BATTAGLIA

Non appena Miss Sharp ebbe compiuto il gesto poc'anzi descritto e vide

che il dizionario, dopo esser volato sul lastricato del giardino, era caduto ai

piedi dell'esterrefatta Miss Jemima, il suo volto, che sino a quel momento

aveva espresso un livido rancore, si atteggiò ad un sorriso non molto più

gradevole, poi si abbandonò soddisfatta sui cuscini della carrozza e disse: «Il

dizionario l'ho bell'e sistemato. E grazie a Dio sono fuori da Chiswick.»

Quel gesto di ribellione scombussolò Miss Sedley non meno di Miss

Jemima. Basti infatti considerare che aveva lasciato il collegio da pochi minuti,

un lasso di tempo insufficiente per sgombrare il campo dalle sensazioni ch'era

andata accumulando nell'arco di sei anni. Si consideri come esistano persone

alle quali non basta una vita per sbarazzarsi dalla paura e dai timori

reverenziali. Si faccia, per esempio, il caso di un signore di mia conoscenza: un

uomo di sessantotto anni che una mattina, a colazione, mi disse con volto

estremamente turbato: «Stanotte ho sognato che il dottor Raine mi frustava.»

Quella notte le sue reminiscenze lo avevano riportato indietro di

cinquantacinque anni, e nel segreto della sua psiche, il dottor Raine e la sua

bacchetta erano stati terribili come a tredici. E se il dottor Raine gli fosse

apparso in carne ed ossa armato della sua verga di betulla, e gli avesse

ingiunto: «Abbassati i calzoni, ragazzo»? .. Pertanto Miss Sedley era rimasta

semplicemente sconvolta da quel gesto d'insubordinazione.

«Come hai potuto fare una cosa simile, Rebecca?» disse alla fine, dopo

una pausa di silenzio.

«Perché? Credi forse che salterà fuori Miss Pinkerton per ordinarmi di

tornare indietro e stare in castigo nello stanzino buio?» disse Rebecca ridendo.

«No, ma...»

«Odio quella casa,» continuò Rebecca furibonda, «e spero solo di non

vederla mai più. Vorrei che finisse in fondo al Tamigi, ecco cosa vorrei. E se ci

fosse dentro Miss Pinkerton, sta' pur certa che non muoverei un dito per tirarla

fuori. Ah, cosa darei per vederla galleggiare a pelo d'acqua col suo turbante, la

coda del suo vestito e quel suo naso che sembra la prua di un barca!»

«Zitta!» supplicò Amelia.

«Perché? Temi forse che il lacchè negro vada a spifferare quel che

sente?» obiettò Rebecca ridendo. «Che torni indietro, se gli garba, e vada a

raccontare alla Pinkerton che la odio con tutta l'anima. Sì, vorrei proprio che lo

facesse. Vorrei dimostrarle quanto la detesto. Per due anni non ho avuto che

insulti e offese. Sono stata trattata peggio dell'ultima delle sguattere. Non ho

mai avuto un'amica; nessuno, tranne te, mi ha mai rivolto una parola buona.

Sono stata costretta a occuparmi delle piccole delle elementari e a parlare

francese con le allieve del corso superiore, al punto che la mia lingua materna

mi è venuta a noia. Però, salutare la Pinkerton in francese è stata un'idea

proprio buffa, non ti pare? Non ne sa una sola parola, ma si dà troppe arie per

confessarlo. Credo sia stato proprio questo a indurla a lasciarmi andare.

Quindi, benedetto sia il francese! Vive la France! Vive l'Empereur! Vive

Bonaparte! »

«Oh, Rebecca, Rebecca! Non ti vergogni?» esclamò Amelia. Quella era

certamente la bestemmia più nefanda che la bocca di Becky avesse mai

profferito. In quel momento, gridare in Inghilterra «Viva Bonaparte!» era come

gridare «Viva il diavolo!» «Ma come puoi, come osi nutrire propositi tanto

vendicativi?»

«La vendetta sarà forse malvagia, ma è naturale,» rispose Rebecca.

«Non sono un angelo, io». E in verità non lo era davvero.

Giacché infatti, come si è potuto dedurre da questa pur breve

conversazione (che si snodava mentre la carrozza arrancava lentamente in

direzione del Tamigi), se per due volte Rebecca Sharp aveva ringraziato il

Cielo, lo aveva fatto innanzitutto perché finalmente si era liberata da una

persona che odiava, e in secondo luogo perché aveva colto l'occasione propizia

per confondere i suoi nemici: motivi che senza dubbio alcuno non possono

ascriversi a devota gratitudine, e che non si affacciano alla mente delle

persone dotate di temperamento mite e sottomesso. Rebecca non era

certamente mite, né sottomessa. Tutti la trattavano male, diceva la giovane

misantropa, e possiamo esser certi che una persona trattata male da tutti

merita in fondo il trattamento di cui vien fatta oggetto. Il mondo è uno

specchio che ad ogni uomo rimanda la sua immagine. Se lo fissi con

espressione accigliata, ti risponderà con un'occhiataccia. Se ridi di lui e con lui,

diventerà un amico allegro e compiacente. Pertanto i giovani non hanno che da

scegliere: se il mondo non si curava di Miss Sharp, lei a sua volta non si era

mai prodigata per nessuno. Di conseguenza non era lecito aspettarsi che

ventiquattro ragazze fossero gentili come Miss Sedley, l'eroina di questo libro

(e che alla quale abbiamo affidato questo ufficio proprio perché tale era il suo

carattere, altrimenti la scelta sarebbe potuta cadere su Miss Swartz, o Miss

Crump, o Miss Hopkins.) No, non si poteva attendersi che fossero tutte d'indole

gentile e mansueta come Miss Amelia Sedley, che tutte cogliessero ogni

possibile occasione per trionfare della cattiveria e del pessimo carattere di

Rebecca, e che infine tutte riuscissero - profondendosi in cortesie e in buone

parole - a debellare almeno una volta l'avversione di Rebecca per i suoi simili.

Il padre di Rebecca era un artista, e in tale sua qualità aveva dato lezioni

di disegno nell'educandato di Miss Pinkerton. Era un uomo intelligente, di

gradevole compagnia, piuttosto indolente nel lavoro, con una pronunciata

inclinazione soverchia a contrarre debiti e a frequentare le osterie. Quando era

ubriaco picchiava, la moglie e la figlia; poi, la mattina, in preda all'emicrania,

imprecava contro il mondo che disprezzava il suo genio, e per giunta insultava

in termini molto incisivi (e a volte non senza valide ragioni) quegli stupidi dei

pittori suoi colleghi. Dal momento che stentava alquanto a sbarcare il lunario,

e a Soho, il quartiere dove abitava, era in debito con tutto il vicinato per un

miglio all'intorno, aveva ritenuto di migliorare la propria situazione impalmando

una giovane ballerina francese. Per parte sua, Miss Sharp evitò sempre di

alludere alla modesta professione di sua madre: anzi, a partire da un certo

momento, prese ad asserire categoricamente che gli Entrechats erano una

famiglia di nobile schiatta originaria della Guascogna, e a menare gran vanto

dei suoi antenati. E non è tutto: per quanto la cosa possa sembrar curiosa, a

mano a mano che la fanciulla avanzava negli anni, questi antenati crescevano

per rango e per splendore.

Nondimeno la madre di Rebecca era una persona abbastanza istruita,

onde sua figlia si esprimeva in un francese purissimo, dall'impeccabile accento

parigino. A quell'epoca si trattava di una virtù alquanto rara, e tale, in effetti,

fu la ragione del contratto con la rigorosa Miss Pinkerton. Dopo la morte della

moglie, il padre di Rebecca, consapevole di avere ben poche probabilità di

guarire dopo un terzo attacco di delirium tremens, scrisse una dignitosa e

patetica lettera a Miss Pinkerton raccomandando la figlia orfana alla di lei

benevolenza, dopo di che discese nella tomba al cospetto di due ufficiali

giudiziari che litigavano fra loro. Rebecca aveva diciassette anni quando si recò

a Chiswick nella sua duplice qualità di allieva e di insegnante. I suoi doveri, lo

abbiamo visto, consistevano nel parlar francese, e i suoi diritti nell'essere

mantenuta, nel ricevere uno stipendio di poche ghinee all'anno e nell'attingere

briciole di sapere dai professori che insegnavano nell'educandato.

Era piccola e minuta, piuttosto pallida, coi capelli castano-chiaro e due

occhi che, solitamente chini, quando si alzavano apparivano molto grandi, belli

e dotati di una straordinaria intensità. Erano così belli che il reverendo Crisp,

che proprio allora aveva concluso i suoi studi a Oxford ed era coadiutore del

vicario di Chiswick, il reverendo Flowerdew, si era invaghito di Miss Sharp solo

per esser stato ferito da uno sguardo di quegli occhi che lei gli aveva lanciato

dal banco dell'educandato nella chiesa di Chiswick, raggiungendolo sul pulpito.

Il giovanotto pervaso da codesti amorosi sensi prendeva talvolta il tè nel

salotto della Pinkerton, alla quale era stato presentato da sua madre, e aveva

spinto il proprio ardire sino a vergare una specie di dichiarazione su un

biglietto, affidando alla venditrice guercia l'incarico di recapitarlo alla

destinataria, ma il biglietto in questione era stato intercettato. Mrs. Crisp,

tempestivamente informata del fatto, giunse da Boxton e si portò via il suo

caro ragazzo. La semplice idea che in quel nido di colombelle si celasse

quell'aquila rapace aveva letteralmente scombussolato Miss Pinkerton, la quale

non avrebbe esitato a scacciare Rebecca se non fosse stata legata da un

contratto; né mai si mostrò disposta a credere alle proteste della fanciulla, che

giurava di non aver mai scambiato una parola con Mr. Crisp, eccetto nelle due

circostanze in cui lo aveva incontrato all'ora del tè sotto i suoi occhi.

Al confronto delle altre educande, tutte alte e slanciate, Rebecca

sembrava una bambina, e tuttavia aveva la melanconica precocità dei poveri.

Le circostanze l'avevano costretta ad affrontare tanti creditori e a chiudere loro

la porta in faccia, ad adulare tanti fornitori per ammansirli e convincerli ad

accordarle ancora a credito un po' di cibo. Trascorreva gran parte del suo

tempo col padre, costretta a porger l'orecchio ai discorsi dei suoi innumerevoli

compagni di bisboccia, sovente assai poco adatti alle orecchie di una fanciulla.

Ma Rebecca, diceva lui, non era mai stata una ragazza: a otto anni era già una

donna. Perché dunque Miss Pinkerton aveva permesso che un uccello tanto

pericoloso penetrasse nella sua gabbia?

Il fatto è che la vecchia signora credeva che Rebecca fosse la più innocua

creatura di questo mondo, tanto perfetta era l'arte con la quale ella mostrava

di saper recitare la parte dell' ingénue ogni qual volta il padre la portava con se

a Chiswick. Circa una anno prima dell'accordo in base al quale era stata

ammessa all'educandato, Rebecca, allora sedicenne aveva ricevuto in dono da

Miss Pinkerton una bambola (che, sia detto per inciso, apparteneva a Miss

Swindle, cui era stata sequestrata perché vi giocava durante le ore di scuola) e

il dono era stato accompagnato da un discorsetto edificante e solenne. Come

ridevano, padre e figlia, mentre bel bello rientravano a casa dopo il

ricevimento (ossia il giorno della premiazione, cui assisteva tutto il corpo

insegnante) e come si sarebbe infuriata la Pinkerton se avesse potuto vedere

la caricatura che quella mima impeccabile di Rebecca faceva della sua persona,

servendosi della bambola in questione! Con lei Becky intrecciava certi dialoghi

estremamente spiritosi che esilaravano Newman Street, Gerrard Street e tutto

il quartiere degli artisti. I giovani pittori che venivano a bersi un bicchiere di

gin-and-water insieme col loro pigro, dissoluto e gioviale maestro, avevano

l'abitudine di chiedere scherzosamente a Rebecca se Miss Pinkerton fosse in

casa. E ormai la conoscevano, poveretta: eccome se la conoscevano! Quasi

come Mr. Lawrence o il presidente West. Una volta Rebecca ebbe l'onore di

trascorrere qualche giorno a Chiswick Mall, e tornò a casa con Jemima, un'altra

bambola alla quale fu assegnato il nome di Miss Jemmy. E questo perché,

sebbene la poveretta le avesse offerto marmellata e ciambelle in quantità

sufficiente per sfamare tre bambini, e per di più quando se n'era andata le

avesse regalato una moneta da sette scellini, in Rebecca il senso del comico

era decisamente superiore alla gratitudine, cosicché Miss Jemmy fu sacrificata

senza misericordia, seguendo la sorte della di lei sorella.

Poi sopravvenne la catastrofe, e Rebecca venne condotta al Mall, che

d'ora innanzi sarebbe stata la sua casa. Il rigido formalismo che vi dominava le

dava l'impressione di soffocare: il susseguirsi - impietosamente ritmato - delle

preghiere, dei pasti, delle lezioni e delle passeggiate, come si fosse trattato di

un convento, le riusciva opprimente altre ogni dire; il che la induceva a

ripensare alla libertà del miserando studio di Soho con un sentimento di così

struggente nostalgia che tutti, lei compresa, furono indotti a ritenere che a

consumarla fosse il dolore causatole dalla morte del padre... Aveva una

stanzetta negli abbaini, e di notte le domestiche la udivano piangere e

camminare. Ma piangere di rabbia: non di dolore. Non era mai stata

un'ipocrita, sino a quando la solitudine le insegnò l'arte della simulazione. I

suoi contatti con le donne erano sempre stati molto scarsi. Suo padre, per

quanto deplorevole, era un uomo geniale, e la sua conversazione le riusciva

mille volte più stimolante di quella offertale dalle persone del suo sesso che le

circostanze le facevano conoscere. L'altezzosa vanagloria della vecchia

direttrice, l'ottusa bonomia della sorella, le chiacchiere insulse e i pettegolezzi

delle ragazze più grandicelle, il tono gelido e compassato delle istitutrici: tutto

la indispettiva in egual misura. Rebecca non aveva il minimo sentimento di

tenerezza materna, altrimenti il chiacchiericcio delle più piccine, di cui era suo

compito occuparsi, sarebbe valso a interessarla e a distrarla. Invece, pur

essendo vissuta accanto a loro per due anni, nessuna mostrò di dolersi della

sua partenza. La buona e gentile Amelia Sedley fu l'unica persona alla quale

poté, sia pure in modesta misura, legarsi di un sentimento di amicizia; ma chi

avrebbe potuto non affezionarsi ad Amelia?

La gioia e i privilegi di cui fruivano le fanciulle che la circondavano

causavano a Rebecca indicibili spasimi di invidia. «Quella si dà tante arie

perché è la nipote di un conte,» diceva di una. «Come s'inchinano, come

scodinzolano tutti davanti a quella creola, per via delle sue centomila sterline!

Lei è ricca, ma io sono mille volte più intelligente e più affascinante di lei! Sono

colta e educata come la nipote di un conte, con tutto il suo albero

genealogico... Ma qui sono l'ultima di tutte. E pensare che, quando vivevo con

mio padre, i giovanotti erano pronti a rinunciare ai balli e alle feste, pur di

trascorrere una serata in mia compagnia!» Fu a questo punto che Becky decise

di uscire ad ogni costo dalla prigione nella quale era reclusa, e prese a fare

progetti concreti per l'avvenire.

Sfruttò tutte le possibilità che il luogo le offriva in materia di studio e, dal

momento che aveva inclinazione per la musica non meno che per le lingue,

non tardò a portare a termine il corso d'istruzione che a quell'epoca veniva

reputato un necessario compendio all'educazione di una fanciulla. Si esercitava

senza posa al pianoforte, e un giorno che tutte le sue compagne erano uscite,

e lei era rimasta sola in casa, fu udita eseguire un brano con tale maestria, che

Minerva coltivò senza indugio il saggio proposito di risparmiare la spesa di un

insegnante per le più piccole e ordinò a Miss Sharp di impartir loro lezioni di

musica. Ma la ragazza per la prima volta, e non senza lo stupefatto disappunto

della maestosa direttrice, oppose un secco rifiuto. «Sono qui per parlare il

francese alle bambine,» disse Rebecca, asciutta, «non per insegnare musica e

farvi risparmiare dei quattrini. Pagatemi, e io la insegnerò.»

Minerva si vide costretta a cedere, ma da quel giorno inutile dirlo, prese

a detestarla. «In trentaquattro anni,» disse (ed era vero), «nessuno ha mai

osato ribellarsi alla mia autorità. Mi sono nutrita una serpe in seno.»

«Serpe... un corno,» rispose Miss Sharp alla vecchia dama prossima a

svenire per la sorpresa. Mi avete accolta perché vi tornavo utile. Tra noi non ha

senso parlare di gratitudine. Odio questo luogo e voglio andarmene. Non

intendo far niente più di quanto sia obbligala a fare.»

Inutilmente la vecchia dama le chiese se si rendeva conto di parlare a

Miss Pinkerton. Rebecca le rispose con una risata: un orrida, sarcastica,

diabolica risata che mancò poco non facesse venire un attacco isterico alla

direttrice.» «Datemi un po' di soldi,» continuò la ragazza, «e liberatevi di me;

oppure, se preferite, trovatemi un buon posto d'istitutrice presso una famiglia

dell'aristocrazia: potrebbe essere una soluzione, se siete d'accordo.» E in tutte

le discussioni che seguirono Rebecca continuò a insistere su questo punto:

«Trovatemi un lavoro. Noi due ci odiamo ed io sono pronta ad andarmene.»

La degna Miss Pinkerton, col suo naso romano e il suo turbante, sebbene

fosse alta come un granatiere e sino a quel momento fosse stata una specie di

monarca assoluto al quale nessuno osava opporsi, non aveva la tenacia della

sua giovane allieva, e invano lottava contro di lei nel tentativo di intimorirla.

Una volta che si era arrischiata a rimproverarla in pubblico, Rebecca aveva

fatto ricorso al sopradescritto espediente di risponderle in francese, cosa che

aveva letteralmente distrutto la poveretta. Se intendeva conservare la sua

autorità nell'educandato, era ormai necessario allontanare la ribelle, levarsi di

torno quel mostro, quella serpe, quel tizzone d'inferno; cosicché, serpe o

tizzone che fosse, avendo appreso proprio allora che la famiglia di Sir Pitt

Crawley aveva bisogno di un'istitutrice, Miss Pinkerton non esitò a

raccomandare Miss Sharp. «Non posso certo affermare che il contegno di Miss

Sharp sia disdicevole, se non nei miei confronti, e devo riconoscere che le sue

doti e le sue qualità sono di altissimo livello. Per lo meno per quanto riguarda il

cervello, posso asserire che esso rende onore ai metodi didattici seguiti nel mio

istituto.»

Così la direttrice riuscì a stabilire un accordo tra la raccomandazione e la

propria coscienza: le cattiverie furono dimenticate e la giovane apprendista fu

finalmente libera di andarsene. Beninteso, la battaglia che abbiamo testé

descritta in poche righe durò in realtà parecchi mesi, e dal momento che Miss

Sedley, che aveva ormai diciassette anni e si accingeva a lasciare

l'educandato, era amica di Miss Sharp («Questo è l'unico neo che la sua

direttrice le rimproveri,» diceva Minerva), Rebecca fu invitata a trascorrere una

settimana a casa sua, prima di assumere le sue mansioni di istitutrice presso

una famiglia.

Dunque, davanti alle due fanciulle si schiudeva il mondo: davanti ad

Amelia un mondo affatto nuovo, brillante e pervaso di rosee prospettive;

davanti a Rebecca un mondo non del tutto nuovo (occorre dire, a onor del

vero, che in merito all'affare Crisp la venditrice di dolciumi aveva lasciato

intendere a qualcuno, il quale lo aveva riferito a qualcun altro, come tra Miss

Sharp e Mr. Crisp ci fosse assai di più di quanto non si credesse, e come la

lettera del giovanotto fosse la risposta a un'altra lettera). Ma chi riuscirà mai

ad accertare la verità? Sta di fatto, comunque, che per Rebecca il mondo non

si apriva, ma si riapriva.

Quando la carrozza che recava le due fanciulle raggiunse la barriera di

Kensington, Amelia non aveva ancora dimenticato le compagne, ma aveva

quantomeno asciugato le lacrime; ed era arrossita di piacere quando un

giovane ufficiale della Guardia le era passato accanto, e dopo aver spiato

all'interno del cocchio aveva esclamato: «Bella ragazza, perdio!». Prima che la

carrozza arrivasse in Russell Square lei e Rebecca avevano già tenuto un lungo

sproloquio sulla Corte e discusso dell'opportunità o meno che le ragazze

dovessero incipriarsi e indossare la crinolina per essere presentate alle Loro

Maestà, e se ad Amelia sarebbe spettato o meno tanto onore. Sapeva per certo

che sarebbe andata al ballo del Lord Mayor. Quando finalmente arrivarono a

casa, e Amelia dalle braccia di Sambo si lasciò cadere a terra, era la fanciulla

più bella e felice di tutta Londra. Sambo e il cocchiere concordavano su questo

punto, e parimenti suo padre e sua madre, e così pure tutta la servitù della

casa, mentre s'inchinava e sorrideva nell'atrio dove si era radunata per dare il

benvenuto alla sua padroncina.

Inutile dire che Amelia mostrò a Rebecca tutte le stanze della casa e

tutto ciò che contenevano i suoi cassetti, e così pure i suoi libri e il pianoforte e

i vestiti e le collane e le spille e i merletti e le cianfrusaglie. Insistette perché

Rebecca accettasse l'anello con la corniola bianca e quello con la turchese,

nonché un delizioso abito di mussola a fiori che ormai le andava stretto, ma

che sarebbe andato a pennello alla sua amica. Decise poi di chiedere alla

madre se potesse farle dono anche dello scialle di cachemire bianco. Poteva

benissimo privarsene: suo fratello non gliene aveva portati proprio allora due

nuovi dall'India?

Quando Rebecca vide i due splendidi scialli che, Joseph Sedley aveva

portato alla sorella dall'India, dichiarò in tutta sincerità che «doveva essere

delizioso avere un fratello», suscitando all'istante un sentimento di pietà nel

tenero cuore di Amelia, dal momento che la povera Becky era sola al mondo,

orfana, senza parenti, senza amici.

«Non sei sola, Rebecca,» disse Amelia, «tu sai che ti sono sempre amica

e che ti sarò sempre affezionata come una sorella. Credimi!»

«Ah, se avessi dei genitori come li hai tu! Dei genitori gentili, ricchi,

affettuosi, pronti a darti tutto ciò che desideri... e il loro affetto, soprattutto,

che è la cosa più preziosa! Il mio babbo non poteva darmi nulla, ed io avevo

soltanto due vestiti. E poi, avere un fratello! Un fratello affezionato! Chissà

quanto bene gli vuoi!...»

Amelia rise.

«Come! Non gli vuoi bene, forse? Ma se dici di amare tutti quanti!»

«Sì che gli voglio bene, ma...»

«Ma?...»

«Be', non credo che a Joseph importi gran che io gli voglia bene o no.

Quando è tornato a casa dopo esser stato assente per dieci anni, in tutto e per

tutto mi ha dato due dita da stringere! È buono, è gentile, ma non mi rivolge

quasi mai la parola. Credo che voglia bene alla sua pipa molto più che a sua...»

Amelia s'interruppe. Perché avrebbe dovuto dir male di suo fratello? «Con me è

sempre stato molto gentile quando ero piccola. Avevo solo cinque anni quando

è partito.»

«È ricchissimo, vero?» chiese Rebecca. «Ho sentito dire che tutti i

nababbi indiani sono pazzamente ricchi.»

«Sì, credo abbia una grossa rendita,» disse Amelia.

«E tua cognata è simpatica?»

«No, no, Joseph non è sposato, «rispose Amelia, tornando a ridere. Forse

glielo aveva già detto, ma a quanto pareva Rebecca se n'era scordata. Anzi,

eccola ripetere ch'era convinta di vedere una mezza dozzina di nipotini e

nipotine di Amelia. Sembrava proprio contrariata che Mr. Sedley non fosse

sposato. Era certa che Amelia le avesse detto che aveva moglie, e poi a lei i

bambini piacevano immensamente.

«Secondo me dovresti averne abbastanza, dopo tutti quelli che hai visto

a Chiswick,» disse Amelia, alquanto sorpresa da quell'impeto subitaneo di

tenerezza materna da parte della sua amica. In seguito, occorre dirlo, Miss

Sharp si sarebbe guardata del compromettersi con asserzioni del genere, delle

quali era sin troppo facile svelare la falsità. Ma non dobbiamo dimenticare che

quell'innocente fanciulla aveva solamente diciassette anni, e che ancora non

era esperta nell'arte dell'inganno. Nella mente dell'ingegnosa ragazza le

domande poc'anzi riportate comportavano la seguente implicazione: «Se Mr.

Joseph Sedley è ricco e scapolo, perché non dovrebbe riuscirmi di sposarlo?

Certo, ho solo quindici giorni di tempo, ma dopotutto tentar non nuoce.»

Pertanto, nel segreto del suo cuore decise di porre in atto quel lodevole

tentativo: raddoppiò le sue moine ad Amelia, baciò la collana di pietre bianche

mentre se la metteva al collo, giurando e spergiurando che non se ne sarebbe

mai separata. Più tardi, quando suonò la campanella che annunciava il pranzo,

scese le scale cingendo la vita dell'amica con un braccio, come sogliono fare le

ragazze. Giunta davanti alla porta del salotto, si sentì così turbata da non

trovare il coraggio di entrare. «Senti il mio cuore, cara: senti come batte!»

disse all'amica.

«Ma no, ma no,» le rispose Amelia. «Suvvia, entra, non aver paura: papà

non ha certo l'intenzione di mangiarti.»

III • REBECCA AL COSPETTO DEL NEMICO

Quando le due ragazze entrarono, un uomo corpulento e rubicondo in

calzoni di daino e alti stivali all'ungherese, il collo avvolto in vistosi cravattoni

che gli salivano sin quasi al naso, il panciotto a strisce bianche e rosse, la

giacca verde mela adorna di bottoni d'acciaio grossi quasi come monete da una

corona (l'abbigliamento da mattina degli elegantoni dell'epoca) smise di

leggere il giornale accanto al fuoco, balzò dalla poltrona, si fece rosso come un

pomodoro e quasi occultò la faccia nei cravattoni che gli fasciavano il collo.

«Suvvia, sono soltanto tua sorella, Joseph,» disse Amelia ridendo e

stringendo le due dita che lui le porgeva. «Sono tornata a casa per sempre,

sai? E questa è la mia amica Miss Sharp: ne hai già sentito parlare...»

«No, mai, parola mia,» rispose la testa nascosta nei cravattoni. Cioè...

sì... Che freddo, che tempo infame... nevvero, signorina?» Ciò detto, prese ad

attizzare il fuoco, sebbene si fosse ormai alla metà di giugno.

«Che bell'uomo!» disse Rebecca ad Amelia, in un sussurro perfettamente

udibile.

«Davvero?» disse quest'ultima. «Glielo dirò.»

«No, no, te ne scongiuro, cara!» esclamò Miss Sharp ritraendosi come

una colomba spaurita. Aveva già fatto un rispettoso e verginale inchino al

gentiluomo, e i suoi occhi fissavano il tappeto con insistenza tanto modesta e

schiva, che solo un miracolo - si sarebbe detto - le avrebbe permesso di

vederlo.

«Grazie per gli splendidi scialli, caro fratello,» disse Amelia al pingue

giovanotto, tuttora impegnato ad attizzare il fuoco. «Vero che sono

meravigliosi, Rebecca?»

«Ah, divini!» confermò Miss Sharp, e i suoi occhi si spostarono dal

tappeto al candelabro.

Joseph sbuffò, soffiò, arrossì nei limiti consentitigli dal suo colorito

giallognolo, e non smise di armeggiare intorno al fuoco.

«Io non posso permettermi regali così sontuosi,» continuò la sorella, «ma

in collegio ti ho ricamato un bel paio di bretelle.»

«Santo Dio, Amelia, dici davvero?» esclamò il fratello, seriamente

allarmato.

Diede un violento strattone al cordone del campanello, che gli rimase in

mano: un piccolo incidente che valse ad accrescere l'imbarazzo del brav'uomo.

«Per l'amor di Dio, guarda se il mio buggy è alla porta. Non posso attendere

oltre... Sì, debbo proprio andarmene. Accidenti a quel dannato domestico!»

In quel momento entrò il padre di famiglia, facendo tintinnare le monete

che aveva in tasca con un tipico gesto da bravo mercante inglese. «Che cosa

c'è, Emmy?» domandò.

«Joseph vuole che vada a vedere se è arrivato il suo buggy. Che cos'è un

buggy, papà?»

«È un palanchino trainato da un cavallo,» rispose il vecchio, che a modo

suo non mancava di spirito.

A questo punto Joseph scoppiò in una risata sonora; ma nel momento in

cui incontrò lo sguardo di Miss Sharp, il suo riso si spense come se fosse stato

colpito dal fulmine.

«Questa fanciulla è forse la tua amica? Sono lieto di conoscervi, Miss

Sharp. Ma avete forse litigato con Joseph, voi ed Emmy? Vedo infatti che vuole

già andarsene...»

«Ho promesso a Bonamy di pranzare con lui. È un mio collega...»

«Come! Non avevi detto a tua madre che avresti pranzato a casa?»

«Ma vestito così è impossibile!»

«Davvero? Guardatelo, dunque! Non vi sembra che sia abbastanza bello

per pranzare in qualsiasi posto, Miss Sharp?»

Miss Sharp guardò Amelia, e le due amiche scoppiarono in una risata che

giunse oltremodo accetta alle orecchie del vecchio signore.

«Vi è mai capitato di vedere un paio di calzoni di daino come questi, da

Miss Pinkerton?» continuò il vecchio, impietoso.

«Papà, vi prego!» esclamò Joseph.

«Santo Dio, ora l'ho offeso. Mia cara Mrs. Sedley, ho offeso vostro figlio.

Mi sono permesso di fare commenti sui suoi calzoni di daino. Non è vero, Miss

Sharp? Suvvia, Joseph, fa' amicizia con Miss Sharp e andiamo tutti a pranzo.»

«C'è il pillau Joseph. Proprio come piace a te. E poi papà ha mandato a

casa il miglior rombo che abbia potuto trovare in tutta Billingsgate.»

«Venite, signore, prego! Accompagnate a pianterreno Miss Sharp; io vi

seguirò con queste due fanciulle,» disse il padre prendendo moglie e figlia

sottobraccio, e si avviò allegramente verso la sala da pranzo.

Se in cuor suo Miss Rebecca Sharp aveva deciso di conquistare quel

pingue bellimbusto, io non credo, gentili signore, che sia nei nostri diritti

deplorarlo. È pur vero che per solito il compito di rimediare un marito spetta

alle madri, in omaggio al modesto riserbo che si addice alle giovinette; ma non

dimentichiamoci che Miss Sharp era priva di una affettuosa e trepida genitrice

pronta ad adoperarsi per svolgere una siffatta, delicata incombenza, e che, se

non si fosse trovata un marito da sola, non c'era persona al mondo disposta a

risolvere per lei questo problema. Quale forza induce le ragazze a «uscire dal

guscio», se non la nobile ambizione di giungere al matrimonio? Perché

frequentano in massa le stazioni termali? Perché ballano sino all'alba nel corso

di un'interminabile e stressante stagione mondana? Perché si rassegnano a

imparare alla meno peggio quattro sonate al pianoforte, quattro canzoni alla

moda, pagando un insegnante una ghinea la lezione? Perché, se sono dotate di

belle braccia e bei gomiti, s'ingegnano di suonare l'arpa? Perché mai indossano

cappelli svettanti di piume color verde Lincoln, se non allo scopo di servirsi di

quelle frecce, di quelle armi fatali per colpire qualche «desiderabile»

giovanotto? Che cosa spinge genitori affatto rispettabili ad arrotolare i tappeti,

a mettere la casa sottosopra, a spendere un quinto del loro reddito in balli,

cene e champagne ghiacciato? Forse per amore incondizionato dei propri simili

e per il sincero desiderio di vedere i giovani spassarsela allegramente?

Nemmeno per idea! Vogliono accasare le loro figlie, e come la brava Mrs.

Sedley aveva già predisposto nel profondo del suo cuore benevolo

innumerevoli piccoli espedienti volti a trovar marito alla sua Amelia, così anche

la nostra carissima quanto indifesa Rebecca aveva deciso di fare il possibile per

assicurarsi un consorte, a lei necessario ancor più di quanto lo fosse per la sua

amica. Rebecca aveva una fervida fantasia: aveva letto Le Mille e una notte e

la Geography di Guthrie; e per dire la verità, mentre si preparava per il pranzo,

dopo aver chiesto ad Amelia se suo fratello fosse ricco, aveva mentalmente

costruito uno splendido castello in aria nel quale ella fungeva da incontrastata

castellana, con un marito che sfumava in lontananza (non lo aveva ancora

individuato, cosicché la sua immagine appariva tuttora indefinita), si era

prontamente abbigliata con scialli, turbanti e collane di diamanti, ed era

montata in groppa a un elefante al suono della marcia di Bluebeard per

recarsi in visita ufficiale al Gran Mogol. Ah, magiche visioni di Alnaschar! Voi

siete un privilegio della giovinezza! Quante fanciulle, prima di Rebecca, si sono

già smarrite dietro questi sogni deliziosamente impossibili!

Joseph Sedley aveva dodici anni più di Amelia. Era un funzionario della

Compagnia delle Indie, e nel momento in cui scriviamo egli figurava

nell'Annuario della Compagnia delle Indie, sezione Bengala, in qualità di

ricevitore di Boggley Wollah, carica notoriamente dignitosa e redditizia. Chi fra

i lettori desiderasse sapere a quali gradi più prestigiosi sia giunto Joseph in

prosieguo di tempo, non ha che da consultare i numeri successivi del

summenzionato Annuario.

Boggley Wollah si trova in una regione acquitrinosa della giungla, non

priva di bellezza nella sua solitudine, famosa per la caccia alle beccacce e dove

talvolta si può persino stanare la tigre. Ramguge, sede di tribunale, è situata a

sole quaranta miglia. A una trentina di miglia c'è anche una guarnigione di

cavalleria. Ciò, per lo meno, è quanto scrisse Joseph a suo padre e a sua

madre allorché prese possesso della ricevitoria. E in quel luogo incantevole

aveva vissuto per otto anni assolutamente solo, senza posare gli occhi su

anima viva tranne due volte l'anno, quando arrivava il distaccamento che

doveva portare a Calcutta il denaro delle imposte da lui riscosso.

Fortunatamente in quel periodo aveva contratto una malattia di fegato

che lo aveva costretto a ritornare in Europa per sottoporsi alle cure del caso e

che, una volta in patria, gli era stata pretesto per concedersi ogni sorta di

comodità e di svaghi. A Londra non abitava coi familiari, ma in un comodo

appartamentino personale, come si conviene a uno scapolo allegro e

spensierato. Quando era partito per l'India, era ancora troppo giovane e non

aveva potuto concedersi la dose di ineffabili piaceri che spetta a un giovane di

mondo, ma al suo rientro vi si era tuffato col massimo trasporto. Guidava la

carrozza ad Hyde Park, pranzava nelle taverne alla moda (giacché l'Oriental

Club non era stato ancora fondato); frequentava i teatri secondo l'usanza

mondana del tempo, e faceva la sua comparsa all'Opera con un cappello a

tricorno e un paio di calzoni attillatissimi che gli erano causa d'indicibili

sofferenze.

Tornato in India, aveva preso a parlare in termini entusiastici di quel

periodo della sua vita e dei piaceri che gli aveva elargito: si compiaceva di

lasciar credere che lui e lord Brummel fossero i due giovanotti più eleganti del

momento. Invece a Londra la sua situazione non era diversa che a Boggley

Wollah. Non conosceva nessuno, nella capitale, e se non avesse avuto la

compagnia del medico, delle pillole e del mal di fegato, sarebbe morto di

malinconia. Era pigro, bizzoso e bon vivant. La presenza di una signora lo

terrorizzava, cosicché raramente metteva piede nella casa paterna di Russell

Square, dove regnava l'allegria e dove gli scherzi di quel vecchio buontempone

di suo padre lo ferivano nel suo amour propre. La corporatura massiccia era

motivo, per Joseph, di ansietà e di paura. Di tanto in tanto metteva in atto

qualche tentativo per attenuare la sua pinguedine, ma ben presto l'ingordigia e

l'indolenza prevalevano sui suoi sforzi di snellire la propria figura, e Joseph non

tardava a tornare ai tre pasti giornalieri. Non vestiva mai con autentica

eleganza, ma si preoccupava di agghindare la sua tozza figura e trascorreva

ore e ore in una siffatta occupazione. Il suo lacchè si arricchiva sfruttando il

suo guardaroba smesso. Sul suo tavolo da toeletta c'erano più essenze e

belletti che su quello di una bella donna in declino. Per riuscire a farsi una vita

snella aveva fatto ricorso ad ogni tipo di ventriera, di busto, di corsetto che

esistesse in commercio. Al pari della maggior parte degli uomini corpulenti, si

faceva confezionare abiti molto attillati, ed anzi li voleva di taglio brillante e

giovanile. Quando alla fine era vestito di tutto punto, usciva per una solitaria

scarrozzata pomeridiana in Hyde Park, poi tornava a casa per cambiarsi d'abito

e recarsi a pranzo (sempre da solo, inutile dirlo) al Piazza Coffee-House. Era

vanitoso come una ragazza, e forse la sua estrema timidezza era solo frutto di

un'estrema vanità. Se Miss Rebecca segnava un punto a suo favore proprio con

lui, e in concomitanza con il suo ingresso in società, dava prova di essere una

giovane di intelligenza non comune.

La prima mossa rivelava una notevole astuzia. Quando aveva dichiarato

ad Amelia che Sedley era un bell'uomo, era certa che lei l'avrebbe riferita a sua

madre, e che a sua volta quest'ultima l'avrebbe ripetuta a Joseph, e che in

ogni caso lei ne sarebbe stata lusingata. Tutte le mamme si compiacciono dei

complimenti rivolti al figlio. Se qualcuno avesse detto a Sicorace che suo figlio

Calibano era bello come un Apollo, per quanto strega ne sarebbe stata

lusingata. Poi, forse, lo stesso Joseph aveva captato l'eco di quel complimento

(Rebecca aveva parlato in tono intelligibile): anzi, non c'era dubbio che lo

avesse udito, e nella sua certezza di essere oltremodo avvenente si era sentito

correre un brivido di piacere per tutto il corpo. Subito peraltro si ricredette:

«Che si stia burlando di me, questa ragazza?» si disse; e senza un attimo di

esitazione balzò verso il cordone del campanello. Stava per andarsene (già lo

abbiamo visto) quando le facezie del padre e le esortazioni della madre lo

indussero a trattenersi. Pertanto condusse a cena la fanciulla in preda a uno

stato d'animo misto di esitazione e di turbamento. «È davvero convinta che io

sia un bell'uomo,» pensava, «o mi sta prendendo in giro?» Dicevamo poc'anzi

che Joseph era vanitoso come una ragazza, ma per parte loro le ragazze non

hanno che da capovolgere la frase e dire di una qualsiasi del loro sesso: «È

vanitosa come un uomo.» Né, in tal caso, si potrà dire che abbiano torto. Gli

esseri umani provvisti di barba sono avidi di complimenti, ambiziosi in fatto di

vestiario, orgogliosi delle proprie doti fisiche e consapevoli del proprio fascino

né più né meno come qualsiasi civetta di sesso femminile.

Scesero dunque a pianterreno: Joseph Sedley rosso in volto, e Rebecca

in atteggiamento modesto, gli occhi verdi rivolti verso terra. Indossava un

abito bianco, e aveva le spalle nude, di un candore di neve. Era l'incarnazione

dell'innocenza verginale, di un'umile, indifesa giovinezza. «Devo starmene

quieta e buona,» pensava Rebecca, «e manifestare vivo interesse per l'India.»

Abbiamo già appreso come Mrs. Sedley avesse fatto cucinare un Curry

coi fiocchi, in ossequio ai gusti del figlio, e durante il pasto questo piatto venne

offerto anche a Rebecca.

«Che cos'è?» chiese la ragazza, rivolgendo uno sguardo interrogativo al

giovanotto.

«Ah, una cosa semplicemente divina,» rispose Joseph, la bocca piena e il

volto acceso dalla gioia di masticarlo. «Credi, mamma: è buono come i curries

che mangio in India!»

«Se si tratta di una specialità indiana, voglio assaggiarla,» esclamò

Rebecca. «Sarà buono come tutto ciò che viene dall'India.»

«Da' un po' di curry a Miss Sharp,» disse ridendo Mr. Sedley. Rebecca

non lo aveva mai assaggiato in vita sua.

«Davvero trovate che sia buono come tutto ciò che viene dall'India?»

chiese Mr. Sedley.

«Oh, sì, è squisito,» rispose Rebecca, nonostante soffrisse per il pizzicore

del pepe di Caienna.

«Perché non ci mettete anche un poco di chili? » propose Joseph con

molta convinzione.

«Un po' di chili? E perché no?» disse Rebecca ansante. Quel nome

evocava in lei l'immagine di un possibile refrigerio. «Sono così freschi, così

verdi...» esclamò, facendosene servire qualcuno; poi se ne mise uno in bocca.

Bruciavano più del curry, e Rebecca non riuscì a sopportarli. «Un po' d'acqua,

per l'amor di Dio!» supplicò, posando la forchetta. Mr. Sedley scoppiò a ridere

in modo alquanto sguaiato, assuefatto com'era alle facezie un po' volgari dei

funzionari di Borsa. «Eppure vengono dall'India, ve lo assicuro!» disse.

«Sambo, versa un po' d'acqua a Miss Sharp.»

Alla risata del padre fece eco quella di Joseph, cui lo scherzo era

sembrato divertentissimo. Le signore si mantennero entro i limiti del sorriso. A

loro giudizio, Rebecca aveva già sofferto sin troppo. Costei aveva già patito le

pene dell'inferno, e sarebbe stata lietissima di strozzare il vecchio Sedley; ma

preferì inghiottire la propria umiliazione come aveva inghiottito il curry, e non

appena le riuscì ancora di parlare disse in tono comicamente cordiale:

«Avrei dovuto ricordare che la principessa delle Mille e una notte mette il

pepe nelle focaccette alla panna. Anche voi, signore, mettete il pepe nelle

focaccette alla panna, quando siete in India?»

Il vecchio Sedley ricominciò a ridere. Pensava che Rebecca era proprio

una ragazza di carattere gioviale. «Focaccette alla panna, dite?» rispose

Joseph. «La panna è pessima, nel Bengala. Di solito beviamo latte di capra.

Anzi, che lo crediate o no, ormai lo preferisco!»

«Ora credo che abbiate cambiato parere, Miss Sharp; oppure continuate

a preferire tutto ciò che viene dall'India?» chiese il vecchio con aria furbesca

ma quando al termine del pranzo le signore si furono ritirate, si rivolse al figlio

e gli disse:

«Attento Jos: quella ragazza cerca d'incastrarti.»

«Sciocchezze!» rispose Jos, che si sentiva estremamente lusingato.

«Ricordo una ragazza, signore, figlia di un certo Cutler dell'Artiglieria. È

stato nel '4, a Dumdum. Quella sì, aveva cercato di mettermi in trappola! Poi

ha sposato Lance, il chirurgo. Aveva cercato di accalappiare anche

Mulligatawney; è magistrato a Budge-budge e tra qualche anno entrerà senza

dubbio a far parte del Consiglio. Stavo dicendovi, signore, che l'Artiglieria ha

dato una festa da ballo, e che Quintin, uno del XIV Artiglieria, mi ha detto:

"Ehi; Sedley, scommetto tredici contro dieci che Sophie Cutler incastra te o

Mulligatawney prima che inizi la stagione delle piogge." "Accetto," ho detto io.

Ottimo, questo chiaretto: è di Adamson o di Carbonell?»

Gli rispose un sommesso russare: il bravo agente di cambio si era

addormentato, e per quel giorno il resto della storia andò disperso. Ma dal

momento che Joseph era sempre molto loquace quando si trovava in

compagnia di uomini, il dottor Gallop, il farmacista, che di tanto in tanto

andava a fargli visita per informarsi sulle condizioni del suo fegato e per aver

notizia delle pillole, si era già sentito raccontare quell'episodio una ventina di

volte.

Visto che era in cura, Joseph ritenne opportuno accontentarsi di una

bottiglia di chiaretto in aggiunta al madera che aveva bevuto a cena, poi trovò

il modo di trangugiare due piatti di fragole alla panna, un paio di dozzine di

pasticcini ch'erano stati dimenticati in un piatto nelle sue immediate vicinanze,

e nel frattempo (i romanzieri sanno sempre tutto) lasciò che il suo pensiero

vagheggiasse la ragazza che stava al piano superiore.

«Una creatura così semplice, così vivace, così spontanea!» pensava. «E

come mi ha guardato quando le ho raccolto il fazzoletto, dopo pranzo! Lo ha

lasciato cadere due volte! Chi canta, in salotto? Perdio! E se andassi a dare

un'occhiata?»

Ma la timidezza lo assalse, dominandolo con forza incontrollabile. Il padre

dormiva. Il suo cappello era in anticamera. C'era un posteggio di carrozze a

pochi passi di lì, in Southampton Row. «Vado a vedere i Forty Thieves con la

De Camp,» si disse. E nonostante indossasse gli stivali, riuscì a sgusciar via in

silenzio, senza destare l'esimio genitore.

«Joseph se n'è andato,» disse Amelia, che osservava dalla finestra

mentre Rebecca cantava, seduta al pianoforte.

«Miss Sharp lo ha spaventato e lui ha preferito andarsene,» commentò

Mr. Sedley. «Povero Jos, mi chiedo perché sia tanto timido.»

IV • LA BORSA DI SETA VERDE

Il panico del povero Jos si protrasse per due o tre giorni, durante i quali

lui non si mostrò nella casa paterna, né Rebecca si arrischiò a nominarlo. La

ragazza si atteneva a un atteggiamento di rispettosa gratitudine nei confronti

di Mrs. Sedley: era felice nei negozi, stupefatta e al settimo cielo nei teatri ove

la buona signora la conduceva. Un giorno Amelia aveva l'emicrania e non si

sentiva di partecipare a un ricevimento cui le due fanciulle erano state

parimenti invitate. Ebbene: nulla poté indurre Rebecca a recarsi senza l'amica.

«Come! Io, lasciarti? Lasciare te che hai insegnato a una povera orfana cosa

siano felicità e l'affetto? Non sarà mai!» E gli occhi verdi, levati verso il cielo,

brillarono di lacrime. Mrs. Sedley fu costretta a riconoscere che anche l'amica

di sua figlia aveva un cuore buono e generoso.

Quanto agli scherzi di Mr. Sedley, Rebecca ne rideva con tanto cordiale

disponibilità, che il brav'uomo se ne sentì compiaciuto e intenerito. Ma Miss

Sharp non si limitò ad attirarsi la simpatia della famiglia: si assicurò la

considerazione di Mrs. Blenkinsop palesando il più vivo interesse per la

preparazione della marmellata di more: operazione che in quel momento era in

corso nella camera della governante. Ostentava di chiamare Sambo «signore»

o «Mr. Sambo», cosa che lusingava altamente il domestico, e ogni qual volta

spingeva il proprio ardire fino a suonare il campanello si scusava con la

cameriera per il disturbo che le causava in termini di tale umiltà e dolcezza,

che la servitù subiva il suo fascino non meno di chi abitava il salotto.

Un giorno, mentre osservavano certi disegni che Amelia aveva inviato a

casa quando ancora si trovava all'educandato, Rebecca, che ne aveva preso in

mano uno, scoppiò in lacrime e uscì dalla stanza. Fu questo il giorno in cui

Joseph Sedley fece la sua seconda apparizione. Amelia si affrettò a seguire

l'amica per scoprire quale fosse il motivo di quella profonda e subitanea

commozione, e poco dopo la brava fanciulla ritornò sui suoi passi, sola e

parimenti emozionata.

«Sapete, mamma, suo padre era il nostro insegnante di disegno, a

Chiswick. Le parti migliori dei nostri disegni sono di suo pugno.»

«Eppure sono sicura di aver sentito dire da Miss Pinkerton che lui si

limitava a correggerli.»

«Lo chiamavamo "correggere", mamma. A Rebecca è tornato in mente il

momento in cui eseguiva quel disegno, e ha rivisto mentalmente suo padre

mentre vi lavorava... E allora, capirai...»

«Quella cara figliola ha un cuore d'oro,» disse Mrs. Sedley.

«Vorrei tanto che si trattenesse un'altra settimana con noi,» disse

Amelia.

«Assomiglia moltissimo a Miss Cutler, quella ragazza che conoscevo a

Dumdum. Solo che è più bella. Adesso ha sposato Lance, il chirurgo

dell'Artiglieria. Una volta Quentin, nel XIV Artiglieria, ha scommesso...»

«Basta, Joseph, la sappiamo a memoria questa storia,» esclamò Amelia

ridendo. Piuttosto, cerca di convincere la mamma a scrivere a quel... come si

chiama?... A quel Sir Crawley perché conceda qualche altro giorno alla povera

Rebecca. Eccola: ha gli occhi arrossati, a furia di piangere!»

«Ora mi sento meglio,» disse la ragazza col più suadente dei suoi sorrisi.

Prese la mano che Mrs. Sedley le porgeva e la baciò.

«Siete tutti così gentili con me!» aggiunse poi. «Tutti tranne voi Mr.

Joseph,» precisò con una risatina.

«Io!» esclamò Joseph, subito tentato di svignarsela. «Santo Cielo! Che

dite, Miss Sharp!»

«Proprio così! Come avete potuto esser così crudele da farmi mangiare

quella pietanza così pepata il giorno stesso che ci siamo conosciuti? Non siete

buono come la mia cara Amelia!»

«Non ti conosce bene quanto me,» intervenne Amelia.

«Sfido chiunque a non essere buono con voi, mia cara!» disse Mrs.

Sedley.

«Quel curry era fantastico,» disse Joseph con la massima compunzione.

«Forse non c'era abbastanza limone... Ecco, sì, il limone non bastava.»

«E i chili

«Come vi hanno fatto piangere, per Giove!» esclamò Joseph rievocando

la comicità della scena e prorompendo in una risata che, al solito, si spense

all'improvviso.

«Un'altra volta eviterò con cura di lasciarvi scegliere per me,» disse

Rebecca mentre di nuovo scendevano le scale per andare a pranzo. «Non

pensavo che gli uomini prendessero gusto a far del male alle povere ragazze

indifese.»

«Perdio, Miss Rebecca, non vi farei del male per nessuna ragione al

mondo!»

«Ma certo,» disse lei, « lo so che non me ne fareste.» E gli strinse

leggermente il braccio con la piccola mano, per poi ritrarla sgomenta,

guardandolo fuggevolmente e tosto chinando lo sguardo al tappeto: non posso

negare che il cuore di Jos sussultò sotto l'effetto di quella brevissima, garbata

e involontaria attenzione di evanescente interesse da parte della candida

fanciulla.

Si trattava nondimeno di un gesto alquanto audace, e non c'è dubbio

che, come tale, certe signore di insindacabile correttezza e nobiltà lo

giudicheranno affatto deplorevole. Ma non dimentichiamo che la povera

Rebecca doveva fare tutto da sé. Se una persona è così povera da non potersi

pagare una domestica, anche se si tratta di una persona d'alto bordo sarà

costretta a rassettarsi la casa da sé, e se una brava ragazza non dispone di

una mammina affettuosa che provveda direttamente a prendere i dovuti

accordi col giovanotto, è indispensabile che si aggiusti da sola. Ed è una

fortuna che donne del genere non esercitino più sovente i loro poteri.

Impossibile resistergli, quando lo fanno. Basta che palesino una pur minima

inclinazione, ed ecco gli uomini buttarglisi ai piedi, belle o brutte che siano.

Questa, a mio avviso, è un'incontestabile verità. Una donna alla quale venga

offerta l'occasione propizia, e che non sia proprio deforme, trova il modo di

sposare CHIUNQUE LE AGGRADI. Grazie al Cielo quelle creature sono simili ad

animali selvatici: non si rendono conto del potere di cui dispongono.

Diversamente, non esiterebbero a sopraffarci. «Perdio,» pensò Joseph

entrando in sala da pranzo, «comincio a provare né più né meno quel che

provavo a Dumdum con Miss Cutler.» Poi, nel corso del pasto, Miss Sharp

continuò a rivolgergli la parola in un tono tra l'affettuoso e il faceto. Giacché

ormai era in rapporti confidenziali con tutti i membri della famiglia. Le due

ragazze si volevano bene come due sorelle, come suole accadere di tutte le

fanciulle che si trovino a vivere per dieci giorni sotto lo stesso tetto.

E Amelia, quasi pensasse soltanto ad assecondare i progetti di Rebecca,

ricordò al fratello una promessa ch'egli le aveva fatto durante le vacanze di

Pasqua ( «quando ero ancora a scuola», disse ridendo): la promessa che lui,

Joseph, l'avrebbe portata a Vauxhall. «Quale migliore occasione, ora che

Rebecca è con noi?» concluse Amelia.

«Ah, che bellezza!» esclamò Rebecca; e stava per battere le mani per la

contentezza, ma si trattenne in ossequio a un contegno modesto.

«Stasera no,» disse Joseph.

«Domani, allora.»

«Domani tuo padre ed io siamo fuori a cena,» disse Mrs. Sedley.

«Non penserai che io ci vada, Mrs. Sed!» obiettò il marito. «O che ci vada

una donna della tua età. Si beccherebbe i reumatismi, in quell'orrendo,

umidissimo luogo!»

«Ma le ragazze hanno bisogno di un accompagnatore!» disse Mrs.

Sedley.

«Ci vada Jos. Direi che è grande e grosso quanto basta.» E a queste

parole persino Sambo, che se ne stava in piedi accanto alla credenza, non poté

trattenere uno scoppio di risa. Il povero Jos fu tentato di macchiarsi del reato

di parricidio.

«Slacciategli il busto!» ingiunse Mr. Sedley, spietato. «Spruzzategli la

faccia con un po' d'acqua, Miss Sharp! Portatelo di sopra. Sta per svenire,

povero tesoro! Suvvia, portatelo di sopra: è leggero come una piuma!»

«Se credete che io sia disposto a subire una cosa simile signore, io...

io...» sbottò Joseph.

«Fa' venire l'elefante di Mr. Jos, Sambo,» esclamò il padre. «E manda

qualcuno all'Exeter Change. «Poi, accorgendosi che Jos era prossimo a

piangere per l'umiliazione, il vecchio mattacchione smise di ridere e tese una

mano al figlio. «In Borsa ogni scherzo è lecito, Jos... Ehi, Sambo, lascia

perdere l'elefante e porta piuttosto dello champagne per me e per Mr. Jos.

Nemmeno quel dannato Boney ne ha uno come il mio, nella sua cantina!»

Una coppa di champagne valse a ripristinare il buonumore di Jos, che

prima di essersi scolato la bottiglia (della quale, sempre per il fatto di essere in

cura, bevve solo due terzi) acconsentì ad accompagnare le ragazze a Vauxhall.

«Ma ciascuna delle ragazze deve avere un cavaliere,» disse il vecchio

Sedley. «Sono certo che Jos si dimenticherà di Emmy in mezzo alla folla, tanto

le sue attenzioni saranno rivolte a Miss Sharp. Mandate qualcuno al numero 96

e chiedete se George Osborne sia disposto a venire con voi.»

Nell'udire queste parole, Mrs. Sedley (e non saprei dirne il motivo), Mrs.

Sedley guardò il marito e sorrise. Gli occhi di Mr. Sedley ammiccarono

maliziosi, poi si posarono su Amelia. Questa chinò il capo e arrossì come solo

può arrossire una fanciulla di diciassette anni, e come Miss Rebecca Sharp non

arrossì in tutto l'arco della sua vita, o quanto meno dal giorno in cui, all'età di

otto anni, la sua madrina l'aveva colta in flagrante nell'atto di rubare la

marmellata nella credenza. «Sarebbe più cortese che Amelia scrivesse un

biglietto,» disse il padre. «Così George avrebbe modo di apprezzare la bella

scrittura che abbiamo imparato alla scuola di Miss Pinkerton. Ti ricordi, Emmy,

quando gli hai mandato quel biglietto d'invito perché venisse con noi a vedere

La dodicesima notte, e hai scritto "notte" con una t sola?»

«Sono passati tanti anni!» disse Amelia.

«Sembra ieri, nevvero John?» disse Mrs. Sedley al marito quella notte

stessa durante una conversazione che aveva luogo in una camera al secondo

piano, dentro un'alcova chiusa da un tendaggio di chinz dai vivaci e fantasiosi

disegni indiani con la fodera di calicò rosa pallido. In quella specie di grande

tenda da campo c'era un letto enorme con due guanciali sui quali posavano

due volti accesi e rubicondi: l'uno in cuffietta di pizzo, l'altro con una berretta

di cotone completata da un fiocco. Durante quella specie di redde rationem

coniugale, Mrs. Sedley riproverò al consorte il suo comportamento crudele

verso il povero Jos.

«Sei stato cattivo, John, a tormentare così quel povero ragazzo,» disse

Mrs. Sedley.

«Mia cara,» rispose il berretto a pompon, deciso a difendere il suo

comportamento, «Joseph è ancora più vanitoso di quanto tu lo sia mai stata in

vita tua, ed è tutto dire. È pur vero che trent'anni fa, verso il 1780, forse tu

avevi buon motivo per esserlo... non oso negarlo. Ciò che in Jos mi riesce

insopportabile è quella sua timidezza piena di pompa altezzosa. È più Giuseppe

di Giuseppe. È invasato di se stesso ed è convinto di essere un'autentica

meraviglia. Io invece, cara consorte, sono convinto che ben presto avremo

delle noie per causa sua. Tanto per cominciare, è evidentissimo che l'amichetta

di Emmy gli sta facendo una corte spietata, e se non riesce ad assicurarselo lei

ci penserà qualcun'altra. Quel bel tipo è destinato a finire nelle grinfie di una

donna, né più né meno come a me tocca in sorte di andare in Borsa tutti i

giorni. Ringraziamo il cielo che non ci abbia portato a casa una nuora negra,

cara mia. Ma tieni a mente quel che ti dico: la prima donna che gli getta l'amo

se lo pesca di sicuro.»

«Domani mi sbarazzo di quella piccola intrigante,» dichiarò recisa Mrs.

Sedley.

«E perché non permettere che se lo sposi lei invece di un'altra, Mrs.

Sedley. Ha una carnagione bianchissima, comunque. Per me Joseph faccia pure

come gli garba: non m'importa di chi se lo sposerà.»

Ancora qualche istante, e alle voci dei due subentrò una sommessa ma

poco romantica musica nasale. Così, fatta eccezione per le campane che

scandivano le ore e la voce della guardia notturna che le ripeteva, tutto fu

silenzio in Russell Square, nella casa di John Sedley, Esq., di professione

agente di cambio allo Stock Exchange.

La mattina dopo la nostra Mrs. Sedley non pensava più di tradurre in atto

i suoi propositi minacciosi nei confronti di Miss Sharp. Sebbene non esista

sentimento più scoperto, più diffuso e più comprensibile della gelosia materna,

ella non osava credere che quella piccola, umile, melliflua istitutrice si

permettesse di metter gli occhi su un fuori classe come il ricevitore di Boggley

Wollah. Senza contare che ormai era già stata spedita la richiesta di

prolungamento delle vacanze della ragazza, onde sarebbe stato arduo trovare

un pretesto plausibile per sbarazzarsene.

Come se ogni circostanza volesse collaborare alle fortune di Miss Sharp,

persino gli elementi naturali (ed ella, dapprima, non fu disposta a credervi)

fecero di tutto per darle una mano. Infatti la sera in cui era stata programmata

la gita a Vauxhall (George era stato invitato a cena, e i genitori si erano recati

in visita dal consigliere Balls a Highburry Barn, in forza di un invito precedente)

si mise a piovere come piove soltanto quando qualcuno decide di andare a

Vauxhall, cosicché i giovani si videro costretti a restare a casa. Ma Mr. Osborne

non parve esserne contrariato. In tête-à-tête con Joseph, indugiò in sala da

pranzo e scolò una buona dose di vino di Porto, mentre Joseph sciorinava gran

numero delle sue migliori storielle indiane, dal momento che in compagnia di

soli uomini diventava molto più loquace. Più tardi Amelia fece gli onori di casa

in salotto, e i quattro giovani trascorsero una serata così piacevole che finirono

per dichiararsi contenti che il temporale li avesse costretti a rinviare la gita a

Vauxhall.

Osborne era figlioccio di Sedley, cosicché da ventitré anni era ospite

abituale in quella casa. Quando aveva sei settimane, Sedley gli aveva regalato

un bicchiere d'argento, e a sei mesi un corallo con un fischietto e dei

campanellini d'oro. Poi, da ragazzo, ogni Natale il vecchio gli aveva sempre

elargito una «mancetta». George ricordava tuttora come una volta, quando a

dieci anni era un monello scatenato, prima di tornare in collegio le aveva

buscate di santa ragione da Joseph Sedley, che a quel tempo era un

giovanottone goffo che si dava un mucchio di arie. Insomma, George Osborne

era di casa dai Sedley quanto comportavano questi scambi quotidiani di

cortesie.

«Ti ricordi, Sedley, quella volta che sei andato su tutte le furie perché

avevo tagliato i fiocchi dei tuoi stivali ungheresi e miss... sì, voglio dire...

Amelia mi ha salvato dai tuoi ceffoni mettendosi in ginocchio e scongiurando

suo fratello Jos di non voler picchiare il piccolo George?»

Joseph ricordava perfettamente quell'episodio memorando, ma finse di

essersene dimenticato.

«E ti ricordi che prima di partire per l'India sei venuto in carrozza a farmi

una visitina nel collegio del dottor Swishtail, e che mi hai regalato mezza

ghinea dandomi uno schiaffetto sul capo? Allora avevo l'impressione che tu

fossi alto almeno due metri, e quando hai fatto ritorno dall'India mi ha

sorpreso scoprire che eri alto non più di me.»

«È stato davvero molto gentile, Mr. Sedley, a venirvi a trovare in collegio

e a regalarvi quella mezza ghinea!» esclamò la Sharp, in tono ammirato.

«Proprio così! Eppure gli avevo tagliato i fiocchi degli stivali! Quando

sono in collegio i ragazzi non dimenticano mai il denaro che ricevono in dono, e

tantomeno il donatore!»

«Gli stivali coi fiocchi mi piacciono moltissimo,» dichiarò Rebecca. E

questa osservazione non mancò di lusingare Joseph Sedley, convinto com'era

di essere titolare di due splendide gambe, onde indossava sempre quelle

chaussures particolarmente decorative. Nondimeno, nell'udire quelle parole

nascose le suddette gambe sotto la sedia.

«Miss Sharp,» intervenne Osborne, «voi che siete un'eccellente artista.

Dovreste dunque dipingere un grande quadro che illustrasse l'episodio degli

stivali: Sedley in pantaloni di daino che regge in una mano uno degli stivali

rovinati, mentre con l'altra mi tiene stretto per il colletto della camicia. Amelia,

inginocchiata ai suoi piedi, protende le mani in un gesto di supplica. Al quadro

bisognerebbe dare un titolo allegorico, come quelli che si leggono sul

frontespizio dei sillabari e di certi libri di scuola.»

«Qui non avrei il tempo di dipingerlo. Ma lo farò quando... quando me ne

sarò andata.» E nel profferire queste parole abbassò la voce assumendo

un'espressione così mesta e afflitta che tutti meditarono sulla sorte avversa

della fanciulla e sulla crudeltà dell'imminente distacco da lei.

«Ah, potessi fermarti di più, mia cara Rebecca!» esclamò Amelia.

«E perché dovrei farlo?» rispose l'altra. «Forse per soffrire ancor di più,

per sentirmi ancor più infelice quando ti perdessi?» E distolse il capo. Al che

Amelia si abbandonò a quella sua naturale inclinazione al pianto che, già lo

abbiamo visto, costituiva uno dei difetti più irritanti di quella sciocchina.

George Osborne fissava le ragazze tra il commosso e l'incuriosito, mentre

Joseph sollevava il petto in una specie di sospiro e chinava lo sguardo in

contemplazione dei prediletti stivali ungheresi.

«Vorreste farci un poco di musica, Miss Sedley... cioè... Amelia?»

propose George, che in quel momento aveva un gran desiderio di prender la

ragazza tra le braccia e baciarla davanti a tutti. Lei gli gettò una rapida

occhiata; e se io asserissi che in quell'istante s'innamorarono, probabilmente

affermerei il falso, dal momento che i loro rispettivi genitori li avevano cresciuti

col preciso proposito di pervenire a quel risultato; anzi, si sarebbe detto che le

pubblicazioni di nozze fossero già avvenute da dieci anni. Pertanto si diressero

nel salottino sul retro ove, secondo l'usanza, si trovava il pianoforte; e dal

momento che faceva quasi buio, con gesto del tutto naturale Amelia posò la

sua mano in quella di George, il quale, inutile dirlo, era in grado di

destreggiarsi meglio di lei fra poltrone e canapè. La cosa ottenne a meraviglia

lo scopo di lasciare a tu per tu Joseph e Rebecca, accanto al tavolo nel salone

ove la fanciulla era intenta a confezionare all'uncinetto una borsa di seta verde.

«Non mi sembra il caso di chiedervi se si tratta di un segreto di famiglia,

dal momento che George e Amelia non fanno mistero dei loro sentimenti,»

osservò Rebecca.

«Appena George otterrà il comando di una compagnia, sarà affare fatto,»

rispose Joseph. «Quel giovanotto è in gamba, credetemi.»

«E vostra sorella è una ragazza deliziosa,» continuò di rincalzo Rebecca.

«Beato l'uomo che riuscirà a farla sua!» esclamò con un profondo sospiro.

Quando avviene che due persone di sesso diverso e non sposate abbiano

il destro di avviare tra loro una conversazione così delicata, tra loro si stabilisce

fatalmente un certo grado di confidenza. Non fa conto riferire nei dettagli il

colloquio tra Joseph Sedley e Rebecca Sharp, dal momento che il campione

elargito ai lettori ne rivela il parco interesse. Del resto è raro che nella vita

quotidiana la conversazione possa dirsi interessante, come del resto in

qualsiasi circostanza, fatta eccezione per le pagine dei romanzi di grande

valore e di eletta ispirazione. Nel salottino accanto si faceva musica, onde la

conversazione avveniva a bassa voce; ma anche se Rebecca e Joseph avessero

urlato a squarciagola, i due nell'altra stanza non ne sarebbero stati disturbati,

tanto fittamente erano immersi nel loro intimo dialogare.

Era forse la prima volta in vita sua che Mr. Sedley si rivolgeva a

un'esponente del sesso opposto senza provare timidezza o perplessità di sorta.

Rebecca gli fece varie domande sull'India, il che offrì a Joseph il pretesto per

raccontare molti episodi curiosi su quel paese e sulla sua esistenza in quelle

remote contrade.

Descrisse le feste da ballo nel palazzo del governatore e come si riuscisse

a ottenere un certo refrigerio nella stagione della massima calura per mezzo di

punkah, di stuoie bagnate e di altri espedienti del genere. Parlò degli

innumerevoli scozzesi protetti dal governatore Lord Minto; poi descrisse la

caccia alla tigre e le circostanze in cui il mahout del suo elefante era stato

sbalzato di sella da una tigre inferocita. Miss Rebecca si divertiva moltissimo a

sentir parlare delle feste da ballo del governatore, e rideva di cuore di certe

storielle riguardanti gli aides de camp scozzesi. Anzi, dichiarò a Mr. Sedley che

aveva uno spirito tremendamente caustico. Quanto alla storia dell'elefante,

ostentò il massimo raccapriccio: «Per amore di vostra madre e dei vostri

amici,» lo pregò, «promettetemi che d'ora in poi non prenderete più parte a

quelle terrificanti spedizioni!»

«Ma no, ma no,» Miss Sharp, «rispose Joseph sollevando il grande collo

della sua camicia,» il pericolo è uno degli elementi più elettrizzanti, nella

caccia. In realtà, a caccia era stato una sola volta, e proprio in occasione

dell'episodio testé riferito, quando aveva rischiato di morire non a causa della

tigre ma di puro spavento. A mano a mano che procedeva in quelle chiacchiere

si faceva sempre più ardito, al punto che ebbe l'audacia di chiedere a Rebecca

per chi mai stesse confezionando quella borsa di seta verde. E intimamente si

compiaceva di sé, del suo garbo, della sua signorile disinvoltura.

«Per chiunque desideri una borsa come questa,» fu la risposta di

Rebecca. E la ragazza gli scoccò un'occhiata dolcissima, maliarda. E Sedley si

accingeva a sciorinare un discorsetto di straordinaria eloquenza (e già esordiva

con un «Oh, Miss Sharp, davvero...») quando la canzone che echeggiava nel

salotto accanto si tacque all'improvviso, ed egli udì risuonare la propria voce

con tale nitore e sonorità che tosto s'interruppe, arrossì e prese a soffiarsi il

naso.

«Mai prima d'ora vostro fratello è stato così eloquente, Amelia,»

commentò Osborne. «La vostra amica ha operato un miracolo.»

«Me ne compiaccio,» rispose Amelia, la quale, non diversamente da ogni

donna dabbene, celava in cuore la smania di combinar matrimoni, e sarebbe

stata entusiasta di veder suo fratello ripartire per l'India con una moglie al suo

fianco. Per giunta, nei brevi giorni che aveva trascorso con lei, aveva sentito

nascere in sé un'amicizia vivissima per Rebecca, nella quale ravvisava

innumerevoli virtù e qualità delle quali non si era punto accorta quando

vivevano insieme a Chiswick. Infatti l'affetto che una ragazza prova per

un'altra cresce con la velocità del fagiolo della favola, e in una sola notte è

capace di giungere alle stelle. E non bisogna volergliene se, una volta maritate,

questa Sehnsucht nach der Liebe vien meno. I sentimentali, che sono

altrettanti parolai, lo definiscono brama d'idealità. In pratica, la cosa sta a

significare che le donne non si sentono appagate fino a quando non hanno

marito e figli sui quali riversare il loro affetto; così, in mancanza d'altro, lo

sfogano per ripiego su qualcun altro.

Avendo esaurito il suo modesto repertorio di canzoni, o forse perché

aveva indugiato troppo a lungo nel salottino del pianoforte, Amelia aveva

ritenuto opportuno esortare l'amica a venire a sua volta a cantare. «Non

sareste stato disposto ad ascoltarmi se aveste udito Rebecca prima di me,»

disse a George, quantunque sapesse benissimo che quell'affermazione era

priva di senso.

«Tuttavia non posso non confessare a Miss Sharp,» rispose Osborne,

«che considero Miss Amelia Sedley la prima cantante del mondo. Può anche

darsi che abbia torto, ma sinceramente questa è la mia opinione.»

«Adesso avrete agio di confrontarci,» disse Amelia, mentre Joseph

spingeva la propria cortesia fino a trasportare i candelabri sul pianoforte.

Osborne lasciò intendere che avrebbe gradito starsene al buio in quel salotto,

ma Amelia ridendo affermò di non esser disposta a restarsene da sola a fargli

compagnia, cosicché entrambi seguirono Joseph. Anche se Osborne era

liberissimo di non mutar parere, è indubbio che Rebecca cantava molto meglio

di Amelia. Fece sfoggio di tutta la sua bravura, con gran stupore dell'amica,

che non l'aveva mai sentita cantare così. Intonò una canzone francese, della

quale Joseph non comprese un'acca e che lo stesso Osborne ammise di non

aver capito; poi cantò alcune di quelle ballate senza pretese, di gran moda

quarant'anni addietro, che aveva per tema principale il re, i marinai inglesi, la

povera Susanna e Mary dagli occhi di cielo. Non sono certo un gran che dal

punto di vista musicale, ma contengono chiare allusioni all'amore che la gente

capisce molto meglio delle svenevoli lagrime, sospiri e felicità di quell'eterna

musica donizettiana, che al giorno d'oggi ci viene ammannita a ogni piè

sospinto.

L'ultima canzone del concerto diceva così:

Ah, buia e desolata appariva la landa,

Ah, tuonava e gemeva la tempesta,

Il tetto della casa era sicuro usbergo,

Il focolare era caldo e luminoso.

Davanti alla finestra passò un orfanello,

E sedotto da quel gaio bagliore,

Sentì doppiamente la sferzata del vento notturno,

E doppiamente il gelo della neve caduta.

L'osservarono accelerare il passo,

Con il cuore esausto e le membra dolenti;

Voci garbate lo invitarono a volgersi e a fermarsi,

Dolci visi gli diedero il benvenuto.

È l'alba ormai, l'ospite se n'è andato,

Dentro la casa il focolare splende ancora;

Abbi pietà, Signore, di tutti i poveri, solinghi viandanti!

Ascolta il sibilo del vento sulla collina.

Le parole di questa romanza sembravano rievocare quelle che Rebecca

aveva profferito poc'anzi: «Quando me ne sarò andata»... Quando fu all'ultimo

verso la calda voce di Miss Sharp parve venir meno, e tutti compresero ch'ella

pensava alla partenza, alla sua miseranda condizione di povera orfana. Joseph

Sedley, che amava la musica ed era facile alla commozione, rimase in preda a

una sorta di rapimento estatico per tutta la durata della canzone, e alla fine

della romanza si sentiva profondamente turbato. Se avesse avuto più coraggio,

e se George e Amelia si fossero trattenuti più a lungo nei salottino accanto,

come lo stesso George aveva proposto, Joseph Sedley avrebbe posto fine al

suo celibato e questo libro non avrebbe mai visto la luce. Ma, terminata la

romanza, Rebecca abbassò il coperchio del pianoforte, diede la mano ad

Amelia e si dileguò nella penombra dell'altra sala. In quell'istante entrò Sambo

reggendo un vassoio carico di sandwiches, gelatine di frutta e caraffe e

bicchieri di cristallo scintillante che subito attirarono lo sguardo di Joseph.

Quando poi i padroni di casa rientrarono dalla cena alla quale erano stati

invitati, constatarono che i giovani erano immersi in una fitta conversazione, e

infatti non avevano udito arrivare la carrozza. In quel momento Joseph stava

dicendo: «Miss Sharp, ve ne prego, accettate almeno un cucchiaino di gelatina

di frutta onde ristorarvi dopo la vostra eccezionale, la vostra... la vostra

encomiabile fatica.»

«E bravo il nostro Jos,» esclamo Mr. Sedley. E al suono familiare della

voce che lo dileggiava, Joseph fu assalito dalla consueta inquietudine, ritrovò il

suo imbarazzato silenzio e subito prese congedo. Non posso certo affermare

che abbia trascorso la notte in bianco domandandosi se fosse innamorato o

meno di Miss Sharp. In verità l'amore non aveva mai compromesso l'appetito e

il sonno del nostro Joseph. Nondimeno egli pensava a come sarebbe stato

delizioso abbandonarsi all'ascolto di siffatte canzoni dopo il cutcherry, a

com'era distinguée quella ragazza che si esprimeva in un francese migliore di

quello della moglie del governatore... e alla figura strepitosa che avrebbe fatto

se avesse partecipato alle feste da ballo di Calcutta. «Povera ragazza,» si

diceva, «è chiaro che è cotta di me. È povera, d'accordo, ma non più di tutte le

altre ragazze che capitano in India, e del resto potrei imbattermi in qualcosa di

molto peggio, per Diana!» E sull'onda di queste considerazioni si addormentò.

Per contro, è inutile precisare che Miss Sharp vegliò dominata dal

pensiero «se Mr. Sedley sarebbe venuto o meno l'indomani». Inesorabile come

il destino, il giorno dopo Joseph comparve prima di pranzo. Mai prima di allora

la casa di Russell Square era stata onorata da un evento del genere. Da parte

sua George Osborne era già arrivato, mettendo «sottosopra» Amelia, intenta a

scrivere alle sue dodici amiche predilette di Chiswick Mall, mentre Rebecca era

impegnata nello stesso lavoro del giorno innanzi. Quando il calesse di Joseph si

fermò, e quando, dopo il violento colpo di batacchio alla porta e il rumoroso

tramestio in anticamera l'ex ricevitore di Bogley Wollah ebbe arrancato su per

le scale fino al salotto, Amelia e Osborne si scambiarono uno sguardo d'intesa.

Dopo di che i due ebbero un sorriso malizioso fissarono ostentatamente

Rebecca che chinò i suoi riccioli sul suo lavoro.

Il cuore le batteva all'impazzata mentre Joseph faceva il suo ingresso: un

Joseph ansimante, ansioso, il volto acceso, vestito di un panciotto nuovo di

zecca e di un paio di lucidi stivali scricchiolanti. E dietro lo spropositato

cravattone il suo rossore andava accentuandosi sempre più. Tutti, d'altronde,

si sentivano agitati, e forse più di ogni altro lo era Amelia.

Sambo, dopo aver annunciato il ricevitore, entrò nella stanza sulle orme

di Joseph. Ridacchiando reggeva due splendidi mazzi di fiori che il nostro

singolare personaggio, in preda a un impeto di galanteria, aveva acquistato

quella mattina stessa al mercato di Covent Garden. Non erano proprio enormi

come quelle specie di covoni avvolti in carta velina che oggigiorno le signore si

compiacciono di portarsi appresso; tuttavia sia Rebecca che Amelia parvero

estasiate di quell'omaggio, mentre Joseph ne offriva un mazzo per ciascuna

piegandosi in un inchino pieno di sussiego.

«Ottima idea, Joseph,» commentò Osborne.

«Grazie, grazie, carissimo Joseph!» esclamò Amelia. E le sarebbe

piaciuto moltissimo baciare suo fratello se questi avesse palesato un simile

desiderio. (Io pur di ottenere un bacio di Miss Amelia, avrei comperato tutte le

serre di Mr. Lee.)

«Magnifici; sono davvero magnifici!» disse Rebecca, accostando

delicatamente il naso al mazzo di fiori; poi se lo strinse al seno e levò lo

sguardo al cielo, in preda a una sorta di estatica ammirazione. Può darsi che

prima avesse sbirciato nel mazzo, caso mai vi fosse celato un billet doux, ma

non ce n'era nemmeno l'ombra.

«Anche a Bogley Wollah si sa cosa sia il linguaggio dei fiori, Sedley?»

chiese Osborne ridendo.

«Bah, stupidaggini!» fu la risposta di quel giovanotto sentimentale. Li ho

comperati da Nathan. Ad ogni modo sono contento che vi siano giunti graditi.

Ho comperato anche un ananasso, Amelia, l'ho consegnato a Sambo. Se lo

mangiassimo per merenda? Con questo caldo, è veramente fresco e

gradevole.» Rebecca si affrettò a confessare che non aveva mai assaggiato un

ananasso in vita sua e non vedeva l'ora di gustarne il sapore.

La conversazione andò avanti di questo passo, né saprei dire quale

pretesto trovasse Osborne per lasciare il salotto, imitato poco dopo da Amelia.

Forse voleva presiedere alla preparazione dell'ananasso... Fatto sta che Jos

ebbe modo di trovarsi a tu per tu con Rebecca, la quale aveva ripreso il suo

lavoro. La seta verde e i ferri luccicanti si muovevano e balenavano sotto le

sue candide, agili dita.

«La canzone che avete cantato ieri sera era stupenda, Miss Sharp,

veramente stu-pen-da. » disse il ricevitore. «Vi giuro che quasi mi venivano le

lacrime agli occhi.»

«Evidentemente celate in voi sentimenti gentili, Mr. Joseph. Come tutti i

membri della vostra famiglia, d'altronde.»

«La notte scorsa non ho chiuso occhio e stamattina ho cercato di

canticchiarla. Non mi credete? Alle undici è venuto Gollop, il mio medico. Eh,

sì; perché dovete sapere che sono malato, e Gollop viene ogni giorno a

visitarmi. Cribbio, quando è arrivato stavo cantando come un pettirosso!»

«Ah, siete un vero spasso! Volete farmi un favore? Cantatemela adesso.»

«No, no, cantatela voi! Ve ne prego, cara Miss Sharp, cantatela!»

«No, adesso no, Mr. Sedley,» disse Rebecca sospirando. «Devo finire la

borsa. Sareste così gentile da aiutarmi, Mr. Sedley?» E prima ancora che

avesse il tempo di chiedere in che forma potesse offrire il suo contributo, Mr.

Sedley, funzionario della Compagnia delle Indie, si trovò seduto di fronte a

Rebecca dardeggiandole sguardi carichi di passione. Aveva le braccia protese in

un gesto implorante, e le mani tendevano la matassa di seta verde ch'ella

andava dipanando.

In tale romantico atteggiamento Osborne e Amelia sorpresero

l'interessante coppia quando entrarono per annunciare che la merenda era

pronta. Ormai la matassa era del tutto avvolta intorno al rocchetto, ma Jos non

aveva avuto l'ardire di parlare.

«Sono sicura che stasera si deciderà, mia cara,» disse Amelia, e strinse

la mano di Rebecca. Dal canto suo anche Sedley aveva parlato, sia pure a se

stesso. «Per Dio,» si era detto, «a Vauxhall affronterò definitivamente la

questione.»

V • IL NOSTRO DOBBIN

La lotta fra Cuff e Dobbin e i suoi imprevedibili risultati rimarranno a

lungo nel ricordo di coloro che furono educati nel celebre collegio del dottor

Swishtail. Il secondo dei due, che tutti erano soliti chiamare «Coraggio,

Dobbin, coraggio, Dobbin, arrì, arrì, Dobbin» e in vari altri modi atti a

designare il loro modo infantile di manifestare il disprezzo, era il più taciturno,

il più impacciato ed anche il più tonto di tutti i convittori di Swishtail. Il padre

faceva il droghiere, e si diceva che il ragazzo fosse stato accettato al collegio

«alla pari», vale a dire che la retta per l'insegnamento e il vitto venivano

pagati in mercanzie varie anziché in denaro. Dall'ultimo banco in fondo all'aula

emergeva quel vestituccio malandato di velluto a coste dentro il quale si

sarebbe detto che le membra ossute del ragazzo da un momento all'altro

avrebbero fatto scoppiare le cuciture: quelle membra che rappresentavano un

numero imprecisato di libbre in candele, zucchero, sapone da bucato, prugne

(una parte risibile delle quali finivano nei budini destinati agli alunni), e altri

generi coloniali. Fu davvero terribile per il povero Dobbin, il giorno in cui uno

dei ragazzi, durante una puntata in città per far scorta di croccante e salsicce,

aveva scoperto il carro di Dobbin & Rudge (Generi coloniali e Olii, Thames

Street, Londra) davanti all'ingresso del collegio, proprio mentre scaricava un

carico delle derrate in cui commerciava la ditta in questione.

Da quel momento il giovane Dobbin non ebbe più pace. Era vittima di

continui scherzi, terribili, crudeli. «Ciao, Dobbin,» lo salutava uno, «buone

notizie per te, sul giornale: il prezzo dello zucchero sta salendo.» Un altro

tirava in ballo problemi come questo: «Se una libbra di candele di sego costa

sette pennies e mezzo, quale sarà il prezzo di Dobbin?» E tutte quelle giovani

canaglie, ivi compreso l'assistente, scoppiavano a ridere come pazzi, convinti

com'erano che il commercio al minuto fosse un'attività disdicevole, indecorosa,

e che di conseguenza meritasse il dileggio e lo spregio di qualsiasi autentico

gentiluomo.

«In fin dei conti anche tuo padre fa il negoziante, Osborne,» disse Dobbin

al ragazzo che era stata la causa di tutti i suoi guai. Ma l'altro, in tono solenne

e altezzoso, aveva risposto: «Mio padre ha tanto di carrozza e cavalli.» Il

povero William Dobbin era andato a rifugiarsi sotto una specie di tettoia in

fondo al cortile che serviva per la ricreazione dei ragazzi, e quivi aveva

trascorso gran parte di un giorno di festa in preda alla più nera malinconia. Chi

di noi non ha vissuto simili ore di cupo dolore infantile? E chi più di un ragazzo

dotato di generosi sentimenti soffre nel patire un'ingiustizia? Chi tende a

rinchiudersi in se stesso a causa di un'offesa subita? Chi prova tanta amarezza

per un torto ricevuto e tanta gratitudine per una gentilezza? Quante povere,

innocenti creature subiscono umiliazioni, conoscono la solitudine e ogni sorta di

sevizie morali in cambio di quattro nozioni di latino e di aritmetica!

Pertanto William Dobbin, data la sua ritrosia ad apprendere gli elementi

di latinorum contenuti in quel fantastico libro denominato Eton Latin Grammar,

era condannato a figurare tra gli ultimi allievi del dottor Swishtail, e subiva le

umiliazioni dei compagni in grembiule e faccino bianco e rosso mentre, simile a

un gigante fra i nani, marciava ancora frammisto a quelli di prima, lo sguardo

chino, i calzoncini lisi e il libro tutto sgualcito, con le orecchie a ogni angolo.

Tutti lo deridevano, piccoli e grandi. Gli scucivano i calzoni, già di per sé troppo

stretti, gli tagliavano le fettucce della branda, rovesciavano secchi e panche

perché lui andasse a sbattervi contro ammaccandosi gli stinchi, cosa che

accadeva infallibilmente. Gli indirizzavano certi pacchetti che contenevano il

sapone e le candele di suo padre. Non c'era bambino, per piccolo che fosse, il

quale non provasse un gusto matto a burlarsi di lui; e Dobbin sopportava tutto,

paziente e avvilito, senza far parola.

Cuff invece era il numero uno, la perla del convitto Swishtail. Faceva

entrare del vino di straforo e faceva a pugni coi monelli di strada. Il sabato lo

venivano a prendere con due ponies e se ne andava in sella a uno di quei

cavallini. In camera aveva un paio di stivali che usava durante le vacanze per

andare a caccia. Aveva un orologio d'oro e fiutava prese di tabacco come il

rettore. Era stato all'Opera e si permetteva di disquisire sulla bravura dei vari

attori, dichiarando di preferire Kean a Kemble. Era capace d'imparare quaranta

versi latini in un'ora, scriveva poesie in francese, e per concludere sapeva dire

e fare qualunque cosa. Persino il rettore, dicevano, provava nei suoi confronti

una sorta di timore.

Cuff, il re del convitto, regnava sui sudditi e si permetteva di maltrattarli

dall'alto della sua albagiosa superiorità. Chi gli tostava il pane, chi gli lucidava

le scarpe; altri si mettevano spontaneamente al suo servizio, e d'estate

consumavano interi pomeriggi a raccattargli le palle da cricket. Ma il ragazzo

che Cuff disprezzava più di ogni altro era «Figs». Non gli rivolgeva mai la

parola, tranne che per schernirlo e insultarlo.

Un giorno, trovandosi a tu per tu, i due pivelli avevano avuto un

battibecco. Mentre Figs era in aula e stava arrancando su una lettera da

spedire a casa sua, Cuff entrò e gli ingiunse di andargli a fare una commissione

(probabilmente si trattava di andare a comperare dei dolci).

«Ora non posso,» rispose Dobbin, «devo finire questa lettera.»

«Cosa? Non puoi? » rispose Cuff. E s'impadronì di quel foglio, pieno di

parole cancellate e di errori di ortografia, e che Dio sa quanta fatica, quanta

concentrazione, quante lacrime fosse costato al povero Dobbin: poveraccio,

stava scrivendo a sua madre, che gli voleva bene anche se era solo l'umile

consorte di un droghiere e passava la vita in un retrobottega di Thames Street.

«Non puoi? » ripeté il giovincello. «Sarei veramente lieto di sapere perché. Non

puoi scrivere domani la tua lettera a mamma Figs?»

«Smettila con le tue villanie,» rispose Dobbin alzandosi dal banco al

colmo del nervosismo.

«Insomma, bello mio, vuoi sbrigarti ad andare sì o no?» strillò il galletto

del collegio.

«Posa la lettera,» disse Dobbin, «una persona che si rispetti non si

permette di leggere le lettere altrui.»

«Allora ci vai sì o no?» rispose l'altro, imperturbabile.

«No che non ci vado! E bada di non provarti a menar le mani altrimenti ti

spacco il muso!» urlò Dobbin accostandosi a un calamaio di piombo. Sul volto

aveva un'espressione così inferocita che Cuff si fermò, abbassò le maniche e si

allontanò con un sorrisetto.

Da quel giorno pose ogni cura nell'evitare di trovarsi faccia a faccia col

figlio del droghiere, sebbene (occorre sottolinearlo) non desistesse dal dirne

peste e corna alle sue spalle.

Qualche tempo dopo avvenne che in un pomeriggio di sole Cuff capitasse

davanti al povero Dobbin il quale, sdraiato all'ombra di un albero in giardino,

era profondamente assorto nella lettura di una novella delle Mille e una Notte,

di cui possedeva una copia. Era lì tutto solo, quasi felice, a debita distanza dai

giochi dei suoi compagni. Se i ragazzi venissero lasciati in pace, se gli

insegnanti la smettessero di sgridarli, se i genitori non perseverassero nella

pretesa di voler giudicare i loro pensieri e influire sui loro sentimenti, pensieri e

sentimenti che sono ignoti a tutti (giacché, in conclusione, cosa ne sappiamo,

io e voi, l'uno dell'altro, e dei nostri figli, dei nostri genitori, dei nostri vicini di

casa? Chissà quanto sono più limpidi e puri i pensieri dei ragazzini che

pretendiamo di «educare» di quelli dello stolido e del corrotto che esercita la

sua influenza su di loro); se, dicevo, genitori e insegnanti si decidessero a

lasciare in pace i fanciulli affidati alle loro attenzioni, ne verrebbe ben poco

danno, anche se i bimbi in questione si curerebbero un po' meno d'imparare as

in praesenti.

Stavo dunque dicendo che quella volta Dobbin aveva die monticato il

mondo che lo circondava ed era lontano, nella Valle dei Diamanti, con Sindibàd

il Marinaio, col principe Ahmed e con la fata Peribanu in quella caverna

favolosa dove il principe l'ha scovata e dove tutti saremmo lieti di fare una

scorribanda, quando a distrarlo da quel sogno delizioso sopravvennero strida

acutissime, tipiche di un bimbetto che pianga. Alzò lo sguardo e vide Cuff

impegnato a picchiare uno dei convittori più piccoli.

Era il bambino che aveva raccontato a tutto il collegio la storia del carro

del droghiere, ma William non sapeva serbare rancore, e menchemeno nei

confronti di un ragazzo più piccolo di lui. «Dunque, vi siete permesso di

rompere la bottiglia, vero, signorino?» diceva Cuff agitando minaccioso davanti

agli occhi del poverino la sua gialla bacchetta da cricket.

Il ragazzo aveva avuto ordine di scavalcare il muro del giardino

(approfittando di un tratto in cui erano stati rimossi i cocci di vetro conficcati

nella malta ed erano state praticate delle tacche per dare appoggio al piede

nello spessore del muro di mattoni), di percorrere a tutta velocità un quarto di

miglio, di andare a comperare (a credito, beninteso) una mistura di rhum, di

scansare tutte le spie del Censore disseminate per ogni dove, di inerpicarsi

nuovamente su per il muro e di rientrare nel giardino. Ma nel corso di quella

spedizione gli era scivolato un piede, la bottiglia si era rotta macchiando di

rhum i pantaloncini e lui si era presentato al cospetto del suo «padrone»

tremebondo e contrito, anche se affatto innocente.

«Come vi siete permesso di romperla, signorino?» disse ancora Cuff.

«Non siete altro che uno sciocco ladruncolo. Il rhum ve lo siete bevuto voi ed

ora vorreste dare ad intendere di aver rotto la bottiglia. Stendete la mano,

presto.»

E la bacchetta si abbatté con rumore sordo sulle mani del bimbo. Dobbin

udì un gemito e sollevò lo sguardo. La fata Peribanu si dileguò insieme al

principe Ahmed nel profondo della caverna; il marinaio scomparve dalla Valle

dei Diamanti quasi fosse stato carpito in volo dalle nubi e agli occhi di William

si presentò un quadro che rifletteva la realtà nuda e cruda: un ragazzo che ne

picchiava un altro più piccolo di lui.

«L'altra mano!» urlò Cuff al suo piccolo compagno che aveva il volto

alterato dalla sofferenza. Dobbin ebbe un brivido e si strinse nel suo vestituccio

malandato.

«Beccati questo, canaglia!» E di nuovo la bacchetta cadde con violenza

sulla mano del bimbo. No, caro signore, guardatevi bene dall'inorridire: tutti i

ragazzi lo hanno fatto, in collegio. Probabilmente succederà anche ai vostri

figli, di prenderle come di darle. La bacchetta si abbatté per la terza volta,

mentre Dobbin si alzava in piedi.

Non saprei dirvi perché mai lo abbia fatto. In collegio le punizioni

corporali sono di prammatica, come lo knut in Russia. Sotto un certo aspetto,

chi cercasse di evitarle non si comporterebbe da gentiluomo. Forse la debole

anima di Dobbin provò un impulso di ribellione davanti alla tirannia, o forse

celava in cuore un desiderio di vendetta ed ora voleva competere con quel

tiranno irriducibile che in collegio si procacciava tutto il possibile: gloria, onori,

fastigi, sventolio di bandiere, rullo di tamburi, presentat'arm delle guardie. Ad

ogni modo, quale che fosse il suo impulso, Dobbin balzò in piedi e gridò:

«Smettila, Cuff; se continui a picchiare quel ragazzo, io...»

«Tu cosa?» domandò Cuff, esterrefatto per quell'interruzione. «Stendi la

mano anche tu, carogna!»

«Te ne darò tante quante non ne hai mai prese in tutta la tua vita,»

rispose Dobbin rispondendo alle prime parole di Cuff, mentre il piccolo

Osborne, ansimante, il viso coperto di lacrime, alzava due occhi increduli su

quell'inopinato difensore emerso di punto in bianco in suo soccorso. Né lo

stupore di Cuff fu da meno. Immaginate il nostro re Giorgio III quando ebbe la

notizia della rivolta scoppiata nelle colonie del Nord America; immaginate

l'indomito Golia quando il piccolo David gli si fece accosto col proposito di

misurarsi con lui, e vi farete un'idea del sentimento che provò Reginald Cuff

quando si vide sfidato con tanta improntitudine.

«Ci rivedremo dopo scuola,» disse, dopo una breve pausa. E il suo

sguardo voleva significare: «Pensa pure a far testamento e ad esprimere agli

amici le tue ultime volontà.»

«Come ti pare,» rispose Dobbin. «Tu, Osborne, mi farai da padrino.»

«D'accordo. Se proprio ci tieni...» disse Osborne. Non dimenticatevi,

infatti, che suo padre aveva una carrozza, e lui si vergognava un poco di quel

suo campione.

Proprio così: al momento della battaglia, Osborne provò una certa

vergogna mentre gridava: «Forza, Figs!» E nemmeno uno dei ragazzi che

assistevano in cerchio ripeté quel grido d'incoraggiamento durante le prime

battute di quel celebre combattimento, giacché all'inizio Cuff; con un sorriso

sprezzante sulle labbra, allegro e noncurante come fosse stato a una festa da

ballo, scaricò una tempesta di pugni sul malcapitato e per ben tre volte stese a

terra il povero campione. Ed ogni volta echeggiavano gli applausi: tutti

morivano dalla voglia di flettere il ginocchio davanti al vincitore.

«Quando tutto sarà finito, toccherà a me prenderne un sacco e una

sporta,» pensava Osborne, aiutando il suo campione a rimettersi in piedi.

«Faresti meglio ad arrenderti,» disse a Dobbin, «dopo tutto alle botte ci sono

abituato, io, lo sai benissimo.» Ma Figs, tutto tremante, le narici dilatate dalla

collera, respinse il suo piccolo padrino e si apprestò ad affrontare l'urto della

quarta ripresa.

Non sapeva assolutamente come fare a parare i colpi dell'avversario:

infatti nei tre rounds precedenti era stato Cuff a muovere all'attacco, senza

permettergli di mandare a segno un solo colpo. Pertanto in questa ripresa

decise di andar subito alla carica: era mancino, cosicché mise in azione il

braccio sinistro, e con tutte le forze colpì due volte: la prima all'occhio sinistro,

la seconda al bellissimo naso aquilino di Cuff.

Stavolta toccò a quest'ultimo crollare nella polvere fra lo stupore di tutti

gli astanti. «Bel colpo, perbacco!» esclamò Osborne con l'aria di chi se ne

intende; «suonagliele col sinistro, vecchio mio!»