che

ormai godeva di un posto di prestigio alla ricevitoria di Calcutta, divenne verde

di bile quando la posta gli recò un fascio di circolari che esaltavano quelle

enologiche virtù, accompagnato da un biglietto nel quale il padre gli diceva

che, riponendo fiducia nel suo appoggio, aveva spedito a suo nome un certo

quantitativo di quella merce, come da acclusa fattura, e aveva spiccato una

tratta su di lui corrispondente all'ammontare della medesima. Jos, che avrebbe

preferito rivelarsi per il figlio del boia - lui, Jos Sedley dell'Ufficio delle Imposte

- anziché di un mercante di vino in cerca di clientela, respinse la tratta senza

misericordia alcuna e rispose al vecchio padre una lettera carica di improperi,

invitandolo a non ficcare il naso nelle sue faccende. E poiché la tratta

protestata tornò indietro, Sedley & Co. furono costretti a pagarla utilizzando

all'uopo i guadagni ricavati dal lucroso affare di Madras, aggiungendovi altresì

qualcosa sottratto ai piccoli risparmi di Amelia.

Stando a quanto aveva riferito l'esecutore testamentario, alla morte di

suo marito Emmy, oltre alla pensione annua di cinquanta sterline, si trovava a

disporre della somma di cinquecento sterline che Dobbin, nella sua qualità di

curatore degli affari di George, aveva pensato di investire all'8 per cento in

un'impresa indiana. Il vecchio Sedley, convinto che il maggiore nutrisse

disonesti propositi nei confronti di detta somma, era manifestamente ostile a

quel programma, e si recò anzi alla banca per protestare di persona contro un

siffatto impiego delle cinquecento sterline. Ma quivi rimase stupefatto

nell'apprendere che il defunto capitano non aveva mai depositato quel denaro,

che il suo attivo non superava le cento sterline e che pertanto le cinquecento in

parola dovevano riferirsi ad un altro deposito bancario, di cui evidentemente

solo il maggiore Dobbin era informato. Mr. Sedley, più che mai convinto che

quella faccenda doveva nascondere qualcosa di losco, affrontò il maggiore.

Nella sua qualità di parente più prossimo della figlia gli chiese di poter

controllare i conti del capitano. Il maggiore arrossì, farfugliò, si mostrò incerto:

il che valse a convincere sempre più il vecchio Sedley di avere a che fare con

un poco di buono. Pertanto, in tono chiaro e solenne disse al maggiore cosa

pensava di lui: gli disse, in altre parole, che secondo lui il maggiore aveva

artatamente trattenuto parte del lascito finanziario del defunto genero.

Dobbin perse le staffe, e se il suo accusatore fosse stato meno vecchio e

meno disgraziato, da Slaughter, nel séparé in cui i due uomini stavano

confabulando, sicuramente sarebbe scoppiato un litigio. «Venite da sopra,»

disse il maggiore. «Così avrò agio di mostrarvi chi è il colpevole: se io o il

povero George.» Pertanto trascinò in camera il vecchio, prese dalla scrivania i

conti di Osborne con un fascio di «pagherò» firmati da George, il quale, per

dire la verità, non esitava mai a firmarne. «È riuscito a pagare le cambiali in

Inghilterra, ma al momento della morte in tutto e per tutto possedeva sì e no

cento sterline. Con altri colleghi ho fatto una colletta e siamo riusciti a

raccogliere questa piccola somma. È il massimo che potessimo fare, e voi osate

insinuare che stiamo truffando una vedova e un orfanello!» Sedley era confuso

e mortificato, anche se in verità William Dobbin gli aveva raccontato una

fandonia: era stato lui, lui solo, a offrire quel denaro sino all'ultimo scellino,

così come aveva provveduto a far seppellire l'amico, a pagare i conti e a

provvedere a tutte le spese cui si era dovuto far fronte dopo la sventura, ivi

incluse quelle per il dentro di Amelia in patria.

A tali spese nessuno si era mai dato la pena di pensare: non il vecchio

Osborne, e nemmeno Amelia o alcuno fra i suoi parenti. Mrs. Osborne si

affidava a Dobbin come avrebbe fatto con un contabile, riceveva i suoi conti

piuttosto confusi senza discuterli, e non le venne mai fatto di pensare di

essergli debitrice per una forte somma.

Due o tre volte l'anno, come aveva promesso, gli spediva a Madras

lettere nelle quali parlava esclusivamente del piccolo Georgy. Tuttavia quelle

missive erano tesori, per Dobbin. Le rispondeva subito, ma non scriveva mai

per primo, anche se spesso spediva piccoli regali affinché Amelia e il figlioccio

non si scordassero di lui. Le inviò una scatola di fazzoletti da collo e dei

magnifici scacchi d'avorio, lavoro d'artigianato cinese. I fanti erano omini

bianchi e verdi con sciabole e scudi veri; gli alfieri erano a cavallo e le torri

issate sulla groppa di elefanti. Il gioco di scacchi che i Mango avevano ai

Pineries non ci stava affatto a paragone, commentò il dottor Pestler. Quel gioco

mandava in visibilio Georgy, il quale, per ringraziare il suo padrino, scrisse la

prima lettera della sua vita. Un'altra volta Dobbin spedì gelatine e sottaceti,

che il nostro ometto andò a trafugare di nascosto nella credenza: li assaggiò e

gli parve di bruciare, al che si convinse che quella doveva essere la punizione

spettantegli per quella piccola birichinata. Emmy scrisse al maggiore un buffo

resoconto di questo misfatto, ed egli fu felice di constatare che era più serena,

che qualche volta le riusciva persino di rimediare un po' di buonumore. Una

volta mandò due scialli - uno bianco per Amelia e uno nero decorato a foglie di

palme per sua madre, mentre a Mr. Sedley e a Georgy mandò due sciarpe

rosse per l'inverno. Quegli scialli valevano almeno cinquanta ghinee ciascuno:

cosa che Mrs. Sedley indovinò a colpo d'occhio, tanto che inaugurò il suo per

recarsi in gran pompa alla chiesa di Brompton, ove le sue amiche si felicitarono

con lei lodando quel sontuoso indumento. Anche lo scialle di Emmy stava molto

bene sul suo semplice abito nero. «È un peccato che non voglia saperne di

lui!» diceva Mrs. Sedley a Mrs. Clapp e alle sue amiche di Brompton. «Jos non

ci ha mai mandato niente di simile e ci rinfaccia tutto quanto ci dà. Non c'è

dubbio: il maggiore è innamorato pazzo di lei, ma basta la minima allusione

alla sua persona perché Amelia si faccia rossa, scoppi in lacrime e si precipiti in

camera sua a contemplare la sua miniatura. Non posso più sopportarla, quella

miniatura. Ah, se non li avessimo mai conosciuti quegli odiosi Osborne, gente

che pensa soltanto al proprio denaro e non concepisce altro!»

In quell'ambiente modesto e tra quelle persone trascorse l'infanzia del

piccolo Georgy. Il ragazzo crebbe delicato, sensibile, autoritario, come avviene

di chi viene educato fra donne e da donne, e assai prepotente nei confronti

della sua buona e dolce mamma alla quale peraltro era legato dal più

struggente affetto. Esercitava il suo imperio sulla piccola cerchia che lo

circondava. A mano a mano che cresceva gli adulti apparivano stupefatti di

fronte alla sua alterigia e alla sua somiglianza col padre. Faceva domande su

ogni genere di cose, come fanno tutti i ragazzi intelligenti, e l'acume delle sue

domande, la sottigliezza delle sue osservazioni meravigliava il vecchio nonno, il

quale raccontava senza posa le prodezze del nipote agli avventori della

taverna, suscitando in loro una legittima reazione di noia e di insofferenza.

Quanto alla nonna, il nipote aveva nei suoi confronti un atteggiamento di

bonaria tolleranza. I suoi familiari erano convinti che al mondo non esistesse

un ragazzo capace di reggere il confronto con un genio simile. E Georgy, che

aveva ereditato l'orgoglio del padre, pensava molto probabilmente che

avessero ragione.

Quando ebbe sei anni, Dobbin prese a scrivergli più spesso. Voleva

sapere se andava a scuola e si augurava che vi avrebbe brillato. O forse aveva

un istitutore? Era tempo che cominciasse a studiare, e il padrino e curatore

fece capire che sperava gli avrebbero permesso di assumersi le spese

dell'istruzione, che sarebbero state troppo gravose per il modestissimo reddito

di Mrs. Osborne. Il maggiore volgeva ogni suo pensiero ad Amelia e al suo

bambino. Aveva disposto affinché il suo agente non facesse mai mancare al

bimbo libri illustrati, scatole di colori, banchi, tutto ciò che poteva servire a

istruirlo e a divertirlo.

Tre giorni prima del sesto compleanno di Georgy, giunse su un piccolo

calesse un signore accompagnato da un aiutante; il quale chiese di Master

Georgy Osborne. Era Mr. Wosley, un sarto militare che aveva il proprio

laboratorio in Conduit Street e aveva ricevuto ordini dal maggiore di venire a

prendere le misure al ragazzino per fargli un vestito. In passato aveva avuto

l'onore di servire anche il capitano, il papà del signorino. A volte, e senza

dubbio in omaggio a un desiderio espresso dal maggiore, le sue sorelle, le

signorine Dobbin, venivano a prendere Amelia e il bimbo per condurli di buon

grado a fare una passeggiata. La cortesia compassata, di pura prammatica,

che caratterizzava le due degne signore metteva sempre a disagio Amelia; ma

ella sopportava anche la loro compagnia, giacché la sottomissione era un

aspetto del suo carattere, e d'altra parte Georgy era felice di andare a spasso

in quella bellissima carrozza.

Qualche volta le signore Dobbin invitavano il piccolo Georgy a passare

una giornata da loro, e lui era sempre contentissimo di andare in quella bella

casa di Denmark Hill, circondata da un giardino, dove le signore abitavano, e

dove c'era una spalliera di pesche e una serra nella quale maturava un'uva

squisita.

Una volta furono così gentili da venire espressamente da Amelia per

recarle una notizia che erano certe le avrebbe fatto immenso piacere, una

notizia proprio interessante sul loro caro William.

«Che cosa succede? Forse sta per tornare?» chiese Emmy con occhi

scintillanti di piacere.

Oh no, nemmeno per idea! Ma avevano valido motivo per credere che il

caro William stesse per sposarsi, e la candidata sposa era una stretta parente

di una cara amica di Amelia; miss Glorvina O'Dowd, la sorella di Sir Michael

O'Dowd che si era recata a Madras da Lady O'Dowd, sua cognata. Una

bellissima ragazza, e piena di qualità, a quanto tutti asserivano.

«Oh!» esclamò Amelia. E aggiunse che sì, era davvero molto lieta. Però

Glorvina non poteva assomigliare alla sua buona amica, che era tanto gentile,

ma in quanto al resto... Insomma, Amelia era veramente lieta. Poi,

rispondendo a un impulso di cui non potrei spiegare la motivazione, prese

Georgy tra le braccia e lo baciò in un impeto di straordinaria tenerezza.

Quando tornò a posare il bimbo a terra aveva gli occhi umidi, e nonostante la

sua «felicità» per tutto il resto della passeggiata non disse più una sola parola.

XXXIX • UN CAPITOLO CINICO

Il nostro dovere ci riporta adesso un poco indietro, presso certe nostre

vecchie conoscenze dello Hampshire, le cui speranze di assicurarsi l'eredità.

della loro ricca parente erano andate così penosamente deluse. Dopo aver fatto

assegnamento sulle trentamila sterline appartenenti al patrimonio della sorella,

era stato un duro colpo per Bute Crawley doversi accontentare di cinquemila,

delle quali, quand'ebbe pagato i debiti suoi e quelli contratti dal figlio

all'università, era rimasto ben poco da spartire fra le sue quattro figlie smunte

e insignificanti. Mrs. Bute Crawley non seppe mai, o per lo meno non si rese

mai pienamente conto, fino a qual punto il suo tirannico comportamento

avesse nuociuto alle finanze del marito. Anzi, giurava e spergiurava di aver

fatto tutto quanto una donna potesse fare. Era forse colpa sua se non

possedeva le subdole arti delle quali quell'ipocrita di suo nipote Pitt Crawley

sapeva fare ampio uso? Gli augurava tutta la felicità che poteva procacciarsi

con una ricchezza assicuratasi in modo tanto disdicevole. «Se non altro il

denaro resterà in famiglia,» aggiungeva con una sorta di bonaria

condiscendenza. «Pitt non lo spenderà mai, mio caro, questo è poco ma sicuro;

perché in tutta quanta l'Inghilterra non esiste un uomo più avaro di lui. A parte

il fatto che è un essere detestabile, né più - né meno anche se per motivi

diversi - come quello scialacquatore di suo fratello, quel poco di buono di

Rawdon.»

Così Mrs. Bute Crawley, superato lo shock iniziale della rabbia e della

delusione, cercò di riprendersi adattandosi come meglio poteva alla sorte

avversa e si diede d'impegno a salvare il salvabile. Insegnò alle figlie che

occorreva accettare la povertà con tutta la serenità possibile e s'ingegnò a

inventare mille espedienti per evitarne le conseguenze e per nasconderla. Le

condusse ai balli e a tutti i ricevimenti che si davano nei dintorni dando prova

di un'energia degna di encomio. Non solo: cominciò a ricevere al presbiterio

con una frequenza e una larghezza assai maggiori di prima, quando l'eredità di

Miss Crawley era ancora in forse. Nessun estraneo, stando al suo

atteggiamento, avrebbe potuto dedurre che le loro attese erano andate a

vuoto, o avrebbe potuto concludere - data la frequenza delle sue apparizioni in

pubblico - che vivevano in un regime di stretta economia. Le figlie indossavano

abiti quali mai avevano avuto prima di allora. Non mancavano uno solo dei

ricevimenti che venivano dati a Winchester o a Southampton; raggiungevano

Cowes per presenziare alle feste o i balli organizzati in occasione di corse o di

regate; la loro carrozza, trainata da cavalli che poco prima erano stati staccati

dall'aratro, era sempre in movimento, cosicché cominciò a correr la voce che le

quattro ragazze avessero ereditato una fortuna dalla zia, il cui nome veniva

sempre menzionato in pubblico con espressioni di gratitudine e di tenero

affetto. Alla Fiera della Vanità, nessuna menzogna viene pronunciata con

frequenza maggiore di questa; e si potrebbe osservare come chi indulga a

questo genere di mendacio sia quasi indotto a vantarsi della propria ipocrisia,

ed è convinto d'esser degno di lode e altamente virtuoso, perché in tal modo

riesce a trarre in inganno il prossimo circa l'entità dei suoi mezzi finanziari.

Mrs. Bute Crawley era senza dubbio convinta di essere una delle donne

più virtuose d'Inghilterra, e lo spettacolo sereno offerto dalla sua famiglia

sembrava fatto apposta per suscitare l'edificata compiacenza degli estranei.

Erano tutti così allegri, così amabili, così semplici, così beneducati! Martha

sapeva dipingere fiori in modo veramente delizioso, e ne faceva dono alle

lotterie di beneficenza di tutto il circondano. Emma era l'eletta verseggiatrice

della contea, e sullo «Hampshire Telegraph» i suoi versi costituivano la crème

del «Cantuccio del Poeta». Fanny e Matilda, da parte loro, cantavano duetti

mentre la madre suonava il pianoforte e le altre due sorelle ascoltavano

ammirate, tenendosi allacciate per la vita. Nessuno peraltro sapeva quante

volte le due infelici avessero dovuto ripetere quel duetto, nessuno sapeva con

quanta severità la madre le obbligasse a esercitarsi per ore ed ore! In poche

parole, Mrs. Bute Crawley faceva buon viso a cattivo gioco, e salvava le

apparenze nel più encomiabile dei modi.

Tutto ciò che una madre buona e virtuosa può fare, Mrs. Bute Crawley lo

faceva. Invitava da Southampton giovani appassionati di canottaggio,

ecclesiastici addetti alla curia della Cattedrale di Winchester, ufficiali di stanza

presso le caserme locali. Tentò di irretire alcuni giovani avvocati che

patrocinavano presso la corte d'assise e esortò Jim a portare a casa i suoi

compagni di caccia. Che cosa non farebbe una madre per il bene dei suoi figli

adorati?

È chiaro che non poteva sussistere la minima affinità tra una donna del

genere e suo cognato, l'odioso baronetto che viveva al Castello. Tra Bute e suo

fratello, sir Pitt, la rottura era completa, anche se, per esser più esatti, la

rottura era completa tra Sir Pitt e tutta la contea, agli occhi della quale il

vecchio era una persona a dir poco riprovevole. Con gli anni la sua avversione

per l'alta società non aveva fatto che accentuarsi, e dal giorno in cui Pitt e Lady

Jane si erano recati da lui in visita di prammatica dopo il matrimonio, il grande

cancello che dava accesso al parco non si era più aperto per lasciar passare

una carrozza d'alto bordo.

Era stata una visita terribile e infausta, alla quale la famiglia avrebbe

sempre ripensato con un sentimento di orrore. Pitt con aria allucinata aveva

pregato la moglie di non parlarne mai più. Solo attraverso Mrs. Bute Crawley,

la quale, nonostante tutto, riusciva sempre a sapere quel che avveniva al

castello, fu possibile apprendere in tutti i particolari quale accoglienza Sir Pitt

avesse riservato al figlio e alla nuora.

Mentre la loro lussuosa ed elegante carrozza percorreva il viale del Parco,

Pitt con rabbia e sgomento notò i grandi vuoti che si aprivano tra gli alberi: i

suoi alberi. Il vecchio baronetto li stava abbattendo senza aver previamente

chiesto il suo consenso. Il parco appariva trascurato, quasi in sfacelo. I viali

erano mal tenuti, onde la lucente carrozza si schizzava tutta di fango

affondando nelle pozzanghere. Il piazzale di fronte alla terrazza e alla scalinata

d'ingresso era ricoperto di muschio; le aiuole, un tempo tenute in perfetto

ordine e piene di fiori, erano invase dalle erbacce. Le finestre, lungo quasi tutta

la facciata del palazzo, erano chiuse dalle imposte, la porta d'ingresso venne

aperta solo dopo che il campanello era stato suonato con insistenza. Si vide

allora una figura tutta nastri e fiocchi salire di corsa la scala di scuro legno di

quercia, mentre finalmente il vecchio Horrocks faceva entrare nella casa avita

l'erede di Queen's Crawley e la sua consorte. Mentre si avviavano, preceduti

dal maggiordomo, verso la cosiddetta «biblioteca» di Sir Pitt, le loro narici

percepirono un odore di tabacco sempre più acuto. «Sir Pitt sta poco bene,»

disse Horrocks, e spiegò che il suo padrone era afflitto da una lombaggine.

La biblioteca dava sul piazzale antistante il viale d'ingresso. Sir Pitt aveva

aperto una delle finestre e da lì prese a urlare qualcosa al cocchiere e al

domestico personale di Pitt che sembrava accingersi a scaricare il bagaglio

dalla carrozza.

«Tucker, pezzo di imbecille, non scaricare quei bauli!» gridò agitando la

pipa che aveva in mano. I signori ripartono prima di pranzo. Dio, che zampe

malandate ha quel cavallo. Possibile che al King's Head non ci sia qualcuno in

grado di frizionarle un po'? Come va, Pitt? Come stai, mio caro? E tu sei venuta

a trovare il vecchio, a quanto pare. Hai un bel faccino, niente da dire: non

assomigli affatto a quella vecchia cavalla di tua madre! Da brava, vieni a dare

un bacio al vecchio Pitt!»

L'abbraccio riuscì alquanto sgradevole alla nuora, perché il vecchio

puzzava orrendamente di tabacco e aveva la barba lunga. Ma ella nondimeno

ricordò che anche suo fratello Southdown fumava sigari e aveva i baffi, onde si

assoggettò a quell'effusione con una certa buona grazia.

«Pitt è ingrassato,» disse il baronetto, dopo questa manifestazione

d'affetto. «Legge anche a te quei sermoni interminabili? Il Centesimo Salmo e

gli Inni della Sera, eh, Pitt? Va' a prendere un dolce e un bicchiere di malvasia,

vecchia scimmia: non startene lì imbambolato come un porcello che ingrassa.

Mia cara, non t'invito a restare perché ti annoieresti. E del resto mi annoierei

anch'io, e anche Pitt. Ormai sono vecchio e ho le mie abitudini: la sera mi

piace fumar la pipa e farmi una partita a backgammon. »

«Io so giocare a backgammon, signore,» rispose Lady Jane ridendo.

«Giocavo sempre con mio padre, e anche con Miss Crawley. Non è vero, Pitt?»

«Sì, Lady Jane conosce il gioco per il quale voi assente di avere una così

viva predilezione,» confermò Pitt con alterigia.

«Ma non è una buona ragione perché si trattenga qui. No, no,

tornatevene a Mudbury e accordate a Mrs. Rincer il piacere e l'onore della

vostra presenza. Oppure spingetevi fino al presbiterio e fatevi invitare a pranzo

da Bute. Sarà contentissimo di vederti, sai? Sapessi quanto ti è grato per

esserti preso i quattrini della vecchia! Ah! Ah! Comunque, quando me ne sarò

andato, una parte di quei soldi serviranno a rimettere in sesto il castello.»

«Ho notato, signore,» disse Pitt alzando il tono della voce, «che i vostri

contadini tagliano gli alberi.»

«Già, già, effettivamente il tempo è bello e la temperatura è mite, tenuto

conto della stagione,» rispose Sir Pitt, come se all'improvviso fosse diventato

sordo. «Ma io sto invecchiando, caro Pitt. Eh, proprio così. Del resto anche tu,

che Dio ti benedica, non sei lontano dai cinquanta. Però li porta bene, non vi

pare, Lady Jane? E tutto questo grazie al timor di Dio, a una vita intemerata,

morigerata! E di me cosa dite? Mi avvicino agli ottanta, sapete? Eh, eh!»

Scoppiò a ridere, annusò una presa di tabacco e guardando furbescamente la

nuora le diede un pizzicotto sulla mano.

Pitt cercò di riportare la conversazione sugli alberi abbattuti, ma il

baronetto ritrovò immediatamente la sua simulata sordità. «Sto diventando

proprio vecchio, e quest'inverno la lombaggine mi ha dato del filo da torcere.

Ormai mi resta ben poco da vivere. Sono contento che tu sia venuta, nuora. Mi

piace la tua faccia, Lady Jane, non ha niente di quella maledetta boria dei

Binkie. Voglio darti qualcosa di grazioso da portare quando andrai a Corte, mia

cara». Ciabattando si avvicinò a uno stipo e ne trasse un vecchio cofanetto

contenente gioielli di un certo pregio. «Eccoti,» disse, «prendile. Erano di mia

madre, poi sono passate alla prima Lady Crawley. Alla seconda, no: alla figlia

di quel negoziante di ferramenta non ho mai voluto darle. Sono belle, queste

perle. No, no, prendile e portale via, sbrigati!» aggiunse, mettendo a viva forza

l'astuccio nelle mani della nuora e al tempo stesso richiudendo lo sportello

dello stipo, mentre Horrocks entrava con un vassoio di rinfreschi.

«Cosa diavolo avete dato alla moglie di Pitt?» chiese la figura tutta nastri

e fiocchi, quando Pitt e Lady Jane si furono accomiatati dal vecchio signore. Era

Miss Horrocks, la figlia del maggiordomo, motivo di scandalo in tutta la contea:

colei che regnava ormai incontrastata a Queen 's Crawley.

L'ascesa e il cammino percorso dalla titolare di tutti quei nastri e fiocchi

erano stati osservati con sgomento dai familiari e da tutta la contea. La titolare

di Nastri e Fiocchi (chiamiamola così) aveva aperto un conto corrente alla

succursale di Mudbury della Savings Bank. Andavano in chiesa sul calesse

trainato dal pony che una volta serviva per tutta la servitù del castello. Il

personale veniva licenziato a sua discrezione e volontà. Il giardiniere scozzese

che era rimasto al castello, fiero delle spalliere d'alberi da frutta e delle serre -

e in effetti campava decentemente vendendo a Southampton gli erbaggi

dall'orto da lui coltivato - una mattina trovò Nastri-e-Fiocchi che mangiava le

pesche della spalliera esposta a sud, e fece le sue rimostranze per

quell'attentato alla sua proprietà. Mal gliene incolse, pover'uomo, giacché lui,

la sua moglie scozzese e i suoi bambini scozzesi (le uniche persone rispettabili

rimaste a Queen's Crawley) furono costretti a migrare con i loro beni e le loro

masserizie, mentre il bellissimo giardino andò in malora e nelle aiuole fonte

dilagarono le male erbe. I roseti della defunta Lady Crawley divennero una

melanconica boscaglia. In tutto e per tutto, due o tre domestici soltanto

rimasero a tremare di freddo nelle squallide camere della servitù. Le scuderie e

le altre costruzioni annesse al palazzo erano vuote, chiuse, in stato di

progressivo abbandono. Sir Pitt viveva in totale solitudine e ogni sera si

ubriacava insieme con il maggiordomo Horrocks; anzi, col «maestro di casa»,

come adesso cominciava ad esser chiamato da tutti, e con quella sfrontata

Nastri-e-Fiocchi. Erano lontani i tempi in cui la ragazza andava a Mudbury sul

carro della fattoria, e interpellava con la qualifica di signore anche il più umile

di tutti i bottegai. Ormai, fosse per antipatia verso il prossimo, fosse perché

provava vergogna, era ben raro che il vecchio cinico di Queen 's Crawley

varcasse il cancello del parco. Aveva litigato con gli amministratori e affliggeva

i fittavoli con una gragnola di lettere cariche di minacce. Passava la sua

giornata sbrigando di persona la sua corrispondenza. Gli avvocati o gli ufficiali

giudiziari che dovevano abboccarsi con lui erano ammessi alla sua presenza

solo col beneplacito di Nastri-e-Fiocchi. Costei li riceveva davanti alla porta

della camera della governante, che si apriva di fronte all'ingresso posteriore,

attraverso il quale i suddetti venivano ammessi all'interno del palazzo. Ed è

così che, giorno per giorno, crescevano i problemi e le preoccupazioni del

baronetto.

Non è difficile immaginare l'orrore di Pitt Crawley, quando questo

gentiluomo di una correttezza senza pari venne informato dello stadio

d'incitrullimento cui era giunto il vecchio padre. Tremava al solo pensiero di

venire a sapere, prima o poi, che Nastri-e-Fiocchi era diventata legalmente la

sua seconda matrigna. Sta di fatto che dopo quella prima ed ultima visita il

nome del baronetto non venne più pronunciato nella nobile e inappuntabile

dimora di Pitt Crawley. Era lo spettro della casa, e chiunque in famiglia lo

sfiorasse, lo faceva in un silenzio pervaso da orrore. La contessa Southdown

non desisteva dal lasciare in portineria i suoi opuscoli edificanti, opuscoli così

agghiaccianti da far rizzare i capelli in testa. Ogni sera Mrs. Bute. Crawley

andava a scrutare il cielo al di sopra delle betulle oltre le quali si vedeva il

castello: voleva vedere se si arrossava, se per caso il palazzo non stesse

andando a fuoco. Due vecchi amici di famiglia, Sir. G. Wapshot e Sir H.

Fuddlestone, si rifiutarono di sedere nello stesso banco di Pitt in tribunale, e

ostentatamente non lo salutarono, nella strada principale di Southampton,

quando il vecchio peccatore gli mosse incontro per stringergli la mano. Ma

questi incidenti non produssero su di lui il pur minimo effetto. Si rimise le mani

in tasca, scoppiò in una risata fragorosa e risalì sul suo tiro a quattro. Rideva di

tutti: del figlio, della gente, di Nastri-e-Fiocchi quando si arrabbiavano: cosa

che del resto accadeva abbastanza spesso.

Insediatasi a Queen's Crawley in qualità di governante, Miss Horrocks

esercitava sul personale il più altezzoso e imperioso dominio. Tutti avevano

l'ordine di rivolgerle la parola chiamandola «Signora», e c'era una cameriera,

da lei promossa a tale mansione, che la chiamava «Milady», senza che la

governante vi trovasse nulla a ridire. «Ci sono state lady migliori di me e ce ne

sono state di peggiori, Hester,» rispondeva Miss Horrocks all'espressione

adulatoria della sua subalterna. Così ella esercitava i sommi poteri su

chicchessia, eccetto suo padre, che nondimeno trattava con una certa

sufficienza, sostenendo che non doveva permettersi un'eccessiva confidenza

con colei che sarebbe potuta diventare la moglie di un baronetto. Questa infatti

era la parte che maestosamente si era assunta nella vita, compiacendosene

moltissimo e con sommo divertimento di Sir Pitt che segretamente ridacchiava

osservando le sue arie e le sue moine, e rideva a crepapelle quando lei

assumeva il tono altero e imitava i modi delle persone d'alto rango. Giurava

che vederla recitare la parte di una gentildonna era molto più divertente che

andare a teatro, e le faceva indossare i più eleganti abiti da Corte della prima

Lady Crawley giurando e spergiurando che le stavano a pennello (cosa della

quale, da parte sua, Miss Horrocks era assolutamente convinta), e minacciando

di ordinare seduta stante il tiro a quattro per condurla per l'appunto a Corte.

Miss Horrocks, una volta autorizzata a disporre liberamente del guardaroba

delle due defunte Lady Crawley, si diede a tagliarne e modificarne gli abiti in

conformità al suo gusto e alle sue misure; e sarebbe stata ben lieta di metter

mano anche sui gioielli, ma il vecchio Sir Pitt li teneva chiusi a chiave in uno

stipo, e nonostante i suoi salamelecchi non riuscì mai a farsene consegnare le

chiavi. Un fatto è certo: qualche tempo dopo ch'ella se ne fu andata da

Queen's Crawley, fu rinvenuto un quaderno ove la signora in questione aveva

cercato d'imparare l'arte di scrivere in genere, e in particolare quella di scrivere

il proprio nome: Lady Crawley, Lady Betsy Horrocks, Lady Elisabeth Crawley,

eccetera.

Pur non mettendo piede al castello e ignorando sistematicamente quel

vecchio rimbecillito di Sir Pitt, nondimeno la brava famiglia del presbiterio era

sempre informata nei minimi dettagli di tutto ciò che accadeva laggiù, e si

aspettavano pertanto che da un giorno all'altro maturasse quel ferale evento

che Miss Horrocks attendeva con tanta ansia. Ma il Fato, invidioso, intervenne

tempestivamente onde impedirle di ottenere la meritata ricompensa di un

amore così puro e disinteressato.

Un giorno Sir Pitt sorprese «Sua Signoria» (come beffardamente la

chiamava) seduta davanti al vecchio e scordato pianoforte di cui nessuno

aveva più toccato la tastiera dal tempo in cui Becky Sharp vi suonava le sue

quadriglie. Con grande serietà si forzava di cantarellare, facendo appello a

tutte le sue risorse vocali, certe arie che aveva udito cantare chissà da chi. La

sguattera ch'ella aveva elevato al grado di cameriera l'ascoltava rapita

muovendo ritmicamente la testa ed esclamando: «Mio Dio, signora, com'è

bello!», proprio come un adulatore d'alto bordo in un salotto elegante.

Questa visione suscitò, come di consueto, l'ilarità del baronetto che

durante la serata la raccontò almeno una dozzina di volte a Horrocks,

sbeffeggiandone la figlia. Con le dita tamburellava sul tavolo come sui tasti di

un pianoforte e lanciava orrendi strilli per imitare la voce di Miss Horrocks. Una

voce così bella, diceva, meritava di esser coltivata; bisognava assolutamente

trovare un maestro di canto per questa fanciulla così portata per la musica.

Proposta che la ragazza trovò perfettamente plausibile. Quella sera il baronetto

era di ottimo umore e si permise abbondanti libagioni a base di

rhum-and-water in compagnia del suo amico e maggiordomo. Era molto tardi.

quando il fedele servitore lo condusse in camera da letto.

Mezz'ora dopo per tutta la casa c'era un gran trambusto e un continuo

andirivieni. Le luci balenavano dall'una all'altra stanza del vecchio e desolato

maniero, sebbene il proprietario ne occupasse solo due o tre stanze. Subito un

ragazzo balzò in sella a un pony e al galoppo si precipitò a Mudbury, in cerca

del medico. Un'ora dopo (circostanza che comprova gli stretti contatti che

l'ottima Mrs. Bute Crawley aveva mantenuto col castello) la signora in

questione, in zoccoli e calash, il reverendo Bute Crawley e il loro figlio James

Crawley attraversavano il parco e, trovato aperto il cancello, penetravano nella

magione. Attraversarono il grande atrio e il piccolo salotto rivestito di quercia

ove, posati su un tavolo, c'erano ancora i tre bicchieri e la bottiglia di rhum che

Sir Pitt si era scolato per alimentare la propria allegria, ed entrarono nello

studio del baronetto. Quivi trovarono Miss Horrocks e i suoi colpevoli nastri e

fiocchi mentre, armata di un mazzo di chiavi, con smania frenetica tentava di

aprire i cassetti dello scrittoio. Con uno strillo di terrore lasciò cadere il mazzo

di chiavi, mentre sotto il suo cappuccio nero Mrs. Bute Crawley sembrava

volerla incenerire coi suoi occhi che lanciavano fiamme.

«Guardate, guardate, James e Mr. Crawley,» esclamò Mrs. Bute Crawley

puntando un dito verso il volto terrorizzato della colpevole ragazza dagli occhi

neri.

«È stato lui a darmele! È stato lui!» gridò quest'ultima.

«Ve le ha date lui? Scellerata creatura!» strillò la Crawley. «Bute, tu sei

testimone che abbiamo colto in flagrante questa miserabile mentre tentava di

derubare tuo fratello. Finirà sulla forca, come ho sempre pensato e sempre

detto a tutti.»

Betsy Horrocks, affranta, si lasciò cadere in ginocchio e scoppiò in

lacrime. Ma coloro che conoscono una donna veramente buona sanno come

costei sia alquanto restia a perdonare una nemica, e che l'umiliazione di una

nemica è il massimo trionfo accordato alla loro anima.

«Suona il campanello, James,» proseguì Mrs. Bute Crawley, «e continua

a suonare fino a quando siano venuti tutti.» Poco dopo, al richiamo dello squillo

incessante, fecero il loro ingresso i tre o quattro sparuti domestici che ancora

restavano in quella vecchia dimora abbandonata.

«Chiudete a chiave in una stanza questa donna,» disse Mrs. Bute

Crawley. «Stava derubando Sir Pitt. L'abbiamo colta sul fatto. Tu, Bute,

firmerai il verbale. Quanto a voi, Beddoes, domani mattina la caricherete sul

carro e la condurrete alla prigione di Southampton.»

«Ma, mia cara...» obiettò il Magistrato e Rettore, «stava soltanto...»

«Le manette! Non ci sono le manette?» continuò Mrs. Bute Crawley

battendo in terra lo zoccolo. «Una volta c'erano, le manette! Dov'è

l'abominevole padre di questa perfida creatura?»

«È stato lui a darmele!» continuava a strillare l'infelice Betsy. «Diglielo

tu, Hester. Me le ha date il giorno della Fiera di Mudbury. Hai visto anche tu

che Sir Pitt me le ha date quel giorno. È passato tanto tempo, ormai... Io non

ci tengo ad averle. Prendetele pure, se siete convinti che non siano mie.» E la

sventurata levò di tasca un paio di fibbie da scarpe delle quali si era poc'anzi

impadronita (posto che avevano suscitato la sua ammirazione) sottraendole a

uno degli scaffali della biblioteca dove giacevano Dio sa da quanto tempo.

«Santo cielo, Betsy, come puoi raccontare una fandonia simile!» esclamò

Hester, la piccola sguattera che fino a quel momento era stata sua sostenitrice.

«E proprio a Mrs. Crawley, così buona, così gentile... e a Sua Reverenza!» (E

qui fece un inchino.) «Potete andare a frugare in mezzo alla mia roba, se

volete. Ecco le mie chiavi. Cercate pure. Io sono una ragazza onesta, anche se

mio padre e mia madre sono poveri e sono stata allevata all'ospizio di carità. E

se trovate anche solo un misero pezzo di merletto o una calza di seta, mentre

lei si è presa tutti quei vestiti meravigliosi, che io non possa più varcare la

soglia di una chiesa!»

«Dammi le chiavi, sfacciata!» sibilò la virtuosa donnina in cappuccio.

«Ecco il candeliere, signora; e se volete posso accompagnarvi nella sua

camera. Vi farò vedere il cassettone della governante, dove tiene montagne e

montagne di roba, signora,» strillò la piccola, zelante Hester accompagnando le

parole a una successione di inchini.

«Zitta con quella linguaccia! So benissimo dov'è la stanza che occupa

questa scellerata. Mrs. Brown, abbiate la cortesia di venire con me; e voi,

Beddoes, tenete d'occhio questa donna,» disse Mrs. Bute Crawley, afferrando il

candeliere. «Tu, Bute, faresti bene ad andare di sopra a vedere se per caso

non stiano assassinando il tuo sventurato fratello.» E la signora in cappuccio,

seguita dalla Brown, si avviò verso quella stanza che, a sentir lei, conosceva

benissimo.

Bute andò al piano di sopra ove trovò il medico di Mudbury e lo stravolto

Horrocks che, curvi su una poltrona, stavano cercando di praticare un salasso a

Sir Pitt.

Alle prime luci del giorno la moglie del Vicario, che aveva preso in pugno

la situazione e vegliato per tutta la notte il baronetto, inviò un corriere a Mr.

Pitt Crawley. Il vecchio si era ripreso un poco. Non riusciva a parlare ma

mostrava di riconoscere chi gli stava attorno. Mrs. Martha non si scostò un

attimo dal suo capezzale. Si sarebbe detto che quella piccola signora ignorasse

il bisogno di dormire. Infatti i suoi fieri occhi neri non si chiusero nemmeno un

istante, mentre invece il medico russava, sprofondato in una poltrona.

Horrocks fece qualche disperato tentativo per difendere la sua autorità e il

conseguente diritto di assistere il suo padrone; ma Mrs. Bute Crawley, lo

chiamò con l'epiteto di vecchio ubriacone, gli impose di scomparire

letteralmente da quella casa, altrimenti lo avrebbe fatto arrestare e deportare

al pari della sua riprovevole figlia.

Atterrito dai modi di quella donna, il vecchio maggiordomo sgusciò nel

piccolo salotto rivestito di quercia. Quivi si trovava Mr. James il quale, accortosi

che la bottiglia di rhum era vuota, ordinò a Horrocks di andare a prenderne

un'altra. Questi obbedì e portò la bottiglia insieme a due bicchieri puliti davanti

ai quali sedettero il figlio e il vicario. Dopo di che gli ordinarono di posare le

chiavi seduta stante e di non mostrare mai più la sua faccia in quella casa.

Terrorizzato da quel monito perentorio, Horrocks consegnò le chiavi. Poi,

nottetempo, scomparve silenziosamente con la figlia rinunciando per sempre a

Queen's Crawley.

XL • NEL QUALE BECKY VIENE ACCOLTA IN SENO ALLA FAMIGLIA

In seguito a questa catastrofe, l'erede di Queen's Crawley raggiunse il

castello in tempo debito, e da quel momento si può dire che ebbe inizio il suo

regno su Queen's Crawley. Infatti, sebbene il vecchio baronetto sopravvivesse

per vari mesi, non recuperò mai completamente l'uso della favella e

dell'intelletto, onde la gestione della proprietà passò interamente nelle mani

del figlio maggiore. Pitt dovette far fronte a una situazione piuttosto

complessa. Il vecchio non aveva fatto che comperare e ipotecare. Aveva una

ventina di amministratori, ma era in rotta con tutti; litigava coi fittavoli, aveva

cause in corso coi suoi avvocati, con le compagnie minerarie e navali di cui

possedeva una quota azionaria, con qualsiasi persona avesse a che fare.

Venire a capo di siffatte difficoltà e liberare la proprietà da ogni vincolo era

compito in tutto e per tutto all'altezza del metodico e tenace diplomatico di

Pumpernickel, il quale si mise all'opera con straordinario, alacre zelo. Inutile

dire come l'intera famiglia si trasferisse a Queen 's Crawley, ivi inclusa Lady

Southdown, che si accinse a convertire l'intera parrocchia sotto il naso del

vicario, e a tale scopo si tirò dietro, con comprensibile esasperazione

dell'iraconda Mrs. Bute Crawley, molti ecclesiastici «irregolari di sua fiducia».

Sir Pitt non aveva lasciato disposizioni di sorta circa il beneficio ecclesiastico di

Queen's Crawley, e Lady Southdown aveva già deliberato, per il giorno in cui

fosse scaduto, di assumersi questa responsabilità proponendo quale candidato

un giovane prelato, suo protégé: un progetto sul quale il diplomatico Pitt non

espresse alcun parere personale.

I propositi di Mrs. Bute Crawley nei riguardi di Miss Betsy Horrocks non

ebbero alcun seguito: di conseguenza la ragazza non venne imprigionata nel

carcere di Southampton. Con suo padre abbandonò il castello e insieme si

stabilirono al Crawleys Arms, una bettola di cui Sir Pitt aveva concesso la

licenza al suo maggiordomo. Inoltre Horrocks era riuscito ad assicurarsi anche

una piccola proprietà nelle vicinanze, che gli dava diritto a un voto nella

circoscrizione. A sua volta il vicario aveva diritto ad un voto, e questi due,

sommati ad altri quattro, davano luogo al corpo rappresentativo che eleggeva i

due membri del parlamento di Queen's Crawley.

Le signore del castello e quelle del presbiterio intrattenevano rapporti di

cortesia: o meglio, li intrattenevano le giovani, perché Lady Southdown e Mrs.

Bute Crawley non potevano incontrarsi senza litigare, cosicché a poco a poco

finirono col rompere ogni rapporto. Quando le signore del presbiterio si

recavano in visita dalla cugina al castello, Lady Southdown non si muoveva

dalla sua camera, e forse Pitt non si doleva troppo di quelle momentanee

sparizioni della cani suocera. Era convinto che la famiglia Binkie fosse la più

eccelsa, la più sagace, la più interessante di questo mondo, e Lady Southdown,

essendo oltre tutto sua zia, aveva sempre esercitato un certo ascendente su di

lui. Qualche volta però aveva l'impressione che la suocera pretendesse di

comandarlo a bacchetta: esser sempre considerato un giovanotto poteva anche

esser lusinghiero, ma a quarantasei anni esser trattato come un ragazzino

aveva risvolti mortificanti. Quanto a Lady Jane, era ciecamente succuba di sua

madre. Le ubbidiva in ogni cosa: poteva esternare il suo amore per i figli solo,

nella più assoluta segretezza; ed era invero una fortuna che Lady Southdown,

impegnatissima ad incontrarsi con innumerevoli ministri del Signore, nonché a

intrattenere una fitta corrispondenza con tutti i missionari sparsi per l'Asia,

l'Africa e l'Australia, avesse ben poco tempo da dedicare alla nipotina, la

piccola Matilda, e al nipotino, Master Pitt Crawley. Quest'ultimo era un bimbo

assai gracile, e Lady Southdown riusciva a tenerlo in vita solo in virtù delle

pantagrueliche dosi di calomelano che gli somministrava.

Quanto a Sir Pitt, si era ritirato nell'appartamento ove a suo tempo era

spirata Lady Crawley, e qui veniva curato con costanza e assiduità da Hester,

la sguattera che si era ormai autopromossa al rango di cameriera. Quale

amore, quale fedeltà, quale costanza può mai eguagliare quella delle

infermiere che prestano la loro opera dietro lauto stipendio? Sprimacciano i

guanciali, sono pronte ad alzarsi nottetempo, sopportano gli sfoghi queruli e

lamentosi, dormono su una poltrona, mangiano in solitudine, trascorrono

inoperose pomeriggi interminabili, fissando la brace nel caminetto e il pentolino

nel quale bolle sommessa la pozione dell'infermo. Come lettura settimanale si

accontentano di un unico ebdomadario, e il Serious Call or The Whole Duty of

Man di Law possono bastare per tutto l'anno. E noi che ci permettiamo di

protestare se i loro parenti, venendola a trovare una volta la settimana,

nascondono una fiaschetta di gin nel cesto della biancheria di ricambio! Ditemi,

signori miei: quale amore umano è paragonabile a quello di un anno di

assistenza dedicato all'oggetto della propria affezione? Un'infermiera ci cura al

prezzo di due sterline al mese e noi siamo convinti che sia pagata anche

troppo! Certo è che Pitt si lamentava di dover pagare la metà di questa somma

a Hester, la quale aveva costante ed esclusiva cura di suo padre.

Nei giorni di sole il vecchio gentiluomo veniva condotto sul piazzale

antistante il castello sopra una sedia a rotelle: la stessa che era servita a Miss

Crawley durante la sua permanenza a Brighton, e che era stata portata a

Queen's Crawley insieme con varie suppellettili appartenenti a Lady

Southdown. Lady Jane passeggiava sempre a fianco del baronetto, ed era

evidente ch'egli provava per lei una spiccata predilezione. Quando ella gli si

faceva accosto, lui sorrideva e muoveva ripetutamente il capo in un gesto di

assenso, mentre quando Jane si allontanava, emetteva gemiti dolorosi che

esprimevano la sua contrarietà. Quando poi la porta si chiudeva alle sue spalle,

si metteva a piangere e a singhiozzare; e allora il volto e le maniere di Hester,

sempre gentile e suadente quand'era alla presenza della padrona, di botto

mutavano: gli faceva smorfie di scherno e stringendo i pugni gli strillava:

«Chiudi la bocca, vecchio rimbambito!» Dopo di che rigirava la poltrona

scostandola dal caminetto, in modo che lui non potesse guardare la fiamma,

cosa che gli piaceva tanto. Allora i pianti e gli strilli del vecchio aumentavano.

Poiché ciò era quanto restava dopo oltre settant'anni di astuzie e di battaglie,

di bagordi e di intrighi, di peccato e di egoismo: un vecchio idiota piagnucoloso

che bisognava mettere a letto, far alzare, lavare, imboccare come un lattante.

Fino a che un giorno la cameriera si trovò disoccupata. Una mattina di

buon'ora, mentre Pitt era nel suo studio impegnato a sfogliare i libri dei conti

dell'amministratore e del fattore, fu bussato alla porta. Hester entrò, si piegò in

un profondo inchino e disse:

«Vogliate perdonarmi, Sir Pitt, ma Sir Pitt è morto stamattina, Sir Pitt. Gli

stavo preparando il pane tostato per la colazione, Sir Pitt; sapete, Sir Pitt, che

faceva colazione tutte le mattine alle sei, Sir Pitt, e ad un certo momento ho

sentito una specie di gemito, Sir Pitt e... e...» Hester fece un'altra riverenza.

Cosa aveva fatto coprir di rossore la faccia smunta di Pitt? Forse il

pensiero di essere finalmente Sir Pitt, con un seggio in Parlamento e la

prospettiva non inverosimile di riscuotere altri onori? «Ora libererò la proprietà

da tutte le ipoteche pagando in moneta sonante,» si disse, e rapidamente

calcolò quali fossero i vincoli, nonché le migliorie che desiderava apportare.

Fino a quel momento non aveva intaccato il patrimonio ereditato dalla zia, nel

timore che suo padre guarisse, vanificando i benefici delle spese che nel

frattempo avesse affrontato.

Al castello e al presbiterio vennero chiuse le ante di tutte le finestre; la

campana della chiesa risuonò di lugubri rintocchi e il coro della cappella fu

parato a lutto. Bute Crawley rinunciò ad andare a caccia, ma gli parve

plausibile cenare pacificamente a Fuddleston dove, davanti a una bottiglia di

porto, la conversazione si snodò intorno alle figure del defunto fratello e del

nuovo Sir Pitt. Betsy Horrocks, che nel frattempo era convolata a nozze con un

sellaio di Mudbury, si profuse in lacrime. Il medico di famiglia venne a porgere

le sue rispettose condoglianze e ad informarsi sulla salute delle signore. Di

quella morte si parlò in tutta Mudbury e al Crawley Arms; infatti il proprietario

si era di recente riconciliato col Rettore, il quale di tanto in tanto varcava la

soglia della piccola sala interna per assaggiare un goccio della birra chiara di

Mr. Horrocks.

«Debbo scrivere io a tuo fratello o ci pensi tu?» chiese Lady Jane a Sir

Pitt, suo marito.

«Spetta a me scrivergli,» rispose Sir Pitt. «È indispensabile avvisarlo: lo

inviterò a presenziare ai funerali».

«E... e sua moglie?» chiese Lady Jane timidamente.

«Jane, come può venirti un'idea simile?» intervenne Lady Southdown.

«Bisogna invitare anche lei, è logico,» disse Sir Pitt in tono deciso.

«No, fino a quando io resterò in questa casa,» protestò la suocera.

«Vostra Signoria vorrà essere così cortese da non dimenticarsi che il

capo della famiglia sono io, » rispose Sir Pitt. «Jane, se non ti spiace, scrivi un

lettera a Mrs. Rawdon Crawley sollecitando la sua presenza in questa mesta

circostanza.»

«Jane, ti proibisco di prender la penna in mano!» strillò la contessa.

«Ho motivo di credere di essere il capo della famiglia, ripeté Sir Pitt con

la stessa recisione di poc'anzi, «e sebbene deplori che qualsiasi circostanza

possa indurre Vostra Signoria a lasciare questa casa, nondimeno (e col vostro

permesso) io debbo continuare a dirigerla secondo i miei personali

intendimenti.»

Lady Southdown si alzò in piedi, maestosa e imponente come la Siddons

nel ruolo di Lady Macbeth, e diede ordine che i cavalli fossero attaccati alla sua

carrozza. Se suo figlio e sua figlia la cacciavano di casa, ella sarebbe andata a

celare il suo dolore in solitudine, in qualche posto protetto da qualsivoglia

occhio indiscreto, e avrebbe pregato perché rinunciassero a quei deplorevoli

propositi.

«Nessuno vuol cacciarti di casa, mamma»; disse la timida Lady Jane in

tono supplichevole.

«Voi vi permettete di invitare una persona con la quale una donna

cristiana non può avere contatti di sorta; pertanto domani mattina farò

attaccare i cavalli.»

«Jane, abbi la bontà di scrivere quello che ora ti detterò,» disse Sir Pitt

alzandosi e assumendo l'atteggiamento autoritario di un «Ritratto di

Gentiluomo» che figurava all'Esposizione. «"Queen's Crawley, 14 settembre

1822,"» comincio. «"Mio caro fratello..."»

Nell'udire quelle parole terribili e determinanti, Lady Macbeth, che aveva

indugiato nella speranza di cogliere un segno di perplessità o di debolezza nel

genero, si alzò in piedi e con occhi sgomenti e esterrefatti uscì dalla biblioteca.

Lady Jane alzò lo sguardo, forse con l'intenzione di chiedere al marito il

permesso di seguire la madre e ammansirla; ma Pitt proibì a sua moglie di

muoversi.

«Non se ne andrà, vedrai,» le disse. «Ha affittato la sua casa di Brighton

e ha già speso le sue rendite dell'ultimo semestre. D'altra parte una contessa

non può adattarsi a vivere in una pensione: ne verrebbe screditata. E poi,

amore mio, ho atteso a lungo prima di fare questo... questo passo. Tu stessa

non esiterai a capire come non sia possibile che due donne comandino nella

stessa casa. Ed ora, mia cara, riprendiamo la lettera. «... la triste notizia che è

mio dovere partecipare alla famiglia era da gran tempo preannunciata...»

In poche parole Pitt, essendo ormai assurto al trono del suo regno, ed

essendo per sua fortuna - o per suo merito, come lui pensava - entrato in

possesso di quasi tutto il patrimonio su cui gli altri parenti avevano sperato di

metter mano, ora intendeva trattare i familiari con la più rispettosa gentilezza,

e al tempo stesso riportare Queen's Crawley ai fasti del passato. Gli piaceva

pensare che d'ora in avanti ne sarebbe stato il capo. Si proponeva di sfruttare

la vasta influenza che le sue doti non comuni e la sua posizione non avrebbero

mancato di procurargli in breve tempo, onde sistemare nel modo più

confacente il fratello e i cugini; e non escludo che provasse altresì un vago

senso di rimorso per essere entrato in possesso di tutto ciò che loro avevano

sperato di assicurarsi. Nel giro dei primi tre o quattro giorni del suo regno i

suoi modi avevano già subito sensibili modifiche e i suoi piani erano stati

predisposti: decise dunque di esercitare la sua autorità con giustizia e

rettitudine, di spodestare Lady Southdown e di intrattenere rapporti per quanto

possibile amichevoli con tutti i familiari.

Dettò per il fratello Rawdon una lettera solenne ed elaborata, che

conteneva profondissime osservazioni affidate alle parole più lunghe che il suo

vocabolario avesse a disposizione: una lettera che colmò di stupore la piccola,

umile segretaria che scriveva su ordine del marito. «Che splendido oratore

sarà» pensava Lady Jane, «quando siederà alla Camera dei Comuni!» (Di

questo, come della tirannia di Lady Southdown, Sir Pitt aveva talvolta fatto

cenno alla moglie quando erano a letto.) «Che uomo saggio è mio marito!

Com'è buono, com'è intelligente! Una volta lo credevo un po' freddo, ma è

veramente buono. E poi è un genio!»

La verità era ben diversa: Sir Pitt aveva imparato a memoria ogni singola

parola di quella lettera che, con diplomatica segretezza, aveva pazientemente

ponderato ed elaborato molto prima di quando ritenne fosse giunto il momento

di dettarla alla sua attonita consorte.

Dunque questa lettera, vistosamente bordata di nero e con un sigillo di

lacca altrettanto nera, venne spedita da Sir Pitt Crawley a suo fratello Rawdon,

a Londra. Tuttavia, nel riceverla, non si può dire che Rawdon si sentisse molto

soddisfatto. «A che scopo andare in quel luogo odioso?» pensò. «Non riesco

nemmeno a sopportare l'idea di trovarmi a tu per tu con Pitt dopo cena; senza

contare che i cavalli, tra andata e ritorno, non ci costeranno meno di venti

sterline.»

Come faceva ogni qual volta si trovava in difficoltà, portò la lettera a

Becky che si trovava di sopra nella sua camera da letto, insieme con la

cioccolata che lui stesso le preparava e serviva ogni mattina.

Posò il vassoio della colazione e la lettera sul tavolino da toeletta, davanti

al quale sedeva Becky, intenta a spazzolarsi la bionda chioma. Ella prese la

missiva listata a lutto, e dopo averne scorso il testo balzò in piedi esclamando:

«Hurrah!» mentre con la mano sventolava l'epistola di Sir Pitt.

«Hurrah,» disse Rawdon stupefatto, contemplando quell'agile figurina

che svolazzava per la stanza in vestaglia con lo strascico, i boccoli ramati in

disordine. «Ma non ci ha lasciato un soldo, Becky! Io ho avuto la mia parte

quando sono diventato maggiorenne.»

«Tu non sarai mai maggiorenne, caro il mio scioccone!» rispose Becky.

«E adesso sbrigati: va' da Madame Brunoy perché bisogna che mi vesta a

lutto. Tu comprati un nastro di crespo per il cappello e un panciotto nero: mi

sembra che di neri, tu non ne abbia. Ordina che li portino domani, così

potremo partire giovedì.»

«Come, come? Vorresti andare?»

«Ma certo che voglio andare. Voglio che l'anno prossimo Lady Jane mi

presenti a Corte. E voglio che attraverso tuo fratello tu abbia un seggio in

Parlamento, vecchio tonto che non sei altro! Voglio che Lord Steyne abbia il

tuo voto e quello di tuo fratello, stupidone mio; e che tu diventi sottosegretario

per l'Irlanda, o governatore delle Indie Occidentali, oppure un Tesoriere, o un

Console... insomma, qualcosa del genere.»

«Andarci coi cavalli da posta ci costerà un patrimonio, accidenti!»

brontolò Rawdon.

«Potremmo andarci con la carrozza di Southdown: andrà anche lui alle

esequie, dal momento che ci sono vincoli di parentela. Ma no, meglio andare in

diligenza. Diamo una prova della nostra modestia, sono certa che

l'apprezzeranno.»

«Portiamo anche Rawdy, naturalmente,» disse il colonnello.

«Rawdy? Nemmeno per idea! A che scopo spendere per un posto in più?

Ormai è troppo grande per farlo viaggiare in un angolino fra me e te. È meglio

che resti qui nella sua stanza, e intanto la Briggs provvederà a fargli un vestito

nero. Tu va' a fare quel che ti ho detto. A proposito, faresti bene a dire a

Spark, il tuo domestico, che il vecchio Sir Pitt è morto, è che tu erediterai un

po' di denaro quando tutto sarà sistemato. Lui si affretterà a spifferarlo a

Raggles che ha già insistito varie volte per aver quattrini. Questa notizia

servirà ad ammansirlo e ad aprirgli il cuore alla speranza.» Dette queste

parole, Becky prese a sorbire la sua cioccolata.

La sera, quando come di consueto venne il fedele Lord Steyne, trovò

Becky con la sua dama di compagnia (la quale altra non era se non la nostra

vecchia amica Miss Briggs) spasmodicamente indaffarata a scegliere, scucire,

tagliare ogni sorta di vecchi indumenti neri, sfruttabili nella funesta

circostanza.

«Miss Briggs ed io siamo in preda al più vivo cordoglio, mio caro Lord. Il

nostro papà è morto. Proprio così, mio caro Lord, Sir Pitt Crawley non è più.

Per tutta la mattina ci siamo strappate i capelli e ora strappiamo i nostri vecchi

vestiti.»

«Oh, Rebecca, come potete...» fu tutto quello che riuscì a dire la Briggs,

mentre alzava gli occhi al cielo.

«Oh, Rebecca, come potete?» fece eco Milord. «Dunque quel vecchio

lestofante è andato al Creatore. Avrebbe potuto diventare membro della

Camera dei Pari, se avesse saputo giocar meglio le sue carte! Pitt era ormai

deciso a farlo Pari, ma quel vecchio Sileno andava sempre in direzione

opposta!»

«E pensare che io avrei potuto essere la vedova di quel vecchio Sileno,»

esclamò Rebecca. «Vi ricordate, Miss Briggs, di quella volta che, spiando

attraverso il buco della serratura, avete visto Sir Pitt in ginocchio davanti a

me?»

La nostra vecchia amica Miss Briggs si fece di bragia a quel ricordo, e fu

ben contenta che Lord Steyne le ordinasse di andare in cucina a preparargli

una tazza di tè.

Dunque, Miss Briggs era il cane da guardia che Rebecca si era presa in

casa, a salvaguardia della propria innocenza e reputazione. Miss Crawley le

aveva lasciato una piccola somma e la Briggs non avrebbe avuto niente da

obiettare a rimanere in casa Crawley con Lady Jane, la quale era gentilissima

con lei, come d'altronde con tutti. Ma non appena quel minimo di decenza lo

ebbe consentito, Lady Southdown non esitò a licenziare la povera Briggs, e Mr.

Pitt lasciò che la contessa madre compisse quel gesto di autorità senza

muovere la più piccola obiezione. In effetti si era sentito personalmente offeso

dal fatto che la sua defunta parente avesse compiuto quel gesto d'inconsulta

generosità verso una stagionata signorina la quale, dopo tutto, si era limitata

ad esserle stata fedele compagna per circa vent'anni. Quanto alla Firkin e a Mr.

Bowls, furono parimenti onorati sia dal lascito di Miss Crawley, sia dal

licenziamento operato da Lady Southdown. Si sposarono e aprirono una

pensione, in conformità alle usanze dei loro pari.

La Briggs si provò ad andare ad abitare in campagna dai suoi parenti, ma

si rese conto che la cosa le riusciva impossibile, dopo tanti anni trascorsi in

mezzo all'alta società. I suddetti parenti, piccoli commercianti in una cittadina

di provincia, presero a litigare per assicurarsi la rendita annua di quaranta

sterline della Briggs con lo stesso accanimento, e molto più scopertamente, dei

parenti di Miss Crawley per l'eredità di quest'ultima. Il fratello di Miss Briggs,

radicale, di professione cappellaio e droghiere, diede alla sorella della vecchia

avara aristocratica per essersi rifiutata di investire una parte della rendita nella

sua bottega. E lei l'avrebbe anche fatto se sua sorella, sposata a un calzolaio

che apparteneva a una setta scissionista ed era in pessimi rapporti col

droghiere perché quest'ultimo frequentava un'altra chiesa, non le avesse

fornito le prove dell'imminente fallimento del fratello e non l'avesse tenuta

qualche tempo presso di sé. Da parte sua, il cognato scissionista guardava con

cupidigia al denaro della Briggs per poter mandare il figlio all'università e farne

un vero signore. Le due famiglie riuscirono comunque a mangiarle una buona

quota dei suoi risparmi, onde lei fuggì a Londra seguita dalle maledizioni dei

congiunti, decisa a trovarsi un posto dal momento che la servitù era

decisamente meno onerosa della libertà. Dopo aver fatto pubblicare su vari

giornali un inserzione nella quale si diceva che una «signora di buone maniere,

assuefatta a vivere nella migliore società, desiderava vivamente...» eccetera

eccetera, prese alloggio alla pensione di Mr. Bowls in Half Moon Street e attese

che il suo annuncio desse qualche frutto.

Fu così che andò a stare con Rebecca. Un giorno i pony che trainavano la

leggera e veloce carrozza di Mrs. Rawdon Crawley voltarono l'angolo della

strada proprio mentre Miss Briggs, che era andata per la sesta volta negli uffici

del «Times» nella City per rinnovare la sua inserzione, arrivava stanca morta

alla pensione di Mr. Bowls. Rebecca, che guidava personalmente i pony,

riconobbe subito la «signora di buone maniere,» e siccome sappiamo che era

una donna cordiale, e che provava una certa simpatia per la Briggs, tirò le

redini, le consegnò al cocchiere, balzò a terra e afferrò le mani della Briggs

prima che la signora di buone maniere avesse il tempo di riprendersi dallo

shock che aveva provato nel rivedere la vecchia amica.

Miss Briggs si mise a piangere, Becky a ridere senza freno, e baciò la

gentildonna non appena furono in corridoio, dal quale passarono nel salottino

verso strada di Mrs. Bowls, con le tende di broccatello rosso e una specchiera

ovale sovrastata da un'aquila in catene che aveva lo sguardo rivolto verso un

cartello appeso alla finestra sul quale si leggeva: «Si affittano camere

ammobiliate.»

La Briggs raccontò la sua storia alternandola a quei singhiozzi e a quelle

esclamazioni affatto oziose con le quali le donne di buon cuore sono solite

salutare una vecchia amica o commentare un incontro fortuito come quelli,

appunto, che avvengono per la strada. Infatti, sebbene la gente ogni giorno

incontri altra gente, tutti vogliono ravvisare in questi comunissimi accadimenti

altrettanti fatti miracolosi. Le donne, soprattutto, anche se provano la più viva

antipatia reciproca, quando s'incontrano si mettono a piangere rievocando con

accenti nostalgici l'ultima volta che hanno litigato. Così, per farla breve, la

Briggs raccontò a Becky la sua storia, e Becky le narrò la sua con quel candore

e quella disinvoltura che le erano congeniali.

Dal canto suo Mrs. Bowls, già Miss Firkin, ascoltava con un certo dispetto

dal corridoio i singulti e le risatine isteriche che giungevano dal salottino. Becky

non le era mai andata molto a genio; e da quando lei e il marito si erano

trasferiti a Londra avevano visto spesso i loro vecchi amici, i Raggles. Ciò che

questi ultimi avevano raccontato, circa il ménage del colonnello non le era

piaciuto assolutamente. «Io non mi fiderei di lui, caro Ragg,» aveva detto

Bowls, e sua moglie, quando Rebecca uscì dal salottino, si limitò a salutarla

con un piccolissimo inchino. Le sue dita, mentre le porgeva a Mrs. Crawley che

voleva a tutti i costi stringere cordialmente la mano dell'ex cameriera, erano

fredde e inerti come altrettante salsicce. Rebecca svoltò rapida in Piccadilly

rivolgendo il più dolce dei sorrisi alla Briggs che a sua volta la salutava con

ripetuti cenni del capo dalla finestra, proprio sotto il cartello che diceva: «Si

affittano...»; e pochi istanti dopo era in Hyde Park, circondata da un nugolo di

bellimbusti che presero a caracollare di fianco al suo calesse..

Ora che sapeva quali fossero le condizioni finanziarie della sua amica, e

come, in virtù della piccola eredità avuta da Miss Crawley, la signora di buone

maniere non avesse bisogno assoluto di uno stipendio, Becky ebbe la

tempestiva benevolenza di farla oggetto dei suoi programmi domestici. Miss

Briggs era la dama di compagnia che faceva al caso suo: pertanto la invitò a

cena quella sera stessa, così avrebbe conosciuto il piccolo Rawdy.

Mrs. Bowls mise in guardia la sua pensionante, sconsigliandola di andarsi

a cacciare nella tana del leone. «Perché è lì che finirete; nella tana del leone.

Ricordatevi quel che vi dico, Miss Briggs, com'è vero che mi chiamo Bowls.

Miss Briggs promise che avrebbe agito con estrema cautela. Col risultato

che meno di una settimana dopo la visita di Mrs. Crawley andò a vivere in casa

di quest'ultima, e non erano passati sei mesi che già aveva prestato a Rawdon

Crawley seicento sterline sulla sua rendita annua.

XLI • NEL QUALE BECKY FA RITORNO AL CASTELLO AVITO

Così, non appena gli abiti a lutto furono pronti e Sir Pitt Crawley venne

preavvisato del loro arrivo, il colonnello e la moglie fissarono due posti

sull'Highflyer coach, la stessa vecchia diligenza sulla quale Rebecca, nove anni

prima, aveva fatto il suo ingresso nel mondo in compagnia del baronetto.

Ricordava perfettamente il cortile della locanda, il padrone che si era

rifiutato di pagare, e il galante studentello di Cambridge che durante il tragitto

l'aveva avvolta nel suo mantello. Rawdon prese posto sull'imperiale, e gli

sarebbe piaciuto moltissimo guidare il veicolo se il contegno impostogli dal

dolore filiale non glielo avesse impedito. Sedette di fianco al postiglione e per

tutto il viaggio non fece che parlare di cavalli e della strada, di chi erano le

varie locande e di chi forniva i cavalli che trainavano quella diligenza a bordo

della quale aveva viaggiato tante volte quando andava a Eton insieme con Pitt.

Giunti a Mudbury, trovarono ad attenderli una carrozza a due cavalli con un

cocchiere in livrea a lutto. «È sempre la stessa vecchia baracca,» commentò

Rebecca mentre vi salivano. «Il panno è tutto bucherellato dalle tarme, e c'è

anche la macchia che Sir Pitt... ah, a quanto vedo Dawson, il negoziante di

ferramenta, ha chiuso le imposte... la macchia, ti stavo dicendo, per la quale

Sir Pitt ha fatto una scenata. Si era rotta una bottiglia di cherry brandy che

eravamo andati a prendere per tua zia fino a Southampton. Eh, vola il tempo...

Possibile che quella ragazza grassottella in piedi davanti alla porta del suo

cottage sia Polly Tolboys? Me la ricordo quand'era una bimbetta e veniva a

strappare le erbacce in giardino.»

«Bella ragazza,» commentò Rawdon, e si portò due dita al cappello

adorno del nastro di crespo nero per rispondere al saluto che gli era stato

rivolto dal cottage. Becky s'inchinava e salutava, e talvolta si degnava

graziosamente di riconoscere or l'uno or l'altra. Le pareva di non essere più

un'intrigante, e aveva la sensazione di accingersi a ritornare alla casa degli avi.

Rawdon invece era piuttosto tetro e abbattuto. Chissà quali ricordi dell'infanzia

e della fanciullezza gli passavano per la mente! Forse provava un vago

sentimento di rimorso, o di perplessità, o persino di vergogna!

«Ormai le tue sorelle saranno delle signorine!» disse Rebecca. Ed era

forse la prima volta, da quando le aveva lasciate, che il suo pensiero tornava a

loro.

«Non ne ho la minima idea,» rispose Rawdon. «Ehilà, quella ha tutta

l'aria di essere la vecchia mamma Lock? Come state, mamma Lock? Vi

ricordate di me? Sono Master Rawdon, e sì, proprio io. Cribbio, se campano a

lungo queste donne! Quando ero un ragazzo doveva aver già cent'anni

almeno!»

Era appunto arrivato di fronte al grande cancello padronale di cui Mrs.

Lock era la custode. Rebecca volle stringerle la mano, mentre la vecchia

spalancava le due ante cigolanti e arrugginite, e la carrozza passava fra due

pilastri rivestiti di muschio, sormontati dalla colomba e dal serpente.

«Quanti alberi ha fatto abbattere il vecchio,» osservò Rawdon volgendo

attorno lo sguardo. Poi tacque... ed anche Becky non parlò più. Entrambi

riandavano col pensiero a tempi ormai lontani, ed erano alquanto turbati. Lui

pensava alla madre, che ricordava come una donna minuta, fredda e

compassata; pensava a Eton, a una sorellina morta in tenera età ch'egli aveva

adorato, a Pitt che prendeva sempre a botte, al piccolo Rawdy rimasto a casa.

Rebecca pensava alla sua prima giovinezza, agli oscuri segreti che si celavano

dietro quei giorni pieni di vergogna, al suo ingresso nella vita proprio

attraverso quel cancello, a Miss Pinkerton, a Jos, ad Amelia.

Il viale ricoperto di ghiaia e la terrazza erano stati discretamente ripuliti.

Sopra l'ingresso padronale era appeso un enorme stemma funebre, e due

personaggi vestiti di nero, alti e oltremodo solenni, aprirono ognuno un

battente della porta nel momento in cui la carrozza si arrestava davanti alla

scalinata. Rawdon arrossì e Becky impallidì mentre sottobraccio percorrevano

l'atrio della vecchia dimora. Strinse il braccio del marito quando entrarono nel

salottino rivestito di quercia dove Sir Pitt e la moglie attendevano di riceverli.

Tanto Pitt che Lady Jane vestivano di nero. Quanto a Lady Southdown, aveva

un incredibile cappello adorno di jais e di piume che le ondeggiava al sommo

del capo come il pennacchio di un impresario di pompe funebri.

Evidentemente Sir Pitt aveva formulato un pronostico esatto, quando

aveva detto a sua moglie che non se ne sarebbe andata. Lady Southdown si

accontentò di rinchiudersi in un gelido, adirato silenzio ogni qual volta si

trovava alla presenza del genero e della figlia, ribelle consorte di quest'ultimo,

e di terrorizzare i bambini quando, simile a uno spettro, penetrava nelle loro

camere. Solo un impercettibile inchino di quel piumato trofeo salutò Rawdon e

sua moglie, quei due figliuoli prodighi che facevano ritorno in seno alla

famiglia.

Tale freddezza, d'altronde, naufragò nella totale indifferenza di Rawdon e

di Rebecca. In quel momento Lady Southdown era ai loro occhi un personaggio

d'importanza marginale: ciò che contava era l'accoglienza che avrebbero loro

riservato il fratello regnante e la di lui sposa.

Pitt, col volto acceso, strinse la mano al fratello, e fece altrettanto con

Rebecca, ma accompagnando il gesto con un profondo inchino. Quanto a Lady

Jane, afferrò entrambe le mani della cognata e la baciò con trasporto.

Quell'abbraccio, chissà perché, fece salire le lacrime agli occhi della piccola

avventuriera: un ornamento del quale, come sappiamo, si adornavano di rado.

Quel gesto così spontaneo di cordialità e di fiducia le era giunto gradito e

l'aveva commossa. Quanto a Rawdon, incoraggiato dal contegno della cognata,

si arricciò i baffi e chiese il permesso di baciare Lady Jane, cosa che fece

avvampare la giovane signora.

«Proprio simpatica, questa Lady Jane,» fu il commento di Rawdon,

quando si ritrovò a tu per tu con la moglie. «Pitt è ingrassato, comunque fa le

cose con molta larghezza.» «E perché no, dal momento che può

permetterselo?» rispose Rebecca, e si dichiarò d'accordo col marito anche su

un altro punto; che la suocera era un'autentica megera e le sorelle abbastanza

simpatiche.

Anch'esse erano giunte dal collegio per presenziare alle esequie del

padre. Si sarebbe detto che, a salvaguardia del decoro della casa e della

famiglia, Sir Pitt avesse preteso la presenza del maggior numero possibile di

persone vestite a lutto. Vestivano di nero la servitù, le vecchiette dell'Ospizio

che il defunto Sir Pitt aveva defraudato di gran parte dei beni loro spettanti, la

famiglia del fabbriciere e in genere tutti coloro che in vario modo avevano un

rapporto di subordinazione col castello o col presbiterio. A costoro occorre

aggiungere gli addetti alle imprese di pompe funebri, in crespo nero da capo a

piedi (non erano meno di una ventina), i quali diedero particolare lustro alla

mesta cerimonia quando ebbero luogo i funerali veri e propri. Ma questi

personaggi non hanno attinenza alcuna col nostro dramma, e dal momento che

non hanno niente da dire o da fare, non è il caso dedicar loro più di un rapido

cenno.

Rebecca si guardò bene dal cercare di far dimenticare alle cognate di

aver abitato quella casa in qualità di istitutrice: al contrario, lo ricordò in

termini garbatamente espliciti: s'interessò con grande serietà degli studi che

seguivano le ragazze, dichiarando di aver pensato a loro molto spesso e di aver

desiderato avere loro notizie. In poche parole, si sarebbe detto che dal giorno

in cui le aveva lasciate esse non avessero cessato un istante di essere in cima

ai suoi pensieri, che ella avesse continuato a interessarsi di loro con i più teneri

sentimenti. Questo fu, per lo meno, ciò che Becky riuscì a far credere a Lady

Jane e alle due giovani sorelle del marito.

«Non è quasi cambiata, in questi otto anni,» disse Miss Rosalind a Miss

Violet mentre si cambiavano per la cena.

«Le donne rosse di capelli si conservano meglio di ogni altra,» rispose la

sorella.

«Però sono più scuri di una volta,» continuò Miss Rosalind. «Forse si

tinge. È ingrassata, e nel complesso ha un aspetto più attraente,» concluse

lietamente, dal momento che Rosalind aveva una certa tendenza alla

pinguedine.

«Per lo meno non si dà delle arie e non dimentica di esser stata la nostra

istitutrice,» osservò Miss Violet. Col che intendeva dire come spetti alle

istitutrici stare al loro posto, ma al tempo stesso dimenticava di esser nipote

non solo di Sir Walpole Crawley, ma anche di Mr. Dawson di Mudbury, onde

sullo stemma di famiglia figurava un secchio per il carbone. Quante persone,

alla Fiera della Vanità, hanno la memoria labile! Eppure sono in perfetta

buonafede!

«Le cugine del presbiterio dicono che sua madre era una ballerina

dell'Opera, ma io mi rifiuto di crederlo.»

«Non si è colpevoli della propria nascita,» osservò Rosalind con grande

magnanimità. «Nostro fratello ha ragione: fa parte della famiglia, e pertanto

non è giusto ignorarla. E poi è inutile che zia Martha ne parli con tanta

sufficienza, dal momento che sarebbe dispostissima a far sposare Rate col

giovane Hopper, il mercante di vino... Figurati che lo ha persino invitato al

presbiterio per le ordinazioni!

«Chissà se Lady Southdown se ne andrà,» disse l'altra. «Ha guardato

Mrs. Rebecca con certi occhiacci...»

«Sarei felice che si levasse di torno. Ad ogni modo, puoi star sicura che

mi rifiuterò di leggere La lavandaia di Finchley Common, » dichiarò Violet. Dopo

di che le due ragazze, evitando un tetro corridoio in fondo al quale, in una

camera chiusa, si trovava un feretro circondato da ceri perennemente accesi e

vegliato da due persone, scesero al piano di sotto per recarsi a cena. Il gong

aveva già fatto udire i suoi rintocchi.

In precedenza Lady Jane aveva accompagnato Rebecca nella camera

apprestata per lei: camera che, al pari di tutta la casa, nel tempo trascorso da

quando Pitt aveva preso in pugno l'andamento domestico, aveva assunto un

aspetto molto più gradevole e ordinato. Qui, visto che il modesto bagaglio di

Mrs. Rawdon Crawley era già stato sistemato in camera da letto e

nell'adiacente spogliatoio, la padrona di casa aiutò Becky a togliersi il mantello

e il semplice cappellino neri, e le chiese in cos'altro avrebbe potuto esserle

utile.

«Se c'è una cosa che desidero enormemente,» rispose Rebecca, «è

vedere i vostri cari bambini.» Al che le due signore, tenendosi per mano e

scambiandosi occhiate affettuose, si avviarono verso la camera dei piccini.

Becky espresse la sua ammirazione nei riguardi di Matilda, che non

aveva ancora compiuto quattro anni ed era, a sentire Mrs. Crawley, la più

deliziosa creatura mai apparsa sulla terra. Quanto al maschietto, un bimbo di

due anni smunto, con la testa troppo grossa e lo sguardo imbambolato, disse

che era un vero prodigio di floridezza, avvenenza, intelligenza.

«Se la mamma non insistesse a volergli dare tante medicine!» esclamò

Lady Jane con un sospiro. «Credo che se nessuno di noi prendesse medicine la

nostra salute se ne gioverebbe.» Queste considerazioni diedero inizio ad una di

quelle conversazioni confidenziali sui bambini e il modo migliore di curarli, che

costituiscono argomento prediletto dalle madri e da moltissime donne.

Cinquant'anni fa, quando l'autore di questo libro era un ragazzino non certo

peggiore di tanti altri, e dopo cena gli veniva imposto di seguire le signore nel

salottino, egli ricorda perfettamente come la conversazione vertesse

essenzialmente sui loro malanni. Da allora mi è capitato di informarmi in

proposito presso due o tre di costoro, e ne ho concluso che le cose non sono

affatto mutate. Vi facciano attenzione le mie cortesi lettrici, quando stasera

stessa si alzeranno da tavola e si apparteranno per celebrare i loro misteriosi

riti salottieri.

È così che nel giro di una mezz'ora Rebecca e Lady Jane diventarono

ottime amiche, e durante la serata la padrona di casa trovò modo di dire a suo

marito che a suo parere la cognata era una donna gentile, schietta, semplice,

affettuosa.

Essendosi accattivata con tanta facilità la simpatia della figlia,

l'infaticabile Becky si accinse a conquistarsi quella dell'augusta Lady

Southdown. Non appena ebbe modo di affrontarla a tu per tu, senza por tempo

in mezzo affrontò drasticamente il problema della salute dei bambini,

dichiarando che suo figlio era stato salvato grazie a copiose somministrazioni di

calomelano, quando ormai tutti i medici di Parigi lo davano per spacciato. Poi

spostò la conversazione su temi religiosi e disse che molte volte aveva udito

nominare Lady Southdown da quell'uomo intemerato ch'era il reverendo

Lawrence Grills, vicario della chiesa di Mayfair ch'ella era solita frequentare; e

quanto la sua concezione dell'esistenza fosse mutata in seguito alle disgrazie e

alle esperienze vissute. Pertanto nutriva fiducia nella possibilità di dedicarsi in

futuro a qualcosa di più serio e costruttivo dopo anni e anni consumati

nell'errore e nella continua ricerca di svaghi mondani. Disse che in passato Mr.

Crawley si era benignato di dedicarsi alla sua istruzione religiosa, accennò

rapidamente alla Lavandaia di Finchley Common che aveva letto col massimo

profitto e chiese di Lady Emily, la brillante autrice di quel capolavoro, divenuta

nel frattempo Lady Hornblower, a Città del Capo, ove suo marito aveva buone

probabilità di diventare vescovo di Caffraria.

Da ultimo coronò nel modo più producente la sua fatica e si conquistò

definitivamente il favore di Lady Southdown, mostrandosi terribilmente agitata

e sconvolta dopo la cerimonia funebre. Chiese il responso medico della

contessa; e questa non solo glielo accordò, ma durante la notte si recò di

persona in visita nella camera di Becky. Avvolta in una vestaglia e quanto mai

somigliante nell'aspetto a Lady Macbeth, fece il suo ingresso recando un fascio

di opuscoli e una pozione preparata con le sue mani, che Rebecca suo

malgrado fu costretta a trangugiare.

Prima di tutto Rebecca esaminò gli opuscoli e avviò con la contessa una

dissertazione sulla salvezza dell'anima. Sperava con questo espediente di

schivare quell'orribile intruglio. Ma quando la disquisizione religiosa giunse al

termine, Lady Southdown esternò il proposito di non lasciare la stanza se

prima Becky non avesse vuotato la tazza della pozione. Pertanto la nostra

amica fu costretta ad assumere un'espressione che voleva esprimere la più

profonda gratitudine nei confronti dell'implacabile benefattrice, e ad inghiottire

la medicina della contessa madre, la quale finalmente si decise a congedarsi

dalla sua vittima con parole di benedizione.

Sarebbe ardito avanzare l'ipotesi che queste fossero di conforto alla

povera Becky, la quale, quando Rawdon entrò nella stanza e seppe

dell'accaduto, aveva un aspetto molto strano. E le risate del colonnello

esplosero col consueto fragore quando la moglie, col marcato senso

dell'umorismo che non l'abbandonava neppure quando era lei a fornire il

pretesto per manifestarlo, gli ebbe raccontato come avesse dovuto piegarsi alla

ferrea volontà di Lady Southdown. Anche Lord Steyne e Rawdy risero quando

Rebecca e Rawdon furono rientrati a Londra, ed ella rifece, per divertirli, tutta

la scena: indossò una camicia e una cuffia da notte, e con la massima serietà

sciorinò un lungo sermone, per poi diffondersi sulle eccelse virtù della pozione,

che fingeva di somministrare. L'imitazione era così riuscita, che il naso

attraverso il quale soffiava sembrava proprio il naso grifagno della contessa

madre. «Suvvia, tornate a imitarci Lady Southdown che vuoi farvi inghiottire la

pozione!» invocavano sempre gli amici radunati nel salottino di Rebecca in

Mayfair. Così, grazie a Becky, per la prima volta nella sua vita Lady Southdown

riuscì a divertire qualcuno.

Sir Pitt non aveva dimenticato l'atteggiamento di rispettosa devozione

che Rebecca aveva tenuto nei suoi confronti al tempo della sua prima

permanenza a Queen's Crawley, e pertanto mostrava nei suoi confronti una

relativa condiscendenza. D'altro canto il matrimonio, per quanto basato su una

scelta oltremodo deprecabile, aveva migliorato Rawdon, come appariva dai

modi e dal comportamento del colonnello. Senza contare che, alla resa dei

conti, quel matrimonio aveva giovato moltissimo a lui, Pitt. L'avveduto

diplomatico sorrideva fra sé e sé quando pensava che quel matrimonio si

collocava proprio alle origini della sua lieta sorte finanziaria, e doveva

convenire che almeno per quanto lo concerneva direttamente non aveva

motivo alcuno per dolersene. Si aggiunga che il comportamento, la

conversazione, i proponimenti espressi da Rebecca non sminuivano certo la

sua soddisfazione.

Infatti Becky aveva raddoppiato quell'atteggiamento deferente nei suoi

riguardi che a suo tempo lo aveva affascinato, esortandolo a perfezionare

quelle sue doti di conversatore con risultati che lasciavano ammirato anche lui.

Pitt infatti, già incline per natura a non sottovalutare le sue reali o presunte

qualità, era indotto ad ammirarle ancor di più quando Rebecca le poneva in

evidenza. Ella non incontrò la minima difficoltà a convincere la cognata ch'era

stata Mrs. Bute Crawley a predisporre i piani del suo matrimonio, salvo poi

criticarlo a cose fatte; era stata lei che, nella speranza di assicurarsi il

patrimonio di Miss Matilda Crawley, aveva fatto perdere a Rawdon il favore di

sua zia, era stata lei infine a diffondere le voci calunniose di cui Rebecca era

stata l'innocente oggetto. «Sì, è riuscita a ottenere che noi restassimo poveri,»

commentò Rebecca con angelica rassegnazione. «D'altra parte come posso

provare risentimento per una donna che mi ha dato il miglior marito di questo

mondo? E la sua stessa avidità non è stata punita con la perdita dei beni ai

quali aveva mirato con tanto accanimento? Poveri!» esclamò. «Mia cara Lady

Jane, cosa importa a noi della povertà, dal momento che vi sono abituata sin

dall'infanzia? Del resto sono lietissima che il patrimonio di Miss Crawley sia

servito a ridar lustro a una famiglia cui sono fiera di appartenere. E poi sono

certa che Sir Pitt saprà usare quel denaro molto più oculatamente di quanto

avrebbe fatto Rawdon.»

Questi discorsi, riferiti punto per punto da Lady Jane al marito,

accrebbero l'impressione positiva che già gli aveva fatto Rebecca. Al punto che

una volta, tre giorni dopo il funerale, mentre a capotavola Sir Pitt scalcava i

fagiani, disse a Mrs. Crawley: «Ehm... Rebecca, gradireste un'ala?» Una frase

che fece brillare di gioia gli occhi della giovane donna alla quale era rivolta.

Mentre Rebecca ordiva le sue trame in vista dell'attuazione dei suoi

propositi, e coronare le sue speranze, Pitt Crawley si occupava del funerale e di

altri problemi legati alla sua nuova dignità e ai suoi futuri successi, Lady Jane

si occupava (nei limiti consentitile dalla madre) dei suoi bambini, il sole

continuava a sorgere e a tramontare e la campana del castello a suonare come

di consueto per annunciare l'ora dei pasti e delle preghiere, la salma del

defunto signore di Queen's Crawley giaceva nella stanza ch'egli aveva abitato

da vivo, vegliata da persone predisposte alla bisogna; cioè da tre o quattro

uomini e da alcune donne fornite all'uopo dalla migliore impresa di pompe

funebri di Southampton. Questi personaggi in gramaglie, dall'aspetto tragico e

solenne imposto dalle circostanze, offrivano la propria presenza fisica a quella

spoglia mortale ritirandosi nella camera del personale a giocare a carte e a

bere birra ogni qual volta terminava il loro turno.

Familiari e servitù si tenevano a debita distanza da quel lugubre locale

ove il corpo esanime del discendente di una lunga dinastia di nobili e cavalieri

giaceva in attesa di essere definitivamente inumato nell'avello di famiglia.

Nessun rimpianto seguiva quella spoglia, fatta eccezione per la povera donna

che aveva realmente sperato di diventare la moglie e la vedova di Sir Pitt, e

che, caduta in disgrazia, aveva lasciato per sempre quel castello di cui per

poco non era diventata la padrona. Eccetto costei e un vecchio pointer cui era

rimasto affezionato anche dopo la malattia che lo aveva ridotto un povero

idiota, il vecchio non aveva amici che lo piangessero, dal momento che in tutta

la sua vita non si era dato pensiero di procurarsene. Se il migliore di noi, colui

che più d'altro è animato da nobili sentimenti, dopo aver lasciato questo

mondo avesse modo di ritornarvi (o se in quello cui siamo destinati

sopravvivono i sentimenti che si provano alla Fiera della Vanità), credo che si

sentirebbe profondamente umiliato nel constatare con quanta rapidità coloro

che gli sono sopravvissuti hanno saputo trovare consolazione. Dunque, al pari

del migliore di noi, anche Sir Pitt venne dimenticato: con l'unica differenza che

l'oblio sopravvenne con qualche settimana di anticipo.

Chi lo desiderasse non ha che da seguire le sue ossa fino alla tomba,

nella quale, il giorno prestabilito, furono inumate nel massimo rispetto della

forma: i familiari nelle carrozze nere, tutti muniti di fazzoletto onde asciugare

lacrime inesistenti; l'impresario di pompe funebri e i suoi accoliti, il volto

atteggiato alla contrizione di prammatica, i principali fittavoli in lutto, quale

atto di ossequio nei confronti del nuovo proprietario; le carrozze vuote di tutta

la nobiltà dei dintorni, che procedevano a tre miglia all'ora, inviate qual segno

di profondo cordoglio; il vicario che pronunciava le formule d'uso ricordando «il

caro fratello scomparso». Infatti, fino a quando ci troviamo al cospetto della

salma, sfoghiamo su di essa la nostra vanità: la facciamo oggetto di cerimonie

e rituali esagitati; la adagiamo su un sontuoso catafalco, la imballiamo nel

velluto chiudendo il feretro con chiodi dorati e a coronamento del tutto vi

posiamo sopra una pietra che reca inciso un epitaffio menzognero. Il

coadiutore di Bute, un giovane intelligente che aveva compiuto i suoi studi a

Oxford, e Sir Pitt Crawley collaborarono nella stesura di un'epigrafe in latino a

imperitura memoria del defunto baronetto. Da parte sua il vicario snocciolò un

bellissimo sermone nel quale esortava i parenti a non cedere all'impeto del

dolore, informandoli al tempo stesso (beninteso con tutto il rispetto) che prima

o poi anch'essi sarebbero stati chiamati a varcare quella soglia tetra e