misteriosa testé richiusasi sui resti del compianto fratello. Poi i fittavoli

montarono in sella ai cavalli e tornarono alle fattorie, oppure indugiarono al

Crawley Arms a bersi un bicchiere di birra. Quanto ai cocchieri delle carrozze

gentilizie, ripartirono verso le rispettive destinazioni, dopo un pranzo offerto a

titolo di gratitudine nelle stanze della servitù. Gli addetti all'impresa di pompe

funebri raccolsero paramenti e gualdrappe, velluti, piume di struzzo e tutti gli

aggeggi funerari di loro pertinenza, salirono sul carro funebre e fecero ritorno a

Southampton. Il loro volto aveva abbandonato l'espressione richiesta dalle

circostanze per riassumere quella naturale nel momento stesso in cui, varcato

il cancello padronale, i cavalli avevano preso a procedere al trotto. Poco dopo

erano sparsi a piccoli gruppi, sulla porta delle varie locande, reggevano in

pugno boccali di peltro che scintillavano al sole. La sedia a rotelle di Sir Pitt

venne relegata in un capanno che serviva da deposito per gli attrezzi del

giardino. Per qualche tempo, dopo la morte del vecchio baronetto, echeggiò di

tanto in tanto il lamentoso ululato del pointer: e questo fu l'unico segno di

dolore nei castello di cui il defunto Sir Pitt Crawley era stato il padrone per

circa sessant'anni.

La selvaggina era abbondante, e dal momento che la caccia era - e resta

- uno svago doveroso per qualsivoglia gentiluomo inglese che coltivi ambizioni

politiche, superata la fase di più acerbo dolore Sir Pitt Crawley prese a uscire

un poco, il capo coperto da un cappello bianco adorno di un nastro di crespo

nero. Ora che gli appartenevano, la vista dei campi di rape o coperti di stoppie

gli procurava un segreto piacere. A volte (quale squisita umiltà) rinunciava a

imbracciare il fucile, limitandosi a passeggiare con un bastone di bambù,

mentre al suo fianco il corpulento fratello e i guardacaccia sparavano senza

posa. Il denaro e le terre di Pitt produssero su Rawdon un effetto strabiliante.

Lo squattrinato colonnello assunse un atteggiamento di sottomesso ossequio

nei confronti di Pitt, che una volta scherniva giudicandolo un rammollito.

Mostrava interesse per i progetti di trapianto e bonifica che il fratello gli

illustrava. Dava consigli in materia di cavalli e di bestiame, e si recò di persona

a Mudbury a prender visione di una giumenta che a suo parere sarebbe stata

una cavalcatura ideale per Lady Jane, dichiarandosi pronto a domarla egli

stesso. Lo scapestrato dragone era ormai soggetto all'autorità del fratello

maggiore e, in qualità di cadetto, il suo contegno non aveva nulla di

disdicevole. Miss Briggs gli spediva di continuo biglietti con notizie di Rawdy, il

quale aggiungeva qualche riga di suo pugno: «Sto bene,» scriveva il piccino,

«spero che anche tu stia bene. E che anche mamma stia bene. Il pony sta

molto bene. Grey mi porta a cavallo a Hyde Park. Ho imparato ad andare al

trotto e ho incontrato quel bambino che una volta ha cavalcato sul mio pony.

Quando il pony è andato al trotto lui si è messo a piangere, ma io non ho

pianto.» Rawdon leggeva queste lettere al fratello e a Lady Jane che le trovava

incantevoli. Sir Pitt promise che avrebbe sopportato le spese necessarie

all'istruzione del bimbo e la sua buona moglie diede a Rebecca del denaro,

pregandola di comperare un regalo da parte sua al nipotino. I giorni passavano

e le signore trascorrevano il tempo impegnate in quegli svaghi e in quelle

semplici occupazioni che di norma appagano le signore che vivono in

campagna. La campana suonava all'ora dei pasti e a quella delle preghiere. Le

ragazze si esercitavano al pianoforte ogni mattina dopo colazione, e Rebecca di

buon grado elargiva i suoi consigli. Poi indossavano un paio di scarpe pesanti,

andavano a passeggio nel parco o nei boschetti; oppure superata la

staccionata, si spingevano sino al villaggio dove piombavano nelle casupole dei

contadini armate degli opuscoli e delle pozioni di Lady Southdown per

distribuirla agli eventuali malati. Lady Southdown prendeva posto in un calesse

e Rebecca si rassegnava a sederle accanto e a sorbettarsi con la massima

serietà i suoi deprimenti sproloqui. La sera Mrs. Crawley cantava Haendel e

Haydn per tutti i familiari e agucchiava lavorando a un enorme ricamo a pie

colo punto, con l'aria di chi non ha mai fatto altro in vita sua e non farà altro

sino alla vecchiaia, per poi andare al Creatore accompagnata dal generale

compianto e lasciando dietro di sé un numero ingente di titoli di Stato; e come

se al di là del cancello non l'attendessero preoccupazioni di alcun genere:

l'ufficiale giudiziario, i trucchi, i sotterfugi, la povertà, pronti a balzarle addosso

non appena avesse fatto la sua ricomparsa nel mondo.

«Credo che sia facile essere la moglie di un gentiluomo di campagna,»

pensava Rebecca. Credo che sarei buonissima se avessi una rendita annua di

cinquemila sterline. Passerei il mio tempo nella stanza dei bambini e a contare

i frutti sulle spalliere di albicocche. Annaffierei le piante nella serra e toglierei le

foglie secche ai gerani. Mi preoccuperei dei reumatismi delle vecchiette e

accorderei mezza corona per la minestra dei poveri: non graverebbe certo su

una rendita annua di cinquemila sterline. Non esiterei nemmeno a fare dieci

miglia in carrozza per andare a cena da qualche famiglia amica del circondano

e mi adatterei persino a indossare un abito di due anni fa. Non avrei la minima

obiezione a frequentare la chiesa e rimarrei sveglia nel grande banco di

famiglia (oppure imparerei a dormire senza che nessuno se ne accorgesse

dietro le tendine del banco o la veletta del cappello). Eh, se avessi i soldi,

pagherei chicchessia. Insomma, farei tutto quello che questi sapientoni si

vantano di fare. Ci guardano dall'alto in basso, noialtri poveri peccatori, perché

non abbiamo soldi! Si credono generosi se regalano cinque sterline ai nostri

figli, e ci compiangono perché noi non ne abbiamo nemmeno una.»

Chi potrebbe asserire che le riflessioni di Rebecca non fossero giuste? Chi

potrebbe dire se la differenza fra lei e una donna onesta non risiedesse proprio

in un divario all'insegna della fortuna e del denaro? Se teniamo presente quale

impatto eserciti su di noi la forza della tentazione, chi può pretendere di essere

migliore di un altro? Può darsi che una vita comoda e agiata non valga a

rendere onesta la gente, ma forse può mantenerla tale. Un consigliere

comunale che esca da un banchetto dove ha mangiato zuppa di tartaruga non

è certo tentato di rubare un cosciotto di montone; se però lo riduceste in

miseria, lo vedreste rubare anche una pagnotta. Così, bilanciando le diverse

venture offerte al prossimo, le quote di bene e di male proposte a ciascuno di

noi, Rebecca trovava il modo di consolarsi.

I campi, i boschetti, le radure, i giardini, i piccoli bacini lacustri e tutte le

stanze della vecchia dimora ove in passato aveva trascorso ben due anni della

sua vita furono da lei attentamente passati in rassegna. Qui era stata giovane

(o, per essere esatti, più giovane di quanto fosse ora, sebbene avesse perduto

il senso del tempo in cui era stata realmente giovane): le tornavano alla mente

i pensieri e i sentimenti che aveva provato in quegli anni lontani, e li

raffrontava a quelli attuali: quelli di una donna che conosceva il mondo, aveva

vissuto a contatto dei ricchi e dei potenti, e raggiunto una posizione di gran

lunga più elevata di quella donde era partita.

«Se ho fatto strada è perché sono intelligente,» pensava Becky, «mentre

il mondo per lo più è popolato d'imbecilli. Ormai non potrei più tornare indietro

e frequentare la gente che veniva nello studio di mio padre. In casa mia

vengono Lords che si fregiano dell'Ordine della Stella e della Giarrettiera, e non

quattro artisti morti di fame con due prese di tabacco in saccoccia. Ho trovato

un marito di nobile casato e una cognata figlia di un conte; e questo proprio

nella casa dove qualche anno fa ero poco più di una domestica! D'altra parte

sarà vero che sto meglio di quando ero la figlia di un pittore squattrinato che

supplicava il droghiere alla cantonata di darci a credito un poco di zucchero e di

tè? Se avessi sposato quel Francis... Era innamorato pazzo di me, ed oggi non

sarei certo più povera di quel che sono! Eh, sarebbe bello barattare la mia

posizione sociale e tutti i miei altolocati parenti per un bel gruzzolo investito in

titoli di Stato al tre per cento!» Giacché tale era la visione che Becky aveva

della Vanità delle cose umane, e volentieri avrebbe gettato l'ancora in un porto

ove la vita trascorresse tranquilla, serena, senza sbalzi.

Forse avrebbe potuto soccorrerla un altro pensiero: e cioè che, se fosse

stata più umile e più modesta, se avesse compiuto il suo dovere e avesse

proseguito dritta per la sua strada, non le sarebbe venuta a mancare la felicità

che cercava di raggiungere con altri mezzi. Ma, proprio come le figlie di Sir Pitt

a Queen's Crawley facevano in modo da non passare davanti alla stanza ove

giaceva la bara del padre, così Becky aggirava siffatti pensieri (se mai

l'assalivano) evitando d'indugiarvi. Li scansava e li disprezzava, o forse ormai

aveva imboccato una strada che non consentiva di tornare sui propri passi.

Personalmente sono dell'opinione che il rimorso sia il più pigro tra i sentimenti

morali dell'uomo: quello che è più facile spegnere se per caso si desta; e in

certuni del resto non si desta affatto. Ci sgomenta l'idea di essere colti in fallo,

ci terrorizza il pensiero dell'onta e della punizione, ma ben pochi alla Fiera della

Vanità soffrono al semplice pensiero di aver agito in modo disonesto.

Così Rebecca, durante il suo soggiorno a Queen's Crawley, pur

sacrificando al demone del Male cercò di farsi quanti più amici le fosse

possibile. Lady Jane e Sir Pitt si congedarono da lei protestando il più sincero

affetto nei suoi riguardi. Non vedevano l'ora di ritrovarsi a Londra non appena

la vecchia casa di Gaunt Street fosse rinnovata e restaurata. Lady Southdown

le preparò un pacco zeppo di medicine e le consegnò una lettera per il

reverendo Lawrence Grills nella quale esortava l'ecclesiastico a salvare dal

fuoco eterno la latrice di detta epistola. Pitt li accompagnò in tiro a quattro fino

a Mudbury, ove già aveva fatto inoltrare su un carro il bagaglio di Rawdon e

Rebecca insieme a un carico di selvaggina.

«Immagino che sarete felice di rivedere il vostro piccolo!» disse Lady

Jane, al momento di salutare la sua congiunta.

«Oh, tanto, tanto felice!» rispose Rebecca alzando al cielo i suoi occhi

verdi. In verità era felice di andarsene da quel luogo, e al tempo stesso le

dispiaceva. A Queen's Crawley si conduceva un'esistenza assolutamente idiota,

e tuttavia si respirava un'aria più pulita di quella cui era assuefatta. Erano tutti

molto noiosi, ma anche molto gentili. «Tutto dipende dalla possibilità di godersi

il più a lungo possibile una rendita al tre per cento,» si diceva Rebecca. Ed è

molto probabile che avesse ragione.

Con tutto ciò i fanali di Londra sprigionavano allegramente la loro luce

mentre la diligenza percorreva Piccadilly. La Briggs aveva acceso un bel fuoco

nel caminetto della casa di Curzon Street, e il piccolo Rawdon era rimasto

alzato per dare il bentornato al papà e alla mamma.

XLII • NEL QUALE SI PARLA DELLA FAMIGLIA OSBORNE

È passato parecchio tempo dall'ultima volta in cui ci siamo imbattuti nel

nostro rispettabile amico, il vecchio Mr. Osborne di Russell Square. E da allora

non si può dire che sia stato l'uomo più felice della terra. Gli eventi non hanno

contribuito a migliorarne il carattere, e in varie circostanze le cose non sono

andate per il giusto verso. Agli occhi dell'anziano signore ogni ostacolo che si

frapponesse a questo legittimo desiderio suonava come un ingiuria della vita.

Ed ora la gotta, l'età avanzata, la solitudine, le delusioni cominciavano ad

opprimerlo, onde le resistenze che si opponevano all'adempimento della sua

volontà gli pesavano sempre più. Dopo la morte del figlio, i folti capelli neri

avevano preso ad incanutire; il volto era sempre più acceso, e il tremito delle

mani pareva accentuarsi ogni qual volta si versava un bicchiere di porto. Alla

City faceva impazzire i suoi dipendenti, e in casa non rendeva certo facile la

vita ai suoi familiari. Credo che Rebecca, seppur l'abbiamo vista innalzare preci

onde raggiungere il Consolidato, non avrebbe scambiato la sua povertà, gli

incerti di una vita precaria e le emozioni che ne derivavano con i quattrini di

Osborne e la tetra atmosfera nella quale consumava i suoi giorni. Mr. Osborne

aveva fatto una proposta di matrimonio a Miss Swartz, proposta che era stata

sdegnosamente respinta dai tutori della ragazza, la quale si era invece sposata

con un giovane esponente dell'aristocrazia scozzese. Sarebbe stato disposto a

convolare a nozze con una donna di bassa estrazione, pur di avere il pretesto

di tormentarla vita natural durante; ma non riusciva a rimediarne una che gli

andasse a genio, onde doveva limitarsi a tiranneggiare la figlia nubile rimasta

in casa. Costei aveva a propria disposizione una splendida carrozza e

altrettanto splendidi cavalli, sedeva a capo di una tavola apparecchiata con

sontuosa argenteria, disponeva di un conto in banca e di un domestico

personale, godeva di credito illimitato, era oggetto di inchini e salamelecchi da

tutti i fornitori ed aveva tutto ciò che deve avere un'ereditiera; ma ciò non le

impediva di condurre un'esistenza oltremodo malinconica e desolante. Le

orfanelle degli ospizi, le spazzine municipali, la più umile lavapiatti della sua

cucina potevano considerarsi felici in confronto a quella sventurata creatura

che ormai aveva raggiunto la mezza età ed era una zitella fatta e finita.

Frederick Bullock, Esq., della banca Bullock, Hulker & Bullock, aveva

sposato Maria Osborne, non senza lamentele e difficoltà frapposte da Mr.

Bullock. Dal momento che prima della sua morte George era stato escluso

dall'eredità paterna, Bullock aveva brigato affinché metà dei beni di Mr.

Osborne venissero assegnati a Maria; e in effetti per parecchio tempo insistette

a non voler «venire al dunque» (come lui si esprimeva) se non sulla base di un

siffatto accordo. Da parte sua Osborne replicava che Bullock aveva accettato di

sposare Maria con ventimila sterline di dote, e non aveva la minima intenzione

di accordargliene di più. «Se Fred le accetta, sarà il benvenuto; altrimenti può

anche andare a farsi impiccare. Fred, che aveva cominciato a coltivare quelle

allettanti aspirazioni nel momento in cui George era stato diseredato, si ritenne

indegnamente truffato dal vecchio mercante, e per qualche tempo il suo

contegno fu quello di un uomo ormai incline a mandar tutto all'aria. Osborne

tolse il suo conto corrente dalla banca Bullock e Hulker e fece la sua comparsa

in Borsa con un frustino in mano, giurando che era pronto ad abbatterlo sulla

schiena di un certo farabutto di cui non faceva il nome, e comportandosi, di

conseguenza, nel modo violento e intollerante che gli era abituale. Mentre era

in corso questa squallida diatriba, Jane non faceva che ripetere alla sorella:

«Te l'ho sempre detto, Maria: quello vuole i soldi, non te,» e in tal modo era

convinta di recarle conforto.

«Sarà. Comunque ha scelto me e il mio denaro; non te e il tuo,» la

rimbeccava Maria con un cenno altero del capo.

Nondimeno la rottura fu solo temporanea. Il padre e i soci di Fred lo

esortarono a sposare Maria accontentandosi delle ventimila sterline (metà

subito e metà alla morte di Osborne) e confidando in una successiva

spartizione del restante patrimonio. Di conseguenza egli «si piegò» (per usare

ancora una volta la sua espressione), e inviò il vecchio Hulker da Osborne in

qualità di intermediario, per avviare la riappacificazione. Era stato il padre,

disse Hulker, a opporre difficoltà al matrimonio muovendo quelle obiezioni,

mentre il giovane era più che mai deciso a tener fede ai propri impegni. Mr.

Osborne accolse quelle spiegazioni in tono risentito; d'altra parte gli Hulker e i

Bullock appartenevano all'alta borghesia, erano una famiglia che faceva parte

dell'alta aristocrazia delle finanze, per giunta imparentata con la «gente-bene»

del West End. Poter dire: «Mio genero, della banca Bullock, & Hulker & Co.»,

«Mia figlia, cugina di Lady Mary Mango, la figlia dell'onorevole conte di

Castlemouldy», costituiva un 'indubbia soddisfazione per il vecchio; e con gli

occhi della fantasia già vedeva la sua casa gremita da una folla di aristocratici.

Pertanto accordò il suo perdono al giovane Bullock e acconsentì alle nozze.

Fu una cerimonia in pompa magna, e i parenti dello sposo - che

abitavano vicino alla chiesa di St. George in Hanover Square, dove ebbe luogo

il rito nuziale offrirono il rinfresco. La «gente-bene» del West End fu invitata in

blocco e molti apposero la loro firma sul registro degli invitati. C'erano Mr.

Mango e Lady Mary Mango, con le loro care figliole Gwendoline e Guiniver

Mango in funzione di damigelle d'onore; il colonnello Bludyer dei Dragoni della

Guardia (erede della Bludyer Brothers, una banca di Mincing Lane), anch'egli

cugino dello sposo, e l'onorevole Mrs. Bludyer; l'onorevole George Boulter,

figlio di Lord Levant, e sua moglie, nata Mango; il visconte di Castletoddy;

l'onorevole James M'Mull e Mrs. M'Mull (già Miss Swartz), oltre a una vera e

propria turba di esponenti dell'alta società, imparentata coi banchieri di

Lombard Street, che aveva largamente contribuito a nobilitare Cornhill.

La giovane coppia aveva una casa vicino a Berkeley Square e una villetta

a Roehampton, località ove molti banchieri usavano recarsi in villeggiatura. A

sentire le donne della famiglia Bullock (il cui nonno proveniva dall'ospizio dei

trovatelli), adesso che erano imparentate con le migliori famiglie d'Inghilterra,

Fred aveva fatto una mésalliance. Di conseguenza Maria, a furia di orgoglio e

facendo attenzione a scegliere oculatamente le persone che invitava a casa

propria, era costretta a far dimenticare la sua modesta estrazione, e pertanto a

reputar doveroso il ricevere assai di rado suo padre e sua sorella.

Con tutto ciò non aveva certo rotto i ponti col padre, ancora in possesso

di numerose decine di migliaia di sterline da lasciare in eredità. Fred non le

avrebbe mai permesso di commettere un simile errore. Ma era troppo giovane

per esser capace di dissimulare i propri sentimenti; onde invitava il padre e la

sorella ai ricevimenti di minor importanza, e quando loro venivano in visita li

trattava sempre con una certa freddezza, cercando altresì di recarsi il meno

possibile in Russell Square. Anzi, insisteva perché il padre si decidesse a

traslocare e ad andarsene da quel quartiere odioso e volgare. Col risultato di

commettere guasti molto maggiori di quanti la diplomazia di Fred riuscisse a

rimediare, e l'ulteriore rischio (da quella sventata che era) di mettere a

repentaglio la tanto agognata eredità.

«A quanto pare Russell Square non è più abbastanza chic per Mrs.

Maria!» esclamò una sera il vecchio; rivolto alla figlia nubile, mentre richiudeva

rabbiosamente lo sportello della carrozza e lasciava la casa dei Bullock

ov'erano stati a cena. «Invita il padre e la sorella a mangiar gli avanzi della

cena del giorno prima (sono pronto a farmi impiccare se quegli arrosti - o

entrées, come li chiama lei non erano roba di ieri) e mi fa sedere a tavola con

mercanti e faccendieri d'ogni genere quando invece, in nostra assenza, invita

conti, Eccellenze e dame altolocate! Eccellenze? Al diavolo le Eccellenze! Io

sono solo un mercante inglese come tanti altri, ma quei maledetti cani da

caccia me li posso comperare tutti. Aristocratici? Puah! A una serata ne ho

visto uno chiacchierare con un violinista, cosa che io non farei per tutto l'oro

del mondo. Ah, sì? Non si degnano di venire in Russell Square? Facciano pure!

Il mio vino, però, è molto migliore del loro, perché grazie al Cielo lo posso

pagare di più. E anche la mia argenteria è più bella! E posso servire in tavola

cibi molto più buoni, impostori e spocchiosi che non sono altro! Coraggio,

James, frusta i cavalli! Voglio tornarmene subito in Russell Square! Ah, ah,

ah!» E abbandonandosi a una risata iraconda si lasciò ricadere in un angolo

della carrozza. Non di rado accadeva che il vecchio si consolasse con queste

riflessioni sui suoi meriti e sulla sua pretesa superiorità.

Jane Osborne non poteva esimersi dall'esser d'accordo col padre circa il

deplorevole contegno della sorella; e quando Mrs. Bullock mise al mondo il suo

primogenito, Frederick Augustus Stanley Devereux Bullock, il vecchio Osborne,

richiesto di far da padrino al battesimo del piccolo, rifiuto di presenziare alla

cerimonia limitandosi a regalare al bambino una tazza d'oro con dentro venti

ghinee per la balia. «È molto più di quanto offriranno tutti i loro Lords, di

questo siate pur certi!» fu il suo commento.

Nondimeno quel dono così sontuoso fu motivo di grande soddisfazione

per i Bullock. Maria ne dedusse che il padre fosse altamente soddisfatto di lei,

e Frederick ne trasse incoraggianti auspici per il suo figlioletto ed erede.

Non è difficile immaginare quali spine causasse a Miss Osborne, nella

solitudine della sua casa di Russell Square, leggere le «Cronache Mondane» del

«Morning Post», ove il nome di sua sorella ricorreva con notevole frequenza, e

dove una volta aveva letto persino la descrizione dell'abito che Mrs. Bullock

portava in occasione della sua presentazione a Corte, madrina Lady Frederica

Bullock. La vita di Jane, lo abbiamo visto poc'anzi, escludeva tutti quei fasti.

Era una vita spaventosa. Nelle buie mattine d'inverno doveva alzarsi di

buon'ora per preparare la colazione al suo vecchio genitore sempre di pessimo

umore, e che avrebbe buttato all'aria la casa intera se il suo tè non fosse stato

pronto alle Otto e mezzo precise. Dopo di che se ne stava seduto in silenzio di

fronte a lui, l'occhio teso al sibilo del bollitore, e attendeva tremebonda che il

padre leggesse il giornale consumando la consueta razione di tè e pasticcini.

Alle nove e mezzo Mr. Osborne si alzava da tavola per recarsi nella City, e

allora lei era libera sino all'ora di pranzo: libera di scendere in cucina a dare

un'occhiata e a fare osservazioni alla servitù, libera di uscire e di entrare nelle

botteghe dei vari fornitori (sempre accolta con grande ossequio); libera di

recarsi a lasciare il proprio biglietto da visita e quello del padre nelle grandi,

tetre, austere dimore dei loro amici della City; libera - se così preferiva - di

starsene tutta sola in salotto in attesa di visite, o ricamando un mastodontico

arazzo seduta sul canapè sotto la pendola col gruppo di Ifigenia che ticchettava

e suonava le ore nella lugubre stanza. La grande specchiera sopra il caminetto,

e l'altra sopra la consolle, moltiplicavano all'infinito l'involucro di lino greggio

che avvolgeva il lampadario; onde si scorgeva in prospettiva una serie

interminabile di salotti, e una serie altrettanto interminabile d'involucri di lino,

e la stanza dove sedeva Miss Osborne, pareva il centro di un sistema infinito di

salotti. Se poi toglieva dal pianoforte la fodera di cuoio di Cordova e si provava

a sprigionare qualche nota dalla tastiera, lo strumento echeggiava sinistro e

animava la casa di echi funerei. Il ritratto di George era scomparso, relegato in

soffitta; e sebbene la presenza del defunto continuasse ad aleggiare nella casa,

e il padre e la figlia sapessero, ognuno per proprio conto, di pensare a lui, pure

quel nome un tempo tanto caro, il nome di quel figlio così coraggioso, non

veniva mai pronunciato.

Alle cinque Mr. Osborne ritornava a casa e consumavano la cena in un

silenzio rotto di rado dalla voce del vecchio, e solo per imprecare senza ritegno

se il cibo non era di suo gusto. Un paio di volte al mese spartivano la mensa

con una deprimente compagnia di vecchi amici, in tutto simili a Mr. Osborne; il

vecchio dottor Gulp e sua moglie, di Bloomsbury Square, il vecchio Mr.

Frowser, un ottimo avvocato con studio in Bedford Row, che in virtù della sua

professione era continuamente a contatto con la «gente-bene» del West End;

oppure il vecchio colonnello Livermore dell'Esercito delle Indie, e Mrs.

Livermore, di Upper Bedford Place; il vecchio sergente Toffy e Mrs. Toffy, e

qualche rara volta anche il vecchio Sir Thomas Coffin e Lady Coffin, di Bedford

Square. Sir Thomas era un giudice che godeva fama di condannare alla forca

con notevole disinvoltura, e quando veniva a cena dagli Osborne, sulla tavola

compariva un porto di qualità superiore.

Questi e altri personaggi del genere ricambiavano poi il munifico

mercante di Russell Square con cene altrettanto pompose. Dopo il pasto

passavano in salotto dove trascorrevano il tempo impegnati in lunghissime

partite a whist; finché, alle dieci e mezzo, venivano chiamate le loro carrozze.

Molti ricchi, oggetto consueto della nostra vita, son soliti condurre con piena

soddisfazione il genere di vita che abbiamo testè descritto. Era ben raro che

Jane incontrasse un uomo al di sotto dei sessant'anni, e l'unico scapolo era Mr.

Smirk, il famoso medico per signore.

Con tutto ciò sarebbe errato asserire che nulla avesse mai turbato la

tremenda noia che affliggeva una siffatta esistenza, perché nella vita

dell'infelice Jane c'era stato un segreto: un segreto che aveva contribuito a

rendere il padre ancor più corrucciato e intrattabile di quanto lo rendessero

l'innato temperamento, l'orgoglio e il troppo cibo. Il segreto in questione

riguardava, sotto un certo profilo, Miss Wirt, la quale aveva un cugino pittore,

certo Mr. Smee, il quale più tardi sarebbe diventato famoso e membro della

Royal Academy, ma a quel tempo si reputava fortunato di dar lezioni di

disegno alle signore di un certo tono. Ormai Mr. Smee non ricordava nemmeno

dove si trovi Russell Square, ma nel 1818 era ben lieto di recarvisi ogni qual

volta Miss Osborne ve lo convocava.

Orbene, questo Mr. Smee era stato allievo di Sharp (quel pittore

dissoluto e libertino che abitava in Frith Street e che, pur non avendo avuto

successo, aveva un'ottima conoscenza dell'arte sua), era cugino della Wirt e

quest'ultima lo aveva presentato a Miss Osborne, il cui cuore e la cui mano

erano ancora liberi dopo alcuni approcci sentimentali rimasti lettera morta. Mr.

Smee aveva provato una subitanea simpatia per Jane, la quale - è lecito

supporlo non aveva tardato a ricambiarla. La confidente di questo intrigo era

Miss Wirt. Non saprei dire se ella fosse solita uscire dal salotto quando il

maestro e l'allieva erano impegnati a dipingere, onde consentir loro di

scambiarsi quei giuramenti e quelle tenere espressioni amorose che non si ha

agio di pronunciare alla presenza di terzi. E del pari non potrei dare per certo

ch'ella sperasse - qualora il cugino fosse riuscito a far sua la figlia del facoltoso

mercante - di fruire in qualche modo di quella ricchezza che lei gli avrebbe

offerto il destro di procacciarsi. Ad ogni modo sta di fatto che il vecchio

Osborne subodorò qualcosa. Un giorno rientrò dalla City ad ora insolita, entrò

nel salotto con la sua canna da passeggio in mano, e quivi trovò la figlia, il

pittore e la dama di compagnia, tutti e tre col volto terreo. Buttò letteralmente

Mr. Smee fuori della porta minacciandolo di fracassargli le ossa a bastonate e

mezz'ora dopo licenziò la Wirt scaraventandone il bagaglio giù per le scale,

calpestandone le cappelliere e agitando i pugni verso la carrozza di piazza sulla

quale ella era salita per andarsene.

Per vari giorni Jane Osborne non si mosse dalla sua stanza, e da allora in

poi le fu formalmente vietato di avere una dama di compagnia. Il padre

dichiarò che non le avrebbe dato un centesimo qualora avesse osato fare un

matrimonio a lui male accetto, e siccome peraltro aveva bisogno di una donna

che mandasse avanti la casa, decise senz'altro che la figlia non si sarebbe

sposata.

Fu così che Jane dovette accantonare qualsiasi progetto nel quale

c'entrasse Cupido. Fino a quando il padre rimase in vita si rassegnò a condurre

il genere di vita che abbiamo poc'anzi descritto, accettando d'essere ciò che

era: un perfetto, tipico esemplare di vecchia zitella. Nel frattempo la sorella

sfornava figli in continuazione, battezzandoli con nomi sempre più pretenziosi e

stravaganti, mentre i rapporti fra loro due si andavano allentando sempre più.

«Jane ed io apparteniamo a due mondi diversi,» diceva spesso Mrs. Bullock.

«Naturalmente per me sarà sempre una sorella...» Il che significa... ciò che

significa quando una signora dice che per lei Jane sarà sempre una sorella.

Abbiamo già detto come le sorelle Dobbin abitassero in una bella casa a

Denmark Hill, con un giardino ricco di pergolati e splendide spalliere di pesche

che formavano la gioia del piccolo Georgy Osborne. Le Dobbin, come si

recavano sovente a Brompton a trovare la loro cara Amelia, così talvolta si

spingevano anche in Russell Square per far visita alla loro vecchia amica Miss

Osborne. È assai probabile che simili attenzioni riflettessero gli ordini che il

fratello (per il quale il loro padre nutriva un'incondizionata ammirazione)

inviava loro dall'India; e questo perché il maggiore Dobbin, padrino e tutore

del figlio di Amelia, insisteva a sperare che il nonno Osborne, potesse essere

indotto a deflettere dal suo atteggiamento intransigente, e riconoscere il

ragazzino. Le Dobbin informavano Miss Osborne sul conto di Amelia: le

raccontavano di come vivesse coi genitori, di quanto fossero poveri, di come

non fosse umanamente spiegabile che gli uomini - e uomini dello stampo di

George avessero potuto interessarsi a una donna tanto insignificante. La quale,

per parte sua, continuava ad essere quella che era sempre stata: una

bambinotta tutta burro e miele... Ma il ragazzo! Ah, il ragazzo era il più nobile

ragazzino che si potesse immaginare! Aveva l'impronta della gente di razza...

Giacché il cuore di ogni donna s'intenerisce sempre per i bambini e anche la

più arcigna delle zitelle sa essere gentile con loro.

Un giorno, dopo molte insistenze da parte delle Dobbin, Amelia

acconsentì a che il piccolo Georgy trascorresse l'intera giornata nella casa di

Denmark Hill: giornata che ella consumò scrivendo una lettera al maggiore, in

India. Si congratulava con lui per le consolanti notizie sul suo conto che le

erano state recate dalle sue sorelle. Pregava perché lui e la sua sposa avessero

un'esistenza felice e nel contempo lo ringraziava per le infinite gentilezze e

attenzioni di amicizia di cui gli era debitrice. Poi gli raccontò le ultime prodezze

di Georgy, che proprio quel giorno era andato a trascorrer l'intera giornata in

campagna, dalle sue sorelle. Sottolineò molti passaggi della lettera e si firmò:

vostra affezionatissima amica Amelia Osborne. Contrariamente al solito,

dimenticò di mandare i suoi saluti a Lady O'Dowd ed evitò di menzionare

esplicitamente Glorvina, cui alluse sempre come sposa del maggiore, sul quale

invocava la sua benedizione. La notizia del matrimonio era valsa comunque a

rompere il riserbo ch'ella aveva sempre conservato nei confronti di Dobbin. Era

contenta di poter palesare apertamente la profonda gratitudine ch'ella nutriva

per lui; quanto all'idea di esser gelosa di Glorvina (di Glorvina, nientemeno!),

se anche fosse stato un angelo dal cielo a farne cenno, Amelia l'avrebbe

respinta sdegnosamente.

Quella sera Georgy, quando fece ritorno a casa a bordo del piccolo

calesse che gli piaceva tanto, guidato dal cocchiere di Sir William Dobbin,

recava al collo una catena d'oro con un orologio. Raccontò che glie l'aveva

regalata una vecchia signora, piuttosto brutta, che si era messa a piangere e lo

aveva baciato più volte. Ma a lui non era piaciuta. Gli era piaciuta l'uva, quella

sì. E la sua mamma. A lui piaceva soltanto la sua mamma. Amelia ebbe un

moto di spavento. Il suo cuore apprensivo ebbe un funesto presagio

nell'apprendere che una zia del bimbo, una parente del padre, avesse visto

Georgy.

Miss Osborne tornò a casa per sovrintendere alla cena del padre. Mr.

Osborne aveva concluso buoni affari alla City, cosicché il suo umore era

sopportabile. Si accorse pertanto del turbamento della figlia e si degnò di

domandarle: «Cosa succede, Miss Osborne?»

Jane scoppiò in lacrime. «Oh, signore,» disse, «ho visto il piccolo Georgy.

È bello come un angelo, e... gli somiglia tanto!»

Il vecchio, che sedeva di fronte a lei, non disse una parola, ma si fece

rosso in viso e prese a tremare in tutte le membra.

XLIII • NEL QUALE IL LETTORE SI TROVA A DOPPIARE IL CAPO

Ed ora il nostro lettore dovrà adattarsi a compiere un viaggio di diecimila

miglia per raggiungere il presidio militare di Bundlegunge, nella circoscrizione

di Madras facente parte del nostro Impero Britannico delle Indie. Quivi si

trovano infatti acquartierati i nostri amici del . . .° Reggimento, al comando

dell'ardimentoso colonnello Sir Michael O'Dowd. Il tempo è stato generoso con

questo solido ufficiale, come è solito fare con gli uomini dotati di stomaco

robusto e buon carattere, senza troppe perplessità e senza nessuna

inclinazione a mettere a dura prova il cervello. Il colonnello si arma

allegramente di coltello e forchetta ad ogni pranzo, ed è pronto a impugnare di

bel nuovo questi arnesi a cena, con altrettanto successo. Fuma un sigaro dopo

ogni pasto e si limita a sbuffare spazientito sopportando i rimbrotti della

consorte, né più né meno come faceva sotto il fuoco dei francesi alla battaglia

di Waterloo. Quanto alla discendente delle illustri schiatte dei Malony e dei

Molloy, il caldo e il trascorrere degli anni non ne hanno minimamente intaccato

l'attività e la prorompente eloquenza. Sua Signoria, la nostra vecchia amica, si

trova benissimo a Madras, esattamente come si sentiva a suo agio a Bruxelles.

È a casa sua in caserma come sotto la tenda. Quando il reggimento è in

marcia, lei (oh, stupenda visione!) procede in testa, regalmente assisa al

sommo di un elefante. Issata sul medesimo animale, ha preso parte perfino a

partite di caccia alla tigre nel cuore della giungla. E del pari è stata ricevuta da

principi indiani, che l'hanno accolta insieme a Glorvina sin nei recessi delle

zenanas, e le hanno offerto scialli e gioielli che lei è stata costretta a rifiutare

con la morte nel cuore. Non appena fa la sua comparsa, le sentinelle dei vari

corpi d'armata la salutano col presentat'arm, e lei risponde portando

austeramente la mano al cappello. In effetti Lady O'Dowd ha buon motivo per

essere considerata una delle signore più in vista di Madras, ove più d'uno

ricorda ancora la sua lite con Lady Smith, la moglie del giudice Minos Smith,

quando le schioccò le dita sulla faccia dicendole che mai avrebbe accondisceso

a cedere il passo a una pezzente borghese. Ancora oggi - e sono trascorsi

venticinque anni - molti rammentano come una volta Lady O'Dowd, ballando la

giga al Palazzo del Governatore, riuscisse a stancare due aiutanti di campo, un

maggiore della cavalleria di Madras e due funzionari dell'amministrazione

civile; e finalmente, persuasa dal maggiore Dobbin, Cavaliere del Bagno e

comandante in seconda del ...° Reggimento, si rassegnasse a ritirarsi in sala

da pranzo: lassata nondum satiata recessit.

Insomma, Peggy O'Dowd non è assolutamente cambiata: gentile nei

pensieri, generosa nell'azione, di temperamento impetuoso, sempre pronta

perentoriamente al comando, tiranna col suo Michael, un dragone con le

signore del reggimento, una madre per tutti i giovani ufficiali che assiste

quando sono malati, difende quando si mettono nei pasticci, e tra i quali gode

di conseguenza di grande popolarità. Ma le mogli dei capitani e degli ufficiali di

grado inferiore (il maggiore è scapolo) complottano contro di lei e ne sparlano

in continuazione. Dicono che Glorvina si dà delle arie e che lei, Peggy, è di una

tirannia inammissibile. Una volta riuscì a cacciare il naso in una piccola

congregazione che Mrs. Kirk aveva radunato, e sottrasse ai sermoni di costei

tutti i giovanotti (che fuggirono sghignazzando) asserendo che non spettava

alla moglie di un ufficiale mettersi a fare il parroco; che Mrs. Kirk avrebbe fatto

molto meglio a rammendare gli indumenti di suo marito, e che se il reggimento

aveva proprio bisogno di prediche, lei ne aveva di ottime: quelle scritte da suo

zio, il decano. Pose termine senza tanti complimenti a un flirt tra il

sottotenente Stubble e la moglie del medico militare, minacciando Stubble di

farsi rendere il denaro prestatogli (il sottotenente aveva una marcata tendenza

allo scialacquio), se non la faceva finita immantinenti e non se ne andava al

Capo in licenza di convalescenza. Per contro non esitò a dar ricetto alla povera

Mrs. Posky, che una notte era fuggita inseguita dal marito, il quale brandiva la

sua seconda bottiglia di brandy, inoltre curò lo stesso Posky quand'ebbe un

attacco di delirium tremens e lo guarì dal vizio di bere che l'ufficiale aveva

contratto come solo gli uomini contraggono ogni sorta di vizi. Per concludere,

Peggy era un 'ottima amica nelle avversità e un vero uragano nei momenti di

pace: il tutto conservando sempre un'opinione altamente lusinghiera di sé e

decisa con fede indomabile a far sempre e soltanto a modo proprio.

Tra l'altro si era ficcata in testa che Glorvina dovesse convolare a nozze

col nostro buon amico, il maggiore Dobbin. Mrs. O'Dowd sapeva perfettamente

che in futuro egli avrebbe disposto di una cospicua fortuna, ne apprezzava le

ottime qualità e sapeva che nella sua qualità di ufficiale godeva della massima

stima. Glorvina era una bella ragazza bruna, fresca, con gli occhi azzurri.

Sapeva cavalcare e suonava il pianoforte in modo più che passabile, non

altrimenti da qualsivoglia signorina uscita dalla contea di Cork. Pertanto

sembrava aver le carte in regola per assicurare la felicità di Dobbin, molto

meglio di quanto non avrebbe potuto fare quella povera ragazza di Amelia, così

debole e insulsa, e della quale peraltro egli parlava sovente. «Guardate

Glorvina quando entra in una stanza,» diceva Lady O'Dowd, «e raffrontatela a

quella povera Mrs. Osborne che non ha nemmeno il coraggio di dire "scio scio"

a un'oca. È la ragazza che vi ci vuole, maggiore. Voi siete un uomo silenzioso,

riservato: avete bisogno di qualcuno che parli per voi. Ammetto che nelle sue

vene non scorra sangue nobile come quello dei Malony e dei Molloy; però

credetemi: è di famiglia così antica che qualsiasi esponente della nobiltà

sarebbe felicissimo di farne la propria consorte.»

Occorre peraltro convenire che prima di approdare alla decisione di

conquistare il maggiore Dobbin con le sue moine, Glorvina aveva già compiuto

altrove numerosi tentativi del genere. Li aveva fatti a Dublino nel corso di

un'intera stagione, e beninteso a Cork, a Killarney e a Mallow. Si era lasciata

corteggiare da tutti gli ufficiali scapoli dei vari reggimenti di stanza in Irlanda,

nonché da tutti i celibi di famiglia altolocata che potevano di conseguenza

esser considerati un buon partito. In Irlanda era stata fidanzata almeno dieci

volte, senza contare quell'ecclesiastico di Bath che l'aveva tratta di peste.

Durante tutto il viaggio che l'aveva condotta a Madras aveva civettato col

capitano e col nostromo del Ramchunder, la nave in servizio per le Indie

Orientali, e aveva altresì passato una stagione al Governatorato insieme col

fratello e con la cognata, posto che il colonnello (a quel tempo ancora

maggiore) era al comando del reggimento colà stanziato. Suscitava

l'ammirazione generale, tutti erano ben lieti di ballare con lei, ma è altrettanto

vero che tutti si guardavano bene dal chiedere la sua mano. Due o tre

subalterni fra i più giovani si erano invaghiti di lei, e così pure qualche

giovincello borghese; ma lei li aveva altezzosamente respinti reputandoli al di

sotto di ciò cui riteneva di poter aspirare. Così altre vergini più giovani di

Glorvina finivano con lo sposarsi prima di lei. Capita che donne anche belle

subiscano questo destino nella vita: s'innamorano con estrema facilità, vanno a

cavallo e a passeggio con gli ufficiali di mezzo esercito, finché si ritrovano a

quarant'anni e sono ancora la signorina O'Grady (per esempio) come lo erano

vent'anni prima. Glorvina per parte sua si lamentava sostenendo che se la

cognata non avesse avuto quel malaugurato litigio con la moglie del giudice, lei

avrebbe potuto fare un brillantissimo matrimonio a Madras, dove il vecchio Mr.

Chutney, il capo dell'Amministrazione civile (che più tardi sposò una certa Miss

Dolby, una ragazza di soli tredici anni che era giunta dall'Europa appena

terminate le scuole) stava proprio per chiedere di sposarlo.

Dunque, sebbene Glorvina e Lady O'Dowd litigassero ad ogni ora del

giorno e su ogni possibile argomento, tanto che se il povero Mick O'Dowd non

avesse avuto il carattere di un angelo, quelle due donne, le cui voci lo

rintronavano da mane a sera, lo avrebbero letteralmente fatto impazzire, si

trovavano nondimeno d'accordo su un punto: il maggiore Dobbin doveva

sposare Glorvina, e non gli avrebbero dato pace fino al giorno in cui non

avessero felicemente coronato il comune proposito. Così, l'indomita Glorvina,

ad onta delle decine di insuccessi precedentemente accumulati, cinse d'assedio

l'ambito ufficiale. Gli cantava in continuazione melodie irlandesi, e cantando gli

chiedeva senza posa se volesse seguirla «nel soave recesso ombroso», tanto

che in verità non si comprende come un uomo dotato di un'ombra .di

sentimento potesse resistere al fascino di quel suadente invito. Non desisteva

dal chiedergli se il Dolore avesse ottenebrato i giorni della sua prima

giovinezza, ed era sempre pronta ad ascoltare il racconto dei pericoli che aveva

corso durante le campagne di guerra cui aveva preso parte, sciogliendosi in

lacrime come Desdemona. Abbiamo già riferito come talvolta il nostro buon

amico, quand'era solo, si dilettasse a suonare il flauto. Glorvina insisteva per

suonare in duetto con lui, e quando loro s'intrattenevano a far musica Lady

O'Dowd con molta discrezione si alzava uscendo silenziosa dalla stanza. La

ragazza costringeva il povero maggiore a cavalcare ogni mattina con lei, sotto

gli occhi dell'intero reggimento che li vedeva allontanarsi e tornare insieme. Gli

mandava continuamente a casa dei bigliettini coi quali gli chiedeva in prestito

dei libri, sui quali poi sottolineava con vistosi tratti di matita i brani

sentimentali o umoristici che avevano suscitato il suo interesse o il suo

divertimento. Gli chiedeva in prestito di tutto: dai cavalli alle posate, dai

domestici al palanchino. Non c'era dunque da stupirsi se la pubblica opinione

gliel'assegnava come fidanzata, e se in Inghilterra le sorelle del maggiore si

reputassero in procinto di diventar cognate.

Ma Dobbin, ad onta di questo implacabile assedio, manifestava una

totale, odiosa, esasperante indifferenza. Scoppiava a ridere quando i giovani

ufficiali del reggimento lo prendevano in giro a causa delle attenzioni di cui era

costantemente oggetto da parte di Glorvina. «Bah,» commentava lui, «non fa

che tenersi in esercizio. Si mantiene in esercizio con me esattamente come fa

col pianoforte di Mrs. Tozer, che è l'unico strumento disponibile sul posto. E poi

io sono troppo vecchio per una ragazza giovane e bella come Glorvina. Troppo

vecchio e troppo stanco.» Così continuava ad andare a cavallo con lei, a

copiare poesie e brani musicali sul suo album, a giocare a scacchi, quieto e

sottomesso. Giacché i nostri ufficiali di stanza nelle Indie trascorrono il loro

tempo libero dedicandosi a questi frugali divertimenti. Tuttavia ce ne sono altri

che, meno inclini ai suddetti passatempi domestici, preferiscono andare a

caccia di cinghiali, o sparano alle beccacce, oppure fumano sigari, giocano a

carte e talvolta si abbandonano al vizio del bere. Quanto a Sir Michael O'Dowd,

sebbene la moglie e la sorella lo incalzassero per indurlo a recarsi dal maggiore

e a chiedergli una spiegazione, anziché permettergli di sottoporre a così atroci

sofferenze una fanciulla innocente, il vecchio militare rifiutava di svolgere un

ruolo purchessia in quella congiura. «Per Dio,» diceva, «il maggiore è

abbastanza adulto per fare da solo le sue scelte. Quando gli andrà a genio ti

chiederà di sposarlo.» O talvolta rideva apertamente della faccenda e

dichiarava che «Dobbin era troppo giovane per farsi una famiglia, e che forse

aveva scritto a casa per chiedere il benestare alla sua cara mammina». Ma non

è tutto: quando si trovava a tu per tu col maggiore lo metteva bonariamente in

guardia: «Sta' all'erta, caro Dobbin,» diceva, «quelle due si sono messe in

testa d'incastrarti. Mia moglie ha appena ricevuto una cassa di vestiti

dall'Europa, e ce n'è uno di raso rosa per Glorvina. Quel vestito sarà la tua

rovina, se appartieni a quella specie d'uomini che si lascia incantare da una

donna e da un vestito di raso.»

La verità era che bellezza ed eleganza non avevano il potere di

conquistare Dobbin. Il nostro ottimo amico aveva un'immagine di donna per la

mente, e questa donna non presentava la pur minima rassomiglianza con Miss

Glorvina O'Dowd, ancorché in abito di raso rosa. Era l'immagine di una donnina

vestita di nero, con grandi occhi e capelli castani, poco incline alla

conversazione, e che pertanto parlava solo quando le si rivolgeva la parola,

con una voce affatto diversa da quella di Glorvina. Era una giovane madre

preoccupata soltanto di accudire al suo bimbo, e alla quale bastava un sorriso

per indurre il maggiore a guardarla. Era una giovinetta dalle gote rosee che

entrava cantando nel salottino di Russell Square, o che appariva, sposa e

innamorata, al braccio di George Osborne. E quest'immagine dominava, sola e

incontrastata, la mente del maggiore, di giorno come di notte. In realtà è assai

probabile che Amelia non somigliasse affatto all'immagine che Dobbin se n'era

fatta: quando era ancora in Inghilterra aveva sottratto un giornale di mode alle

sue sorelle e ne aveva ritagliato - incollandolo sullo scrittoio - uno dei figurini,

perché secondo lui presentava una certa somiglianza con Mrs. Osborne,

laddove io che l'ho visto posso affermare senza esitazione che si trattava solo

del disegno di un abito a vita altissima, sovrastato da un'insignificante faccina

da bambola. D'altro canto è probabile che la sentimentale visione di Amelia che

Dobbin serbava in cuore non avesse maggiori affinità col vero di quante ne

presentasse quell'assurdo figurino che gli era tanto caro. Ma ditemi voi: quale

uomo innamorato si comporta altrimenti? E c'è chi si sente più felice quando

vede coi propri occhi la realtà e deve ammettere di essersi ingannato? Dobbin

era travolto e dominato da questa specie di sortilegio, ma non per questo

perdeva il sonno e l'appetito, o infastidiva gli amici e i conoscenti esternandogli

i propri sentimenti. La sua testa appariva un tantino brizzolata e tra i folti

capelli castani s'intravedeva qualche filo d'argento. Ma il suo amore non era

affatto mutato: era rimasto fresco e giovane come lo sono i ricordi della prima

gioventù.

Abbiamo detto come le sorelle e Amelia scrivessero costantemente al

maggiore inviandogli così notizie dall'Europa. L'ultima lettera era stata quella di

Mrs. Osborne, la quale, con molta cordialità e il massimo candore, si

congratulava per le ormai imminenti nozze con Miss O'Dowd.

« Poco fa le vostre sorelle hanno avuto la bontà di venire a trovarmi, »

scriveva Amelia, « e mi hanno informata di un importante avvenimento per il

quale vi prego di accogliere le mie più sincere felicitazioni. Non dubito che la

fanciulla alla quale, a quanto mi dicono, ben presto vi unirete, sia sotto ogni

aspetto degna di un uomo che è la bontà e la gentilezza fatte persona. La

povera vedova non può offrire che le sue preghiere, ed ogni augurio più

cordiale per la vostra felicità. Georgy manda i suoi saluti più affettuosi

all'amato padrino, e spera di non esserne dimenticato. Intendo spiegargli che

voi state contraendo altri legami con una persona che senz'alcun dubbio è

meritevole del vostro affetto; ma che, sebbene tali legami siano i più forti ed

abbiano diritto di precedenza su ogni altro, sono certa che per la vedova e il

bimbetto cui voi avete sempre elargito affetto e protezione voi conserverete

sempre un angolino nel vostro cuore.» La lettera proseguiva su questo tono,

lasciando trasparire in ogni pagina la profonda soddisfazione della scrivente.

Questa missiva, giunta con lo stesso piroscafo che recava altresì le casse

di indumenti per Lady O'Dowd provenienti da Londra, e che (voi non ne

dubiterete certo) Dobbin dissuggellò prima di ogni altra e dei vari pacchi

arrivati con lo stesso carico postale, piombò il destinatario in uno stato d'animo

siffatto da rendergli Miss Glorvina e il suo abito rosa né più né meno

intollerabili. Il maggiore imprecò contro i pettegolezzi delle donne, poi contro il

sesso femminile in genere. Quel giorno tutto gli pesava: la parata gli riuscì

tremendamente faticosa, il caldo opprimente. Gli stupidi discorsi degli ufficiali

radunati alla mensa lo importunarono più del consueto. Cosa gliene importava

a lui, un uomo ormai avviato alla quarantina, di quante beccacce avesse

abbattuto il giorno prima il tenente Smith? O delle prodezze di cui era capace

la cavalla saura del sottotenente Brown? Quanto poi alle facezie salaci che

animavano la conversazione durante il rancio, lo riempivano di vergogna. Era

troppo vecchio per sopportare i frizzi licenziosi dell'aiutante medico e il gergo

dei giovanissimi, che invece suscitavano con la massima facilità le risate di

O'Dowd, nonostante la sua faccia rubizza e la sua testa calva. Erano trent'anni

che il colonnello udiva le stesse spiritosaggini, mentre per Dobbin erano

vecchie solo di quindici anni... E dopo il monotono vociare della mensa, ecco le

ciance e le maldicenze delle signore. Era una vita squallida, indegna. «Oh,

Amelia, Amelia,» pensava, «tu al quale sono rimasto fedele, ora mi rimproveri!

Se trascino un'esistenza così insoffribile, è solo perché non riesci a provare

alcun sentimento nei miei confronti. E dopo anni e anni di indefettibile

devozione, ecco la tua ricompensa: mi elargisci la tua benedizione perché mi

sposo... figuriamoci!... perché mi sposerei con quella sfrontata irlandese!» Il

povero William era nauseato e sopraffatto dal dolore. Mai prima d'ora si era

sentito così solo, così infelice. Avrebbe voluto farla finita con la vita e le sue

vanità, tanto inutile e inappagante gli appariva la lotta, tanto fosco e

deprimente ogni prospettiva per l'avvenire. La notte non riuscì a prender

sonno, sopraffatto com'era dalla nostalgia di casa. La lettera di Amelia aveva

prodotto in lui l'effetto di una mazzata. La sua fedeltà, la perseveranza del suo

amore non erano riuscite ad accendere in lei la pur minima fiammella di

passione. Amelia si rifiutava di accorgersi ch'egli l'amava. Si voltava e rivoltava

nel letto parlandole ad alta voce: «Buon Dio, Amelia,» diceva, «non sai che

amo te, soltanto te a questo mondo? Te che sei fredda nei miei confronti come

una pietra? Te che ho assistito per mesi e mesi di malattia e di afflizione, e che

nondimeno mi hai detto addio con un sorriso, dimenticandoti della mia

esistenza prima ancora che la porta si richiudesse alle mie spalle?» I servi

indigeni che dormivano nella veranda davanti alla porta che dava nella stanza

del padrone porgevano stupiti l'orecchio ai farneticamenti del maggiore, di

solito così pacato ed ora così triste e accasciato. Ma lei, lei, avrebbe avuto un

palpito di pietà se lo avesse veduto in quello stato? Rilesse tutte le lettere che

aveva ricevuto da Amelia: riguardavano la piccola rendita che lui le aveva

lasciato credere di aver ereditato dal marito; oppure erano laconici biglietti

d'invito... Rilesse tutto, sino all'ultima sillaba, di quanto lei gli aveva scritto.

Com'erano gentili e freddamente compassate, com'erano disperanti ed egoiste!

Se avesse avuto a portata di mano qualche anima gentile capace di

apprezzare i tesori di quel cuore tacito e generoso, chissà se il regno di Amelia

non sarebbe finito e l'amore del nostro amico William non si sarebbe rivolto a

chi era più amabilmente disposto ad accoglierlo? Ma egli intratteneva rapporti

di familiarità solo con quella Glorvina dai boccoli corvini; ma questa scalpitante

fanciulla era incline, più che ad amare il maggiore, a riscuoterne

l'ammirazione: speranza destinata al naufragio, tenuto conto dei mezzi di cui la

ragazza poteva avvalersi per condurlo a buon fine. Si arricciava i capelli e si

scopriva le spalle davanti a lui, quasi avesse voluto dire: «Avete mai visto una

chioma simile, un incarnato che possa competere col mio?» Gli sorrideva

scoprendo la dentatura onde lui potesse constatare che i suoi denti erano

sanissimi, ma Dobbin continuava a mostrarsi insensibile ai suoi vezzi.

Qualche giorno dopo l'arrivo della cassa di vestiti da Londra, e forse

proprio per celebrare il fausto avvenimento, Lady O'Dowd e le altre consorti di

ufficiali del Reggimento Reale diedero un ballo in onore degli altri reggimenti di

stanza a Madras e degli addetti all'Amministrazione civile. Glorvina indossò per

l'occasione il famoso abito di raso rosa; ma il maggiore, che prese parte ai

festeggiamenti camminando tutta la sera mesto e cogitabondo su e giù per le

scale, non degnò il vestito di un solo sguardo. Glorvina gli passava davanti,

furente, ballando con tutti i giovani ufficialetti della piazza, ma Dobbin era

lontanissimo dal provare il più pallido sentimento di gelosia, o di sentirsi

contrariato perché il capitano Bangles della cavalleria l'aveva accompagnata a

cena. I vestiti da ballo, le spalle candide come l'avorio, i tentativi di suscitare la

gelosia di William non avevano alcun potere di smuovere il maggiore, e

Glorvina non aveva altre armi alle quali ricorrere.

Essi incarnavano dunque due esempi lampanti della Vanità della vita,

giacché ognuno inseguiva ciò che non aveva modo di raggiungere. Glorvina,

vedendo fallire tutti i suoi tentativi, pianse di rabbia e di sconforto. Si era

intestata a conquistare il maggiore «più di quanto non avesse mai fatto con

chiunque altro», ammetteva tra i singhiozzi. «Credimi, Peggy, finirà per

spezzarmi il cuore,» si doleva con la cognata, nei momenti di bonaccia. «Dovrò

decidermi a far stringere tutti i vestiti, ormai sono ridotta uno scheletro.»

Grassa o magra, allegra o triste, a cavallo o seduta sullo sgabello del

pianoforte, per il maggiore era tutt'uno. Il colonnello che fumando la sua pipa

doveva suo malgrado porger l'orecchio a quei piagnistei, suggeriva che Glory,

nella prossima cassa di vestiti, si facesse spedire da Londra qualcosa di nero, e

raccontò la misteriosa storia di una signora irlandese morta di dolore per la

perdita del marito prima ancora che fosse riuscita a rimediarne uno.

Mentre il maggiore perseverava nel sottoporre la sventurata a quel

supplizio di Tantalo, senza dichiararsi e senza innamorarsi, giunse dall'Europa

un altro piroscafo recando nuova corrispondenza tra cui alcune lettere

indirizzate a quell'uomo senza cuore. Erano state spedite da casa sua, e la data

del timbro postale era antecedente a quello delle missive pervenute in

precedenza. Subito Dobbin ne riconobbe una di sua sorella. Senza dubbio lei si

premurava di inviargli le notizie più deprimenti di cui fosse riuscita a fare

incetta, ed era altrettanto certo che l'epistola fosse disseminata d'insulti e di

paternali elargite con franchezza in tutto degna di una cara sorella. Queste

simpatiche epistole, sempre accompagnate da postille redatte per traverso,

avevano il potere di piombare nella costernazione il «carissimo William», e il

suo malumore durava fino al giorno seguente a quello in cui aveva terminato di

leggerle. Pertanto decise di non aprirla, in attesa che l'occasione e il suo stato

d'animo fossero più consoni ad affrontare la sgradita lettura. Senza contare

che un paio di settimane prima le aveva scritto rimproverandola di aver

raccontato quelle ridicole fandonie a Mrs. Osborne, ed aveva altresì risposto a

quest'ultima ripristinando la verità per quanto lo concerneva e assicurandole

che «per il momento non aveva alcun proposito di mutare il suo stato».

Due o tre sere dopo l'arrivo di questo secondo plico di corrispondenza il

maggiore aveva trascorso una serata abbastanza gradevole in casa di Lady

O'Dowd. In tale occasione a Glorvina era sembrato ch'egli prestasse maggiore

attenzione all'Incontro delle acque, al Piccolo Menestrello o ad altre canzoni del

genere con le quali ella si compiaceva di allietarlo. In realtà egli udiva la voce

di Glorvina non più di quanto udisse l'urlo degli sciacalli alla luna. Giocò a

scacchi con lei (Lady O'Dowd era impegnata in una partita a carte col medico

militare), dopo di che, all'ora consueta, il maggiore Dobbin prese congedo e

fece ritorno a casa sua.

Sul tavolo giaceva ancora chiusa la lettera della sorella, e sembrava

volesse rimproverarlo. Egli la prese, vergognoso della propria negligente

pigrizia e si dispose a trascorrere una spiacevolissima ora in compagnia degli

scarabocchi vergati dalla stretta congiunta.

Non era passata un'ora da quando il maggiore aveva lasciato la casa del

colonnello Sir Michael stava dormendo il sonno dei giusti; Glorvina aveva

avvolto i suoi riccioli in una quantità di diavolini di carta ai quali affidava

nottetempo la sua capigliatura; ed anche Lady O'Dowd si era coricata nella

camera nuziale, al pianterreno, e aveva drappeggiato la zanzariera intorno

all'armoniosa mole delle sue forme - quando la sentinella di guardia ai cancelli

della residenza del comandante vide il maggiore Dobbin che, illuminato dalla

luna, correva verso la casa in preda alla più viva agitazione. Passò davanti alla

sentinella e raggiunse la finestra della camera in cui dormiva il maggiore.

«O'Dowd! Colonnello!» gridò il maggiore con quanta voce aveva in gola.

«Cielo, cosa succede, maggiore?» chiese Glorvina sporgendo la testa

carica di diavolini dalla finestra della sua stanza.

«Cosa succede, Dob? Che c'è, ragazzo mio?» domandò il colonnello,

convinto di sentirsi rispondere ch'era scoppiato un incendio o ch'era giunto

l'ordine di partenza.

«Io... io... ho bisogno di una licenza,» disse Dobbin. «Devo andare in

Inghilterra per affari personali della massima urgenza.»

«Buon Dio, cos'è accaduto?» chiese Glorvina, tremando in tutte le sue

papillotes.

«Voglio partire... subito... stanotte,» continuò Dobbin.

Il colonnello si alzò e andò a conferire con lui in separata sede.

Nel post-scriptum della lettera di sua sorella, piena zeppa di aggiunte

scritte per traverso, il maggiore aveva appena letto le seguenti parole:

« Ieri sono andata a far visita alla tua vecchia conoscenza, Mrs. Osborne.

Sai perfettamente in che squallido luogo si sono ridotti a vivere da quando

sono falliti. A giudicare dalla targa d'ottone affissa alla porta della sua capanna

(giacché non è molto di più) Mr. Sedley si i messo a fare il commerciante di

carbone. Il bambino, il tuo figlioccio, è indubbiamente molto bello, ma

piuttosto sfacciato e con una certa tendenza a diventare insolente e autoritario.

Noi però abbiamo avuto cura di lui, in conformità ai tuoi desideri, e lo abbiamo

anche fatto conoscere a sua zia, Miss Osborne, che ne è stata assai contenta.

Chissà che il nonno - non quello fallito, che ormai è ridotto un mezzo idiota,

ma Mr. Osborne, di Russell Square - non si decida ad accogliere il bimbo del

tuo amico, quel suo figlio traviato e colpevolmente orgoglioso. Del resto Amelia

non sarebbe aliena dall'acconsentire. La vedova si è consolata e si accinge a

risposarsi con un prelato, il reverendo Binny, uno dei vicari di Brompton. Un

matrimonio men che modesto. D'altra parte Mrs. Osborne sta invecchiando e

ho notato che ha molti capelli grigi. Era di ottimo umore, e il tuo figlioccio ha

fatto indigestione a casa nostra. La mamma ti manda i suoi saluti più

affettuosi, unitamente a quelli della tua affezionatissima sorella

Ann Dobbin.

XLIV • UN CAPITOLO VAGANTE TRA LONDRA E LO HAMPSHIRE

La casa avita dei nostri amici Crawley, in Great Gaunt Street, recava

ancora sulla facciata lo stemma funebre che vi era stato affisso in occasione

della scomparsa di Sir Pitt Crawley. D'altra parte quell'emblema araldico

costituiva di per se stesso un motivo ornamentale molto solenne e vistoso, e

tutto il resto della nobile dimora andava assumendo un aspetto molto più

attraente di quanto avesse ai tempi del vecchio baronetto. La patina nerastra

che rivestiva i mattoni esterni era stata rimossa, onde essi ostentavano

un'allegra faccia rossa striata di bianco. Il vecchio battacchio di bronzo in

forma di testa di leone era stato dorato, le ringhiere erano state ridipinte... In

breve, prima ancora che nello Hampshire verdeggiassero le foglie che avevano

sostituite quello oramai cadute sul viale di Queen's Crawley il giorno in cui Sir

Pitt vi era passato per l'ultima volta, la casa più squallida di Great Gaunt Street

divenne la più elegante di tutto il quartiere.

In vicinanza della casa circolava con estrema frequenza una donnina, a

bordo di una carrozza di dimensioni perfettamente adeguate alla sua persona;

e del pari ogni giorno si poteva vedere una vecchia zitella accompagnata da un

bambino. Si trattava di Miss Briggs, accompagnata dal piccolo Rawdon, la

quale aveva ricevuto l'incarico di presiedere all'arredamento della casa di Sir

Pitt, di sorvegliare la moltitudine di donne impegnate a cucire le tende, di

riordinare i cassetti e le credenze, piene zeppe di polverose reliquie e vecchie

cianfrusaglie accumulatevi da due o tre generazioni dei Crawley, di fare

l'inventano delle porcellane, delle cristallerie e di tutte le altre suppellettili

stipate in altri mobili, nella dispensa, nei ripostigli.

In tutte quelle operazioni di riordino e ripristino Mrs. Rawdon Crawley

fungeva da comandante supremo: Sir Pitt le aveva accordato piena libertà di

vendere, barattare, sgomberare e acquistare mobilia, e quell'operazione la

divertiva moltissimo perché le consentiva di esplicarvi il suo buon gusto e la

sua abilità. La decisione di procedere al radicale ripristino della casa era stata

presa in novembre, quando Sir Pitt era venuto a Londra per conferire coi suoi

legali e aveva trascorso alcuni giorni in Curzon Street, sotto il tetto del fratello

e della cognata.

In verità, appena giunto in città era sceso in un albergo; ma non appena

Becky aveva saputo del suo arrivo si era recata di persona a salutarlo, e un'ora

dopo aveva fatto ritorno in Curzon Street, seduta in carrozza al fianco di Sir

Pitt. Come avrebbe potuto, quest'ultimo, rifiutare l'ospitalità di quella candida

creatura, un'ospitalità offerta con tanta spontaneità, con tanto trasporto, con

tanta schiettezza? Quando lui aveva accondisceso a trasferirsi in casa sua,

Becky in un impeto di gratitudine gli aveva preso una mano tra le sue. «Grazie,

grazie di cuore,» gli aveva detto, guardando negli occhi il baronetto, che

arrossiva fino alle orecchie. «Rawdon sarà al settimo cielo!» E senza esitare

era salita nella camera di Sir Pitt, precedendo la servitù che vi stava portando i

bagagli.

Nella stanza - per l'esattezza quella di Miss Briggs, spedita a dormire al

piano di sopra con le cameriere - il caminetto era già stato acceso e vi brillava

un'allegra fiammata. «Ero sicura che sarei riuscita a indurvi a venire,» disse

Becky con occhi scintillanti di gioia. E in tutta sincerità era felice di avere Pitt in

qualità di ospite.

Nel corso della permanenza di Sir Pitt, due o tre volte Becky obbligò

Rawdon a cenare fuori per affari, onde Sua Signoria passò qualche serata con

lei e con la Briggs. Becky arrivò al punto di scendere in cucina per preparargli

certi manicaretti con le sue mani. «Buono, vero, questo salmì? L'ho cucinato in

vostro onore. Ma so fare di meglio, e ve lo dimostrerò ogni qual volta verrete a

trovarmi.»

«Tutto ciò che fate è perfetto,» rispondeva Pitt, galante. «Sì, questo

salmì è veramente squisito.»

«La moglie di un uomo povero ha il dovere di rendersi utile,»

commentava gaiamente Rebecca. Al che il cognato replicava che lei «era degna

di esser la moglie di un imperatore, e che le virtù domestiche erano le più alte

che una donna potesse vantare». Frattanto Sir Pitt pensava, con un vago

senso di umiliazione, alla sua Lady Jane che a tutti i costi aveva voluto

cucinargli di persona un pasticcio di carne: pasticcio che, una volta a tavola, si

era rivelato una cosa semplicemente obbrobriosa. Oltre al salmì, preparato coi

fagiani provenienti dal cottage che Lord Steyne possedeva a Stillbroock, Becky

offrì al cognato una bottiglia di vino bianco che - disse - Rawdon aveva portato

dalla Francia, dove le aveva avute per niente. Che bugiarda! In realtà si

trattava di hermitage bianco, un vino uscito dalle rifornitissime cantine di Lord

Steyne, e che fece salire una vampata alle guance smunte del baronetto,

ravvivando di una fuggevole fiammata il suo gracile corpo. Poi, quando il

cognato ebbe sorbito il suo petit vin blanc, lei lo prese per mano e lo guidò in

salotto ove lo fece sedere comodamente sul canapè accanto al caminetto,

porgendo l'orecchio con cortese condiscendenza alla di lui conversazione,

mentre lei se ne stava assisa a orlare una camicina per il suo caro bimbo. Ogni

qual volta Becky aveva interesse a mostrarsi particolarmente umile e virtuosa,

dalla scatola da lavoro saltava fuori quella camicina, che per Rawdy divenne

troppo piccola prima che venisse completata.

Dunque Rebecca conversava con Pitt, lo ascoltava, cantava per lui, lo

adulava, lo coccolava a un punto tale che, col passare dei giorni, egli era

sempre più contento di accomiatarsi dal suo avvocato in Gray Inn e di

tornarsene davanti al gaio caminetto acceso nella casa di Curzon Street: una

contentezza che del resto era condivisa dai legali, dal momento che gli

sproloqui di Sir Pitt erano quasi sempre interminabili. Così, quando giunse il

momento della partenza, egli quasi ne fu afflitto. Com'era graziosa mentre

dalla carrozza gli gettava un bacio con la piccola mano e sventolava il

fazzoletto in segno di saluto, quando ormai egli aveva preso posto sulla

diligenza. Una volta si era persino premuta il fazzoletto sugli occhi! Mentre la

diligenza si metteva in moto, Pitt si tirò il berretto di pelo di foca sui suoi, si

abbandonò contro il sedile e subito fu indotto a considerare che Rebecca lo

giudicava per le sue effettive qualità, e glielo dimostrava, mentre

quell'imbecille di Rawdon non era in grado di apprezzare neppure la metà delle

virtù della moglie. E pensò anche a quanto fosse insipida sua moglie, in

confronto alla spigliata e brillante Becky. Era stata Becky a mettergli tutte

queste pulci nell'orecchio, ma lo aveva fatto con tanto garbo, in modo così

impalpabile, che sarebbe stato impossibile stabilire quando lo avesse fatto.

Prima di separarsi era stato convenuto che la casa di Londra venisse

interamente rinnovata per la stagione successiva, e che a Natale le famiglie dei

due fratelli si sarebbero di nuovo riunite in campagna.

«Avresti dovuto indurlo a mollare un po' di quattrini,» commentò

Rawdon, imbronciato, quando il fratello se ne fu andato. «Vorrei proprio dar

qualcosa al vecchio Raggles, maledizione! Non è giusto che quel poveraccio

non abbia quello che gli spetta, capisci? E poi sarebbe seccante che affittasse

la casa a qualcun altro.

«Dirgli che non appena gli affari di Sir Pitt saranno sistemati, tutti

verranno pagati,» rispose Becky. «Intanto dagli un anticipo. Ecco: prendi

questo assegno che Pitt ha lasciato per il bambino.» Becky tolse dalla borsa un

assegno che Pitt aveva lasciato per il piccolo erede del ramo cadetto dei

Crawley e lo porse al marito.

In verità Becky si era provata a tastare il terreno sul quale suo marito

avrebbe voluto che si avventurasse. Lo aveva tastato con estrema discrezione,

ma lo aveva trovato infido. Bastava un minimo accenno in quel senso e subito

Sir Pitt Crawley cominciava ad allarmarsi. Subito prendeva a dilungarsi in

ciance, sostenendo di trovarsi a sua volta in una situazione finanziaria

intricata; che i fittavoli non pagavano; che le spese per le esequie del padre e i

mille imbrogli da lui orditi condizionavano sensibilmente le sue disponibilità;

che si proponeva di liberare la proprietà dal gravame delle ipoteche; che in

banca era stato prelevato denaro per una somma superiore al fido; e aveva

concluso il suo discorso accordando alla cognata un modestissimo assegno per

il bambino.

Senza dubbio Pitt si rendeva conto delle strettezze in cui viveva la

famiglia del fratello. Il suo occhio di freddo diplomatico non poteva non aver

compreso che Rawdon e i suoi familiari non disponevano di alcuna rendita, e

che senza denaro non è possibile mandare avanti una casa e pagarsi una

carrozza. Ma al tempo stesso sapeva benissimo di essersi assicurato una

sostanza che secondo ogni logica previsione sarebbe dovuta toccare al fratello,

onde il suo cuore (ne siamo informati per certo) era percorso da segrete fitte di

rimorso che lo esortavano a compiere un atto di giustizia, o - diciamo meglio di

riparazione, verso questi suoi parenti le cui attese erano state frustrate. Uomo

saggio, degno, timorato di Dio, non sprovvisto di una certa intelligenza,

consapevole dei doveri da assolvere nella vita, è impossibile non comprendesse

che avrebbe dovuto accordare qualcosa al fratello, cui era moralmente

debitore.

Ma, proprio come accade di leggere nelle colonne del «Times» certi strani

annunci coi quali il Cancelliere dello Scacchiere rende noto di aver ricevuto

cinquanta sterline da parte di A.B. o di W.T., quale risarcimento per tasse a

carico dei suddetti, risarcimento di cui codesti pentiti debitori dello Stato

pregano l'onorevole signor ministro di voler rilasciare ricevuta a mezzo

stampa; così è indubbio che tanto il ministro quanto il lettore sono certissimi

che i summenzionati A.B. o W.T. pagano solo una minima percentuale del loro

debito, e che colui che ha mandato venti sterline al Cancelliere dello

Scacchiere, in realtà ne deve render conto per centinaia, se non addirittura

migliaia. Questi, per lo meno, sono i pensieri che mi percorrono la mente

quando mi avviene di leggere simili inadeguati atti di contrizione da parte di

A.B. e W.T. Allo stesso modo non dubito che il pentimento di Pitt Crawley, o

meglio la sua gentilezza, nei riguardi del fratello cadetto, che in virtù del suo

comportamento gli aveva consentito di assicurarsi una fortuna così ingente,

rappresentava solo un'infima parte del capitale di cui egli era debitore a

Rawdon. Ma molti non sono disposti a pagare nemmeno questa impercettibile

quota. Per quasi tutti gli uomini dotati di senso dell'ordine, separarsi dal

proprio denaro è un sacrificio superiore alle loro forze. E forse non esiste un

uomo al mondo il quale non si reputi altamente meritevole perché ha concesso

al suo prossimo un biglietto da cinque sterline. I prodighi danno non per il sano

piacere di donare, ma per l'indolente godimento dello spendere. Il Prodigo non

si priva di nessun piacere: non di quello di avere un palco all'Opera, non dì

avere un cavallo, di non regalarsi una lauta cena. Così non si preclude

nemmeno la soddisfazione di concedere cinque sterline a un poveraccio.

Quanto al risparmiatore, che è buono, giusto e avveduto, e non deve un penny

a chicchessia, volta le spalle al povero, litiga col cocchiere di piazza e si rifiuta

di aiutare un parente bisognoso. La verità è che il denaro assume un valore

diverso agli occhi di ciascuno.

In poche parole, Pitt Crawley pensava che avrebbe dovuto far qualcosa

per il fratello, ma subito dopo pensava che ci avrebbe pensato un altra volta.

Da parte sua Becky, data la sua scarsa inclinazione ad aspettarsi gran

che dal prossimo, era paga di quanto Pitt aveva fatto per lei. Il capo della

famiglia aveva apertamente riconosciuto la di lei appartenenza alla medesima,

e prima o poi sarebbe riuscita a cavarne qualcosa di più. Se non era riuscita a

ottenere denaro dal cognato, era riuscita ad averne ben altro: il credito.

Raggles, ottenuto quell'esiguo acconto, accompagnato dalla promessa

che al più presto avrebbe incassato una cifra molto più elevata, e confortato

dalla constatazione che fra i due fratelli regnava la massima armonia, si

rassicurò completamente. Quanto a Miss Briggs, ebbe da Rebecca - che compì

quel gesto con aria di allegro candore lo stipendio di Natale, pagatole coi

denari che lei stessa le aveva prestato. Non solo: la padrona di casa le confidò

in gran segreto di essersi consultata con Sir Pitt Crawley, nella sua qualità di

esperto finanziere, sul miglior modo di investire quanto restava del suo

capitale. Sir Pitt, a sentire Rebecca, aveva meditato a lungo sul problema per

risolverlo nei termini più sicuri e vantaggiosi, e suggerire la via più opportuna

per un oculato impiego di quel denaro. Molto interessato alla sua persona

(essendo stata la migliore amica della compianta Miss Crawley, e tuttora

legatissima agli altri membri della famiglia) assai prima di lasciare Londra

aveva raccomandato che la Briggs tenesse a disposizione il denaro liquido per

poter acquistare al momento favorevole i titoli sui quali Pitt aveva posto gli

occhi. La sventata e infelice Miss Briggs esternò la sua riconoscenza per il non

richiesto interessamento di Sir Pitt: a lei non sarebbe mai venuta in mente

un'idea del genere, perché non pensava proprio all'eventualità di disfarsi dei

titoli di Stato. Comunque, la garbata attenzione di cui era stata oggetto valse a

renderla ancor più gentile e servizievole, e promise di parlare al più presto al

suo agente di cambio in modo da aver pronto il denaro contante al momento

opportuno.

La buona donna, al colmo della gratitudine per l'interessamento di

Rebecca, e per quello del colonnello, suo munifico benefattore, uscì e spese

buona parte del suo salario di sei mesi per comperare una giacchina di velluto

nero a Rawdon junior, il quale, peraltro, era ormai cresciuto al punto da non

poter indossare indumenti del genere e da richiedere giacca e pantaloni da

adulto.

Era un bel ragazzo dal viso aperto, con occhi azzurri e biondi capelli

ondulati, di struttura piuttosto massiccia, ma di ottimi sentimenti e proclive ad

affezionarsi a chiunque si mostrasse ben disposto nei suoi confronti. Voleva

bene al suo pony, a Lord Southdown che glielo aveva regalato (arrossiva e il

volto gli s'illuminava di piacere ogni qual volta vedeva il giovane nobiluomo); a

Molly, la cuoca, che di notte gli riempiva la testa di storie di spettri, e di giorno

lo stomaco di leccornìe; alla Briggs, oggetto delle sue sevizie e dei suoi dileggi;

e soprattutto a suo padre, che a sua volta aveva per lui un attaccamento

particolare. A Otto anni erano queste le persone ch'egli faceva oggetto della

sua affezione. Ben presto la madre cessò di essere per lui una splendida

visione. Erano quasi due anni che lei, praticamente, non gli rivolgeva la parola.

Il bambino la infastidiva: una volta aveva il morbillo, un'altra la pertosse... Una

volta era accaduto che Rawdy, attratto dalla voce materna che cantava per il

piacere di Lord Steyne, quatto quatto era sceso dai piani superiori della casa

ov'era relegato, e si era fermato sul pianerottolo, deliziato da quel canto. Ma

all'improvviso la porta del salotto si era aperta, rivelando la sua inopinata

presenza in quel luogo.

La madre uscì e gli assestò due violenti ceffoni. Il piccolo udì echeggiare

la risata sonora del marchese, evidentemente divertito da quell'inatteso

accesso di collera di Becky, e si precipitò in cucina dai suoi amici, il cuore

stretto dal dolore e dall'angoscia.

«Non è perché mi ha fatto male,» ansimava il piccolo Rawdon, «è solo..,

solo...» ma non poté terminare, travolto come fu da un fiotto di lacrime, da un

accesso di singhiozzi. Era il cuore del ragazzo che sanguinava. «Ma perché non

debbo sentirla cantare? Perché non canta per me, ma solo per quell'uomo con

la testa calva e quei dentoni?» Affannosamente, singhiozzando, dava sfogo alla

sua collera e al suo dolore. La cuoca guardò la cameriera, e la cameriera

guardò il maggiordomo. Il terribile tribunale della servitù, insediato in ogni

casa e informato di tutto, in quel momento giudicava Rebecca.

Dopo quell'incidente l'antipatia della madre per il figlio divenne odio. Il

solo fatto di sapere che il bambino era in casa la irritava, suonava alla sua

coscienza come un rimprovero. Ed anche nell'intimo del piccolo Rawdon si

fecero strada il dubbio, il timore, la ribellione. Dal giorno dei ceffoni tra madre

e figlio subentrò una completa rottura.

Anche Lord Steyne non poteva soffrire il ragazzo. Quando s'incontravano

per puro caso, lui gli faceva osservazioni, oppure si piegava in inchini sardonici,

o lo fissava con occhi carichi d'odio, cui Rawdon rispondeva fissandolo a sua

volta dritto in faccia e stringendo i piccoli pugni. Fra quanti frequentavano la

casa, il gentiluomo era quello che maggiormente suscitava la sua avversione.

Un giorno il maggiordomo lo colse nell'atto di alzare i pugni sopra il cappello di

Lord Steyne, posato in anticamera. Evidentemente il servitore credette di

trovare alcunché di faceto in quell'episodio, e corse a raccontarlo al cocchiere

di Lord Steyne, che a sua volta lo riferì al segretario di Lord Steyne, e a tutto il

personale in genere. Poco dopo, quando Mrs. Rawdon Crawley giunse in Great

Gaunt Street, il portiere che le aprì la porta di Gaunt House, i camerieri in

livrea che attendevano nell'atrio, i lacchè in panciotto bianco che dall'uno

all'altro pianerottolo gridavano il nome del colonnello Crawley e di Mrs.

Crawley, sapevano tutto di lei, o fingevano di saperlo. Il domestico che le

serviva un rinfresco standosene impalato dietro la sua sedia aveva parlato col

grasso signore in abito nocciola che gli stava al fianco. Bon Dieu! Le indagini

condotte dalla servitù sono qualcosa di veramente atroce! Una signora

partecipa a un magnifico ricevimento, in una splendida sala. La circonda una

schiera di ammiratori cui ella elargisce sguardi scintillanti. Ed è elegantissima,

ha i capelli di fresco arricciati, il rossetto sulle guance. Guardate come sorride,

felice! E tuttavia l'Insidia le si fa accosto rispettosamente, sotto le mentite,

subdole spoglie di un omone in parrucca dai grossi polpacci, che regge un

vassoio di gelati. Lo segue la Calunnia (non meno perniciosa della Verità) che

reca un vassoio di cialde. Ebbene, signora mia; stasera stessa, all'osteria, tra

una fumata alla pipa e una bevuta di birra, James dirà a William quel che

pensa di voi, discuteranno insieme del vostro segreto. In questa Fiera della

Vanità certa gente dovrebbe avere servitori muti. Non basta: muti e analfabeti.

Se siete colpevoli, tremate. L'individuo che vi sta alle spalle potrebbe essere un

giannizzero con un nodo scorsoio celato nelle tasche delle brache di velluto

rosso. E se non siete colpevole, badate alle apparenze: talvolta non sono meno

pericolose della colpa stessa.

Era colpevole, Rebecca? Oppure innocente? Il Vehmgericht del

servitorame aveva pronunciato una sentenza di condanna contro di lei.

E, mi vergogno di doverlo confessare, se non l'avessero ritenuta

colpevole ella non avrebbe goduto di alcun credito. A «tener su di morale»

Raggles (come questi avrebbe ammesso in seguito) non erano le arti e le

smancerie di Rebecca, ma la vista dei lampioni della carrozza di Lord Steyne,

ferma davanti all'ingresso, che splendevano nelle tenebre di mezzanotte.

Così, sebbene con ogni probabilità fosse innocente, ella si dava un gran

daffare, spingeva innanzi a tutta forza per ottenere ciò che siamo soliti

chiamare «un posto in società», e la servitù la giudicava ormai completamente

screditata. Così Molly, la cameriera, la mattina indugia a contemplare un ragno

che lentamente tesse la sua tela sulla porta, fino a quando, sazia di quel

divertimento, con un colpo di scopa spazza via la tela e il suo artefice.

Un paio di giorni prima di Natale, Becky, il marito e il figlio si prepararono

a partire per la casa avita di Queen's Crawley, ove avrebbero trascorso le

vacanze. Becky sarebbe stata felicissima di lasciare il rampollo a casa, e non

avrebbe esitato a farlo se Lady Jane non avesse pressantemente insistito per

invitare anche il piccolo, e se suo marito non avesse palesato sintomi di

irritazione e di scontento nel constatare fino a qual punto la madre trascurasse

il figlio. «È il più bel bambino d'Inghilterra, Becky,» le diceva il padre in tono di

rimprovero, «ma a te, di lui, importa meno del tuo cocker spaniel. Che fastidio

vuoi che ti dia? Quando saremo a casa se ne starà nella camera dei bambini e

tu non lo vedrai nemmeno, e in diligenza starà con me sull'imperiale.»

«Dove ci tieni a viaggiare per poter fumare i tuoi sigari puzzolenti,»

rispose Rebecca.

«Una volta però non ti davano noia,» replicò il marito.

Becky scoppiò a ridere, imperturbabile e ben disposta come sempre.

«Già, ma allora dovevo guadagnarmi la promozione, scioccone che non

sei altro! Prenditi pure Rawdy con te sull'imperiale, e dagli anche un sigaro, se

ci provi gusto.

Ma Rawdon non ricorse a questo espediente per tener caldo il figlio

durante quel viaggio: assistito da Miss Briggs lo avvolse in scialli e coperte;

poi, in una buia mattina, sotto i lampioni della locanda del Cavallo Bianco, lo

issò con tutte le cautele sull'imperiale della diligenza, dove il ragazzino ebbe

modo di godersi lo spettacolo dell'alba nascente e compì il suo primo viaggio

verso quel palazzo che il padre chiamava ancora «la sua casa». Il tragitto fu

una fonte di continuo divertimento per Rawdy, interessato alla varietà del

mutevole paesaggio, col padre lietamente disposto a rispondere a tutte le sue

domande, pronto a dirgli di chi fosse quella casa a destra, a chi appartenesse

quel dato parco. Da parte sua la madre, all'interno del veicolo, accompagnata

dalla cameriera e circondata da mantelli, pellicce e bottiglie di profumo, faceva

tali e tante storie che chiunque avrebbe potuto crederla al suo primo viaggio in

diligenza (o meglio, credere che non le fosse mai accaduto di dover scendere e

a montare sull'imperiale per cedere il posto a un passeggero pagante, nel

corso di un memorabile viaggio che aveva fatto una decina d'anni prima).

Ormai era di nuovo buio quando Rawdon venne svegliato, e fatto salire

sulla carrozza dello zio, a Mudbury. Si rizzò a sedere e guardò stupefatto i

grandi battenti del cancello che si aprivano e i bianchi tronchi dei tigli che

sfilavano di fianco al veicolo, fino a quando si fermarono davanti alle finestre

del castello, che splendevano, illuminate e invitanti, per dar loro un allegro

benvenuto natalizio. La porta dell'atrio venne spalancata: una grande

fiammata bruciava nell'antica, enorme caminiera e un tappeto copriva le

mattonelle a losanga bianche e nere. «È il vecchio tappeto turco che una volta

era nella Galleria delle Signore,» pensò Rebecca, e un istante dopo salutava

con un bacio Lady Jane.

Rebecca e Sir Pitt si salutarono secondo la stessa formula e con la

massima serietà, mentre Rawdon, avendo fumato i suoi sigari, evitò di farsi

troppo vicino alla cognata. Quanto ai due bambini, si fecero avanti per salutare

il cuginetto: Matilda gli porse la mano e lo baciò; invece l'erede, Pitt Binkie

Southdown, rimase imperturbabile fissando il cugino come un cane piccolo

scruta un cane grosso. Poi la garbata padrona di casa guidò gli ospiti nelle loro

confortevoli stanze, rallegrate anch'esse da un bel fuoco che scoppiettava nel

caminetto. Ed ecco che le signorine vennero a bussare alla camera di Rebecca

col pretesto di offrirle i loro servigi, ma in realtà per godersi la vista dei vestiti

e dei cappelli ch'ella aveva portato con sé, e che, per quanto neri, erano

conformi all'ultima moda londinese. Le raccontarono che Lady Southdown se

n'era andata, le descrissero tutte le migliorie apportate al castello, le dissero

che Pitt stava riprendendo il ruolo di sua competenza nella contea, come del

resto si addiceva a un Crawley. Infine, essendo echeggiato il suono della

grande campana, la famiglia si radunò per la cena. Il piccolo Rawdon fu messo

a sedere di fianco alla zia, l'affabile padrona di casa, mentre Sir Pitt si

mostrava pieno di attenzioni nei confronti della cognata, seduta alla sua

destra. Rawdy diede prova di avere un ottimo appetito e di conoscere a fondo

le regole del galateo.

«Mi piace mangiare qui,» disse alla zia, quando ebbe finito di mangiare e

il pasto fu concluso dalla preghiera di ringraziamento pronunciata al alta voce

da Sir Pitt. Poi in sala da pranzo fece il suo ingresso l'erede, il quale venne

issato su un alto sgabello di fianco al padre, mentre la bambina prendeva

possesso dello scranno e del piccolo bicchiere di vino preparato per lei accanto

alla madre. «Mi piace mangiare qui,» ripeté Rawdon junior alzando il viso su

quello affettuoso della sua parente.

«Perché?» chiese la buona Lady Jane.

«Perché quando sono a casa mangio sempre in cucina, oppure con la

Briggs.» Ma Becky era troppo assorbita dalla persona del baronetto; troppo

impegnata a complimentarsi col suo ospite, a profondersi in espressioni di

ammirazione e di elogio, a dire un mondo di bene del piccolo Pitt Binchie, a

dichiarare che mai si era visto un bambino così intelligente, così vezzoso, di

aspetto così aristocratico, ad asserire che era tale e quale il padre, per udire

l'osservazione che il figlio della sua carne e del suo sangue faceva in quel

momento al capo opposto della grande tavola scintillante di porcellane e

cristallerie.

Nella sua qualità di ospite, e dal momento che era giunto quella sera

stessa, al piccolo Rawdon fu concesso di restare alzato fino al momento in cui,

dopo che venne servito il tè, e un grande libro dalle pagine orlate d'oro fu

posato sulla tavola, entrò tutta quanta la servitù di casa e Sir Pitt lesse le

preghiere. Era la prima volta che il povero ragazzino assisteva a una simile

cerimonia e udiva pronunziare parole del genere.

Da quando il nuovo baronetto ne aveva preso ufficialmente possesso, il

castello era stato oggetto di sensibili restauri, e Becky, accompagnata dal

padrone di casa in un giro di sopralluogo, dichiarò che tutto era perfetto,

magnifico, incantevole. Quanto al piccolo Rawdon, che lo visitò sotto la guida

dei bambini, ebbe la sensazione di trovarsi in un palazzo meraviglioso,

fiabesco, incantato. C'erano lunghe gallerie, c'erano antiche camere per gli

ospiti, e quadri, armature, porcellane preziose. E c'era la stanza nella quale era

morto il nonno, davanti alla quale i bambini passavano scambiandosi sguardi

atterriti. «Chi era il nonno?» chiese Rawdy. Gli fu risposto che era un uomo

molto vecchio, che lo portavano a spasso seduto in una poltrona a rotelle; e un

giorno gli mostrarono anche questo strano sedile, abbandonato a marcire nella

serra dove giaceva dal giorno in cui il vecchio baronetto era stato portato via,

laggiù nella chiesa, di cui si vedeva scintillare il campanile sopra la chioma

degli olmi del parco.

Nel corso di parecchie mattinate i due fratelli furono piacevolmente

impegnati nell'ispezione di tutte le migliorie apportate alla proprietà dalla

genialità e dall'economica, razionale amministrazione di Sir Pitt. Così,

visitandola ora a piedi, ora a cavallo, la conversazione veniva alimentata da

quelle novità e i due fratelli non si annoiavano troppo, in compagnia l'un

dell'altro. Pitt si affrettò a precisare come tutti quei lavori fossero costati

un'enormità, e aggiunse che un uomo il cui patrimonio consisteva in proprietà

terriere e in titoli, non di rado stentava a trovare venti sterline in contanti.

«Come vedi, c'è un cancello nuovo,» disse a Rawdon, additandolo umilmente

col suo bastoncino da passeggio di bambù. «Ebbene: non sono in grado di

completarne il pagamento né più né meno come non sono in grado di volare.

Sono costretto ad aspettare sino a gennaio, quando potrò incassare i dividendi.

«Frattanto potrei anticiparteli io, i denari,» rispose Rawdon in tono

piuttosto malinconico. E si avvicinarono al cancello per osservare da vicino lo

stemma di famiglia che lo sovrastava, di recente scolpito in pietra. Di fianco al

grande ingresso padronale c'era la casa di Mrs. Lock, che per la prima volta

dopo tanti anni aveva delle porte che si chiudevano, delle finestre rimesse a

nuovo e un tetto che non lasciava filtrare la pioggia.

XLV • TRA LO HAMPSHIRE E LONDRA

Va detto, però, che Sir Pitt Crawley non si era limitato a riparare le

staccionate e a rimettere in sesto la pericolante casetta del custode di Queen's

Crawley. Da quell'uomo avveduto che era, si era messo di buona iena per

ridonare l'antico prestigio al nome della famiglia, e turare le falle e gli scempi

che a quel buon nome erano stati causati dal suo indegno e sconsiderato

predecessore. Subito dopo la morte del padre era stato eletto deputato della

circoscrizione; poi, essendo magistrato, membro del Parlamento, magnate

della contea ed esponente di una famiglia di antico lignaggio, aveva reputato

doveroso mostrarsi ovunque e assiduamente nello Hampshire, concedere

generose elargizioni ad ogni genere di associazione benefica, recarsi

assiduamente in visita presso tutte le famiglie altolocate della contea: in breve,

prepararsi ad assumere lì e poi nell'Impero quel posto di primo piano cui

riteneva di aver diritto in grazia delle sue predare virtù. Lady Jane ebbe

l'ordine di esser gentile con i Fuddlestone, con i Wapshot e con tutti i baronetti

più noti, loro vicini. Adesso le loro carrozze percorrevano spesso il viale di

Queen's Crawley; e non di rado essi cenavano al castello, dove venivano

servite vivande squisite, onde era chiaro che Lady Jane non si occupava di

persona della cucina. A loro volta Pitt e la consorte davano piglio a tutte le loro

energie nell'andare a cena fuori, indipendentemente dal bello o dal brutto

tempo, e superando impavidi grandi distanze. Infatti Sir Pitt, nonostante fosse

d'indole per nulla comunicativa, e non godesse né di buona salute né di buon

appetito, riteneva che l'ospitalità fosse un obbligo preciso impostogli dalla sua

posizione sociale; ed ogni qual volta aveva il mal di testa per essersi coricato

troppo tardi la sera innanzi, si credeva un martire del dovere. Lui, che un

tempo aveva avuto idee tutt'altro che ortodosse sull'argomento, ora parlava

con foga contro i bracconieri e sosteneva con la massima veemenza la

necessità di difendere le riserve di caccia. Non era un appassionato cacciatore,

tutt'altro; era un uomo di abitudini pacate, dedito agli studi; ma riteneva che

nel paese si dovessero allevare i cavalli, e che di conseguenza andassero

altresì salvaguardate le volpi. D'altra parte, se Sir Huddlestone Fuddlestone,

suo amico, desiderava venire coi suoi cani a Queen's Crawley e quivi

incontrarsi coi gentiluomini in compagnia dei quali era solito andare a caccia,

era liberissimo di farlo, ed egli lo avrebbe sempre accolto con gran piacere.

Con grande indignazione di Lady Southdown, le sue idee religiose si

avvicinarono sempre più alla stretta ortodossia. Rinunciò a predicare in

pubblico e a partecipare a riunioni eterodosse, per andare placidamente in

chiesa e far visita al vescovo e a tutto il clero di Winchester, e non fece la

minima obiezione quando il venerabile arcidiacono Trumper lo invitò per una

partita a whist. Quali tormenti deve aver provato la nobildonna, e come deve

aver giudicato orribilmente biasimevole il contegno di un genero che osava

indulgere a un divertimento così sciagurato! E quando un giorno, di ritorno da

una funzione religiosa a Winchester, dichiarò alle sorelle che l'anno seguente

contava di portarle ai «balli della contea», loro furono commosse ed estasiate

di fronte a un così squisito e magnanimo proposito. Da parte sua Lady Jane si

mostrò obbedientissima come di consueto, ma segretamente lieta di potervi

partecipare anche lei. La contessa madre inviò all'autrice della Lavandaia di

Finchley Common, sempre residente al Capo, una descrizione amara e carica di

biasimo del comportamento così pagano della figlia Jane, e dal momento che la

casa di Brighton era in quel periodo disponibile, fece ritorno in quella località

balneare, circostanza che peraltro non rattristò eccessivamente i di lei familiari.

È lecito presumere che anche Rebecca, nel corso di quella sua seconda

permanenza presso i cognati, non si dolesse dell'assenza di quella signora dal

temibile cofanetto di medicine. Ciò non le impedì di scrivere una lettera a Lady

Southdown asserendo di ricordarla con molto rispetto, rievocando il piacere

delle conversazioni intrattenute con lei durante la sua precedente visita al

castello e dilungandosi sulla gentilezza con la quale Sua Signoria l'aveva

assistita durante la sua infermità; e concludeva pretendendo che tutto a

Queen's Crawley sembrava parlarle dell'amica lontana.

Buona parte del mutamento operatosi in Sir Pitt e della inopinata

popolarità di cui si trovava a fruire, poteva essere attribuito ai sagaci

suggerimenti della signora di Curzon Street. «Voi vorreste accontentarvi di

essere un baronetto, un gentiluomo di campagna,» gli aveva detto un giorno a

Londra. «Vi sbagliate, Sir Pitt. Io conosco le vostre ambizioni e il vostro

talento. Vi conosco meglio di quanto voi pensiate. Voi forse credete di saper

celare le vostre doti, ma non potete nasconderle a me. Ho mostrato a lord

Steyne il vostro opuscolo sul malto. Mi ha detto che lo conosceva e che tutto il

Gabinetto è concorde nel ritenerlo la massima opera che sia mai stata scritta in

argomento. Il Ministero ha puntato gli occhi su di voi ed io so perfettamente

che voi volete emergere in Parlamento. Non c'è persona che non ricordi i vostri

discorsi di Oxford, che non vi annoveri tra i più facondi oratori del regno. Voi

volete essere deputato della vostra contea, ove grazie al vostro voto e al

sostegno del corpo elettorale, le cose assumeranno la piega giusta, quella che

voi volete. Voi volete essere Lord Crawley di Queen's Crawley, e prima di

morire lo diventerete. So comprendere, Sir Pitt, nulla mi sfugge di quanto il

vostro cuore desidera. Se mio marito possedesse oltre al vostro nome il vostro

talento, penso talvolta che sarei per lui una compagna non del tutto indegna.

Ma... ma per adesso sono una vostra parente, tutto qui...» aggiunse ridendo.

«Sono povera, non ho un soldo, tuttavia provo egualmente interesse per la

vostra carriera; e chissà che il topolino non riesca ad essere di ausilio al leone.

Pitt Crawley era rimasto stupito e affascinato da un simile discorso.

«Come sa apprezzarmi questa donna,» aveva pensato. «Non sono mai riuscito

a ottenere che Jane leggesse due righe del mio trattato sul malto. A lei non

passa nemmeno per l'anticamera del cervello ch'io possa avere aspirazioni

segrete, che sia dotato di un intelletto fuori del consueto! Dunque, a quanto

pare si ricordano dei miei discorsi a Oxford! Che mascalzoni. Ora che sono

deputato del mio seggio e posso aspirare a rappresentare ufficialmente la

contea, cominciano a togliermi dal dimenticatoio! Insomma, si accorgono che

Sir Pitt non è l'ultimo venuto. E pensare che solo l'anno scorso, alla seduta

pomeridiana, Lord Steyne non si degnava di rivolgermi il saluto. Sì, sono quello

di sempre. Sennonché una volta mi ignoravano perché non mi venivano offerte

le occasioni valide per farmi valere; ma adesso avranno modo di constatare

che so parlare ed agire non meno bene di quanto sappia scrivere. Achille non si

è rivelato per ciò che era fino a quando non gli hanno consentito d'impugnare

una spada. Io ce l'ho, adesso, questa spada, e il mondo intero sentirà parlare

di Pitt Crawley!»

Ecco perché l'avveduto diplomatico era diventato così ospitale coi vicini,

così munifico con le associazioni benefiche, così gentile coi vari ecclesiastici del

Capitolo, così disponibile e pronto a fare e ad accettare inviti a pranzo, così

affabile (tra lo stupore generale) coi contadini nei giorni di mercato, così

interessato a tutti i casi e i problemi della contea. E per questo il Natale al

castello si svolse in un'atmosfera gaia e cordiale, come non avveniva da molti

anni a quella parte.

Il giorno di Natale ebbe luogo una grande riunione di famiglia. Vennero a

cena anche i Crawley del presbiterio, e Rebecca fu gentilissima e addirittura

soave con Mrs. Bute Crawley, come se quest'ultima non fosse sempre stata

sua oppositrice accanita e dichiarata. Palesò il più vivo e affettuoso

interessamento nei confronti delle sue figliole e apprezzò i progressi che

avevano fatto al pianoforte da quando le aveva viste l'ultima volta. Anzi, volle

ad ogni costo che cantassero uno dei duetti contenuti in un pesante spartito

che Jim di malavoglia aveva portato sottobraccio dal Presbiterio. Inutile dire

come Mrs. Bute fosse costretta ad assumere un contegno educato con la

piccola avventuriera: tanto, avrebbe avuto agio più tardi di parlare in separata

sede con le figlie, commentando negativamente l'assurdo atteggiamento di

rispettoso ossequio che Sir Pitt teneva con la cognata. D'altra parte Jim, che a

tavola le sedeva accanto, dichiarò che era una donna seducentissima, e tutta la

famiglia del vicario dovette riconoscere che il piccolo Rawdon era un bellissimo

bambino. Nel bimbo vedevano, col dovuto ossequio, un ipotetico baronetto, dal

momento che tra lui e il titolo si collocava solo il piccolo, smunto, malaticcio

Pitt Binkie.

I bambini andavano d'amore e d'accordo: Pitt Binkie era un cagnolino

troppo piccolo per poter giocare con un cagnone come Rawdon, mentre Matilda

- essendo una femmina - non era la compagna ideale per un signorino di quasi

otto anni che ben presto avrebbe indossato pantaloni e giacca di taglio

maschile. Pertanto Rawdon si pose al comando del piccolo gruppo infantile, e i

due lo seguivano con grande rispetto ogni qual volta accettava di giocare con

loro. Rawdy, in campagna, era beato. L'orto lo mandava in visibilio, e

apprezzava anche il giardino, ma i piccioni, il pollame e le scuderie, alle quali

aveva libero accesso, erano per lui un'autentica fonte di felicità. Non

ammetteva di esser baciato dalle signorine Crawley, ma qualche volta lo

permetteva a Lady Jane, e gli piaceva molto sederle accanto quando, a un

segnale convenuto, dopo cena le signore si ritiravano in salotto, mentre gli

uomini indugiavano in sala da pranzo a sorbire il loro chiaretto. Mostrava,

insomma, di preferire la compagnia di sua zia a quella di sua madre; ma

Rebecca, avendo constatato che le effusioni erano di moda, una sera lo aveva

chiamato accanto a sé e baciato al cospetto di tutte le signore.

Dopo quel gesto, lui l'aveva fissata, acceso in volto e tremebondo, come

sempre gli accadeva quando era turbato da una forte emozione. «A casa non

mi baci mai, mamma,» era stato il suo commento. Al che il salotto era

piombato in un silenzio generale gravido di rimprovero, e negli occhi di Becky

era balenato uno sguardo di corruccio.

Da parte sua Rawdon provava una viva simpatia per la cognata, perché

voleva bene a suo figlio. Invece tra Lady Jane e Rebecca non c'era l'armonia

che si era stabilita fra le due donne nel corso del precedente soggiorno,

quando la moglie del colonnello si era sforzata in tutti i modi di rendersi gradita

ai proprietari del Castello. Indubbiamente le osservazioni rivelatrici del bimbo

avevano dato luogo a un certo disagio. O forse le attenzioni che Sir Pitt

riservava alla cognata erano un po' troppo scoperte. Rawdon cosa del tutto

naturale, data la sua età e il suo aspetto mostrava di gradire la compagnia

degli uomini più di quella delle donne, ed era sempre soddisfatto di seguire il

padre quand'egli si rifugiava nelle scuderie per fumarvi un sigaro in santa pace,

spesso seguito da Jim, il figlio del vicario, che indulgeva volentieri a questo e

ad altri divertimenti. Jim, poi, era in ottimi rapporti con Horn, il guardacaccia,

data la comune passione per i cani. Una volta Mr. James, il colonnello e Horn

andarono a caccia di fagiani e presero con sé anche il piccolo Rawdon. Un'altra

volta, nel corso di una mattinata «divertentissima», gli stessi organizzarono

una caccia ai topi nel granaio: uno svago che a Rawdy parve il più nobile cui

avesse preso parte in tutta la sua vita. Turarono lo sbocco di certe grondaie

che finivano nel granaio e dall'apertura all'estremità opposta introdussero delle

fame. Gli uomini si tennero all'erta, i bastoni alzati, pronti a colpire i ratti

malcapitati, mentre Forceps, il piccolo fox terrier di Mr. James, ansimava

eccitatissimo, immobile su tre gambe, perché udiva il fievole squittio dei sorci

nascosti. Alla fine quei poveri animali braccati, spinti dalla disperazione,

balzarono fuori. Il cane ne uccise uno, il guardacaccia un altro, mentre

Rawdon, in preda all'ansia e all'esaltazione, mancò quello che gli stava a tiro

ma per poco non ammazzò una delle fame. Ma la gran giornata per il bimbo fu

quella in cui la muta dei cani di Sir Huddlestone Fuddlestone si radunò sul

piazzale prospiciente il castello.

Fu, per Rawdy, uno spettacolo memorabile. Alle dieci e mezzo Tom

Moody, il capocaccia di Sir Muddleston, giunse al trotto lungo il viale seguito

dallo stuolo compatto dei cani. Seguivano i due bracchieri in casacca rossa,

brandendo i frustini: due ragazzi asciutti e allampanati, in sella a magri cavalli

e pronti a colpire con le estremità delle fruste la groppa dei cani che avessero

osato staccarsi dal gruppo o mostrare di essersi accorti, anche con un semplice

battito di ciglia, delle lepri o dei conigli che guizzavano via sotto il loro naso.

Poi veniva Jack, un ragazzotto figlio di Tom Moody del peso di settanta

libbre ed alto quarantotto pollici, destinato a non crescere più di così. Era

issato su un grosso e scarno cavallo da caccia, semisommerso sotto una

larghissima sella. L'animale in questione era Nob, il cavallo preferito da Sir

Huddlestone Fuddlestone. Di tanto in tanto sopraggiungevano altri cavalli

montati da altri ragazzi, in attesa dei rispettivi padroni che da un momento

all'altro sarebbero arrivati anch'essi al piccolo trotto.

Tom Moody si porta davanti alla porta d'ingresso, quivi accolto dal

maggiordomo che gli offre da bere; ma Tom rifiuta e insieme alla muta si

rifugia in un angolo del prato, dove i cani giocano, ringhiano, si azzuffano tra

loro, subito distolti dai secchi rimbrotti di Tom e dal guizzo delle fruste.

Giungono nel frattempo vari giovanotti a cavallo di purosangue dalle

gambe fasciate sino all'altezza del ginocchio: alcuni, galanti, entrano a salutare

le signore e a bere un bicchierino di cherry brandy; altri, più modesti e sportivi,

si sfilano gli stivali imbrattati di fango e scendono dalle loro cavalcature per

montare in sella ai cavalli da caccia e mettersi a galoppare per scaldarsi i

muscoli. Poi si avvicinano alla muta dei cani per conversare con Moody,

rievocare qualche altra partita di caccia, decantare i pregi di Sniveller e di

Diamond o deplorare lo stato delle campagne o la razza grama delle volpi.

Dopo un poco ecco apparire Sir Huddlestone in sella a un agile puledro.

Scende davanti alla porta del castello, entra per riverire le signore e, da

quell'uomo deciso che è, vien subito ai fatti. I cani vengono condotti davanti al

palazzo e il piccolo Rawdon scende subito in mezzo a loro, al tempo stesso

elettrizzato e spaurito dai balzi, dalle carezze, dai colpi di code degli animali, a

stento tenuti a freno dai guinzagli e dalle fruste di Tom Moody.

Nel frattempo Sir Huddlestone Fuddlestone è balzato in groppa a Nob.

«Proviamo ad andare verso Sowster Spinney, Tom,» dice. «Mangle mi ha detto

che da quelle parti si aggirano due volpi.» Tom allora suona il corno e si

allontana al trotto, seguito dai cani, dai bracchieri, dai signorotti di Winchester,

dai contadini (della parrocchia che procedono a piedi), e per i quali quella

giornata è una piacevolissima vacanza. Chiudono il cortège Sir Huddlestone e il

colonnello Crawley, e tutti scompaiono alla vista in fondo al viale.

Il reverendo Bute Crawley era troppo modesto per presenziare a una

partita di caccia davanti alle finestre del nipote. Veramente Tom Moody lo

ricorda quando quarant'anni prima, agile cavaliere, montava i cavalli più focosi,

saltava i torrenti più larghi e le staccionate più alte del paese. Ora peraltro il

vicario preferisce comparire come per caso sul sentiero del presbiterio, issato

sul suo solido cavallone nero, proprio nel momento in cui passa Sir Huddleston

e si affianca a quest'ultimo. Cani e cavalli si dileguano, e Rawdy rimane seduto

sulla scalinata a sognare, rapito.

Nel corso di quelle indimenticabili vacanze, il piccolo Rawdon non era

riuscito ad accattivarsi l'affetto dello zio, sempre così freddo e compassato,

sempre impegnato ad abboccarsi con legali e fittavoli. In compenso aveva

conquistato l'affetto delle zie (le nubili e la maritata), dei bimbi del castello e di

Jim del presbiterio, che Sir Pitt incoraggiava a fare discretamente la corte a

una delle ragazze, con la tacita ma ovvia intesa che, una volta andato al

Creatore quell'incallito cacciatore di volpi che era suo padre, egli sarebbe

subentrato al posto vacante. Di conseguenza Jim ha rinunciato a quel

divertimento (a parte qualche colpo sporadico tirato alle anatre e a quel gioco

innocuo che è la caccia ai topi); dopo di che farà ritorno all'università col

proposito di non farsi più bocciare agli esami. Ha messo da parte anche le

giacche verdi, i fazzoletti da collo rossi e tutti gli accessori del suo

abbigliamento mondano, e si prepara a mutar condizione. Da quell'avaro che

era, Sir Pitt si proponeva di saldare nei termini sopraccennati il debito aperto

che aveva con la sua famiglia.

Prima che terminassero le vacanze natalizie Sir Pitt era riuscito a trovare

il coraggio necessario per elargire al fratello un assegno presso la sua banca

per l'ammontare di ben cento sterline! Tanta munificenza gli aveva causato

indicibile angoscia prima, e infinita soddisfazione poi: si era sentito infatti

l'uomo più generoso di questa terra. Il colonnello e il figlio furono molto.

dispiaciuti di dover lasciare il castello, mentre le signore erano alquanto

ansiose di separarsi. Becky, tornata a Londra, tornò subito alle occupazioni

nelle quali l'abbiamo vista impegnata all'inizio del capitolo. Grazie alla sua

sovrintendenza, la casa di Gaunt Street venne completamente rinnovata. Fu

così pronta ad accogliere Sir Pitt e la famiglia quando il baronetto venne a

Londra per svolgervi i propri doveri in Parlamento e assumere nel paese il ruolo

che spettava di diritto al suo incommensurabile ingegno.

Nel corso della prima sessione, da quel perfetto simulatore che era, non

rivelò i suoi intenti, e aprì bocca solo per presentare una petizione di Mudbury.

Ma presenziò regolarmente alle sedute e apprese alla perfezione i meccanismi

concernenti il funzionamento della Camera dei Comuni. A casa leggeva

attentamente le relazioni parlamentari, onde Lady Jane, che lo vedeva vegliare

sino a tarda ora lavorando senza risparmio, era oltremodo preoccupata e

temeva che potesse ammalarsi. Strinse legami di amicizia con vari ministri ed

esponenti del suo partito, ben deciso ad emergere al più presto fra costoro.

Il garbo e la dolcezza di Lady Jane avevano suscitato un sentimento di

tale disprezzo nell'animo di Rebecca, ch'ella stentava a dissimularlo. Quella

bontà, quell'amabile disposizione verso il prossimo irritavano a tal punto

Becky, da impedirle di occultare esteriormente l'avversione profonda che la

cognata le ispirava. A sua volta, Lady Jane si sentiva a disagio in sua presenza.

Sir Pitt s'intratteneva sempre con Becky: tra loro correvano segni d'intesa, e

con lei il baronetto toccava argomenti dei quali non gli sarebbe mai venuto in

mente di discutere con sua moglie. Di certe cose Lady Jane non comprendeva

nulla, ma non per questo era meno umiliante vedersi condannata al silenzio; e

tanto più sapere di non aver mai nulla di speciale da dire, mentre invece

l'intraprendente Rebecca svolazzava da un argomento all'altro, aveva la

battuta sempre pronta, un commento sulla bocca per tutti... Sì, era avvilente

starsene sola in casa propria, seduta di fianco al caminetto, guardando il

crocchio degli uomini assiepati in cerchio attorno alla rivale.

In campagna, quando Lady Jane sedeva a raccontar favole ai bimbi

seduti attorno a lei (e tra questi anche Rawdy, che le era molto affezionato) e

Becky entrava nella stanza lanciandole lo sguardo canzonatorio dei suoi occhi

verdi, Jane ammutoliva di colpo. Le storie suscitate dalla sua ingenua fantasia

si dileguavano spaventate, come le fate del libro di fiabe davanti alla

soverchiante potenza di un angelo malefico. Non riusciva a proseguire, anche

se Rebecca, con una punta di sarcasmo nel tono di voce, la supplicava di

continuare. Del resto, era logico. Piaceri semplici, pensieri delicati erano

sempre stati idiosincratici alla mentalità di Rebecca; erano in netta

contraddizione con la sua natura; odiava la gente che mostrava di apprezzarli;

aborriva i bambini e gli estimatori dei medesimi. «Il pane e burro proprio non

mi va,» diceva a Lord Steyne, rifacendo il verso a Lady Jane e imitando

comicamente il suo modo di fare.

«Non più di quanto a una persona di mia conoscenza non piaccia l'acqua

santa,» replicava Sua Signoria con un inchino e un sorrisetto che si allargava

poi in una risata stridula.

Di conseguenza le due signore si frequentavano assai poco, a meno che

la moglie del fratello minore non si proponesse di ottenere qualcosa dall'altra,

nel qual caso si recava da Lady Jane. Si salutavano con molta cordialità, ma

nell'insieme si tenevano alla larga l'una dall'altra. Al contrario, e ad onta dei

suoi numerosi impegni, Sir Pitt trovava modo di vedere ogni giorno la cognata.

Sir Pitt colse il pretesto del suo primo banchetto parlamentare per

presentarsi a Rebecca in uniforme: la vecchia uniforme che soleva indossare

quando era attaché alla legazione di Pumpernickel.

Becky lodò quel vestito e gli fece non meno complimenti di quanti il

baronetto ne avesse ricevuti dalla moglie e dai figli prima di uscir di casa. Solo

agli uomini di antica schiatta si addiceva la culotte courte, e Pitt contemplò

ammirato i suoi polpacci, anche se in realtà non erano modellati diversamente

dalla spada che gli pendeva al fianco. Becky concluse che solo un vero

aristocratico poteva indossare degnamente l'abito di corte, e Pitt tornò a

osservare le proprie gambe, nella tacita convinzione di essere un uomo molto

attraente.

Appena se ne fu andato, Becky ne schizzò una rapida caricatura che più

tardi mostrò a Lord Steyne. Sua signoria si divertì moltissimo e portò con sé

quel disegno, nel quale Pitt era effigiato con straordinaria somiglianza. In

precedenza aveva già accordato al suddetto il privilegio di conversare con lui in

casa di Mrs. Crawley, mostrandosi oltremodo affabile col nuovo membro del

Parlamento. Pitt non aveva mancato di notare (e n'era stato vivamente

impressionato) che il Marchese trattava Rebecca con estrema deferenza, e del

pari aveva osservato come gli altri uomini porgessero volentieri l'orecchio alla

di lei spigliata e piacevole conversazione. Lord Steyne lasciò intendere di

nutrire la massima fiducia nella brillante carriera politica del baronetto, e

attendeva con ansia l'occasione di apprezzarne l'eloquenza oratoria. Non solo:

dal momento che abitavano a due passi (Great Gaunt Street sbocca in Gaunt

Square, un lato della quale è occupato da Gaunt House), si augurava che, al

suo rientro a Londra, Lady Steyne avrebbe avuto l'onore di fare la conoscenza

di Lady Crawley. Pochi giorni dopo averlo conosciuto, lasciò il suo biglietto da

visita in casa del suo vicino, mentre aveva sempre ignorato il defunto Sir Pitt

Crawley, sebbene le rispettive famiglie abitassero da più di un secolo a

brevissima distanza l'una dall'altra.

Circondato da tanti intrighi, da tanti ricevimenti, da quel nugolo di

brillanti e altolocati gentiluomini, di giorno in giorno Rawdon sentiva

accentuarsi il proprio isolamento. Poteva andarsene al circolo quando e come

voleva, era libero di pranzare con gli amici scapoli, di andare e venire a suo

piacere, senza che anima viva gliene chiedesse conto. Non di rado, insieme col

piccolo Rawdon, raggiungeva Gaunt Street, ove s'intratteneva con Lady Jane e

coi bambini, mentre il fratello andava a trovare Rebecca ogni qual volta si

recava in Parlamento, o ne tornava.

L'ex colonnello se ne stava ore e ore silenzioso in casa del fratello, senza

pensare a nulla, senza far nulla, pago di svolgere qualche piccolo incarico

quando glielo affidavano: assumere informazioni su un servitore, interessarsi

dei pregi o dei difetti di un cavallo, trinciare l'arrosto di montone per la cena

dei bambini. Ormai era stato piegato a una condizione cronica d'indolenza e di

subordinazione. Dalila lo aveva imprigionato e gli aveva reciso le chiome. Il

baldanzoso e audace giovanotto di dieci anni prima aveva chinato il capo sotto

il giogo, ed era diventato un grasso, torpido, sottomesso gentiluomo di

mezz'età.

La povera Lady Jane si rendeva perfettamente conto che Rebecca le

aveva stregato il marito. Ciononostante lei e la cognata, ogni qual volta

s'incontravano, si salutavano a base di «mia cara» e «tesoro mio».

XLVI • LOTTE E AFFANNI

Nel frattempo i nostri amici di Brompton trascorrevano il Natale alla

meno peggio, vale a dire in modo niente affatto piacevole.

Delle cento sterline annue che grossomodo costituivano la rendita della

vedova Osborne, Amelia aveva preso l'abitudine di darne quasi tre quarti ai

genitori per il mantenimento proprio e del bambino. Grazie alle altre centoventi

sterline inviate da Jos, quella famiglia di quattro persone, con l'aggiunta della

domestica irlandese che prestava servizio anche per i Clapp, aveva modo di

vivere decentemente per tutto l'anno, di offrire una tazza di tè agli amici che

venivano in visita e, dopo tanti affanni, dopo tanti rovesci subiti, andare in giro

a testa alta. Sedley esercitava ancor oggi una notevole influenza su Mr. Clapp,

il suo ex dipendente, e sulla sua famiglia. Clapp non aveva scordato il tempo in

cui, seduto sull'orlo di una seggiola, si affrettava a tracannare il bicchiere che

gli veniva offerto alla tavola sontuosamente imbandita del prospero

commerciante di Russell Square «alla salute di Mrs. Sedley, di Miss Emmy e di

Mr. Jos in India». Il trascorrere del tempo non faceva che dilatare, nel ricordo

del bravo impiegato, il fulgore di quei modesti episodi. Ogni qual volta saliva

dalla cucina per sedere in salotto a bere un bicchiere di gin-and-water, oppure

una tazza di tè, in compagnia di Mr. Sedley, non mancava di dire: «Eh, sì: un

tempo eravate abituato a ben altro»; e beveva in atteggiamento di solenne

reverenza, come negli anni felici dell'agiatezza del suo datore di lavoro,

brindando alle signore. Secondo lui nessuno suonava il pianoforte meglio di

Miss 'Melia, ed era la donna più elegante di tutta Londra. Mai, nemmeno al

circolo, avrebbe osato sedere prima di Mr. Sedley, né avrebbe permesso a

chicchessia di muovergli delle critiche. Aveva visto alcune tra le personalità più

eminenti della capitale stringer la mano a Mr. Sedley, soleva raccontare. Lo

aveva conosciuto al tempo in cui tutti i giorni Mr. Sedley e Mr. Rothschild

confabulavano insieme alla borsa, e concludeva dichiarando che - per quanto lo

concerneva di persona gli doveva tutto.

Grazie alle sue doti e alla bella scrittura, subito dopo il fallimento del

padrone Clapp aveva avuto modo di rimediare un altro impiego. «Un pesce

piccolo come me,» soleva ripetere, «riesce a nuotare anche in un bicchiere

d'acqua.» Fu così che uno dei soci dell'azienda dalla quale Sedley era stato

costretto a staccarsi, aveva colto la palla al balzo, ben contento di poter

ricorrere ai servigi di Mr. Clapp e di corrispondergli un equo stipendio. In

breve, uno alla volta tutti gli amici facoltosi avevano abbandonato il povero

Sedley: solo questo suo ex dipendente gli aveva conservato affetto e

devozione.

Le briciole che le rimanevano della sua rendita, Amelia doveva

amministrarle con la massima, parsimoniosa circospezione, onde poter vestire

il suo adorato bambino come si conveniva al figlio di George Osborne, e

trovare altresì il necessario per pagare la modesta retta della scuola alla quale,

dopo molta indecisione e riluttanza, non che segrete perplessità e paure, si era

decisa a mandano. Notti intere aveva vegliato studiando su vecchie

grammatiche sdrucite e su vecchi testi di geografia, col proposito di dare lei

stessa lezione a Georgy. Aveva persino tentato d'imparare il latino, nella

speranza, partorita dal suo soverchiante amore, di poterlo istruire in quella

lingua. Separarsi da lui per tutto il corso della giornata, esporlo alle

bacchettate dell'insegnante e al dileggio dei compagni, era, per quella madre

così tenera e vulnerabile, come se avesse dovuto svezzarlo una seconda volta.

Lui, invece, era felicissimo di andare a scuola: quel cambiamento lo trovava del

tutto consenziente; e la madre era tanto più dolente di quella puerile felicità

quanto più le bruciava il doversi staccare dal figlio. Pensava che, in un certo

senso, avrebbe preferito vederlo meno lieto, ma subito dopo si pentiva in cuor

suo per aver auspicato che il figlio fosse meno felice.

Il piccolo George faceva grandi progressi in questa scuola, diretta dal

grande ammiratore di sua madre, il reverendo Binny. Portava a casa

innumerevoli premi e attestazioni delle sue benemerenze, e ogni sera

raccontava a sua madre infiniti aneddoti inerenti ai compagni e alla sua vita di

scolaro: che simpatico ragazzo fosse Lyons e che discolo fosse Sniffin; e come

il padre di Steel fosse proprio il macellaio che riforniva di carne la scuola, e

come la madre di Golding andasse ogni sabato a prendere il figlio in carrozza.

E poi c'era Neat che portava i calzoni lunghi col sottopiede (un giorno li

avrebbe avuti anche lui, i calzoni col sottopiede?), e c'era il maggiore dei Bull

che faceva soltanto la prima, è vero; però era bravissimo (sebbene soltanto in

Eutropio), e a tutti dicevano che avrebbe potuto battere lo stesso assistente,

Mr. Ward. Fu così che Amelia ebbe modo di conoscere tutti gli alunni della

scuola, proprio come li conosceva Georgy; e alla sera lo aiutava a fare i compiti

e si faceva fumare il cervello studiando le lezioni, né più né meno come se la

mattina dopo avesse dovuto presentarsi lei al cospetto dei maestri... Una volta,

dopo aver fatto a pugni con un certo Smith, Georgy tornò a casa con un occhio

pesto: raccontando fieramente l'accaduto a sua madre e a suo nonno, vantò la

propria forza e lasciò intendere di aver avuto la meglio in quell'asperrima

tenzone, anche se in verità non si era comportato da prode e n'era uscito

tutt'altro che vincitore. Da quel giorno, peraltro, Amelia non ha mai perdonato

codesto Smith; nemmeno oggi che è un innocuo farmacista, con bottega in

Leicester Square.

Tra queste placide occupazioni e queste ansie di normale

amministrazione, la soave vedova trascorreva il suo tempo, mentre qualche

filo d'argento tra le chiome e una ruga che le solcava la fronte designavano il

passare degli anni. Lei ne sorrideva. «Che importanza possono avere, per

me?» diceva. «Sono una vecchia, io.» Viveva solo della speranza di veder

crescere il figlio: di vederlo crescere grande, aureolato di gloria e di fama

quanto si meritava. Conservava tutti i suoi quaderni, i suoi disegni, i suoi

componimenti, e li mostrava alla ristretta cerchia dei suoi amici quali opere di

un genio incontestabile. Arrivò al punto di affidare qualcuno di quei capolavori

a Miss Dobbin perché li mostrasse a Miss Osborne, e persino a Mr. Osborne,

onde quel vecchio fosse indotto a pentirsi di un atteggiamento così crudele e

intransigente nei confronti di una persona che non apparteneva più al novero

dei vivi. Tutte le debolezze, tutti i torti del marito erano acqua passata; erano

seppelliti con lui, nella sua tomba. Di George, ella ricordava soltanto il

giovanotto innamorato, che l'aveva sposata sacrificando all'amore il suo

avvenire, la sua fortuna. Rammentava quel suo sposo così nobile, così bello,

così ardimentoso, nelle cui braccia ella aveva cercato rifugio la mattina in. cui

era partito per andare in battaglia; il marito che era morto combattendo per la

sua patria e il suo re. Dal cielo, non c'è dubbio ch'egli contemplasse con occhio

benigno quel figlio meraviglioso che le aveva lasciato per confortarla, per

esserle di sostegno e consolazione.

Abbiamo già visto come il nonno paterno di Georgy, Mr. Osborne, se ne

stesse sprofondato nella sua poltrona in Russell Square, e si facesse ogni

giorno più cupo e taciturno; e abbiamo visto come sua figlia, ad onta della

carrozza e dei cavalli, nonostante figurasse tra le più elette dame benefattrici

della città, fosse ormai una vecchia zitella sola, malinconica, afflitta,

ossessionata dal pensiero del figlio di suo fratello, quel bimbo così bello che

aveva avuto l'occasione di conoscere. Le sarebbe piaciuto recarsi in carrozza

sino alla casa dove il bimbo abitava, ed ogni giorno, quando faceva la sua

mesta passeggiata in Hyde Park, si augurava sempre d'incontrarlo. Di tanto in

tanto sua sorella, la consorte del ricco banchiere, si benignava di mostrarsi

nella casa paterna di Russell Square, per far visita a colei con la quale aveva

spartito gli anni dell'infanzia. Si tirava appresso due bimbi smunti e patiti,

accompagnati da una bambinaia in ghingheri, e contrappuntando i suoi

resoconti con risatine e gridolini di piacere parlava alla sorella delle sue

altolocate amicizie, di come quel tesoruccio del suo Frederick fosse il ritratto di

Lord Claud Lollypop, e come quell'angelo della sua Mary avesse attirato

l'attenzione della baronessa a Roheampton, mentre facevano la consueta

passeggiata sul calesse trainato da un somarello. Come se non bastasse, le

raccomandava di indurre il padre a far qualcosa in favore di quei due piccoli

amori. Frederick (sua madre, in proposito, aveva già preso le sue decisioni)

sarebbe entrato nelle Guardie. Volevano a tutti i costi costituirgli un

maggiorasco, e Mr. Bullock si stava letteralmente riducendo sul lastrico per

comperare terreni. Ma in tal caso, come avrebbero potuto rimediare una dote

per Mary? «Non dubito che ci penserai tu, carissima,» diceva Mrs. Bullock alla

sorella. «Inutile dire che la quota di mia spettanza delle proprietà di nostro

padre dovrà andare al capo della casata. Su questo sarai d'accordo, immagino.

Non appena il povero Lord Castletoddy sarà passato a miglior vita (e ci manca

poco, dal momento che è epilettico), la cara Rhoda M'Mull svincolerà dalle

ipoteche tutti i beni dei Castletoddy, cosicché il piccolo Macduff M'Mull avrà il

titolo di visconte di Castletoddy. I Bludyer di Mincing Lane hanno intestato in

blocco il loro capitale a favore del bimbo di Fanny Bludyer. Anche il mio caro

Frederick si merita un titolo, non ti pare? Suvvia, convinci il babbo a depositare

di nuovo i suoi denari in Lombard Street! Non mi sembra simpatico che sia

cliente della Banca Stumpy & Rowdy...» Dopo questi garbati discorsi, nei quali

la cronaca degli ultimi avvenimenti mondani si mescolava all'estrinsecazione

dei propri interessi personali, Mrs. Bullock elargiva alla sorella l'onore di un

bacio che sembrava il contatto di un ostrica, raccoglieva i suoi azzimati

rampolli e trotterellava alla volta della sua carrozza.

Nondimeno, ogni visita che questa detentrice del bon ton della famiglia

compiva nella casa d'origine, aveva sempre esito infausto nei suoi riguardi. Il

vecchio Osborne reagiva incrementando l'importo dei suoi depositi presso la

deprecata Banca Stumpy & Rowdy, mentre l'altezzosa Mrs. Bullock non faceva

che rendersi tanto più invisa. La povera vedova che viveva nell'umile casetta di

Brompton vegliando sul suo piccolo tesoro, era ben lungi dall'immaginare fino

a qual punto fosse ambito da altri.

La sera in cui Jane Osborne aveva confessato al padre di aver visto il

ragazzo, il vecchio non aveva detto una parola; ma non aveva neppure

dimostrato d'esserne contrariato, e al momento di alzarsi per ritirarsi nella sua

camera le aveva augurato la buonanotte in tono quasi gentile. Probabilmente

aveva ripensato alle parole della figlia, e non era escluso che avesse indagato

presso i Dobbin circa la famosa visita, dal momento che una settimana dopo

chiese a Jane dove diamine fossero la catena e l'orologino francese ch'ella era

solita portare al collo.

«Veramente li ho comperati coi miei soldi,» rispose lei, terrorizzata.

«Va' a comperarne un altro uguale. Ed anche più bello, se ti riesce di

trovarlo,» rispose il vecchio. Dopo di che si richiuse nel consueto mutismo.

Da qualche tempo le Dobbin non desistevano dal far pressione su Amelia

onde permettesse a Georgy di andare un poco da loro. La zia lo aveva trovato

simpaticissimo e forse chissà (così lasciavano capire) non era escluso che

anche il nonno si decidesse a riconoscerlo. Amelia non poteva e non si sentiva

di trascurare un'eventualità che per il ragazzo si sarebbe tradotta in un

indubbio vantaggio; tuttavia quelle istanze così pressanti la infastidivano, la

colmavano di sospetto. Durante l'intera assenza del bambino non riusciva a

reprimere la propria ansia, e quando tornava a casa lo accoglieva come si

accoglie una persona cui si vuol bene ed è scampata a un gravissimo pericolo.

Georgy rientrava sempre recando soldi e giocattoli che Amelia guardava con un

sentimento misto di sgomento e di gelosia. Non mancava mai di chiedergli se

avesse visto «qualche signora». «Solo il vecchio Sir William,» rispondeva

Georgy; «mi ha portato a spasso in tiro a quattro. Il pomeriggio è venuto Mr.

Dobbin su un bellissimo cavallo baio...» E aveva la giacca verde, la cravatta

rossa, un frustino col manico d'oro.., gli aveva promesso di condurlo a caccia

con sé e di portarlo a visitare la Torre di Londra. Un giorno, però, Georgy

raccontò di aver visto un vecchio signore con le sopracciglia molto folte, un

cappello a larga tesa e il panciotto attraversato da una catena carica di

ciondoli. Era venuto un giorno che il cocchiere aveva issato Georgy sul pony

grigio e gli faceva fare il giro del prato. «Mi ha guardato di continuo e tremava,

tremava tutto. Poi io mi sono messo a recitare Mi chiamo Norval e la zia è

scoppiata in lacrime. Piange sempre, quella zia.» Tale fu il resoconto di Georgy

quella sera.

Così Amelia ebbe la certezza che Georgy aveva visto il nonno, e attese

con ansia spasmodica una proposta che senza dubbio sarebbe arrivata. E

venne infatti, pochi giorni dopo. Mr. Osborne si proclamava formalmente

disposto a prendere il ragazzo con sé e a riconoscerlo erede della sostanza che

un giorno si era ripromesso di lasciare al defunto padre di Georgy. Nel

contempo avrebbe passato a Mrs. Osborne una rendita sufficiente a consentirle

di condurre un'esistenza decorosa. Qualora ella avesse desiderato risposarsi

(come gli era sembrato di capire), non avrebbe per questo cancellato la rendita

in questione. Restava peraltro inteso che il ragazzo sarebbe vissuto col nonno

in Russell Square, o in qualsiasi altro posto Mr. Osborne avesse ritenuto di

scegliere quale sua residenza. Naturalmente di tanto in tanto avrebbe avuto il

permesso di andare a trovare la madre a casa sua.

La lettera che recava questa proposta giunse ad Amelia un giorno in cui

sua madre non era in casa, e suo padre si trovava come di consueto alla City.

Solo in rarissime circostanze era stato dato a qualcuno di veder Amelia

sopraffatta dalla collera. Ebbene: l'avvocato di Mr. Osborne ebbe il privilegio di

esser testimone di uno di questi insoliti episodi. Dopo aver letto la missiva di

cui Mr. Poe era stato latore, Amelia balzò in piedi tremante e sconvolta dall'ira.

Rossa in volto, ridusse il foglio in mille pezzi, lo calpestò sotto i piedi ed

esclamò: «Io risposarmi? Io separarmi da mio figlio in cambio di denaro? Chi si

permette di rivolgermi proposte così insolenti? Dite a Mr. Osborne che la sua

una lettera vile, una lettera vile alla quale non mi abbasso a dare una risposta.

Buon giorno, signore!» «Fece un inchino e mi ingiunse di uscire dalla stanza

nell'atteggiamento di una regina da tragedia,» disse più tardi l'avvocato,

riferendo i termini in cui si era svolto quell'incontro.

I genitori non si accorsero della viva emozione che turbava la loro

figliola, né mai Amelia ebbe a parlare di quell'episodio. I due vecchi, del resto,

dovevano badare ai casi loro: casi che purtroppo interessavano da vicino anche

l'innocente e ignara vedova. Il padre tentava sempre nuove speculazioni;

abbiamo già visto come il commercio dei vini e quello del carbone si fossero

risolti in un fiasco madornale; ma in quel suo continuo e inquieto girovagare

per la City il vecchio Sedley aveva messo l'occhio su un altro affare. E ci si era

buttato a capofitto, nonostante i moniti del preoccupatissimo Mr. Clapp al

quale, per vero dire, non aveva osato confessare fino a qual punto si fosse

compromesso. E siccome uno dei principi fondamentali che guidavano il

comportamento di Mr. Sedley era quello di non parlar mai di affari davanti alle

donne, queste non ebbero la pur minima idea della sventura che le attendeva

sino a quando lo sciagurato vecchio non si vide costretto a una graduale

confessione.

Per cominciare, a partire da un certo giorno non fu possibile saldare i

conti di quel modesto andamento domestico, che sino a quel momento erano

stati pagati con regolarità settimanale. Dall'India non era arrivato l'assegno,

disse Mr. Sedley alla moglie, con volto turbato. E siccome fino a quel momento

Mrs. Sedley aveva sempre saldato puntualmente i conti dei due o tre bottegai

dai quali era solita rifornirsi, si vide costretta a pregarli di pazientare; onde i

suddetti si irritarono moltissimo, non essendo abituati ad un ritardo che era

invece cosa del tutto normale per quanto concerneva altri clienti. Il contributo

offerto da Emmy con assoluta serenità e senza far domande, servì a tirare

avanti in qualche modo. Così i primi sei mesi trascorsero in modo abbastanza

sopportabile, e il vecchio Sedley persistette nella convinzione che le sue azioni

sarebbero salite, onde tutto si sarebbe risolto per il meglio.

Invece, alla fine del primo semestre non arrivarono le sessanta sterline

necessarie al sostentamento della famigliola, le cui sorti precipitarono sempre

più. Mrs. Sedley, ormai ridotta quasi un'invalida, era stravolta, e trascorreva

ore ed ore in silenzio, oppure si rifugiava in cucina a piangere con Mrs. Clapp.

Il macellaio era fuori di sé, il droghiere si permetteva frasi insolenti, e due o tre

volte Georgy si era lamentato del cibo. Per parte sua Amelia si sarebbe

adattata a vivere di una fetta di pane, ma non poteva non rendersi conto che il

ragazzo risentiva di una situazione tanto penosa, e coi modestissimi proventi

della sua rendita riusciva sempre a comperare qualcosa per mantenere in

buona salute il suo Georgy.

Finalmente i genitori si decisero a illustrarle la situazione, ovvero - per

essere più esatti - le raccontarono una di quelle storie confuse e sconclusionate

che in genere sono solite raccontare le persone che versano in pessime

condizioni finanziarie. Un giorno Amelia, che aveva appena riscosso la sua

rendita e stava per passarla ai genitori, propose di trattenerne una certa quota

per poter pagare un vestito nuovo per Georgy.

Allora saltò fuori che i soldi di Jos non arrivavano più: che la famiglia

versava in gravissime difficoltà, circostanza della quale Amelia avrebbe dovuto

accorgersi da un pezzo - commentò sua madre - se le fosse mai passato per la

testa di occuparsi di qualcosa di diverso da Georgy. Al che Amelia posò tutto il

denaro sul tavolo spingendolo verso la madre, poi corse in camera per dar

sfogo col pianto a tutta la sua disperazione. Più tardi ebbe un altro accesso di

pianto quando andò a disdire il vestito nuovo che aveva ordinato per Georgy,

per il suo piccolo, adorato Georgy: il vestito che smaniava di regalargli per

Natale, il vestito di cui aveva ripetutamente discusso il taglio e il modello con

una sartina sua amica.

E, cosa ancor più penosa, dovette suo malgrado dirlo a Georgy, che si

mise a piangere disperatamente. Tutti avevano un vestito nuovo a Natale, tutti

si sarebbero burlati di lui. Lei glielo aveva promesso, dunque ne aveva diritto.

Cosa poteva regalargli, la povera vedova, se non i suoi baci? Gli rammendò il

vestito vecchio, impregnandolo delle sue lacrime. Diede mano a tutti i suoi

averi per vedere se avesse modo di vender qualcosa e ricavarne quanto

necessario per procurare a Georgy il vestito nuovo da lui tanto agognato.

Aveva lo scialle indiano che Dobbin le aveva inviato in regalo. Si ricordò che

una volta era entrata con sua madre in un negozio di merci indiane in Lufgate

Hill, ove le signore avevano agio di acquistare e vendere oggetti del genere. Le

guance le si fecero di porpora e gli occhi le balenarono di felicità constatando

che poteva sfruttare un simile espediente. La mattina, quando abbracciò

Georgy che si accomiatava per andare a scuola, gli sorrise tutta allegra, ed egli

ne dedusse che c'era in vista qualcosa di buono.

Avvolse lo scialle in un fazzoletto (anch'esso dono del maggiore),

nascose l'involto sotto il mantello, e si avviò a passo concitato lungo il Parco in

direzione di Lufgate Hill. Camminava così in fretta, che molti uomini si volsero

a guardare quel suo faccino grazioso, dalle gote accese. Mentre camminava,

pensava al modo migliore di spendere il ricavato dalla vendita dello scialle:

oltre al vestito, avrebbe comperato certi libri che Georgy desiderava

ardentemente di avere e avrebbe pagato la retta del secondo semestre della

scuola. Inoltre voleva comperare un mantello a suo padre, in sostituzione della

vecchia palandrana che ora indossava. Non si era sbagliata reputando che il

regalo di Dobbin avesse un notevole valore intrinseco: il negoziante le pagò lo

scialle venti ghinee e fece un ottimo affare: l'indumento era splendido, e di

finissimo tessuto.

Sorpresa ed emozionata, corse da Darton col suo piccolo patrimonio e

comperò Parent's Assistant di Maria Edgeworth e Sandford and Merton di

Thomas Day, che George desiderava avere da tanto tempo; poi, al colmo della

felicità, prese una carrozza e fece ritorno a casa col suo pacchetto. Tutta

contenta, scrisse sul frontespizio dei due volumi: «A George Osborne, regalo di

Natale della sua affezionatissima mamma.» Quei libri esistono tuttora, e

recano quella delicata, garbatissima dedica.

Si accingeva a salire nella camera di Georgy, affinché il bambino avesse

la sorpresa di trovare i libri quando fosse rientrato da scuola, quando lungo il

corridoio s'imbatté in sua madre. Le rilegature dorate dei sette graziosi

volumetti attirarono l'attenzione della vecchia signora.

«Cosa sono?» chiese Mrs. Sedley.

«Dei libri per Georgy... glieli avevo promessi per Natale.»

«Libri!» esclamò la vecchia signora al colmo dell'indignazione. «Dunque,

qui si comperano libri quando la famiglia non ha da sfamarsi! Libri, quando per

mantenere nel lusso te e tuo figlio, e impedire che tuo padre venga rinchiuso in

prigione, ho venduto tutto ciò che avevo! Libri quando ho dovuto vendere

persino il mio scialle, persino i cucchiai, per risparmiarmi le contumelie dei

bottegai e perché Mr. Clapp, che ne ha pieno diritto e non è certo esoso, ma

anzi è un uomo per bene con una famiglia da mantenere, potesse riscuotere

l'affitto che gli dobbiamo? Oh, Amelia, tu mi spezzi il cuore coi tuoi libri e con

quel tuo figlio che stai rovinando solo perché non vuoi separartene! Oh,

Amelia, voglia Iddio accordarti un figlio più grato di quello che Lui mi ha dato in

sorte! Jos abbandona suo padre, ora che è un povero vecchio. E pensare che

Georgy potrebbe esser ricco: c'è chi è disposto a provvedere a lui, a mandarlo

in una scuola degna di un lord, con tanto di catena e di orologio al collo,

mentre quel povero vecchio di mio marito non ha un soldo in tasca.» E a

queste parole seguirono lacrime e singulti isterici che risuonarono fra le pareti

di quella piccola casa, cosicché furono uditi dalle altre donne, che del resto

avevano udito ogni sillaba di quello sfogo.

«Mamma, mamma!» rispose la povera Amelia piangendo, «perché non

mi avevi detto nulla? Io... io gli avevo promesso i libri e stamattina sono

andata a vendere il mio scialle... Prendi, eccoti il denaro... Prendilo tutto.

Con mani tremanti prese le monete d'argento e le sovrane d'oro, le sue

preziose sovrane, e le depose tra le mani della madre, dalle quali caddero sulle

scale e ruzzolarono giù per i gradini.

Poi Amelia si rifugiò nella sua stanza, ove si lasciò cadere su una sedia,

in preda alla più cupa disperazione. Ora capiva tutto. Stava sacrificando il

ragazzo sull'altare del suo egoismo. Se non fosse stato per causa sua, suo

figlio avrebbe potuto fruire di un patrimonio, di un'adeguata posizione sociale,

di una debita istruzione, del posto che sarebbe spettato a suo padre in seno

alla famiglia: quel posto al quale egli aveva rinunciato per amor suo. Una

parola. Bastava che dicesse una parola e suo padre avrebbe riavuto la sua

modesta agiatezza, suo figlio si sarebbe trovato titolare di una fortuna. Quale

amarezza, per un cuore così tenero ed esulcerato, vedersi costretta a far sua

una simile conclusione!

XLVII • GAUNT HOUSE

Nessuno ignora come il palazzo di Lord Steyne a Londra si trovi in Gaunt

Square, donde si diparte Great Gaunt Street: là ove abbiamo seguito i passi di

Rebecca ai tempi del defunto Sir Pitt Crawley. Se diamo un'occhiata al

giardinetto recintato che occupa il centro della piazza, al di sopra della

cancellata e tra i neri fusti degli alberi, ci è dato di scorgere sparute istitutrici

che sorvegliano bambinetti pallidi e smunti intenti a gironzolare sul praticello

spelacchiato in mezzo al quale sorge la statua di Lord Gaunt, valoroso

combattente della battaglia di Minden quivi raffigurato in tricorno e per il resto

paludato come un imperatore romano. Un lato della piazza è occupato per

quasi tutta la sua estensione dalla facciata di Gaunt House, mentre sugli altri

tre lati prospettano case ormai passate in eredità a vecchie vedove: sono alti

edifici nerastri, con le finestre profilate di pietra o di mattoni di un rosso meno

acceso di quello degli altri mattoni della casa. Dietro quelle finestre, strette e

disadorne, sembra filtrare all'interno ben poca luce, come se ormai quelle porte

ignorassero ogni forma di ospitalità, scomparsa insieme coi domestici in livrea

adorna di pizzi e ai giovani inservienti che un tempo solevano smorzare le

torce premendole contro gli spegnitoi di ferro nero ancor oggi fiancheggianti i

lampioni affissi al sommo della scalinata d'ingresso. Targhe d'ottone hanno

fatto la loro apparizione in Gaunt Square: targhe di medici della Diddlesex

Bank Western Branch, della English and European Reunion, e via dicendo. Il

tutto ha un aspetto alquanto deprimente, ivi inclusa la dimora di Lord Steyne.

Io ne ho potuto vedere l'alto muro che dà sulla piazza e i due scabri pilastri che

sorreggono il grande cancello, dal quale di tanto in tanto un custode sporge la

sua grossa faccia rubizza e melanconica. Al di sopra del muro, il mio occhio si è

posato del pari sulle finestre delle camere da letto e delle mansarde, nonché

sui comignoli donde il fumo esce ormai di rado. Infatti Lord Steyne adesso

abita a Napoli: preferisce il panorama del Golfo, di Capri e del Vesuvio al

funereo aspetto del muro prospiciente Gaunt Square.

A qualche centinaio di iarde di distanza, in New Gaunt Street, quasi allo

sbocco in Gaunt Mews, c'è una piccola porta di servizio in tutto simile a quella

delle scuderie. Davanti a questa porticina - stando almeno a quanto asserisce

Tom Eaves, il mio informatore, che la sa lunga e mi ha portato sul posto - un

tempo si fermavano spesso carrozze ermeticamente chiuse. «Da quella porta,»

mi ha detto «sono entrati e usciti il principe e Perdita. Marianne Clarke vi è

entrata in compagnia del duca di... Di qui infatti si raggiungono i famosi petits

appartements di Lord Steyne. C'è una stanza tutta tappezzata di raso bianco

con mobili intarsiati d'avorio; un'altra è tutta in ebano e velluto nero. Poi c'è

una sala per i banchetti che riproduce quella della casa di Sallustio a Pompei e

dipinta da Cosway. Poi c'è una cucinetta privata con le pentole d'argento e gli

spiedi d'oro. Qui Philippe Egalité fece arrostire le pernici la notte in cui, insieme

con Lord Steyne, vinse al gioco centomila sterline a un personaggio d'alto

rango. Una metà di quei soldi andarono alla Rivoluzione e l'altra metà servi per

comperare il marchesato e l'ordine della Giarrettiera di Lord Gaunt. Quanto al

resto...» Ma a noi non interessa sapere a cosa sia servita la quota restante di

quella somma, mentre Tom Eaves, che sa vita, morte e miracoli di tutti,

potrebbe rendercene conto sino all'ultimo scellino.

Oltre al palazzo di Londra, il marchese possedeva altre dimore e castelli

sparsi per le più svariate contrade dei tre regni. Qualunque guida ce ne

fornisce la descrizione: il castello di Strongbow cinto da grandi boschi e

affacciato sulla spiaggia di Shannon; il castello di Gaunt nel Carmarthenshire,

ove Riccardo u fu fatto prigioniero; il castello di Gaunty nello Yorkshire, ove (se

è vero ciò che mi dicono) esistono duecento teiere d'argento per la colazione

degli ospiti, e dove tutto il resto è a livello di tanto splendore. All'elenco va

ancora aggiunta Stillbrook nello Hampshire: era la fattoria di Lord Steyne, una

residenza piuttosto modesta di cui tutti ricordano ancora la stupenda mobilia,

venduta all'asta dopo la morte di Sua Signoria, a cura di un celebre banditore

che adesso, a sua volta, ha reso l'anima a Dio.

La marchesa di Steyne apparteneva all'antica e nobilissima famiglia dei

Caerlyon, marchesi di Camelot. Essi hanno conservato l'antica fede cui si era

convertito in epoca remota il venerando Druido, loro antenato e fondatore della

stirpe. L'albero genealogico dell'esimio casato risale a prima dello sbarco di re

Bruto nelle isole britanniche. Al figlio primogenito della casata spetta il titolo di

Pendragon. I maschi, sin dai tempi dei tempi, non desistono dall'essere

chiamati coi nomi di Arthur, Uther, Caradoc. Molti fra costoro ci hanno rimesso

la testa per aver preso parte a congiure contro questo o quel governo. Per

parte sua Elisabetta fece decapitare l'Arthur dei suoi tempi, che era stato

ciambellano di Filippo e della regina Maria Stuarda, perché portava le lettere di

quest'ultima agli zii, duchi di Guisa. Un figlio cadetto fu al servizio del gran

duca, e svolse un ruolo di primo piano durante la notte di San Bartolomeo. Nel

corso dei lunghi anni di prigionia di Maria Stuarda, i marchesi di Camelot non

desistettero dal congiurare a favore della sventurata regina di Scozia. In

seguito alle confische disposte da Elisabetta per punirli della protezione

accordata a preti cattolici e sostenitori del papato, nonché per l'irriducibile

rifiuto ad abiurare, la famiglia aveva subito un danno finanziario non inferiore a

quello patito quando aveva dovuto contribuire alle spese necessarie ad armare

la flotta inglese contro gli spagnoli, ai tempi dell'Armada.

Durante il regno di re Giacomo, un membro della famiglia, provvidenziale

pecora nera, fu convinto da un dotto teologo a rinnegare la propria religione.

Questa defaillance capitò a proposito e valse a rinverdire momentaneamente le

fortune della casata. Ma sotto re Carlo il conte di Camelot riabbracciò la fede

dei padri, e da quel momento i Caerlyon continuarono a lottare e a subire

rovesci di ogni genere in nome della religione avita, sino a quando ci fu uno

Stuart in grado di istigare o motivare la ribellione.

Lady Mary Caerlyon aveva ricevuto adeguata istruzione in un convento

parigino, e sua madrina era stata la delfina Maria Antonietta. Quando era al

culmine della sua venustà era stata sposata (anzi, venduta, si diceva) a Lord

Gaunt, che allora abitava a Parigi dove aveva vinto al fratello di lei un'ingente

somma di denaro nel corso di uno dei banchetti organizzati da Filippo

d'Orléans. Correva voce che il famoso duello tra Lord Gaunt e il conte de la

Marche, dei Moschettieri Grigi (un tempo paggio della regina e tuttora uno dei

suoi favoriti), fosse stato provocato dalle pretese che l'ufficiale in questione

avanzava sulla mano della bellissima Lady Mary Caerlyon. Quest'ultima sposò

Lord Gaunt mentre il conte giaceva ancora a letto a causa delle ferite ricevute;

si trasferì nella casa di Gaunt Square e per un breve lasso di tempo la fastosa

corte del principe di Galles fu allietata dalla sua frequente, fulgida presenza.

Fox le dedicò dei brindisi. Morris e Sheridan scrissero carmi in suo onore.

Malmesbury si piegò dinanzi a lei nel suo inchino più riuscito, Walpole disse che

era semplicemente incantevole, Devonshire ne era quasi geloso. Ella però

rimase stordita e sgomenta al cospetto delle frivolezze e dei folli costumi che

imperavano nella società in cui era stata bruscamente introdotta, e dopo aver

partorito il secondo figlio optò per un'esistenza ritirata, dedita alla meditazione

e alle pratiche di pietà. Non è da stupire che il gaudente e mondano Lord

Steyne si mostrasse ben di rado, dopo le nozze, al fianco di quella sposa

impaurita, taciturna, infelice, superstiziosa.

Il suddetto Tom Eaves, il quale non svolge il minimo ruolo nella nostra

storia ma conosce tutti i personaggi più eminenti della capitale e i casi più

intimi e segreti di tutte le famiglie, sapeva di Lady Steyne alcuni particolari la

cui attendibilità non è accertabile. «Quella povera donna,» diceva sempre Tom,

«era costretta a subire in casa propria le più orribili umiliazioni. Lord Steyne la

costringeva a sedere a tavola di fianco a donne che io non oserei presentare a

mia moglie, dovessi anche morire, di fianco a Lady Crackenbury, a Mrs.

Chippenham, a Madame de la Cruchecassée, la moglie del Segretario di Stato

francese...» (Tutte donne dalle quali Tom Eaves, che non avrebbe esitato a

sacrificar la moglie pur di conoscerle, era felice e onorato di ricevere un piccolo

cenno del capo o un inchino). «In poche parole, la faceva sedere a tavola con

l'amante in carica di quel momento. E voi credete che una donna di quello

stampo, una donna appartenente a una famiglia altera come i Borbone, al

cospetto dei quali gli Steyne erano dei miserabili servitori, dei funghi appena

spuntati (poiché infatti non appartengono affatto al ramo antico dei Gaunt, ma

a un ramo cadetto e molto dubbio); voi credete, ripeto - e il lettore non

dimentichi che è sempre Tom Eaves a parlare - che la marchesa di Steyne,

fiera e altezzosa com'era, avrebbe ceduto alle indegne istanze del marito se

sotto sotto non ci fosse stata qualche buona ragione? Sì, sì, credete a me ci

sono ragioni segrete. Vi garantisco che, al tempo dell'emigrazione, quell'Abbé

de la Marche che si era rifugiato in Inghilterra e venne immischiato nello

scandalo Quiberoon con Puisaye e Tinteniac, era proprio lui: il colonnello de la

Marche dei Moschettieri Grigi che Lord Steyne aveva ferito in duello nel 1786.

Lui e la marchesa si sono rivisti, siatene pur certo; ed è solo dopo la morte

dell'abate-colonnello in Bretagna, che Lady Steyne si è buttata a capofitto in

quelle sue pratiche di fanatismo religioso alle quali si dedica tuttora. Non c'è

giorno che non si chiuda in salotto in compagnia del suo Padre spirituale, non

c'è giorno che non assista alla messa in Spanish Place. L'ho spiata, l'ho vista

coi miei occhi. Be'... voglio dire che mi trovavo a passare di là per caso... Lì

sotto c e un mistero, potete esserne sicuro. Solo chi cela qualche rimorso può

esser tanto infelice,» concluse Tom Eaves scuotendo il capo in un cenno

altamente allusivo, «e del resto è evidente che quella donna non sarebbe così

succuba e remissiva se il marchese non le tenesse la spada di Damocle

sospesa sul capo.»

Per concludere, se le informazioni che ci vengono da Mr. Eaves sono

attendibili, è molto probabile che la dama in questione, nonostante l'alta

posizione sociale, debba sottostare a cocenti umiliazioni e a celare dietro

ingannevoli parvenze di serenità atroci e intimi dolori. E noi consoliamoci:

consoliamoci pensando che, se il nostro nome non ha l'onore di figurare

nell'almanacco di Gotha, in compenso siamo meno infelici di tante persone che

appartengono a un ceto sociale superiore, o che noi, quantomeno, reputiamo

tale. Damocle siede su cuscini di seta ed è servito d'oro massiccio: il che non

gli impedisce di avere sempre una spada che gli pende sul capo. E questa

spada assume, a seconda dei casi, le sembianze di un ufficiale giudiziario,

oppure di una malattia ereditaria, o di un segreto di famiglia che di tanto in

tanto riaffiora nei suoi aspetti più foschi e conturbanti, facendo capolino da

qualche arazzo. E un giorno quella spada certamente cadrà, colpendo chi e

dove deve colpire.

Inoltre - ed è sempre l'opinione di Tom Eaves - l'uomo di modeste

condizioni, indotto a raffrontare la propria situazione con quella di un

aristocratico, ha un altro valido motivo per riconfortarsi. Chi abbia soltanto un

piccolo patrimonio da ereditare o lasciare in eredità, oppure non abbia uno

spicciolo, può permettersi d'intrattenere i rapporti più distesi e affettuosi col

proprio padre o col proprio figlio. Al contrario, il rampollo di un nobile

dell'importanza di Lord Steyne corre il rischio di consumarsi di rabbia e di

angoscia all'idea di non poter ancora entrare in possesso del suo regno, e

guarda con occhio per nulla benevolo colui che continua ad occupano.

«Di norma,» asseriva il nostro sardonico Mr. Eaves, «i padri e i

primogeniti di tutte le famiglie d'alto rango si odiano. Perché il principe

ereditario si mette sempre contro la Corona? Perché desidera

impossessarsene. Shakespeare, caro signore, conosceva il mondo; e quando

descrive il principe Hal (da cui i Gaunt asseriscono di discendere, sebbene non

discendano da John di Gaunt più di quanto ne discendiate voi o io), quando

descrive il principe Hai che vuole impadronirsi della corona paterna, ritrae dal

vero tutti gli eredi del suo stesso stampo. Provate a immaginare di essere