sfuggirle. Ben presto si ribellò contro le scarrozzate ad Highgate e a Hornsey.

Voleva andare a Hyde Park e basta. Da parte sua Mrs. Bute Crawley era certa

che ivi avrebbero fatalmente incontrato l'aborrito Rawdon. E così avvenne

infatti. Un giorno, durante la passeggiata, ecco apparire il calesse di Rawdon.

Accanto a lui sedeva Rebecca. Nell'equipaggio nemico Miss Crawley sedeva al

solito posto, avendo a sinistra la cognata e il barboncino, e sul sedile posteriore

Miss Briggs. Il momento fu veramente drammatico e Rebecca sentì battere il

cuore all'impazzata quando riconobbe la carrozza. Non appena le due vetture

s'incrociarono, congiunse le mani e rivolse alla vecchia signorina

un'espressione improntata alla più viva devozione, al più dolente affetto. Anche

Rawdon tremò, e il viso gli si coprì di rossore sotto i mustacchi e i favoriti tinti.

Nell'altra carrozza solo la Briggs si sentì commossa, e i suoi grandi occhi

lanciarono ai vecchi amici un'occhiata carica di nervosismo. La cuffia di Miss

Crawley era invece rivolta pervicacemente in direzione della Serpentina.

Quanto a Mrs. Bute Crawley, chissà perché sembrava bearsi della presenza del

Carboncino: giocava con lui e lo chiamava tesoro, cocchino, cagnolino mio

bello. Dopo di che le carrozze si mossero, ciascuna proseguendo nella propria

direzione.

«È finita, per Giove,» disse Rawdon alla moglie.

«Proviamo un'altra volta,» disse Rebecca. «Caro, non potresti fare in

modo che una ruota della nostra carrozza s'incastrasse nelle loro?»

Rawdon non ebbe l'ardire di tentare quella manovra, ma quando le

carrozze tornarono ad incrociarsi, si levò in piedi e alzò la mano nell'atto di chi

è pronto a togliersi il cappello guardando fisso con gli occhi bene aperti. Questa

volta Miss Crawley non volse il capo dall'altra parte: al contrario, sia lei che

Mrs. Bute Crawley lo guardarono ostentatamente senza salutarlo. Il nipote si

lasciò sfuggire una bestemmia, ricadde sul sedile e a folle corsa si diresse

verso casa.

Per Mrs. Bute Crawley era un palese e clamoroso successo. Ma ella

ritenne che il ripetersi di simili incontri poteva essere pericolosa. Miss Crawley,

infatti, era nervosissima. Pertanto decise che fosse assolutamente

indispensabile lasciare Londra per qualche tempo, e caldeggiò vivamente un

soggiorno a Brighton.

XX • IL CAPITANO DOBBIN MESSAGGERO DI IMENE

Il capitano Dobbin non avrebbe saputo dire come e perché, ma sta di

fatto che si trovò a porre le basi del matrimonio fra George Osborne ed Amelia,

a combinarlo, ad organizzarlo. Se non fosse stato per lui, quelle nozze non

avrebbero mai avuto luogo. Doveva ammetterlo, e sorrideva con una certa

amarezza al pensiero che proprio a lui, fra tutti gli uomini del mondo, spettasse

il compito di presiedere a quegli sponsali. Ma, se quelle trattative costituivano

l'impegno più arduo che mai gli fosse stato affidato, quando aveva un dovere

da compiere il capitano Dobbin non mancava di assolverlo sino in fondo, senza

esitare, senza tergiversare. Per giunta si era convinto che se Miss Sedley non

avesse sposato George sarebbe morta di sconforto, cosicché aveva deciso di

porre in atto ogni sforzo per tenerla in vita.

Tralascio la descrizione dei particolari dell'incontro fra Amelia e George,

quando quest'ultimo fu ricondotto ai piedi (ma forse sarebbe meglio dire: tra le

braccia) della sua innamorata, grazie ai buoni uffici del suo ottimo amico

William. Un cuore assai più duro di quello di George si sarebbe commosso alla

vista di quel dolce visino, sconvolto dall'angoscia e dalla disperazione, e

nell'udire le semplici, tenere parole con le quali ella raccontò la pena che le

aveva spezzato il cuore. Dopo aver constatato che Amelia non era svenuta

quando, tutta tremante, aveva condotto Osborne al suo cospetto, e la fanciulla

si era limitata a dar sfogo al suo dolore reclinando il capo sulla spalla

dell'innamorato e versando innumerevoli lacrime di sollievo, l'anziana Mrs.

Sedley, a sua volta profondamente sollevata, ritenne doveroso lasciar soli i due

giovani, e pertanto se ne andò mentre Emmy piangeva stringendo la mano di

George e la copriva umilmente di baci quasi lui fosse stato il suo assoluto

signore e padrone, e lei un'indegna colpevole che lo supplicava di grazie e di

favori.

Quell'atteggiamento sottomesso e devoto colmò George di commozione e

al tempo stesso di legittima compiacenza. In quella semplice fanciulla, a lui

ciecamente fedele, egli vedeva una specie di schiava, e si sentì segretamente

lusingato all'idea di disporre di un simile potere. Anche se era il Sultano si

sarebbe mostrato magnanimo, avrebbe rialzato fino a se Ester prostrata per

farne la sua regina. Inoltre la tristezza e la bellezza di Amelia lo

commuovevano al pari della sua sottomissione. Per questo cercò in ogni modo

di consolarla, di rianimarla, oserei dire di «perdonarla». Tutte le speranze, tutti

i sentimenti di Amelia, che sembravano morti, appassiti dentro di lei quando il

suo sole si era allontanato, rifiorirono come per magia quando la luce della sua

vita tornò a raggiare su di lei. Nessuno avrebbe potuto riconoscere, nel radioso

faccino di Amelia che quella notte poggiò sul guanciale del letto, lo stesso volto

pallido e assente che vi aveva riposato la notte innanzi. La brava servetta

irlandese, tutta contenta di quella trasformazione, le chiese il permesso di

darle un bacio su quelle gote fattesi improvvisamente rosee. Allora Amelia

pose un braccio al collo della ragazza e la baciò con trasporto quasi fosse stata

una bimba. Quella notte aveva finalmente goduto di un lungo sonno

ristoratore, e la mattina, destandosi, aveva gioito di una ragione d'inesprimibile

felicità.

«Oggi tornerà!» pensò Amelia. «È il più bello, è il più meraviglioso degli

uomini!» E non c'è dubbio che, per parte sua, George fosse convinto di essere

uno degli uomini più magnanimi della terra, e che sposare Amelia significasse

compiere un sacrificio senza eguali.

Mentre al piano di sopra era in corso quel delizioso tête-à-tête, Mrs.

Sedley e il capitano Dobbin affrontavano i problemi pratici relativi alle varie

possibilità di sistemazione del giovane ménage. Infatti, sebbene Mrs. Sedley

avesse lasciato i due giovani avvinghiati in uno stretto abbraccio, era sicura

che nessuno al mondo avrebbe potuto far leva sul marito onde acconsentisse

alle nozze tra sua figlia e il figlio dell'uomo che l'aveva trattato in modo così

perverso, indegno, mostruoso. Indugiò a raccontare in minuti dettagli dei

giorni felici della loro piena agiatezza, quando per contro Osborne viveva in un

alloggio oltremodo modesto in New Road, e sua moglie era stata ben lieta di

accettare qualche vestituccio di Jos, allora bambino, che lei, la Sedley, le aveva

regalato in occasione della nascita di uno dei figli Osborne. Sì, l'ingratitudine di

quell'uomo aveva spezzato il cuore di suo marito, ne era certa. Mai, mai Mr.

Sedley avrebbe potuto accondiscendere di buon grado a quel matrimonio.

«E allora non rimane che una soluzione, signora,» esclamò il capitano

ridendo. «Debbono fuggire insieme sull'esempio del capitano Rawdon Crawley

e di quella piccola istitutrice, l'amica di Emmy.»

«Come, come? Ma davvero? E chi avrebbe immaginato un fatto simile?»

Mrs. Sedley parve subito elettrizzata da quella notizia. Ah, se anche la

Blenkinsop fosse stata lì ad ascoltare! Eh, già, lei aveva sempre diffidato di

quella Miss Sharp. Jos l'aveva scampata bella! E prese a diffondersi sui ben

noti approcci amorosi tra Rebecca e il ricevitore di Boggley Wollah.

D'altro canto Dobbin non temeva tanto l'ira di Mr. Sedley quanto la

collera dell'altro genitore, e confessava di essere alquanto incerto e ansioso

circa la reazione di quel vecchio, burbero tiranno, il facoltoso mercante di

pellami di Russell Square. Pensava al veto perentorio che quest'ultimo aveva

posto al matrimonio, ed egli sapeva che la rabbiosa testardaggine di Osborne

non aveva limiti: una volta presa una decisione a nessun patto era disposto a

tornare sui suoi propositi.

«L'unica possibilità che a George sia offerta per riconciliarsi col padre,»

pensava Dobbin, «è che George dia prova di valore nel corso dell'imminente

campagna di guerra. Se muore, morrà anche Amelia. Ma se non riuscisse a

distinguersi? Se non vado errato ha avuto una piccola eredità da sua madre

sufficiente a comperarsi il grado di maggiore. Altrimenti, che altro gli

rimarrebbe da fare salvo trasferirsi in campagna a fare il contadino, oppure in

Canada, a fare il cercatore d'oro.» In effetti, Dobbin pensava che, con una

moglie simile, qualunque uomo sarebbe stato pronto a stabilirsi anche in

Siberia, e per quanto sembri assurdo, quel giovanotto spericolato e imprudente

non si rendeva conto che la mancanza dei mezzi necessari per dare un

ricevimento o per mantenere carrozza e cavalli costituisse un valido

impedimento al matrimonio di George Osborne. Tali considerazioni lo

spingevano a pensare che fosse opportuno affrettare le nozze. Chissà che

anche lui, dopo tutto, non desiderasse veder la cosa conclusa entro il più breve

termine possibile, come talvolta accade che dopo la morte di una persona cara

si desidera celebrare i funerali senza indugio, o come si vuole affrettare una

separazione, una volta decisa. Ad ogni modo un fatto è certo: una volta presa

in mano la cosa, Dobbin vi si dedicò con il massimo impegno. Illustrò a George

l'opportunità di agire senza indugio, gli fece balenare l'eventualità di una

successiva riconciliazione col padre in virtù di una citazione sulla «Gazette»...

Se fosse stato necessario, era pronto a recarsi di persona a sfidare i due padri,

ma nel frattempo scongiurava George di celebrare il matrimonio prima che al

Reggimento giungesse l'ordine, da tutti atteso, di partire per l'estero.

Assorbito totalmente da questi preparativi nuziali, accompagnato dalla

piena approvazione di Mrs. Sedley la quale tutto desiderava tranne di parlarne

direttamente al consorte, Dobbin si recò da John Sedley nella sua nuova

agenzia che aveva quale recapito il Tapioca Coffee-House: infatti, da quando

aveva dovuto chiudere il suo ufficio e il destino lo aveva travolto, il povero

fallito si recava giornalmente a scrivere e a ricevere certe lettere che poi

riuniva in fasci misteriosi e infilava nella tasca posteriore della sua finanziera.

Non c'è spettacolo più squallido e miserando di quello offerto da un fallito che

si dà tanto da fare, inseguendo affari inesistenti: delle lettere che ha ricevuto

da un ricco mittente e che mostra a chicchessia; dei documenti unti e

stazzonati coi quali Tizio o Caio si dichiarano pronti ad aiutarlo, ed altri gli

esprimono solidarietà, e che il poveraccio legge con estrema compunzione,

fondando sugli stessi tutta la sua speranza di rimpannucciarsi e rifarsi una

posizione. Senza dubbio il cortese lettore sarà stato abbordato, nella sua vita,

da qualcuno di codesti sventurati. Il pover'uomo vi sospinge in un angolo,

estrae dalla tasca sbottonata il fascio di lettere, lo slega, si infila lo spago fra i

denti e dopo aver scelto le lettere più «convincenti» ve le mette sotto il naso.

Chi non ha visto lo sguardo triste, ansioso, stralunato di quegli occhi che vi

scrutano, senza più un'ombra di speranza?

Dobbin scoprì un uomo siffatto in colui che un tempo era stato il florido e

cordiale Mr. John Sedley. La sua casacca, una volta sempre linda e

impeccabile, era lisa e mostrava il bianco delle cuciture. I bottoni spostati

avevano perso la doratura. Aveva le gote scavate, la barba lunga. Intorno al

collo la gala della cravatta pendeva floscia sotto il panciotto sgualcito. Un

tempo, quando era solito invitare i suoi dipendenti al caffè, vociava e rideva

più di ogni altro, e tutti i camerieri si affannavano a dargli retta. Adesso era

penoso notare come osservasse un atteggiamento di umile, sottomessa

cortesia nei confronti di John, un vecchio cameriere del Tapioca Coffee-House

dagli occhi cisposi, le calze sporche e certe scarpette sformate, cui spettava il

compito di recare bicchieri pieni di cialde per suggellare i fogli, recipienti di

peltro pieni d'inchiostro e fogli di carta ai frequentatori di quel locale

deprimente nel quale si sarebbe detto che non si consumasse nient'altro. Il

vecchio Sedley, che tante volte quando Dobbin era un bambino gli aveva fatto

dei regalucci ed era solito prenderlo di mira con mille burle innocenti, ora gli

porse la mano con fare umile e gesto incerto, chiamandolo «signore». Al che

Dobbin provò un sentimento di vergogna, di rimorso come se, in una forma o

in un'altra, risalisse a lui la responsabilità degli eventi funesti che avevano

ridotto Sedley in quello stato.

«Sono veramente lieto di vedervi, capitano Dobbin... signor Capitano,»

gli disse dopo aver lanciato una rapida occhiata al visitatore che, con la sua

alta figura dinoccolata e la sua baldanza militare, aveva suscitato l'interesse

del cameriere in scarpini da ballo, i cui occhi ebbero un fuggevole baleno, e

risvegliato l'attenzione della vecchia signora vestita di nero che sonnecchiava

dietro il banco tra le vecchie tazzine da caffè. «Come sta il distinto signor

Consigliere, e Sua Signoria... vostra madre?» E mentre diceva «Sua Signoria»,

gettò uno sguardo al cameriere, quasi volesse dirgli: «Vedi, John, che conto

ancora delle amicizie fra le persone d'alto rango ?»

«Siete venuto per qualche affare?» continuò. «Ora i miei affari sono in

mano a due giovani amici, Dale e Spiggot. Aspetto che sia pronto il mio nuovo

ufficio. Come certo immaginate, questa per me è solo una sistemazione

provvisoria. Posso fare qualcosa per voi? Gradite qualcosa?»

Dobbin esitante, balbettante, gli rispose che no, proprio non aveva fame

né sete. Non aveva nemmeno alcun affare da trattare, ma la sua visita era

dovuta al semplice desiderio di rivedere Mr. Sedley, per constatare che stava

bene e per stringere la mano a un vecchio amico. Poi aggiunse, falsificando

spudoratamente la verità: «Mia madre sta benissimo cioè, sta molto male, e

aspetta solo una bella giornata per far visita a Mrs. Sedley. Come sta Mrs.

Sedley? Voglio sperare che stia bene.» Sul che s'interruppe perché gli venne

fatto di meditare sulla sua sfacciata ipocrisia. Infatti era una giornata radiosa e

splendeva un magnifico sole, almeno come può splendere in Coffin Court dove

si trova il Tapioca Coffee-House. Quanto a Mrs. Sedley, basterà dire che

l'aveva vista un'ora prima, quando aveva condotto Osborne a Fulham a bordo

della sua carrozza e ve lo aveva lasciato in tête-à-tête con Amelia.

«Mia moglie sarà felicissima di rivedere Sua Signoria,» rispose Sedley,

tirando fuori le sue scartoffie. «Ho ricevuto una lettera veramente cortese di

vostro padre, signore, e vi prego di volergli recare i miei rispettosi ossequi.

Lady Dobbin ci troverà in una casa assai più piccola di quella nella quale

eravamo soliti ricevere i nostri amici, ma è molto confortevole e il

cambiamento d'aria giova a mia figlia, che in città non stava affatto bene (Vi

ricordate, vero, della mia piccola Emmy?). Eh, sì, a Londra non si sentiva molto

bene.» Mentre il vecchio parlava il suo sguardo vagava in ogni direzione senza

scopo apparente, e con le dita tamburellava sulle carte o giocherellava col

nastrino rosso sgualcito che le legava. Era evidente che il suo pensiero vagava

altrove.

«Voi siete un militare,» continuò Sedley. «Ebbene, William Dobbin, io vi

faccio una domanda: era mai possibile prevedere che quello scellerato Corso

potesse fuggire dall'isola d'Elba? Quando i sovrani alleati si radunarono qui

l'anno scorso e noi offrimmo loro una cena nella City, e vedemmo il Tempio

della Concordia, i fuochi d'artificio e il ponte cinese in St. James's Park, quale

uomo sensato avrebbe potuto dubitare che la pace non fosse ormai

definitivamente ripristinata, dopo che avevamo addirittura cantato un Te

Deum? Un'altra domanda, William: potevo mai immaginarmi che l'imperatore

d'Austria fosse un traditore, niente di più e di diverso da un volgare traditore?

Sì, sì, un traditore, un maledetto traditore, un voltabandiera; non ho paura

delle parole, io. Un intrigante bugiardo che fin dalle prime mosse aveva in

animo di far risalire suo genero sul trono. Per conto mio la fuga di Napoleone

dall'Elba non è stata altro che un complotto, una trama ordita da metà delle

potenze straniere, un imbroglio posto in atto per far crollare i titoli di stato e

mandare in malora il nostro paese. È per questo che sono finito qui, William; è

per questo che sono finito nella «Gazette». Tutto per aver riposto la mia fiducia

nell'imperatore di Russia e nel Principe Reggente. Guardate, date un'occhiata

alle mie carte. Ecco le quotazioni dei titoli al 1° marzo ed ecco le quotazioni

della rendita francese al 5 per cento quando io ho comperato! Senza un

complotto quel lestofante non sarebbe mai riuscito ad evadere! Dov'era il

commissario inglese che se lo è lasciato fuggire? Bisognerebbe fucilarlo.

Bisognerebbe trascinarlo davanti ad una corte marziale e fucilarlo.»

«È questione di giorni e poi ci metteremo in moto per andare a stanare

Buonaparte,» esclamò Dobbin, alquanto allarmato dalla collera scatenata del

vecchio Sedley, cui cominciavano a gonfiarsi le vene sulla fronte, mentre col

pugno percuoteva le sue carte. «Il duca è già in Belgio e attendiamo da un

momento all'altro l'ordine di partire.»

«Non dovete dargli respiro. Uccidetelo, quel mascalzone, quel vile

furfante!» strillò Sedley. «Potessi partire volontario anch'io... ma sono un

povero vecchio rovinato da quel farabutto, e da tanti ladri, da tanti truffatori

che qui, sul suolo d'Inghilterra, devono la loro fortuna a me, a me in persona,

e che oggi se ne vanno a spasso in carrozza,» continuò, mentre la voce gli

s'incrinava.

Dobbin fu vinto dalla commozione, nel contemplare lo spettacolo

doloroso del vecchio amico, un tempo così garbato ed ora quasi impazzito sotto

i colpi della sventura al punto da prorompere in discorsi deliranti e in attacchi

di rabbia senile. Abbiate pietà di quel povero fallito, o voi per i quali nulla ha

importanza se non il denaro e la reputazione, in ossequio a una norma

fondamentale nella Fiera della Vanità.

«Proprio così,» continuò Sedley. «Ti allevi delle serpi in seno e poi ti

mordono. Certi mendicanti uno li aiuta, li fa montare a cavallo... e poi, eccoli a

darti addosso per primi. Eh, voi capite benissimo a chi alludo, Dobbin, ragazzo

mio. Mi riferisco a quell'immondo individuo, a quell'arricchito di Russell Square

che ho conosciuto quando in tasca non aveva un penny, e che mi auguro con

tutto il cuore di ritrovarlo un giorno ridotto un pezzente, il miserabile che era

quando l'ho aiutato.»

«Me ne ha accennato il mio amico George,» disse Dobbin, cui premeva

arrivare al tema focale della conversazione. «I dissidi tra voi e suo padre lo

hanno molto addolorato; anzi, vi porto un suo messaggio.»

«Ah, dunque era questa la vostra commissione, vero?» esclamò il

vecchio balzando in piedi. «A quanto pare vuoi mandarmi le condoglianze!

Molto gentile davvero, quel damerino in ghingheri, con quelle arie da

bellimbusto e tutta quella sua spocchia da West End. Fa ancora la ronda

intorno a casa mia? Se mio figlio fosse un uomo degno di questo nome gli

avrebbe già sparato una revolverata. È un farabutto come suo padre e non

voglio più sentir pronunciare il suo nome in casa mia. Maledetto sia il giorno in

cui ve l'ho lasciato entrare. Preferirei veder mia figlia morta ai miei piedi che

sposata a un individuo simile.»

«George non è in alcun modo responsabile dell'atteggiamento spietato di

suo padre, signore. L'amore di vostra figlia per lui è opera vostra quanto sua.

Con quale diritto potete disporre a piacere dei sentimenti di due giovani, e per

puro arbitrio spezzar loro il cuore?»

«Non dimenticatevi che non è stato suo padre a vietare il matrimonio.

Sono stato io!» gridò il vecchio Sedley. «Tra quella famiglia e la mia non

sussiste più alcun legame. Io sono caduto in basso, è vero, ma non ho

raggiunto un tal grado di abiezione. E questo raccontatelo pure a tutta la loro

progenie: figlio, padre, sorelle, tutti quanti!»

«Signore, persevero nella mia convinzione che voi non abbiate alcun

diritto di separare quei due,» replicò Dobbin a bassa voce, «e se non intendete

accordare a vostra figlia il consenso di sposarsi, sarà suo dovere sposarsi

rinunciando a ottenerlo. Per qual motivo Amelia dovrebbe morire o vivere col

cuore infranto solo perché avete la testa piena di stolte ubbie? Secondo me,

ormai è come se lei fosse sposata, proprio come se le pubblicazioni fossero

state lette in tutte le chiese di Londra. E se Osborne vi accusa, quale miglior

risposta alle sue accuse del fatto che suo figlio intende sposare la vostra figliola

ed entrare così a far parte della vostra famiglia?»

Quell'argomento fece balenare di soddisfazione gli occhi del vecchio

Sedley. Ma ciò non gl'impedì di continuare a ripetere che le nozze tra George e

Amelia non potevano essere celebrate senza il suo consenso.

«Vuol dire che saremmo costretti a farne a meno,» disse Dobbin. E come

aveva fatto il giorno prima con Mrs. Sedley, raccontò al marito di quest'ultima

della fuga di Rebecca col capitano Crawley.

Il vecchio parve divertito. «Siete terribili, voialtri capitani,» disse legando

i suoi scartafacci mentre sul volto gli si dipingeva un'espressione quasi ilare

che lasciò esterrefatto il cameriere dagli occhi acquosi, il quale non gliel'aveva

mai vista da quando il vecchio aveva cominciato a frequentare quello squallido

locale e servirsene come recapito.

Tutto sommato, l'idea di sferrare a Osborne, il suo nemico, un colpo

simile, recava a Sedley una sorta di sollievo. E alla fine il vecchio e Dobbin si

separarono da ottimi amici.

«Le mie sorelle dicono che ha dei brillanti grossi come uova di piccione,»

raccontava George ridendo. «Chissà come splendono sulla sua carnagione!

Quando se li metterà intorno al collo sarà come accendere un lampadario! Con

quei capelli neri e crespi... sembrano quelli di Sambo! Scommetto che quando

è stata presentata a Corte si è messa un anello al naso! Avrebbe dovuto

infilarsi un ciuffo di piume nella crocchia: sarebbe stata l'immagine calzata e

vestita della Belle Sauvage

George stava dileggiando una ragazza che il padre e le sorelle avevano

conosciuto di recente ed era motivo di speciale attenzione da parte di tutti i

membri della famiglia. Correva voce che possedesse non so quante piantagioni

nelle Indie Occidentali e un sacco di denari investiti in titoli di stato. Nell'elenco

degli azionisti della Compagnia delle Indie, dicevano, il suo nome era indicato

con tre asterischi. Possedeva una residenza di campagna nel Surrey e una casa

in Portland Place. Il nome di questa facoltosa ereditiera americana era stato

menzionato con particolare risalto nel «Morning Post». Una sua parente, certa

Mrs. Haggistoun, vedova di un colonnello, le faceva da chaperon e badava alla

sua casa. Era appena uscita di collegio, un'eletta scuola ove aveva completato

gli studi, e George e le sorelle l'avevano conosciuta in occasione di un

ricevimento dato dal vecchio Hulker (Huller, Bullock & Co. erano da gran

tempo corrispondenti della sua ditta nelle Indie Occidentali) nella casa di

Devonshire Place. Le ragazze le avevano riservato un'accoglienza improntata

alla massima cordialità, che l'ereditiera aveva ricambiato con molto garbo.

Un'orfana con tutto quel denaro e una posizione sociale del genere era un

personaggio da considerare col massimo interesse, avevano commentato le

Osborne. Tornate dal ballo, non avevano più smesso di parlare con Miss Wirt;

si erano accordate per rivedersi di frequente, senza por tempo in mezzo il

giorno dopo avevano ordinato una carrozza ed erano andate a trovarla. Mrs.

Haggistoun, che oltre ad esser vedova del sopraccitato colonnello era parente

di Lord Binkie (e ne parlava in continuazione) parve un po' altezzosa alle

nostre care, semplici fanciulle, e un po' troppo smaniosa di parlare dei suoi

parenti altolocati. Ma Rhoda era veramente la persona più simpatica che si

potesse immaginare, così espansiva, cortese, affabile... Forse non aveva molta

classe, ma dava prova di avere un ottimo carattere. Le ragazze decisero subito

di chiamarsi col nome di battesimo.

«Avresti dovuto vedere il vestito che si è fatta per essere presentata a

Corte, Emmy,» esclamò Osborne ridendo. «È venuta apposta a farsi vedere

dalle mie sorelle prima di essere presentata in pompa magna da Lady Binkie,

sai, quella parente della Haggistoun. Aveva indosso certi diamanti che

brillavano come le lampade di Vauxhall la sera in cui ci siamo andati (ricordi,

Emmy, Vauxhall? E Jos che cantava al tesoruccio suo bello?) Diamanti e

mogano, mia cara: te l'immagini? Quale stupendo contrasto! E le piume

bianche nei capelli... cioè... volevo dire nella lana. Senza contare gli orecchini:

due candelabri! Veniva voglia di accenderli, per Giove! E dietro una coda di

seta gialla che strisciava... sembrava una cometa!»

«Quanti anni ha?» chiese Emmy a George che, la mattina stessa in cui si

erano rivisti, non la smetteva più di cianciare di quella nera effigie e di

illustrarla con quello spiritoso senso dell'esagerazione che nessuno al mondo

(su questo non v'era dubbio) possedeva al par di lui.

«È appena uscita di collegio, ma quella nera principessa deve avere

almeno ventidue o ventitré anni. E dovresti vedere come scrive... Certi errori

d'ortografia! Di solito è la vedova Haggistoun a scrivere le lettere per conto

suo, ma alle mie sorelle, data la confidenza, scrive personalmente: per farti un

esempio, invece di satin scrive sating e per St. James scrive St. Jams.»

«Ma allora questa è Miss Swartz, l'allieva di riguardo,» disse Emmy, la

mulatta di cuor tenero che era stata colta da una crisi isterica quando lei aveva

lasciato il convitto della Pinkerton.

«È proprio lei,» rispose George. «Suo padre era un ebreo tedesco (un

mercante di schiavi, a quanto si dice) e aveva qualcosa a che fare con l'isola

dei Cannibali, in un modo o nell'altro. E morto l'anno scorso e lei ha studiato

nel collegio di Miss Pinkerton. Adesso tutto quel che sa fare è suonare due

brani al pianoforte, cantare tre canzoni e scrivere, sempre a patto che la

Haggistoun le stia accanto per suggerirle l'ortografia esatta. Quanto a Jane e a

Mary, le vogliono già bene come se fosse una sorella.»

«Vorrei avessero amato me, piuttosto,» disse Emmy pensierosa. «Invece

con me sono sempre state piuttosto fredde.»

«Tesoro mio, se avessi posseduto duecentomila sterline avrebbero amato

anche te,» rispose George. «Sono state allevate con questa mentalità. Il nostro

è un ambiente ove tutto è valutato a suon di denari. Viviamo circondati da

banchieri, dai pezzi grossi della City, tutta maledetta gente che mentre ti parla

fa tintinnare in tasca le sue ghinee. Quel somaro di Fred Bullock, che sposerà

Mary, è un esemplare di questa specie. E altrettanto si può dire di Goldmore, il

direttore della Compagnia delle Indie Occidentali; e di Bipley, quel mercante di

sego... sì, uno che fa il nostro stesso mestiere,» disse George arrossendo, con

un risolino imbarazzato. «Tutto un mucchio di volgari quattrinai, che gli prenda

un accidente! Casco sempre dal sonno a quei loro noiosissimi pranzi, per non

dire dei ricevimenti che si danno in casa mia: mi fanno quasi vergognare. Mi

sono abituato a vivere tra gente moderna, tra gentiluomini, tra persone di

mondo, non fra un branco di mercanti pancioni! Mia cara, tu sei l'unica, fra

tutti costoro, che sappia parlare, che abbia il tratto di una vera signora. Ma tu

sei un angelo, e pertanto non potresti essere diversa. No, non lo negare. Tu sei

l'unica signora degna di questo nome. Del resto l'ha detto anche Miss Crawley,

che ha sempre vissuto in mezzo a persone appartenenti alla più alta

aristocrazia europea. Quanto a Crawley, quel capitano delle Guardie, è un

giovanotto che mi va a genio, perché non ha esitato a sposare la fanciulla che

amava.

Anche Amelia provava la stessa simpatia per Mr. Crawley e per le stesse

ragioni: pensava che Rebecca sarebbe stata felice al suo fianco e sperava -

aggiunse ridendo - che Jos si sarebbe consolato. Così Amelia e George

continuarono a chiacchierare, proprio come ai vecchi tempi. Amelia ormai

aveva ritrovato la fiducia nel suo giovane innamorato, anche se fingeva

(ipocrita!) di essere gelosissima di Miss Swartz e ostentava di essere

spaventatissima all'idea che George la dimenticasse per quell'ereditiera, i suoi

quattrini e i possedimenti di St. Kitt's. Ma in realtà si sentiva troppo felice per

coltivare timori o apprensioni di qualsiasi genere. Ora che George le era di

nuovo accanto non temeva né ereditiere, né bellezze, né altri pericoli di sorta.

Quando nel pomeriggio il capitano Dobbin ritornò da loro, in uno stato

d'animo che esprimeva tutta la più affettuosa solidarietà nei confronti della

coppia, fu felice e sollevato nel trovare Amelia che, raggiante come un tempo,

rideva, cinguettava e cantava vecchie canzoni, seduta al pianoforte. E questi

canti vennero interrotti solo quando il suono di un campanello annunciò il

ritorno di Mr. Sedley dalla City, segnale che per George era giunto il momento

di ritirarsi.

Occorre dire che Amelia, dopo un sorrisetto di benvenuto alquanto

ipocrita (giacché la sua intrusione l'aveva indispettita) per tutta la serata

ignorò completamente il capitano Dobbin. Ma lui non se ne dolse: le bastava

vederla felice. Ed era lieto di esser stato lui lo strumento di tanta felicità.

XXI • LITE PER UN'EREDITIERA

Qualsiasi ragazza con le doti di Miss Swartz può far esplodere una

passione, onde il vecchio Osborne prese ad accarezzare un sogno che avrebbe

potuto realizzarsi per mezzo della suddetta. In termini entusiastici e con la

miglior disposizione d'animo esortò le figlie a coltivare la loro amicizia per

l'ereditiera e dichiarò che per lui era motivo d'intima soddisfazione veder

l'affetto delle sue figliole rivolto verso persone tanto degne.

«Cara signorina,» diceva, «voi non troverete nella nostra modesta casa

di Russell Square il fasto e gli agi ai quali siete assuefatta nel West End. Le mie

figliole sono ragazze semplici, ingenue, e hanno concepito per voi un

sentimento d'affetto che fa loro onore... sì, proprio così, onore. Io non sono

altro che un modesto, un onesto mercante inglese... ve lo potranno

confermare i miei amici Hulker & Bullock, due degne persone che a suo tempo

furono corrispondenti del vostro defunto padre. Qui troverete in noi una

famiglia unita, semplice, felice e, se mi è concesso l'ardire di affermarlo,

rispettabile. Una tavola frugale intorno alla quale siede gente semplice, la

quale peraltro vi dà di tutto cuore il suo benvenuto, cara Miss Rhoda... anzi,

lasciate che vi chiami semplicemente Rhoda, dal momento che il mio cuore è

già traboccante d'affetto per voi. Sono un uomo franco che ama dire la verità,

dunque vi dico chiaro e tondo che mi piacete. Un bicchiere di champagne!

Hicks, portate dello champagne a Miss Swartz!»

Non c'è dubbio: le espressioni del vecchio Osborne erano sincere, ed

anche le sue figlie lo erano (o quasi) quando protestavano il loro affetto per

Rhoda. Per i frequentatori della Fiera della Vanità coltivare affetto per i

danarosi è un moto del tutto spontaneo. Se la gente semplice considera con

occhio benevolo la grande Agiatezza (giacché io sfido un qualsiasi cittadino

inglese a negare che per lui l'idea della Ricchezza non sia straordinariamente

gradevole, come sfido il lettore a non guardare con interesse compiaciuto il suo

vicino di tavola, se qualcuno gli sussurra che possiede mezzo milione di

sterline), se dunque la gente comune guarda al denaro con tanto lieta

disposizione d'animo, figuriamoci come lo guardano gli scaltri uomini di mondo!

L'unica cosa che bramano è il denaro: fan festa solo ai quattrini, ai quali va

incondizionatamente il loro affetto. I loro delicati sentimenti affiorano solo

quando si trovano a tu per tu con le persone «interessanti» quelle, cioè,

munite di palanche. Conosco persone in tutto e per tutto rispettabili che mai si

permetterebbero di esternare la loro amicizia nei confronti di persone che non

si distinguano per ceto e per censo. Lasciano affiorare i loro sentimenti solo

nelle occasioni che loro reputano «opportune».

Basti a provarlo il fatto che la famiglia Osborne al completo, cui non

erano bastati sedici anni per riuscire a guardare con affetto ad Amelia, in una

sola serata si sentì di provare la più viva e affettuosa simpatia per Miss Swartz:

proprio in conformità ai desideri dei più romantici sostenitori dell'amicizia a

prima vista.

Quale strepitoso partito sarebbe stata per George, pensavano,

perfettamente concordi, le sorelle e la Wirt! E come di gran lunga preferibile a

quella piccola, insulsa Amelia! Un giovanotto brillante, aitante, con una buona

posizione sociale, sarebbe stato il marito su misura per Rhoda! La mente delle

fanciulle era in subbuglio, gremita com'era della visione di balli in Portland

Place, di presentazioni a Corte, di rapporti amichevoli con ampi strati

dell'aristocrazia: alla loro nuova, adorata amica non parlavano altro che di

George e delle sue sceltissime amicizie!

Anche il vecchio Osborne era dello stesso parere. In Miss Swartz vedeva

una moglie perfetta per il figlio, il quale avrebbe potuto lasciare l'esercito,

entrare in Parlamento e diventare un uomo politico, oltre che un personaggio

alla moda. Il sangue gli ribolliva di giusta esultanza britannica al pensiero che il

nome degli Osborne assurgesse ai fastigi della nobiltà grazie alla persona del

figlio, e già si vedeva progenitore di una cospicua serie di baronetti. Si diede

da fare nella City e in Borsa fino a quando non riuscì a scoprire per filo e per

segno tutto quanto concerneva la fortuna dell'ereditiera, come fosse investito il

suo denaro e ove si trovassero le sue proprietà terriere. Il giovane Fred Bullock

(uno dei suoi «informatori») avrebbe fatto di persona un'«offerta» (fu questa,

né più né meno, l'espressione alla quale ricorse il giovane banchiere) a proprio

uso e consumo; se non avesse già dato la sua parola a Maria Osborne. Per

altro verso, non potendosela assicurare come moglie, il disinteressato Fred si

accontentava di avere Rhoda quale cognata.

«George deve darsi da fare e conquistarla,» consigliava Fred. «È bene

battere il ferro finché è caldo, e il personaggio non è ancora troppo noto a

Londra; altrimenti nel giro di qualche settimana uno squattrinato qualsiasi del

West End si farà avanti coi suoi modestissimi averi e col suo titolo nobiliare, e

taglierà fuori tutti noi della City, come ha fatto l'anno scorso Lord Fitzrufus con

Miss Grogram, che era già fidanzata con Podder della Podder & Brown. Prima si

fa, meglio è, caro Mr. Osborne. Questa, per lo meno, è la mia opinione.» Così

disse quel bell'esemplare di Fred. Ciò non toglie che, quando il vecchio uscì

dalla banca, il giovane Bullock si ricordasse di Amelia e di quanto era carina e

per una decina di secondi del suo preziosissimo tempo indugiasse a

rammaricarsi della disgrazia che aveva colpito la sventurata fanciulla.

È così che, mentre il buon cuore di George e il suo fedele amico e saggio

consigliere Dobbin avevano riportato il fuggitivo ai piedi di Amelia, i genitori e

le sorelle del promesso sposo stavano architettando in suo favore un

«magnifico» matrimonio, senza prendere nemmeno lontanamente in

considerazione l'ipotesi che lui potesse dissentire.

Quando il vecchio Osborne «lasciava capire» (secondo la sua

espressione) qualcosa, nemmeno l'ultimo degli imbecilli avrebbe potuto

fraintendere ciò che voleva. Dare una pedata a un domestico o farlo ruzzolare

giù per le scale, significava che intendeva licenziarlo. Così, con la stessa

delicatezza e lo stesso gusto per la perifrasi, disse chiaro e tondo in faccia a

Mrs. Haggistoun che avrebbe firmato un assegno di cinquemila sterline il

giorno in cui suo figlio avesse impalmato la sua pupilla; e dopo averle «lasciato

capire» questa sua intenzione, ritenne di aver agito da perfetto e sottile

diplomatico. Infine fu la volta di George: gli «fece capire» quali fossero i suoi

propositi e gli ordinò di sposare senza por tempo in mezzo l'ereditiera, così

come avrebbe ordinato al suo maggiordomo di sturare una bottiglia di vino, o

al suo segretario di scrivere una lettera.

Questo tono di comando irritò profondamente George, entusiasta e felice

com'era di aver ripreso a far la corte ad Amelia, il cui affetto incondizionato lo

rallegrava intimamente. Per giunta il contrasto fra i modi e l'aspetto di Emmy e

quelli dell'ereditiera rendevano tanto più incongrua e sgradevole l'ipotesi di un

matrimonio con quest'ultima. Carrozze e palchi all'opera, pensava. Sarebbe

proprio fantastico mostrarsi in giro con una bellezza color cioccolata! Non

dimentichiamo, poi, come il giovane Osborne fosse ostinato quanto suo padre:

se voleva una cosa, era altrettanto deciso a ottenerla, e quando si inquietava

la sua violenza non era da meno di quella di suo padre nei momenti di pessimo

umore.

La prima volta in cui il padre gli lasciò intendere che avrebbe dovuto

mettere il suo cuore a disposizione di Miss Swartz, George cercò di guadagnar

tempo. «Avreste dovuto pensarci prima, signore,» disse. «Ora non è possibile:

siamo in attesa dell'ordine, ormai imminente, di partire per il Continente.

Rinviamo tutto al mio ritorno, se ritornerò.» Dopo di che si sforzò di fargli

capire che un momento come quello, mentre il Reggimento era sul piede di

partenza, non poteva essere meno adatto, che i pochi giorni (o le poche

settimane) in cui si sarebbe ancora trattenuto in patria avrebbe dovuto

dedicarli agli affari, e non a far la corte a una ragazza. Per cose del genere

avrebbe avuto tutto il tempo che voleva una volta tornato in patria col grado di

maggiore. «Sì,» aggiunse con aria soddisfatta, «vi prometto che un giorno o

l'altro la "Gazette" riporterà il nome di George Osborne.»

Il padre rispose facendo leva sulle informazioni ricevute alla City: se

George avesse perso del tempo prezioso, qualcuno nel West End ne avrebbe

approfittato per circuire l'ereditiera. Anche se non poteva sposare Miss Swartz

subito, doveva fidanzarsi con lei senza por tempo in mezzo. Il matrimonio

poteva benissimo esser celebrato al ritorno (a parte il fatto che, potendo

disporre di diecimila sterline all'anno standosene tranquillamente a casa, era

da imbecilli andare in guerra e mettere a repentaglio la propria vita).

«Quindi vorreste che venissi segnato a dito come un pusillanime e

sareste disposto a vedere il nostro nome disonorato solo per assicurarci il

denaro di Miss Swartz?»

Il vecchio fu profondamente colpito da questa osservazione; ma doveva

pur rispondere qualcosa, e siccome non era solito derogare dalle sue decisioni,

rispose al figlio: «Domani pranzerai a casa, ed ogni volta che Miss Swartz sarà

da noi ti troverai qui per porgerle i tuoi omaggi. Se ti servono quattrini, puoi

benissimo andare da Chopper.» Ed ecco che un nuovo ostacolo ostruiva la

strada di George intralciando i suoi progetti nuziali con Amelia, dei quali lui e

Dobbin avevano segretamente discusso in disparate occasioni.

Conosciamo già quel che ne pensava Dobbin circa la linea di condotta che

George avrebbe dovuto seguire. Quanto a Osborne, una volta presa una

decisione, qualsiasi impedimento gli si parava dinanzi non faceva che render

più ferma la sua determinazione.

Il bruno oggetto della cospirazione messa in atto dai principali membri

della famiglia Osborne era, dal canto suo, affatto all'oscuro dei progetti che

venivano tramati a suo riguardo (progetti che, circostanza invero assai strana,

Mrs. Haggistoun le aveva sottaciuto). Pertanto continuava a scambiare i

complimenti e l'adulazione di cui era oggetto da parte delle Osborne come

attestazioni di un sentimento d'affetto veramente spontaneo, ed essendo

(come già abbiamo avuto modo di osservare) di temperamento espansivo e

passionale, replicava alle smancerie delle ragazze con ardore veramente

tropicale. Del resto, per esser sinceri fino in fondo, anche lei aveva trovato

qualcosa di attraente nella casa di Russell Square: in una parola, le sembrava

che George fosse un giovanotto molto simpatico. Le sue basette avevano fatto

breccia nel suo cuore fin dalla prima sera in cui le aveva viste al ballo degli

Hulcker, e come ben sappiamo non era la prima ad esserne stata affascinata.

George aveva quell'espressione al tempo stesso arrogante e melanconica,

languida e altera... Dava l'impressione di esser uomo dalle passioni segrete,

dalle avventure e dai dolori nascosti. E poi aveva quella voce roca e profonda...

Sapeva dire che faceva tanto caldo quella sera, oppure offrire un gelato alla

sua partner di ballo in tono mesto e confidenziale, quasi le stesse dando notizia

della morte di sua madre, o si apprestasse a farle una dichiarazione d'amore.

Passava da conquistatore in mezzo alla fitta schiera di giovanotti alla moda

dell'ambiente cui apparteneva suo padre, e tra queste figure affatto mediocri

gli era facile primeggiare. Alcuni di costoro lo odiavano; altri lo schernivano;

altri ancora, come Dobbin, lo ammiravano senza riserve, e i suoi mustacchi

avevano cominciato ad esercitare il loro fascino e a fare breccia nel cuore di

Miss Swartz.

Ogni qual volta si presentava l'occasione d'incontrarlo in Russell Square,

quella semplice e cordiale fanciulla si affrettava a correre in casa delle sue

amiche Osborne. Spendeva un mucchio di quattrini in abiti, braccialetti,

cappelli e vistosissime piume. Faceva appello a tutta la sua abilità per

adornarsi e piacere a colui che l'aveva conquistata, e metteva in atto tutto il

modesto patrimonio dei suoi vezzi per assicurarsene i favori. Le ragazze con la

massima compunzione la supplicavano di cantare, e lei cantava le tre canzoni

che conosceva, di buon grado suonava al pianoforte i tre brani che conosceva

ogni qual volta le venivano richiesti, ed ogni volta ci provava più gusto.

Durante questi piacevoli trattenimenti, Miss Wirt e Mrs. Haggistoun stavano in

disparte, a discorrere su un canapè.

Il giorno successivo a quello in cui il padre gli aveva «fatto capire» i suoi

propositi, un po' prima di pranzo George se ne stava seduto su un divano in un

atteggiamento alquanto languido e malinconico che riusciva oltremodo

attraente e spontaneo. Era stato da Mr. Chopper nella City, seguendo il

suggerimento del padre il quale, pur concedendogli senza batter ciglio somme

ragguardevoli, non gli aveva mai voluto assegnare un vero e proprio mensile e

gli accordava del denaro di tanto in tanto, a suo piacimento; poi era stato a

Fulham e aveva trascorso tre ore con la sua cara piccola Amelia, e finalmente

era rientrato a casa dove, in salotto, aveva trovato le sorelle in crinolina

sorretta da un guardinfante, le due vecchie dame che cianciavano in un angolo

appartato e la brava Miss Swartz vestita del suo prediletto color ambra, oltre

che adorna di braccialetti di turchese, anelli a profusione, fiori, piume e ogni

sorta di fronzoli: sembrava uno spazzacamino alla Festa di Maggio.

Le ragazze, dopo aver tentato invano di indurlo a prender parte alla

conversazione, cominciarono a parlare fra loro di moda e a far pettegolezzi, al

punto da nausearlo con le loro stupide chiacchiere. George paragonava il loro

contegno a quello di Emmy; le loro voci ciangottanti alla sua tenera vocina; le

loro smancerie, i loro gemiti e la loro affettazione con le sobrie movenze e la

soave grazia di lei. La Swartz sedeva nella poltrona ove un tempo era solita

sedere Emmy: teneva le mani cariche di gioielli raccolte in grembo, sul vestito

di raso color ambra, le spille e gli orecchini che baluginavano mentre lei girava

gli occhi tondi per la stanza. Era felicissima di starsene lì a far nulla, e

sicurissima di esercitare su tutti un fascino irresistibile. Le Osborne non

avevano mai visto nulla che le stesse meglio del raso.

«Maledizione!» avrebbe detto George più tardi, parlando in confidenza

con un amico. «Sembrava una bambola di porcellana, di quelle che passano la

loro giornata a sorridere e a scuoter la testa. Per Giove, Will, non so proprio

che cosa mi abbia trattenuto dal tirarle addosso uno dei cuscini del divano!»

Per fortuna era riuscito a trattenersi...

Le sorelle cominciarono a suonare The Battle of Prague. «Piantatela con

quella lagna, accidenti!» urlò George dal suo divano, furibondo. «Mi fa

impazzire. Suonateci voi qualcosa, Miss Swartz, cantate qualcosa, qualsiasi

cosa. Basta che non sia The Battle of Prague

«Devo cantare Blue-Eyed Mary? O preferite l'aria del Cabinet?» chiese la

Swartz.

«Oh, sì, l'aria del Cabinet! È deliziosa!» esclamarono le sorelle.

«Ma se l'abbiamo già sentita!...» esclamò in tono di noia irritata il

misantropo seduto sul divano.

«Potrei cantare Fluvy du Taji,» propose Miss Swartz in tono molto umile,

«però non ricordo le parole.» Era l'ultima canzone entrata nel suo repertorio.

«Oh, Fleuve du Tage,» esclamò Miss Maria, «l'abbiamo, l'abbiamo.» E

corse a cercare l'album nel quale si trovava la canzone.

Il caso volle che quella canzone, allora in gran voga, fosse stata regalata

alle Osborne da una loro giovane amica la quale aveva scritto il proprio nome

sul frontespizio. Fu così che Miss Swartz, quand'ebbe terminato il suo brano tra

gli applausi di George (il quale rammentava come Fleuve du Tage fosse una

delle canzoni predilette da Amelia) e sperava nella richiesta di un bis,

sfogliando a caso le pagine dell'album posò per un istante lo sguardo sul titolo

e vide scritto in un angolo «Amelia Sedley».

«Mio Dio!» esclamò rigirandosi con moto subitaneo sullo sgabello del

pianoforte. «Ma questa è la mia Amelia! Sì, sì, è lei, la mia compagna di studi

da Miss Pinkerton, a Hammersmith! Ma certo, è proprio lei! Oh, parlatemi di

lei, ve ne prego!»

«Non devi nemmeno nominarla!» rispose Miss Maria con voce concitata,

«la sua famiglia è disonorata. Suo padre si è comportato con papà in modo

estremamente scorretto, e in quanto a lei, qui dentro non deve essere

nominata.» Questa era la risposta di Maria allo sgarbo usatole da George con

« The Battle of Prague.» «Siete amica di Amelia?» esclamò quest'ultimo

balzando in piedi. «Che Dio vi benedica, Miss Swartz. Non dovete credere una

sola parola di quanto dicono le mie sorelle. E in ogni caso a lei non va

rimproverato nulla. È la migliore...»

«Sai perfettamente che non devi parlare di Amelia,» intervenne Jane.

«Papà non vuole.»

«E chi me lo può impedire? Parlo di Amelia quando voglio, io! E ripeto

che è la migliore, la più soave fanciulla, la più gentile creatura di tutta

l'Inghilterra. E anche se suo padre è un fallito, le mie sorelle non valgono

un'unghia del suo piede. Se davvero siete sua amica, andate a trovarla, Miss

Swartz: ha bisogno di avere amici accanto a sé, in questo momento. Dio

benedica tutti coloro che le sono amici. Chiunque parla bene di lei è mio amico

e chiunque ne parla male è mio nemico. Grazie, Miss Swartz, grazie di cuore.»

E George si alzò per andare a stringerle la mano.

«George! George!» esclamò in tono implorante una delle sorelle.

«Lo ripeto ancora una volta: ringrazio chiunque sia amico di Amelia

Sed...» prese a dire George fieramente. Ma s'interruppe: in quell'istante il

vecchio Osborne era entrato nella stanza col volto livido e gli occhi simili a due

carboni ardenti.

George si era interrotto a metà di quella frase, ma sentiva ribollirglisi il

sangue e nemmeno l'intera progenie di Osborne sarebbe riuscito a piegarlo.

Pertanto si riprese subito e rispose allo sguardo incollerito del padre con un

altro così deciso e pieno di sfida, che il vecchio non seppe reggerlo e distolse

gli occhi per rivolgersi ad un'altra persona.

«Mrs. Haggistoun,» disse, sentendo che la lotta stava per avere inizio,

«permettete che vi conduca a cena. Tu, George dà il braccio a Miss Swartz,»

aggiunse, mentre si avviavano verso tavola.

«Vedete, Miss Swartz,» disse George a costei, «io ed Amelia siamo

fidanzati si può dire dalla nascita.» E per tutta la durata della cena continuò a

chiacchierare con tale brio da stupirsene lui per primo, ed ebbe l'ulteriore

effetto di accentuare vieppiù il nervosismo del padre, in vista dello scontro che

senza dubbio si sarebbe verificato non appena le signore si fossero ritirate.

La differenza tra i due uomini stava nel fatto che, sebbene il padre fosse

violento e prepotente, il figlio aveva tre volte il coraggio e la saldezza di nervi

dell'altro, ed era in grado non solo di attaccare ma di resistere a un attacco.

Avendo capito che era ormai giunto il momento in cui la disputa con suo padre

andava affrontata a viso aperto, prima che la lite avesse inizio si godette la

cena mangiando di ottimo appetito. Al contrario, il vecchio Osborne era

palesemente nervoso e bevve troppo. Mentre chiacchierava con le sue vicine di

tavola la parola gli s'inceppò, mentre l'atteggiamento freddo e sprezzante del

figlio non faceva che accentuare la sua collera. La calma con la quale George,

agitando il suo tovagliolo e piegandosi in un profondo inchino, aprì la porta per

far uscire le sorelle e Miss Swartz, lo fece quasi impazzire. E con la stessa

calma, subito dopo si versò un bicchiere di Borgogna e ne bevve un sorso

guardando suo padre con l'espressione di chi dica: «Signori della Guardia,

sparate per primi.» Anche il vecchio si rifornì di munizioni, ma la bottiglia

tintinnò urtando contro il bordo del bicchiere, mentre lui cercava di riempirlo.

Alla fine trasse un profondo respiro, e col volto cianotico quasi stesse per

scoppiare prese a dire: «Come vi permettete, signor mio, di menzionare una

persona simile nel mio salotto alla presenza di Miss Swartz? Mi avete inteso? Vi

sto chiedendo come avete osato farlo.»

«Basta così, signore,» rispose George. «E non pronunciate la parola

"osato". Non è il verbo al quale vi sia consentito ricorrere rivolgendo la parola a

un capitano dell'esercito britannico.»

«Per vostra regola a mio figlio dico quello che mi va a genio. E se mi va a

genio non gli lascio nemmeno un centesimo. Ne faccio un mendicante, se mi va

di farlo»

«È vero, sono vostro figlio,» rispose George in tono altero, «ma sono

anche un gentiluomo. Di conseguenza vi prego di dirmi tutto ciò che avete da

comunicarmi, o di darmi gli ordini che vi proponete usando il linguaggio al

quale sono avvezzo.»

Ogni qual volta il giovane assumeva quel tono albagioso, il padre era

sopraffatto da un sentimento misto di timore e di esasperazione. In segreto, il

vecchio temeva che il figlio fosse più signore di lui, e forse i miei lettori

avranno avuto modo di constatare come in questa Fiera della Vanità è

soprattutto l'uomo volgare a diffidare delle persone di qualità.

«Da mio padre io non ho avuto tutto ciò di cui voi, invece avete potuto

usufruire: istruzione, denaro e ogni altro vantaggio. Se io avessi potuto

frequentare la società che certuni, invece, hanno potuto frequentare grazie al

mio denaro, forse mio figlio non avrebbe modo di vantarsi della sua superiorità

e di permettersi quelle sue arie da West End (e il vecchio Osborne pronunciò

queste parole nel tono più sarcastico). Tuttavia ai miei tempi un gentiluomo

non si sarebbe permesso di insultare il proprio padre. Se io avessi fatto una

cosa simile, il mio mi avrebbe scaraventato giù per le scale a calci.»

«Io non vi ho affatto insultato, signore. Semplicemente, vi ho pregato di

ricordarvi che sono un gentiluomo come lo siete voi. So benissimo che mi date

un mucchio di quattrini,» continuò rigirandosi tra le mani il rotolo di banconote

che quella mattina stessa aveva ritirato da Mr. Chopper, «è difficile che possa

dimenticarmene, dal momento che me lo ricordate abbastanza spesso.»

«Vorrei che non dimenticaste altre cose,» rispose il padre. «vorrei che

ricordaste che fino a quando vi degnerete di onorare questa casa della vostra

ambita presenza, io sono il padrone, e quel nome... quel... quella che voi...

quella, dico...»

«Qualche cosa, signore?» chiese George con un vago sorriso, mentre

tornava a colmare il proprio bicchiere di borgogna.

Il padre proruppe in una bestemmia. «Quel nome, il nome dei Sedley

intendo! Il nome di quella maledetta gente non dov'essere pronunciato, in

questa casa. Mai! A nessun patto!»

«Non sono stato io a pronunciare per primo il nome di Miss Sedley,

signore. È stata mia sorella, che si è espressa sul suo conto in termini

irriguardosi parlandone a Miss Swartz. E per Giove, siate certo che io la

difenderò ovunque! Nessuno potrà permettersi di sparlare di lei al mio

cospetto! La mia famiglia l'ha già offesa abbastanza, direi, perché le sia

concesso di insevire continuando a ingiuriarla ora che è caduta in miseria.

Sono pronto a uccidere qualsiasi persona, eccetto voi, che osi dirne male.»

«Continuate, continuate pure,» disse il vecchio con gli occhi che

sembravano volergli schizzare dalle orbite.

«Continuare che cosa? A parlare del modo in cui abbiamo trattato

quell'angelo di ragazza? Chi mi ha ordinato di amarla? Non siete stato voi,

forse? Avrei anche potuto sceglierne un'altra, magari di estrazione sociale

superiore alla nostra. E invece no: ho preferito obbedirvi. Ed ora che il suo

cuore è mio voi mi ingiungete di buttarlo, di castigarla, fors'anche di

condannarla a morte! E tutto questo per colpe commesse da altri! È

vergognoso!» esclamò George riscaldandosi sempre più a mano a mano che

procedeva nel discorso. «È indegno venir meno alla parola data a una fanciulla

che è un angelo: una fanciulla che è di gran lunga superiore alle persone in

mezzo alle quali vive, e certo susciterebbe l'invidia generale se non fosse

anche così dolce, così garbata. Davvero non riesco a capacitarmi come

qualcuno possa odiarla. Se io l'abbandonassi, signore, credete forse che lei

saprebbe dimenticarmi?»

«In casa mia non voglio sentire queste stupidaggini, questi maledetti,

stupidi sentimentalismi!» strillò il vecchio. «Nella mia famiglia, niente

matrimoni con dei pezzenti! Se preferite sacrificare ottomila sterline all'anno,

siete liberissimo di farlo. Ma in tal caso, per Giove, non avete da fare che una

sola cosa: prender la vostra roba e andarvene. Una volta per tutte, signor mio:

volete obbedire e fare quello che dico, oppure no?»

«Sposare quella mulatta?» chiese George tirandosi il colletto della

camicia. «Non mi piace il colore dei mulatti, signore. Proponetela in moglie al

negro che fa lo spazzino in Fleet Market. Io, una Venere ottentotta non la

sposo di certo.»

Con gesto frenetico Mr. Osborne tirò il cordone del campanello come

quando chiamava il maggiordomo per avere del vino; poi, col volto stravolto e

paonazzo gli ordinò di cercare una carrozza per il capitano Osborne.»

«È fatta!» esclamò George, quando un'ora più tardi entrò da Slaughter,

pallidissimo in volto.

«Che cosa, vecchio mio?» gli chiese Dobbin.

George raccontò per esteso il colloquio tra lui e suo padre.

«La sposerò domani stesso,» disse con un'imprecazione, «l'amo ogni

giorno di più, Dobbin.»

XXII • UN MATRIMONIO E UN PEZZETTO DI LUNA DI MIELE

Anche il nemico più coraggioso e tenace cede al morso della fame: per

questo il vecchio Osborne si sentiva abbastanza tranquillo circa l'esito del

burrascoso incontro col figlio che abbiamo riferito poc'anzi. In cuor suo era

convinto che, non appena George si fosse trovato a corto di quattrini, si

sarebbe arreso senza condizioni. In effetti, era seccante che il giovanotto si

fosse rifornito ben bene di denaro il giorno stesso in cui aveva avuto luogo il

loro primo litigio; ma anche quel rifornimento poteva costituire un cespite solo

temporaneo, e tutt'al più avrebbe ritardato la resa di George senza

assolutamente escluderla. Per qualche giorno padre e figlio s'ignorarono

completamente: il primo era tetro e silenzioso, ma per nulla inquieto, dal

momento che, come abbiamo detto, riteneva di avere in pugno un'arma

infallibile per piegare George e gli bastava attendere fiducioso l'esito di quella

sua tattica. Riferì alle figlie della disputa insorta fra lui e George, ma ordinò di

non dare la minima importanza alla cosa; anzi, impose che il figlio, qualora si

fosse presentato a casa, venisse accolto come se nulla fosse. Ogni giorno, a

tavola, veniva apparecchiato il suo posto, e può darsi che il vecchio anelasse

con una certa ansia di vederlo ricomparire. Ma George non si fece vedere.

Qualcuno si recò da Slaughter a chieder di lui, e seppe che tanto il capitano

quanto il suo amico Dobbin avevano lasciato Londra.

In una gelida e ventosa mattina d'aprile, mentre la pioggia percuoteva il

selciato della strada ove si trovava il vecchio Slaughter, George Osborne entrò

nella sala col volto pallidissimo e contratto. Indossava un elegante vestito blu

dai bottoni di ottone e un panciotto di pelle di daino, in conformità alla moda di

quel tempo. All'interno, già si trovava ad attenderlo l'amico Dobbin, anch'egli

in abito blu coi bottoni d'ottone. Per l'occasione aveva rinunciato alla casacca

militare e ai calzoni grigi alla francese dei quali era solito rivestire la sua

allampanata figura.

Dobbin lo attendeva da oltre un'ora. Aveva sfogliato tutti i giornali, ma

senza riuscire a leggerne una riga. Almeno venti volte aveva sbirciato

l'orologio, poi aveva posato lo sguardo sul lastricato sferzato dalla pioggia,

sulla gente che passava facendo risuonare con fragore la suola delle

soprascarpe di legno e proiettando lunghe ombre sulla strada lucente. Aveva

tamburellato con le dita sul tavolo, si era mangiucchiato le unghie fino a far

quasi sanguinare le dita, giacché aveva la deplorevole abitudine di «abbellire»

in tal modo le sue lunghe mani; aveva tentato di tenere in equilibrio il

cucchiaio da tè sull'orlo della lattiera, l'aveva rovesciata... e via dicendo.

Insomma, aveva palesato in ogni possibile modo la sua irrequietezza, e con

disperato accanimento aveva posto in atto tutti gli espedienti ai quali si ricorre

in caso di attese lunghe e snervanti.

Alcuni frequentatori del caffè, suoi commilitoni, lo burlavano a causa di

quell'insolito, elegante abbigliamento, e del suo stato di agitazione. Uno di essi,

il maggiore del Genio Wagstaff, gli domandò se stava per sposarsi. Dobbin

sorridendo gli rispose che in caso di simile lieto evento gli avrebbe mandato

una fetta della torta nuziale. Alla fine comparve il maggiore Osborne, vestito

con molta eleganza ma, come abbiamo detto, molto pallido e agitato. Si

deterse il volto con un ampio e olezzante fazzoletto di seta gialla, strinse la

mano a Dobbin, diede un'occhiata all'orologio e disse a John, il cameriere, di

portargli la bottiglia del curaçao. Quando ebbe davanti a sé il liquore, ne

tracannò più d'un bicchiere con gesti avidi e nervosi, mentre l'amico si

affrettava a informarsi sulla sua salute.

«Non ho chiuso occhio fino all'alba,» rispose George. «Ho avuto la febbre

e un dannato mal di testa. Alle nove mi sono alzato e sono andato da

Hummums a fare un bagno turco. Sai, mi sento proprio come la mattina in cui

ho fatto la sortita con Rocket a Quebec.»

«Anch'io,» disse Dobbin, «ma quella mattina ero molto più agitato di te.

Ricordo che ti eri fatto una lauta colazione. Suvvia, manda giù un boccone.»

«Sei proprio un caro amico, Dob. Proprio. Bevo alla tua salute. E

addio...»

«No, no, due bicchieri sono fin troppi. John, porta via il curaçao. Metti un

po' di pepe sulla faraona; però sbrigati perché dovremmo essere già là.»

Questo breve incontro fra i due ufficiali si svolgeva intorno alle undici e

mezzo del mattino. Da tempo, fuori del caffè attendeva una carrozza chiusa

nella quale un domestico del capitano Osborne aveva collocato i bagagli di

quest'ultimo. Dobbin e George si affrettarono ad entrarvi riparandosi con un

ombrello, mentre il domestico sedeva a cassetta imprecando contro la pioggia

e contro l'umidità che sprigionava la persona del cocchiere sistemato accanto a

lui. «Meno male,» si disse, «che davanti alla chiesa troveremo una carrozza

migliore di questa. È già qualcosa.» La carrozza percorse Piccadilly, dove a

quel tempo la Apsley House e il St. George's Hospital erano ancora in giubba

rossa, i lampioni erano a petrolio, Achille non era ancora nato, né era stato

eretto l'arco di Pimlico coronato da quell'orrendo monumento equestre che

domina tutt'attorno. Poi attraversò Brompton e giunse davanti a una piccola

chiesa nelle adiacenze di Fulham Road.

Quivi attendeva un tiro a quattro, ed una di quelle carrozze cosiddette

«di cristallo». Pioveva a dirotto, cosicché si erano raccolti ben pochi curiosi.

«Perdio, avevo detto due cavalli, non quattro!» esclamo George.

«È stato il mio padrone a volerne quattro,» rispose il domestico di Mr.

Joseph Sedley, che li stava aspettando. E mentre entravano in chiesa sul passo

dei loro padroni, tanto il servitore di Osborne quanto il lacchè di Sedley

convennero che quel matrimonio senza un ricevimento e senza nemmeno

l'ombra di un regalo era roba da miserabili.

«Ah, finalmente!» disse il nostro vecchio amico Jos facendosi avanti.

Siete in ritardo di ben cinque minuti, caro George. Che giornata orribile!

Maledizione, sembra proprio l'inizio della stagione delle piogge nel Bengala. Ma

la mia carrozza non lascia filtrare l'acqua. Venite, dunque: mia madre ed

Emmy vi stanno aspettando in sacristia.»

Jos Sedley era al massimo della sua venustà: aveva il collo della camicia

più alto del solito, e le guance accese, sopra le gale che ondeggiavano

vistosamente sulla camicia variegata. Gli stivali di vernice non esistevano

ancora, ma le belle gambe di Jos splendevano a tal punto, fasciate com'erano

dai suoi bellissimi stivali di cuoio ungherese, che sembravano proprio quelli su

cui, in una vecchia raffigurazione, un uomo si specchia nell'atto di radersi.

Sulla sua giacca verde lino spiccava una coroncina nuziale di fiori, simile a un

grande, candido fiore di magnolia.

Insomma, George aveva gettato il dado: era in procinto di sposarsi. In

ciò risiedeva la causa del suo pallore, del suo nervosismo, della sua notte

insonne, della sua agitazione mattutina. Fra quanti hanno vissuto la stessa

esperienza, molti ammettono di aver provato la stessa emozione. Dopo tre o

quattro cerimonie, ci si fa l'abitudine; ma il primo tuffo (tutti ne convengono) è

spaventoso.

La sposa - ebbe a riferirmi in seguito il capitano Dobbin - indossava un

lungo manto di seta marrone, e in testa aveva una cuffietta di paglia adorna di

un nastro rosa. Dalla cuffia pendeva un velo di pizzo bianco di Chantilly,

regalatole da Jos Sedley, suo fratello. Anche il capitano Dobbin, dopo aver

chiesto il suo consenso le aveva fatto dono di un orologio con una catena d'oro,

ed ella in quell'occasione aveva desiderato adornarsene. Quanto alla madre, le

aveva regalato l'unico gioiello che le fosse rimasto: una spilla di brillanti.

Durante il servizio religioso Mrs. Sedley, seduta in un banco, pianse

ininterrottamente, consolata da Mrs. Clapp, la padrona di casa, e dalla

cameriera irlandese. Quanto al vecchio Sedley, non aveva voluto presenziare:

le sue veci erano svolte da Jos, che pertanto accompagnò la sposa all'altare,

mentre Dobbin fungeva da testimone dello sposo.

In chiesa, oltre ai celebranti e al piccolo gruppo costituito dagli sposi, dai

testimoni e dai parenti, non c'era anima viva. I due camerieri sedevano

sdegnosi in un angolo distante. La pioggia percuoteva con fragore i vetri delle

finestre, chiaramente percepibile, nei momenti di pausa della funzione, insieme

con i singhiozzi della vecchia Sedley. Le parole del vicario echeggiavano cupe e

sonore nella chiesa deserta. Il «sì» di Osborne fu pronunciato con voce bassa e

profonda, ma nessuno udì quello di Amelia, salito dal cuore alle labbra in un

soffio impercettibile.

Terminata la cerimonia, Jos si fece avanti e diede un bacio alla sorella, e

doveva essere la prima volta che lo faceva da molti mesi a quella parte.

Quanto a George, aveva perso la sua aria smarrita ed appariva fiero e

raggiante. «Adesso tocca a te, William» disse, posando una mano sulla spalla

dell'amico Dobbin. Questi si avvicinò e sfiorò una guancia di Amelia.

Poi tutti passarono in sacristia a firmare il registro. «Dio ti benedica,

Dobbin,» disse George serrandogli la mano, mentre gli occhi gli si facevano

umidi. William annuì in segno di risposta. Era troppo emozionato per poter

parlare.

«Scrivi subito, e appena puoi vieni a trovarci,» disse George. Poi, quando

Mrs. Sedley ebbe preso congedo dalla figlia con un abbraccio isterico, gli sposi

si avviarono verso la carrozza. «Levatevi di torno, monelli!» gridò George a un

gruppetto di ragazzi che, fradici di pioggia, indugiavano davanti alla porta della

chiesetta. Mentre si dirigevano alla carrozza, la pioggia bagnò il volto degli

sposi. Le ghirlande nuziali pendevano flosce sul risvolto delle casacche dei

postiglioni. I pochi ragazzi radunatisi sul posto gridarono un evviva con scarso

entusiasmo, dopo di che la carrozza si mise in moto e partì schizzando fango

tutt'attorno.

William Dobbin rimase a guardarla dall'ingresso della chiesa, offrendo

uno spettacolo alquanto buffo ai pochi spettatori, che apertamente risero di lui;

ma egli non si curò di loro.

«Suvvia, venite a casa a prender qualcosa, Dobbin,» disse una voce,

mentre una mano grassoccia si posava sulla sua spalla. Al che il bravo giovane

smise di fantasticare, ma il capitano non aveva la minima voglia di andare a

fare un brindisi insieme con Jos Sedley.

Pertanto aiutò Mrs. Sedley a salire in carrozza insieme con le sue

accompagnatrici e a Jos, e li salutò senza aggiunger altro. Così anche la

seconda carrozza si mise in moto, salutata da un altro ironico evviva dei

monelli.

«Venite qui, ragazzacci,» disse Dobbin. Diede loro qualche sixpence e poi

s'avviò tutto solo sotto la pioggia. Dunque, era finita. Eccoli sposati e felici, se

Dio vuole. Mai, da quando era ragazzo, si era sentito così triste, così solo; e

con tutto il suo cuore dolente desiderò che quei primi giorni passassero presto,

per poterla rivedere di nuovo.

Circa dieci giorni dopo la cerimonia testé descritta, tre giovanotti di

nostra conoscenza stavano godendosi l'attraente spettacolo offerto dalla lunga

fila di verande su un lato, e dal mare azzurro sull'altro, che Brighton elargisce

ai visitatori. A volte è verso il mare baluginante di mille riverberi e punteggiato

di candide vele, con cento e cento cabi, e disposte sull'orlo del manto d'acque

turchine, che si posa lo sguardo estatico del londinese; altre volte lo sguardo

dello spettatore curioso delle cose umane trascura il paesaggio e preferisce

volgersi alle verande e alla folla.

Da una di esse giungono le note di un pianoforte, che una fanciulla dal

capo incorniciato di boccoli suona per sei ore al giorno, con gran gioia dei

vicini. In un'altra siede Polly, la graziosa bambinaia, che culla tra le braccia il

signorino Omnium: alla finestra sottostante è affacciato Jacob, il papà del

bimbetto, che fa colazione divorando contemporaneamente una pozione di

scampi e le pagine del «Times». Più in là le signorine Leery cercano con lo

sguardo i giovani ufficiali di artiglieria che certamente passeggiano su e giù

lungo la scogliera; e c'è anche qualche esponente del mondo della City,

impegnato a puntare un cannocchiale più grande di un telescopio verso il mare

aperto, onde non perdersi nemmeno un'imbarcazione da diporto o un natante

che si avvicini alla riva o se ne allontani. Ma ci è forse concesso il tempo per

descrivere Brighton? Brighton, una Napoli pulita con Lazzaroni per bene, quella

Brighton che ha sempre un aspetto allegro, vivace e variopinto come la

casacca di Arlecchino, e che al tempo della nostra storia distava da Londra

sette ore di viaggio (mentre ora bastano poco più di un'ora e mezzo), e che

potrà avvicinarsi a Londra ancor di più, a meno che Joinville non sopravvenga

a bombardarla.

«Che fior di ragazza c'è nell'appartamento sopra la modista,» disse uno

dei tre giovanotti a zonzo lungo il mare. «Per Giove, Crawley, avete visto?

Quando sono passato mi ha fatto l'occhiolino!»

«Non le spezzate il cuore, vecchia canaglia,» disse un altro dei tre, «non

scherzare col suo amore, brigante d'un Don Giovanni!»

«Suvvia!» disse Jos Sedley, tutto soddisfatto, mentre lanciava alla

servetta un'occhiata che, secondo lui, avrebbe dovuto tramortirla di piacere.

Jos, a Brighton, appariva ancora più elegante e vistoso che al matrimonio di

sua sorella. Portava certi panciotti all'ultimissima moda, così originali e

chiassosi che sarebbero bastati a dar la fama di elegantone a qualsiasi

bellimbusto di minori pretese. Indossava una giubba di taglio militare adorna di

alamari, bottoni neri, guarnizioni e greche ricamate. Da qualche tempo

indulgeva sempre più ostentatamente a queste pose militaresche. Camminava

a fianco dei suoi due amici (veri ufficiali, questi ultimi) facendo tintinnare gli

speroni, dandosi un mucchio d'arie e lanciando occhiate dense di passione a

tutte le servette che gli sembravano meritevoli della sua attenzione.

«Che cosa facciamo fino al ritorno delle signore?» chiese il nostro dandy.

Le signore avevano fatto una passeggiata sulla sua carrozza fino a

Rottingdean.

«Potremmo fare una partita a biliardo,» propose uno degli amici, quello

con le basette impomatate.

«No, no, niente biliardo, caro capitano Crawley,» rispose Jos,

spaventatissimo. «Ne ho avuto abbastanza ieri.»

«Ma se siete un ottimo giocatore!» rispose Crawley ridendo. «Non trovi,

Osborne? Quando ha beccato quelle cinque palle! Un colpo da maestro!»

«Formidabile, veramente!» confermò Osborne. «Jos al biliardo è un vero

demonio. Peccato che non ci siano tigri, da queste parti: potremmo

ammazzarne un paio prima di cena! (Guarda che bella ragazza, Jos: che

caviglie, eh?...) Raccontaci quell'episodio della caccia alla tigre, Jos, spiegaci

come hai fatto a cavarla dalla giungla. È una storia veramente esaltante,»

continuò con uno sbadiglio. «Tutto sommato ci si annoia, in questo posto. Che

cosa possiamo fare?»

«Se andassimo a vedere i cavalli che Snaffler ha appena portato dalla

fiera di Lowes?» propose Crawley.

«Oppure potremmo andare a mangiare della gelatina di frutta da Dutton.

C'è una camerierina...» disse quel brigante di Jos, nella speranza di prendere

due piccioni con una fava.

«E perché non andare invece ad assistere all'arrivo del "Lightning"? È

quasi l'ora,» disse George. Questa proposta ebbe migliore accoglienza di quelle

relative alla gelatina di frutta e ai cavalli; onde i tre si diressero verso la

stazione di posta per attendere l'arrivo del «Lightning».

Mentre s'incamminavano, incrociarono la splendida carrozza aperta di

Jos: un sontuoso veicolo adorno di un bellissimo stemma, su cui era solito

percorrere le vie di Cheltenham, guidare tutto solo, in atteggiamento pomposo,

con le braccia incrociate e il cappello sulle ventitré (ma era più soddisfatto se

aveva modo di portarvi a spasso qualche bella signora seduta al suo fianco).

In quel momento la carrozza ospitava due signore: una, piuttosto bassa

di statura, dai capelli castano chiari, vestita all'ultima moda; l'altra con un

mantello di seta marrone e una cuffietta di paglia adorna di un nastro rosa, e

un visino tondo, roseo, soffuso di felicità, che dava gioia a guardarlo. Quando

la carrozza giunse all'altezza dei tre uomini, quest'ultima fece fermare la

carrozza, ma dopo questo gesto di autorità parve vergognarsene, e arrossì al

colmo dell'imbarazzo.

«Abbiamo fatto una magnifica passeggiata, George,» disse, «ma... siamo

felici di esser di ritorno... Joseph, ti prego, non farlo tardare!»

«Non portate i nostri mariti alla perdizione, Mr. Sedley, perfido che non

siete altro,» esclamò Rebecca. E in segno di monito agitò davanti agli occhi di

Jos un ditino ricoperto da un raffinatissimo guanto di capretto francese.

«Niente biliardo, niente fumo, niente sregolatezze, mi raccomando!»

«Ma... Mrs. Crawley, vi pare! Vi giuro che...» fu tutto quanto Jos riuscì a

farfugliare a guisa di risposta. E assunse un atteggiamento vezzoso piegando il

capo da un lato con una specie di risolino rivolto alla sua vittima, mentre con

una mano si appoggiava al bastone da passeggio che teneva nascosto dietro la

schiena, e con l'altra (quella adorna del diamante) si gingillava con le gale della

camicia sotto il panciotto.

La carrozza si rimise in moto, ed egli con la mano adorna del gioiello

lanciò un bacio alle signore. Come gli sarebbe piaciuto se tutta Cheltenham,

tutta la Chowingree, tutta Calcutta lo avessero visto mentre, in compagnia di

un notissimo dandy come Rawdon Crawley, ufficiale delle Guardie, salutava

con gesto familiare una così incantevole esponente del sesso femminino!

I nostri giovani sposi avevano scelto Brighton per trascorrervi i primi

giorni di matrimonio, ed erano scesi allo Ship Inn soggiornandovi in pace e a

loro agio fin quando vi era giunto Jos. Ma non era la loro unica conoscenza.

Ecco che un giorno, di ritorno da una passeggiata sul lungomare, chi mai

incontrarono all'albergo? Nientemeno che Rebecca e consorte! Subito si

riconobbero, e senza un attimo di esitazione Becky si gettò fra le braccia

dell'amica. Crawley e Osborne si strinsero la mano con moderata cordialità, e

Becky, nel giro di poche ore, trovò il modo di far scordare a Osborne la

spiacevole discussione che avevano avuto.

«Certamente ricorderete il nostro ultimo incontro in casa di Miss Crawley.

Fui veramente scortese con voi, capitano Osborne. Mi era parso che il vostro

contegno nei confronti di Amelia non fosse dei più affettuosi. Di qui la mia

irritazione. Mi sono mostrata sgarbata, impertinente, ingrata. Me ne scuso

davvero e vi prego di perdonarmi. Rebecca gli tese la mano con una grazia così

spontanea e commovente, che Osborne non poté esimersi dallo stringerla. Miei

cari, avviene di rado che non si ottenga una cosa riconoscendo francamente e

umilmente il proprio torto. Una volta mi accadde di conoscere un tale;

degnissimo esponente della Fiera della Vanità, che usava deliberatamente

piccoli torti al prossimo per avere successivamente il destro di scusarsene. E

con quale esito? Semplicissimo: il mio amico Crocky Doyle era amato da tutti,

e se veniva giudicato impulsivo, è altrettanto vero che passava per uomo

oltremodo onesto e sincero, il più sincero che si potesse trovare. Onde anche

George ritenne sincero l'atto di contrizione di Rebecca.

Le due giovani coppie avevano infinite cose da raccontarsi, a cominciare

dai loro matrimoni. Con reciproco interesse e assoluta schiettezza si

confidarono le loro immediate prospettive per l'avvenire. Per quanto

concerneva il matrimonio di George, sarebbe spettato all'amico capitano

Dobbin renderne edotto il padre; e il giovane Osborne non nascondeva la sua

inquietudine, quando pensava alle conseguenze che avrebbe potuto suscitare

quella notizia. Per altro verso Miss Crawley, su cui riposavano le speranze di

Rawdon Crawley, non mostrava ancora di cedere. Vista l'impossibilità di

rimetter piede nella casa di Park Lane, gli affezionati nipoti l'avevano seguita

fino a Brighton, ove avevano piazzato i loro emissari davanti alla sua porta, a

montarvi la guardia in permanenza.

«Se vedessi la faccia di certi amici di Rawdon che fanno la guardia alla

nostra porta!» disse Rebecca ridendo. «Ti è mai capitato di vedere la faccia di

un creditore, mia cara? Oppure quella di un ufficiale giudiziario e del suo

assistente? Per tutta la settimana due di quei poveri diavoli non si sono mossi

dalla porta dell'erbivendolo dirimpetto a casa nostra. Non abbiamo potuto

muoverci fino alla domenica. Se la zietta non cede, che cosa sarà di noi?»

Rawdon, scoppiando a ridere ogni momento, raccontò innumerevoli

aneddoti circa l'abilità di sua moglie nello sbarazzarsi dei loro creditori. Coi

creditori, giurava Rawdon, non c'era una donna in tutta Europa che sapesse

destreggiarsi come Rebecca. Subito (o quasi) dopo le nozze aveva dovuto

impratichirsi in questo genere di schermaglie, e Rawdon aveva avuto modo di

apprezzare il valore inestimabile di una moglie del genere. Disponevano di

ampio credito, ma avevano anche un numero incredibile di conti da pagare e

pochissimo denaro liquido. Ma Rawdon si guardava bene dal lasciarsi

condizionare da una simile situazione e non perdeva il suo buonumore.

Chiunque conosca a fondo la Fiera della Vanità sa con quanta disinvoltura vi

guazzino coloro che sono impegolati nei debiti fino al collo. Non si privano di

nulla e sono sempre contenti come pasque. Prova ne sia che nell'albergo di

Brighton Rawdon e Rebecca erano ospitati nelle stanze migliori, e l'albergatore,

servendo loro il primo piatto, si piegava nell'inchino riservato ai clienti di

speciale riguardo. Rawdon, con molto sussiego, si permetteva di criticare il

vino, di far commenti poco lusinghieri sul cibo. L'aspetto altezzoso, certe

consuetudini acquisite, gli stivali, gli abiti eleganti, producono talvolta il

medesimo effetto di un pingue conto in banca.

Le due coppie di sposi si scambiavano frequenti visite nelle loro camere.

Poi, una sera, due o tre giorni dopo il loro incontro, mentre le signore

chiacchieravano fra loro, gli uomini si misero a giocare a carte. Questo

passatempo (oltre alle partite a biliardo con Jos Sedley, che subito dopo il suo

arrivo a bordo dell'elegante carrozza si era cimentato nel gioco in questione

insieme con Rawdon) avevano rimpannucciato un poco il nostro Crawley,

accordandogli certi vantaggi offerti solo dalla moneta sonante, senza di cui

talvolta anche gli spiriti più eletti non possono fare a meno.

Dunque, i tre amici andarono ad assistere all'arrivo del «Lightning»;

puntualissima, gremita dentro e sul tetto, la diligenza giunse a grande velocità

mentre echeggiava il corno del postiglione, e si fermò davanti alla stazione di

posta.

«Evviva, ecco il vecchio Dobbin!» gridò George felicissimo di vedere,

issato in cima all'imperiale, il suo caro amico che aveva rinviato sino a quel

momento la promessa visita a Brighton. «Come va, vecchio mio? Sono

felicissimo che tu sia venuto. Ed anche Emmy sarà molto lieta di vederti,»

disse Osborne stringendo calorosamente la mano di Dobbin quando questi

riuscì a districarsi e a scendere dal tetto della diligenza. Poi a voce bassa e

agitata aggiunse: «Quali nuove? Sei stato in Russell Square? Che cosa ha detto

il vecchio? Su raccontami tutto!»

Dobbin era molto pallido e grave «Sì,» rispose, «ho visto tuo padre.

Come sta Amelia? Cioè, volevo dire... come sta Mrs. Osborne? Fra poco ti dirò

tutto, ma per ora mi limito alla notizia più importante...»

«Coraggio, parla, vecchio mio...»

«Abbiamo ordine di partire per il Belgio: l'esercito al completo, le Guardie

e tutti gli altri. Heavytop ha un attacco di gotta ed è furibondo perché non può

muoversi. Sarà O' Dowd ad assumere il comando. C'imbarcheremo a Chatham

la settimana prossima.»

Quelle notizie di guerra caddero sui nostri giovani innamorati come un

colpo di fulmine, e sul volto di tutti si dipinse un'espressione grave ed assorta.

XXIII • IL CAPITANO DOBBIN CONTINUA A TESSERE LA SUA TRAMA

Quale segreto ipnotismo ha il potere di trasformare uomini solitamente

pigri, o indifferenti, o schivi, in persone sagge attive e risolute, quando si tratti

di agire nell'interesse altrui? Come Alexis, dopo qualche seduta dal dottor

Elliotson diventa insensibile al dolore, legge con la nuca, vede a miglia di

distanza, prevede ciò che avverrà la settimana successiva ed è capace di altre

azioni sorprendenti che non potrebbe assolutamente compiere in condizioni

normali, così, nelle cose di questo mondo, per magico effetto dell'amicizia il

pavido si trasforma in ardimentoso, il timido acquista fiducia in se stesso, il

pigro diventa attivo, e l'impetuoso scopre la prudenza, la ponderazione. E

come si spiega, per contro, che un avvocato non intenda occuparsi di una

causa che lo riguarda, e lo induca a chiedere l'intervento di un dotto collega?

Cosa spinge un medico, quando si sente male, a convocare un suo rivale

anziché sedersi, tirar fuori la lingua davanti alla specchiera appesa sopra il

caminetto, ed esaminarla per conto proprio, o ad autoprescriversi una

medicina, seduto alla scrivania del suo studio? A queste domande sapranno

come rispondere i miei avveduti lettori, i quali non ignorano che noi siamo al

tempo stesso creduli e scettici, arrendevoli e ostinati: decisi in tutto ciò che

riguarda gli altri, ma sempre incerti in ciò che riguarda noi stessi. Ad ogni

modo, una circostanza è indubbia: il nostro amico William Dobbin, sempre

perplesso in tutto ciò che lo concerneva di persona (al punto che, se i suoi

genitori glielo avessero chiesto, non avrebbe esitato a scendere in cucina e a

sposare la cuoca, e capacissimo, quando si trattava dei suoi interessi, di

giudicare una difficoltà insormontabile l'attraversamento di una strada) si

occupò dei casi personali di George Osborne con una dedizione e uno zelo

simili a quelli con cui il più rabbioso e avvertito egoista si sarebbe occupato dei

propri.

Pertanto, mentre George e la sua giovane consorte se ne stavano a

Brighton godendosi i primi giorni della loro luna di miele, il bravo William era

rimasto a Londra in veste di procuratore generale di George per occuparsi di

tutte le vertenze pratiche legate a quelle fresche nozze. Suo compito era quello

di andare a trovare Mr. Sedley e sua moglie, cercando di tenere il primo di

buon animo; migliorare i rapporti fra Jos e suo cognato, e fare in modo che la

posizione e la dignità di cui godeva Jos nella sua qualità di ricevitore di Boggley

Wollah valessero in certo qual modo a compensare la perdita di prestigio e di

ruolo economico patita dal padre, inducendo così il vecchio Osborne a

riconciliarsi con l'idea di quell'unione; infine doveva comunicare la notizia a

quest'ultimo nel meno indisponente dei modi.

Prima di affrontare il vecchio Osborne e farlo partecipe delle novità che

spettava a lui riferirgli, Dobbin ritenne opportuno cercare di accattivarsi la

simpatia degli altri membri della famiglia, onde avere - se appena fosse stato

possibile - tre alleate nelle sorelle di George.

In cuor loro, pensava, non possono essere in collera. Nessuna donna può

inquietarsi al cospetto di un matrimonio d'amore. Strilleranno un poco, ma poi

finiranno per sentirsi alleate del fratello, e allora tutti e tre cingeremo d'assedio

il vecchio Osborne. Così il nostro machiavellico capitano cercò di architettare

una varia gamma di espedienti e stratagemmi per rivelare alle Osborne il

segreto del fratello, naturalmente procedendo per gradi, con tutta la cautela

possibile.

Svolse una piccola indagine sugli impegni mondani della madre e venne a

sapere quali ricevimenti sarebbero stati dati durante la stagione dagli amici di

Mrs. Dobbin, e dove avrebbe avuto maggiori probabilità d'imbattersi nelle

sorelle di George; e sebbene Dobbin, non diversamente da tanti uomini di

buon senso, detestasse le feste da ballo e i trattenimenti mondani, ben presto

riuscì ad accertare che le sorelle Osborne erano invitate in casa di certi

conoscenti. Dopo essersi presentato alla festa in questione ed aver danzato

con ciascuna di loro almeno un paio di volte mostrandosi con entrambe

estremamente gentile, osò chiedere a Miss Jane Osborne di concedergli

qualche minuto la mattina seguente per una breve conversazione: aveva da

comunicarle, le disse, notizie di grandissima importanza.

Cosa fu a spingere Jane a fare un passo indietro, a posare istante lo

sguardo su di lui per poi chinarlo al suolo? Come mai per poco non svenne tra

le sue braccia, come sicuramente sarebbe accaduto se lui, con mossa

oltremodo opportuna e tempestiva, non le avesse pestato un piede

costringendola a ritrovare il proprio controllo? Perché parve tanto agitata

davanti a quella richiesta di Dobbin? Impossibile saperlo. Sta di fatto,

comunque, che quando l'indomani il capitano entrò in salotto, Maria non c'era

e Miss Wirt uscì dalla stanza per andare a chiamarla, onde il capitano e Jane

rimasero a tu per tu. Tacevano entrambi, cosicché il tic-tac della pendola sul

caminetto (quella adorna del gruppo col Sacrificio di Ifigenia) echeggiava in

modo quasi sfrontato.

«Splendida festa, ieri sera!» disse alla fine Miss Osborne, in tono

incoraggiante. «E... quanti progressi avete fatto come ballerino, capitano

Dobbin. Immagino che qualcuno vi abbia insegnato...» aggiunse poi con

garbata civetteria.

«Dovreste vedermi quando ballo il reel con la moglie del maggiore

O'Dowd; e quando ballo la giga... Avete mai visto ballare la giga? D'altra parte

con voi ballerebbe bene chiunque, Miss Osborne; siete bravissima in qualsiasi

danza!»

«È forse giovane e bella la moglie del maggiore?» chiese la vezzosa

interlocutrice. «Ah, dov'essere difficile essere la moglie di un militare! C'è da

stupirsi che abbiano ancora voglia di ballare, e soprattutto in questo periodo di

guerra. Vi confesso, capitano Dobbin, che quando penso ai pericoli che corre il

nostro George, ai rischi cui si trova esposto un povero militare, mi vien da

tremare. Sono molti gli ufficiali sposati nel ...mo Reggimento, capitano

Dobbin?»

«Parola mia, sta giocando a carte troppo scoperte,» bisbigliò la Wirt. Ma

questa breve osservazione, pronunciata a titolo di intermezzo, non venne udita

attraverso lo spiraglio della porta dietro la quale la governante spiava la

coppia.

«Proprio di recente uno dei nostri ufficiali si è sposato,» rispose Dobbin

cogliendo la palla al balzo. «Era un amore che durava da molti anni e i due

coniugi non hanno un centesimo.»

«Oh, che cosa deliziosa, che cosa romantica!» esclamò Miss Jane,

nell'udire il capitano parlare di amore «che durava da molti anni» e di

quell'assoluta povertà. Questa calorosa partecipazione all'evento incoraggiò il

capitano.

«È, il migliore del reggimento,» continuò Dobbin. «In tutto l'esercito non

ce n'è un altro bello e ardimentoso quanto lui. Anche la sposa, del resto, è

graziosissima. Sono certo che vi piacerà moltissimo, quando la conoscerete,

Miss Osborne!»

Jane pensò che fosse ormai giunto il momento; che il nervosismo di

Dobbin (chiaramente rivelato dalle contrazioni del volto, dai brevi colpi che il

suo piede batteva sul pavimento dai gesti concitati coi quali si abbottonava e

sbottonava la giubba) fosse dovuto semplicemente al fatto che il capitano non

riusciva ancora a trovare il coraggio per spiegarsi del tutto. Di conseguenza si

apprestò, trepidante, ad ascoltarlo. E siccome proprio in quel momento la

pendola col gruppo di Ifigenia si preparava, dopo una convulsione preliminare,

a battere dodici colpi, all'ansiosa zitella quei rintocchi parvero durare fino

all'una, tanto le sembrarono lunghi «Ma non è di matrimoni che sono venuto a

parlare... o meglio, di quel particolare matrimonio... cioè, volevo dire... cara

Miss Osborne, si tratta del nostro caro amico George,» riuscì a profferire

Dobbin.

«Di George?» rispose la ragazza, esternando così palesemente la propria

delusione che dietro la porta Maria e Miss Wirt scoppiarono a ridere, e persino

quel mascalzoncello di Dobbin fu tentato di sorridere, poiché non era del tutto

all'oscuro della situazione. Spesso infatti George lo aveva preso in giro

dicendogli: «Maledizione, Will, ma perché non ti sposi la vecchia Jane. Se glielo

proponessi, non esiterebbe ad accettare: scommetto cinque contro due che ti

accetta.»

«Sì, di George,» continuò Dobbin. «Tra lui e Mr. Osborne c'è stato uno

screzio; ma io nutro per lui la massima stima; siamo sempre stati come due

fratelli, perciò mi auguro di tutto cuore che tutto possa appianarsi. La nostra

partenza per il fronte è ormai imminente, Miss Osborne, l'ordine può giungere

da un momento all'altro. Il campo di battaglia, lo si sa, è un'incognita... Per

carità, non è il caso che vi agitiate, Miss Osborne, tuttavia vorrei che padre e

figlio si congedassero l'uno dall'altro da bravi amici.»

«Non c'è stato nessuno screzio, capitano,» disse Jane. «Si è trattato

piuttosto di una delle solite scenate di papà. Papà agisce soltanto per il bene di

George: basterebbe che lui tornasse e tutto si aggiusterebbe per il meglio, ne

sono certa. Come sono certa che avrebbe il perdono della nostra cara amica

Rhoda, che se n'è andata di qui rattristata e in collera. Le donne, capitano,

hanno forse un difetto: sono sempre disposte al perdono!»

«Voi siete un angelo, e lo fareste certamente,» replicò Dobbin, con

crudele astuzia. «D'altro canto nessun uomo potrà mai perdonarsi di far

soffrire una donna. Voi cosa provereste, se un uomo vi fosse infedele?»

«Morirei... mi getterei dalla finestra... mi avvelenerei... soffrirei, morirei,

ne sono certissima,» proruppe la donzella, la quale era passata attraverso due

o tre delusioni d'amore senza che mai un pensiero del genere le avesse

sfiorato il cervello.

«Ebbene,» continuò Dobbin, «esistono altre fanciulle non meno felici di

voi, e dotate di pari sensibilità. Non alludo a quell'ereditiera delle Indie

Occidentali, Miss Osborne, ma ad una povera fanciulla che George ha sempre

amato, e che sin dall'infanzia è cresciuta nella convinzione di dover votare a lui

i suoi più teneri pensieri. L'ho vista prostrata dalla miseria, ma incapace di

lamentarsene. Tuttavia ha il cuore spezzato, ed è del tutto innocente. Mi

riferisco a Miss Sedley. Cara Miss Osborne, mi rifiuto di pensare che un cuore

generoso come il vostro possa mettersi in urto con vostro fratello per esserle

stato fedele. Credete forse che la sua coscienza gli avrebbe dato requie se lui

l'avesse abbandonata? Vogliate conservarle la vostra amicizia; lei, dal canto

suo, vi ha sempre voluto bene. Io... io sono appunto venuto per incarico di

George; per dirvi ch'egli considera un sacro dovere il fidanzamento con Amelia,

e per scongiurarvi di essere solidale con lui.»

Quando Dobbin era in preda a una forte emozione, dopo un attimo

d'incertezza rivelava una sorprendente facondia. Del resto, s'intuiva che, in

quell'occasione, la sua eloquenza aveva prodotto un certo effetto sulla sua

interlocutrice.

«Ma...» rispose quest'ultima... «si tratta di una cosa molto... molto

sorprendente... penosa, davvero inconcepibile... Papà dirà che George ha

sprecato la straordinaria occasione che gli si era offerta... Nondimeno riconosco

ch'egli ha trovato in voi un coraggioso paladino, capitano Dobbin. Anche se non

può essergli di grande utilità,» concluse dopo una pausa. «Credetemi, provo

per Miss Sedley una pena sincera. Nondimeno, pur essendo sempre stati gentili

con lei, non abbiamo mai visto di buon occhio il suo matrimonio con mio

fratello, e papà non darà mai il suo consenso, ne sono assolutamente certa.

Senza contare che una ragazza di buona educazione, e con la testa sulle spalle,

deve... voi mi capite... deve rendersi conto... È necessario che George rinunci

ad Amelia, caro capitano; deve proprio farlo.»

«Dunque, un uomo dovrebbe abbandonare la donna amata nel momento

in cui questa è colpita dalla sventura?» chiese Dobbin porgendo la mano alla

ragazza. «È proprio questo il vostro consiglio, Miss Osborne? Cara Miss

Osborne, voi dovete esserle amica, George non può lasciarla. Secondo voi, un

uomo dovrebbe lasciarvi se voi foste povera?»

Questa domanda insinuante turbò Miss Jane, che accusò il colpo. «Mi

domando,» rispose «se noi donne si debba credere a tutto ciò che dite voi

uomini. Il cuore femminile è molto vulnerabile, e pecca facilmente di soverchia

credulità. Temo che voi siate dei perfidi ingannatori...» E su queste parole

Dobbin avvertì nettamente la mano di Jane che stringeva la sua.

Allarmato, la lasciò cadere. «Ingannatori, voi dite! Ebbene, no, miss

Osborne, non tutti gli uomini meritano un simile epiteto. Vostro fratello meno

che meno. George ama Amelia sin da quando era bambino e nessuna ricchezza

potrebbe mai indurlo a sposare un'altra. Dovrebbe abbandonarla? Osereste

dargli un consiglio del genere?»

Cosa avrebbe potuto rispondere Miss Jane, tenuto conto dei pensieri che

in quel momento aveva per la testa. Non poteva rispondere in modo esplicito a

quella domanda, onde per aggirare il discorso uscì a dire: «Se non siete un

ingannatore, certo siete dotato di un temperamento molto romantico,

capitano.» Dobbin non volle o non seppe ribattere.

Finalmente, quando ritenne, grazie all'ausilio di altri discorsi gentili, che

Miss Osborne fosse adeguatamente preparata ad accogliere la notizia per

intero, gliela riversò nell'orecchio: George non poteva assolutamente

abbandonarla, cosicché l'ha sposata. Dopo di che raccontò nei dettagli il

matrimonio; riferì come la povera ragazza sarebbe morta di dolore se il suo

fidanzato non avesse mantenuto la parola data; come il vecchio Sedley non

avesse accondisceso a quelle nozze, circostanza che aveva reso necessario

procurarsi una licenza matrimoniale; come Jos fosse venuto appositamente da

Cheltenham per condurre la sposa all'altare, e come si fossero poi recati a

Brighton in luna di miele col tiro a quattro di quest'ultimo; e come George

facesse affidamento sulle dilette sorelle per riconciliarsi col padre, nella

certezza che loro, donne affettuose e fedeli, sarebbero state pronte a

intervenire a suo favore. Infine chiese il permesso (ottenendolo all'istante) di

tornare a trovarla, e ritenendo, non senza fondamento, che le notizie da lui

recate sarebbero state comunicate alle altre signore nel giro di pochi minuti, si

piegò in un inchino e prese congedo.

Non aveva ancor messo piede fuori di quella casa che Miss Maria e Miss

Wirt si precipitarono verso Miss Osborne, la quale rivelò per intero la segreta

notizia. Ebbene: rendiamo atto alle due sorelle che né l'una né l'altra si dolsero

troppo della cosa. È raro che una donna provi un autentico moto d'indignazione

perché due giovani fuggono col proposito di sposarsi, e in loro crebbe

l'ammirazione per Amelia, dato il coraggio di cui aveva dato prova

acconsentendo a un'unione del genere. Mentre commentavano diffusamente

tra loro la notizia, e soprattutto si domandavano cosa avrebbe detto e fatto il

loro padre, un colpo fragoroso come l'esplodere di un tuono d'estate venne

battuto alla porta, facendo sussultare le cospiratrici. Sarà papà, pensarono. Ma

non era lui, bensì Mr. Bullock, che giungeva apposta dalla City per condurle a

un'esposizione floreale, com'era stato precedentemente convenuto.

Com'è logico, il signore non tardò molto ad esser messo al corrente di

quel segreto Ma nell'apprenderlo il suo volto espresse uno stupore d'indole

assai diversa dall'estatica e sentimentale meraviglia che era affiorata sul viso

delle due Osborne. Mr. Bullock era un uomo di mondo, uno dei soci più giovani

di una banca assai importante, sapeva attribuire al denaro il suo giusto valore.

Per questo un vago sentimento d'ansia e di piacere illuminò i suoi occhietti e lo

indusse a sperare che, grazie al gesto inconsulto di George, la sua Maria

poteva valere trentamila sterline di più di quanto avesse mai sperato di

ottenere sposandola.

«Perdio, Jane,» esclamò, osservando anche la sorella maggiore con

rinnovato interesse. «Adesso Eels recriminerà di avervi piantato. Forse ora

siete un'ereditiera da cinquantamila sterline!»

Fino a quel momento le due sorelle avevano mentalmente ignorato il

fattore denaro; ma durante l'intera passeggiata mattutina Bullock continuò a

solleticarle sull'argomento con una sorta di grazia mista ad arguzia, e quando

rientrarono a casa per il pranzo sentirono di avere ormai un più elevato

concetto di sé. Il mio distinto lettore si guardi bene dal protestare, sostenendo

che tanta avidità, tanto egoismo sono contro natura. Stamani stesso, mentre

di ritorno da Richmond venivano sostituiti i cavalli della diligenza, il cronista di

questa storia, che sedeva sull'imperiale, ha posato l'occhio su tre frugolette

che, sporche luride ma felici, giocavano diguazzando in una pozzanghera. A

costoro poco dopo si avvicinò una quarta. « Polly,» disse, « tua sorella ha un

penny.» Subito le tre si alzarono e andarono a rendere omaggio a Peggy.

Mentre la diligenza si rimetteva in moto, scorsi Peggy che, seguita dalla scorta

delle tre bimbette, s'avviava con molta dignità verso la bancarella della

venditrice di dolciumi.

XXIV • MR. OSBORNE PRENDE LA BIBBIA DI FAMIGLIA

Dopo aver preparato le sorelle nel modo testé riferito, Dobbin si affrettò

a recarsi nella City per accingersi ad assolvere la parte restante dell'impegno

che si era assunto, ed anche la più gravosa.

Il pensiero di trovarsi a tu per tu col vecchio Osborne lo innervosiva

alquanto, e più di una volta fu tentato di lasciare che fossero le ragazze a

rivelare il segreto al padre, dal momento che non avrebbero saputo tenerlo a

lungo per sé, di questo erano certe. Ma aveva promesso di riferire a George le

reazioni del vecchio al momento in cui avesse appreso la notizia. Di

conseguenza si recò nell'ufficio di suo padre in Thames Street, e di lì inviò a

Mr. Osborne un biglietto, nel quale gli esternava la propria intenzione di

parlargli di George e chiedendogli, a tale scopo, mezz'ora di conversazione.

La persona inviata da Dobbin col suo messaggio fece ritorno dallo studio

di Mr. Osborne recando gli ossequi di quest'ultimo, il quale si dichiarava

felicissimo di ricevere senza indugio il capitano. Di conseguenza Dobbin non

perse altro tempo e si avviò per affrontarlo.

Entrò negli uffici di Mr. Osborne con espressione contrita e passo incerto:

quel segreto quasi peccaminoso che celava in seno e la prospettiva di

quell'abboccamento sicuramente sgradevole e tempestoso giustificavano la sua

agitazione. Quando attraversò il primo locale ove si trovava Mr. Chopper, e

questi gli elargì un saluto vivace e cordiale, si sentì ancora più desolato. Ma

Chopper gli fece l'occhiolino; poi con un cenno del capo e della penna gli indicò

la porta del capo dicendogli in tono baldanzoso e irritante: «Il capo è in gran

forma, vedrete!»

Osborne si alzò, strinse con calore la mano di Dobbin e con una

espansività che accentuò il senso di colpa dell'ambasciatore di George gli disse:

«Come state ragazzo mio?» La mano del capitano giacque inerte nella stretta

di quella del vecchio. Aveva la sensazione di esser lui, in misura più o meno

accentuata, la causa di quanto era avvenuto. Era stato lui, infatti, a riportare

George da Amelia; era stato lui ad approvare, a incoraggiare, si potrebbe quasi

dire a celebrare le nozze che ora si accingeva a rivelare al padre di George. E

questi, peraltro, lo accoglieva col più garbato e sorridente dei benvenuto; lo

chiamava con l'appellativo di «ragazzo mio» battendogli una manata sulla

spalla. Logico che l'ambasciatore, imbarazzato, chinasse lo sguardo al suolo.

Osborne non aveva dubbi: era certo che Dobbin venisse ad annunciargli

la resa del figlio. Quando era sopraggiunto l'inviato di Dobbin, Chopper e il suo

principale stavano appunto parlando della discussione avvenuta tra George e il

padre, ed entrambi erano convinti che George volesse fare atto di contrizione.

Entrambi attendevano da giorni quel momento. «Buon Dio, Chopper,

faremo un matrimonio coi fiocchi!» aveva esclamato Mr. Osborne in tono di

trionfo, facendo schioccare le dita e tintinnare le ghinee e gli scellini nella

saccoccia rigonfia.

Ripetendo l'operazione in entrambe le tasche, Osborne dalla sua sedia

guardava Dobbin che gli sedeva di fronte, tetro in volto e silenzioso. Al

contrario il vecchio aveva dipinta in viso un'espressione soddisfatta e di

compiaciuta pregustazione. «Per essere un capitano dell'esercito è un fior di

zotico,» pensava il vecchio. «George avrebbe dovuto insegnargli cosa siano le

buone maniere.»

Alla fine Dobbin si fece coraggio e prese a parlare. «Vi porto notizie

molto gravi, signore,» disse. «Stamani sono stato al comando delle Guardie a

cavallo e ho saputo che il nostro reggimento deve trasferirsi in Belgio. La

notizia è di fonte sicura. Partiremo entro la settimana, e come voi sapete non

torneremo in patria prima di una battaglia nella quale molti di noi potrebbero

perdere la vita.»

Osborne assunse un'espressione grave: «Mio fi... il reggimento farà il suo

dovere, oso sperare.»

«I francesi sono molto forti,» continuò Dobbin. «Ci vorrà parecchio

tempo prima che i russi e gli austriaci possano inviare le loro truppe in una

località tanto lontana, signore. Il primo urto dovremo sostenerlo da soli, e

Boney farà di tutto per darci del filo da torcere.»

«Che cosa vorreste dire?» chiese il vecchio, aggrottando le sopracciglia e

cominciando a manifestare un certo disagio.

«Voglio sperare che nessun inglese abbia paura di quei maledetti

francesi, sì o no?»

«Volevo solo dire che prima della nostra partenza, e in vista del grave

pericolo che senza dubbio incombe su ciascuno di noi, se per caso vi fosse

qualche malinteso fra George e voi, ebbene... sarebbe giusto che vi stringeste

la mano: non vi pare? Se dovesse accadergli qualcosa, sicuramente non vi

perdonereste di esservi separato da lui senza aver prima sanato i vostri

contrasti.»

Mentre parlava, Dobbin arrossiva; era convinto di essere un vero e

proprio traditore. Se non fosse stato per causa sua, forse tra padre e figlio non

sarebbe nato il minimo dissapore. Forse avrebbe dovuto indurre George a

rinviare il matrimonio. Era proprio indispensabile tanta urgenza? Sapeva che

George avrebbe saputo sopportare senza sforzo soverchio la separazione da

Amelia, e forse anche Amelia avrebbe saputo riprendersi dall'amara delusione

di averlo perduto. Invece, proprio per aver seguito il suo consiglio erano giunti

al matrimonio, con tutte le conseguenze che fatalmente ne sarebbero derivate.

E perché era avvenuto tutto ciò? Perché lui l'amava, e amandola non

sopportava di vederla infelice; o fors'anche perché la sofferenza che lui,

Dobbin, provava in quello stato di perenne incertezza era così frustrante da

essere addirittura intollerabile. Per questo aveva voluto allontanarla al più

presto, proprio come si desidera affrettare i funerali quando ci viene a mancare

una persona cara. E quando ci si deve separare da una persona cara, non si

riesce ad aver pace fino a quando la partenza non è avvenuta.

«Siete una brava persona, William,» disse il vecchio Osborne con voce

raddolcita.» In effetti non è giusto che io e George ci separiamo in collera l'uno

contro l'altro. Ebbene, statemi a sentire: per lui ho fatto tutto ciò che un padre

può fare per un figlio. Sono certo di avergli accordato il triplo del denaro che

vostro padre vi abbia dato nel corso di tutta la vostra esistenza, eppure mi

guardo bene dal vantarmene. Né dirò quanto abbia sgobbato per lui, quanto

abbia messo in pratica tutte le mie risorse ed energie a suo vantaggio.

Chiedetelo a Chopper. Chiedetelo a lui stesso. Chiedetelo nella City. Ora gli ho

proposto un matrimonio del quale qualsiasi aristocratico inglese andrebbe

fiero. È la sola cosa che gli abbia mai chiesto, e lui rifiuta. Ho forse torto? Sono

forse io ad aver suscitato il litigio? Che cosa voglio se non il suo bene, per il

quale ho lavorato tutta la vita come un negro? Chi oserebbe darmi dell'egoista?

Che venga pure, desidero rivederlo e dirgli: stringiamoci la mano,

perdoniamoci e dimentichiamo ogni rancore. Quanto al matrimonio, non è

certo il caso di celebrarlo ora. Basta che lui e Miss Swartz si mettano

d'accordo: ci penseremo alla fine della campagna, quando lui ritornerà col

grado di colonnello. Certo che diventerà colonnello, perdio, se i soldi varranno

ancora qualcosa. Sono contento che lo abbiate indotto a riflettere. So che più

di una volta lo avete tolto voi dai pasticci, caro Dobbin. George può dunque

venire, non mi mostrerò duro con lui. Perché oggi stesso non venite a pranzo

tutti e due in Russell Square? Alla solita ora, nella solita vecchia casa. Ci sarà

dell'ottima selvaggina e nessuno vi farà delle domande.»

Il cuore di Dobbin fu profondamente colpito dalle parole di lode del

vecchio e dalle sue attestazioni di fiduciosa confidenza. E a mano a mano che

la conversazione procedeva su quel tono egli sentiva aumentare quel suo

sentimento di colpevolezza.

«Signore» disse, «temo che vi facciate delle illusioni. Sì temo proprio che

v'inganniate. George ha un animo troppo nobile per piegarsi a un matrimonio

suggerito dal denaro. D'altro canto, se minacciaste di diseredarlo qualora

disobbedisse ai vostri ordini, non fareste che accentuare la sua resistenza.»

«Maledizione, non chiamerete minaccia offrirgli otto o diecimila sterline

all'anno, spero!» continuò Mr. Osborne imperterrito nel mantenere il suo

ottimo umore. Caspita, se Miss Swartz mi volesse, non opporrei certo delle

difficoltà perché ha la pelle un po' scura!» E il vecchio proruppe in una risata

volgare accompagnata dall'espressione sardonica di chi la sa lunga.

«Voi, signore, dimenticate i precedenti impegni che vostro figlio si era

assunto,» disse l'ambasciatore in tono grave.

«Quali impegni? Cosa diavolo intendete dire? Non vorrete dire,» continuò

Mr. Osborne nella cui mente per la prima volta si affacciava un simile pensiero,

accentuando di momento in momento il suo stupore e la sua collera, «non

vorrete dire che è così maledettamente imbecille da correre ancora dietro alla

figlia di quel vecchio imbroglione fallito? Non sarete venuto a dirmi, spero, che

vuole sposare quella donna? Sposare quella là! Bella idea davvero! Mio figlio, il

mio erede; sposare la figlia di uno straccione, una che viene dai bassifondi! Se

lo farà, può anche andare ad impiccarsi! Si comperi una scopa e vada a fare lo

spazzino! Sì, sì, me ne ricordo benissimo: lei gli è sempre corsa appresso, gli

ha sempre fatto mille moine: senza dubbio seguiva le istruzioni di quella buona

lana di suo padre.»

«Non dimenticatevi che Mr. Sedley intratteneva con voi rapporti di

amicizia,» disse Dobbin, quasi piacevolmente sorpreso di constatare che il

vecchio si andava irritando sempre più. «In altri tempi voi vi riferivate a lui con

epiteti assai diversi da mascalzone e imbroglione, così come siete stato voi a

combinare quel matrimonio... George non aveva il diritto di venir meno alla

parola data!»

«Venir meno alla parola data!» urlò il vecchio Osborne. «Venir meno! Ma

queste, maledizione, sono le parole che ha usato quindici giorni fa questo bel

signorino quando si vantava di essere un ufficiale inglese e si dava un mucchio

d'arie con suo padre, che lo ha messo al mondo! Dunque siete stato voi a

montarlo, vero? Vi ringrazio davvero, capitano: a quanto pare siete voi che

volete introdurre dei pezzenti nella mia famiglia! Grazie tante!... Sposare

quella... Lui! E perché, poi, dovrebbe farlo? Sono sicuro che quella non

esiterebbe ad andare con lui anche senza essere sposata!»

«Signore,» esclamò Dobbin alzandosi in piedi, e senza più riuscire a

frenare la sua ira, «nessuno può permettersi di insultare quella signora in mia

presenza, e voi meno di ogni altro!»

«Ah, sì? Vorreste sfidarmi, a quanto pare. Ebbene, aspettate un

momento: suono il campanello e faccio portare un paio di pistole. George vi ha

mandato qui a insultare suo padre, vero?» disse Mr. Osborne dando uno

strattone al cordone del campanello.

«Mr. Osborne» disse Dobbin con un filo di voce, «voi, piuttosto, state

insultando la creatura più incantevole che esista sulla faccia della terra. Ma

fareste meglio a risparmiarvi le vostre ingiurie perché si tratta della moglie di

vostro figlio.»

Dopo di che, rendendosi conto che non avrebbe assolutamente potuto

aggiungere una sola parola, Dobbin se ne andò, mentre il vecchio si accasciava

sulla sua seggiola guardandolo con odio. In quella un impiegato, rispondendo

alla perentoria scampanellata di poc'anzi, entrò nell'ufficio; poi, mentre il

capitano Dobbin non era ancora uscito dal cortile per il quale si accedeva agli

uffici di Mr. Osborne, Chopper, senza nemmeno essersi infilato il cappello, lo

raggiunse di corsa.

«Per amor del cielo, cos'è successo?» domandò trattenendo il capitano

per la giacca. «Il capo è sconvolto. Che cos'ha fatto Mr. George?»

«Ha sposato Miss Sedley cinque giorni fa,» rispose Dobbin. «Io sono

stato testimone alle nozze e voi dovete schierarvi dalla sua parte, Mr.

Chopper.»

Il vecchio impiegato scosse il capo. «Avete portato una bruttissima

notizia,» rispose, «la peggiore che mai potesse arrivare al mio padrone. Lui

non perdonerà mai.»

Dobbin invitò Chopper a raggiungerlo più tardi nell'albergo dov'era sceso

per riferirgli gli sviluppi della situazione; poi s incamminò verso il West End,

oltremodo preoccupato per il passato e per l'avvenire.

Quella sera stessa, quando in Russell Square la famiglia Osborne si

radunò come di consueto per la cena, il padrone di casa sedette al posto

consueto; ma il suo volto era atteggiato a un'espressione così cupa da indurre

tutti al silenzio. Le sorelle e Mr. Bullock, invitato a cena, compresero

immediatamente che il vecchio sapeva tutto. Il pessimo umore di Mr. Osborne

colpì a tal punto Mr. Bullock, da renderlo estremamente queto e riservato:

anzi, fu insolitamente gentile e premuroso nei riguardi di Miss Maria, che gli

sedeva al fianco, e di Miss Jane, che si trovava a capotavola.

Di conseguenza Miss Wirt era sola dalla sua parte della tavola, perché tra

il suo posto e quello di Miss Jane Osborne ce n'era uno vacante: era il posto di

George, quando consumava i suoi pasti a casa, un posto che - come già

abbiamo detto - veniva sempre apparecchiato in attesa del ritorno dell'assente.

Durante la cena nulla, fatta eccezione per le frasi confidenziali che il sorridente

Mr. Frederick profferiva in un lieve sussurro, ruppe il silenzio di quel mesto

desinare. I domestici si aggiravano discreti e furtivi, adempiendo alle loro

mansioni: dei muti che presenziassero a un funerale non avrebbero avuto un

aspetto più deprimente. Sempre silenzioso, Mr. Osborne scalcò la selvaggina

che aveva proposto a Dobbin quando lo aveva invitato a cenare con loro;

nondimeno la sua porzione fu ritirata dal domestico quasi intatta, mentre il suo

bicchiere era sempre vuoto e venne ripetutamente colmato dal cameriere.

Poi, verso la fine del pasto, i suoi occhi che si erano posati con moto

alterno ora sull'uno, ora sull'altro commensale, si posarono per qualche istante

sul posto preparato per George. Lo indicò con un gesto della mano sinistra, e le

figlie, al pari dei domestici, a tutta prima non capirono il significato di quel

segno (o forse finsero di non capire).

«Portate via quel piatto,» ordinò. Poi si alzò profferendo una bestemmia,

respinse rumorosamente la sedia e uscì per ritirarsi nella propria camera.

Dietro la sala da pranzo c'era un locale comunemente indicato come

«studio» e religiosamente riservato a Mr. Osborne. Qui il padrone si rintanava

la domenica mattina, quando non aveva voglia di recarsi in chiesa e

trascorreva la mattinata sprofondato nella sua poltrona di velluto rosso a

leggere il giornale. C'erano anche due librerie a vetri che ospitavano opere

alquanto comuni dalle solide rilegature dorate: l'«Annual Register», il

«Gentleman's Magazine», i Sermons di Blaire e la History of England di Hume

& Smollett. Non gli accadeva mai, in qualsiasi giorno dell'anno, di togliere quei

libri dai loro scaffali, ma nessun membro della famiglia avrebbe mai osato

toccare quei volumi, anche se si fosse trattato di vita o di morte. Unica

eccezione, certe rarissime serate di domenica, quando non c'erano ospiti a

cena: in tali occasioni la grande Bibbia ricoperta di cuoio scarlatto e il Common

Prayer venivano tolti dall'angolo in cui si trovavano accanto al Peerage e,

mentre i domestici si radunavano in fila nella sala da pranzo, Osborne con voce

roca e altisonante leggeva alla famiglia le preci della sera. Nessun membro

della famiglia, fossero un bimbo o una persona di servizio, entravano mai in

quella stanza senza provare un sacro terrore. Era lì che il padrone di casa

verificava i conti della governante e controllava il registro dei vini affidato al

maggiordomo. Di là poteva inoltre sorvegliare, attraverso il cortile ricoperto di

ghiaia, l'accesso alle scuderie, collegate al suo studio per mezzo di uno dei

campanelli: quando lo suonava, imprecando dalla finestra dello studio, il

cocchiere usciva di gran carriera. Quattro volte l'anno Miss Wirt penetrava in

quel locale per ricevervi il suo stipendio, mentre le sue figlie vi accedevano per

percepirvi le loro rendite quadrimestrali. Più volte, quando era bambino,

George in quella stanza aveva subito la pena della frusta, mentre la madre,

seduta sulle scale, soffriva al sibilo di ogni sferzata. Di solito il ragazzo non

piangeva nel corso di quelle punizioni, ma la povera donna, quando usciva

dallo studio, lo copriva di carezze, lo baciava di nascosto e per consolarlo gli

regalava del denaro.

Dopo la morte di Mrs. Osborne, sopra il caminetto era stato appeso un

ritratto di famiglia che in precedenza si trovava in sala da pranzo. George vi

figurava in sella a un pony; la sorella maggiore gli porgeva un mazzo di fiori,

mentre la più piccola veniva tenuta per mano dalla madre: tutti avevano i

pomelli e le labbra rosse, e si scambiavano sguardi languidi secondo gli schemi

convenzionali dei ritratti di famiglia. Ora la madre giaceva sottoterra, da gran

tempo dimenticata; le sorelle e il fratello avevano interessi e occupazioni

totalmente diversi l'uno dall'altro, e per quanto abitassero sotto lo stesso tetto,

vivevano come altrettanti estranei. Contemplandoli a decenni di distanza,

quando coloro che vi sono effigiati sono ormai anziani, quale amara ironia

traspare da quei ritratti di famiglia pervasi di convenzionale letizia, ingannevole

simulacro di falsi sentimenti e di ipocrisie, immagini di consapevole e

compiaciuta innocenza! Nella sala da pranzo, il ritratto ufficiale di Mr. Osborne,

seduto nella sua poltrona rossa davanti al grande calamaio d'argento, era

subentrato al posto d'onore precedentemente occupato dal ritratto di famiglia.

In questo studio si ritirò il vecchio, con grande sollievo degli altri membri

della famiglia che venivano lasciati soli. Quando anche la servitù si fu ritirata,

tutti presero a parlare concitatamente, ma a bassa voce. Poi, in silenzio, le

donne salirono al piano superiore seguite da Mr. Bullock che procedeva con

passo furtivo e scarpe scricchiolanti. Non aveva avuto il coraggio di restarsene

solo a fumare, in immediata vicinanza col terribile vegliardo chiuso nello

studio.

Un'ora almeno dopo l'imbrunire, il maggiordomo, che fino a quel

momento non era stato chiamato dal suo padrone, si arrischiò a bussare

all'uscio per recargli il tè e le candele. Il padrone di casa, seduto in poltrona,

fingeva di leggere il giornale. Poi, quando il maggiordomo si ritirò dopo aver

posato sulla tavola le candele e il tè, Mr. Osborne si alzò e chiuse la porta a

chiave. Questa volta non potevano esserci dubbi su quanto stava accadendo:

tutta la casa capì che una catastrofe stava per abbattersi crudelmente sulla

testa di George.

In un cassetto del grande scrittoio di mogano di Mr. Osborne erano

conservati i documenti e in genere tutto ciò che concerneva il figlio. Qui egli

teneva qualunque carta lo riguardasse fin da quando era bambino: c'erano i

quaderni con i disegni ricopiati in bella copia ( vi si riconosceva la mano di

George e quella del suo insegnante), c'erano le prime lettere vergate a grossi

caratteri rotondi nei quali faceva professione d'affetto nei confronti di mamma

e papà, con l'aggiunta della richiesta di una torta. E in quella lettera il caro

padrino Mr. Sedley veniva più volte menzionato. Sulle livide labbra di Mr.

Osborne tremavano parole di maledizione, e un sentimento d'odio incontenibile

misto a una frustrante delusione gli macerava il cuore ogni qual volta, nel

rileggere quelle carte, gli capitava sott'occhio quel nome. Le lettere erano tutte

annotate, numerate e legate con un nastro rosso. Per esempio: «23 aprile

18... George chiede 5 Cellini; risposto 25 aprile.» Oppure: «15 ottobre: George

chiede un pony,» e così via. Un altro pacchetto comprendeva i «Rapporti del

dottor S.», i «Conti del sarto di George e del suo abbigliamento», le «Tratte sul

mio conto di G. Osborne Jn.», eccetera, oltre alle sue lettere dalle Indie

Occidentali, alle lettere dei suoi corrispondenti d'affari, alle lettere che

riportavano la notizia delle sue promozioni nei gradi dell'esercito. C'era, anche,

un frustino che George soleva usare da ragazzo e, in un piccolo involto, un

ciondolo contenente una ciocca dei suoi capelli che la madre aveva sempre

portato al collo.

Il pover'uomo trascorse ore ed ore sfogliando quelle carte, indugiando su

quei ricordi. Quel cassetto era una sorta di condensato del suo amor proprio,

delle sue speranze più lusinghiere. Com'era fiero di quel suo figliolo! Era il più

bel bambino che si fosse mai visto: tutti dicevano che sembrava proprio un

rampollo dell'aristocrazia. Durante una passeggiata ai Kew Gardens una

principessa reale lo aveva notato, gli aveva dato un bacio e ne aveva chiesto il

nome. Quale altro mercante, in tutta Londra, poteva vantarsi di avere un figlio

simile? Forse che un principe era oggetto di maggiori attenzioni? Suo figlio

aveva avuto qualunque cosa si possa comprare col denaro. Nei giorni riservati

alle visite dei parenti, andava sempre a trovare il figlio in collegio a bordo di un

tiro a quattro, con livree nuove di zecca, e regalava scellini ai compagni di

scuola di George. Prima che il ragazzo s'imbarcasse per il Canada era andato

con lui alla sede del Reggimento e aveva offerto agli ufficiali una cena

luculliana, in tutto degna del duca di York. Non si era mai rifiutato di pagare le

tratte di George: del resto, bastava un'occhiata, le aveva lì dinanzi agli occhi,

pagate sino all'ultimo centesimo. Molti ufficiali dell'esercito non disponevano

certo di un cavallo bello come quello di George. Davanti agli occhi gli balenava

l'immagine di George nei più disparati atteggiamenti: dopo cena quando, altero

come un baronetto, usava indugiare a tavola a bersi un bicchiere, accanto al

padre che sedeva a capotavola; a Brighton, in sella al pony, quando saltava la

siepe e teneva dietro al capocaccia, il giorno in cui era stato presentato al

Principe Reggente alla levée, quando tutta la Corte di St. James non poteva

annoverare un giovane di così bell'aspetto. Ed ecco, tutto era finito così!

George aveva sposato una ragazza senza un soldo, sprezzando la sua fortuna,

incurante dei propri doveri! Quale umiliazione, quale tormento quella rabbia

impotente, quale strazio l'ambizione frustrata, gli affetti delusi, che martoriante

oltraggio alla sua vanità e alla sua tenerezza si vedeva costretto a pagare quel

vecchio peccatore!

Dopo aver riesaminato tutte le carte indugiando ora sull'una ora

sull'altra, in preda al più cocente e al più inutile di tutti i dolori (quello degli

uomini gretti quando sono indotti a meditare sulla passata felicità), il padre di

George levò dal cassetto tutti i documenti che vi erano giaciuti per tanto

tempo, li radunò in una scatola e la legò suggellandola col proprio sigillo. Poi

aprì la libreria e ne trasse la grande Bibbia religiosa di cuoio scarlatto di cui

abbiamo parlato poc'anzi: era un'edizione sfarzosa, scintillante di fregi d'oro

che veniva aperta di rado. Aveva un frontespizio raffigurante il Sacrificio

d'Isacco. Ivi, sul foglio bianco di risguardo, in omaggio alla consuetudine,

Osborne aveva annotato la data del suo matrimonio, quelle della morte della

moglie e della nascita dei figli, coi rispettivi nomi. Venivano Prima Jane, poi

George Sedley Osborne e infine Maria Frances, nonché le date dei loro

battesimi. Prese una penna, cancellò accuratamente il nome di George e attese

che l'inchiostro fosse ben asciutto, dopo di che ripose il volume là donde lo

aveva tolto. Infine levò un documento da un altro cassetto nel quale

conservava le sue carte personali, lo rilesse e lo appallottolò. Poi, accesa una

candela vi diede fuoco e rimase a guardarlo mentre bruciava nel caminetto,

fino a quando la fiamma non lo ebbe distrutto completamente. Era il suo

testamento; quando lo ebbe bruciato, sedette di nuovo al suo scrittoio, scrisse

una lettera, poi suonò il campanello per chiamare il domestico e affidargli

l'incarico di recapitare quella missiva la mattina dopo. Albeggiava. Mentre

saliva le scale per andare a letto, il sole già illuminava tutta la casa, e gli uccelli

gorgheggiavano, annidati fra le tenere foglie degli alberi di Russell Square.

Spronato dalla saggia intenzione di conservare cordiali rapporti con i

familiari e i dipendenti di Mr. Osborne, e nello stesso tempo di garantire a

George il maggior numero di amici, valido sostegno in simili frangenti, non

appena rientrato in albergo William Dobbin scrisse un cordiale biglietto al

gentilissimo Mr. Thomas Chopper, invitandolo a cenare con lui il giorno dopo

da Slaughter. Infatti il giovane capitano non ignorava l'effetto positivo che

possono esercitare su un uomo un buon pasto e una bottiglia d'ottimo vino. Mr.

Chopper, che ricevette il biglietto mentre si accingeva a recarsi nella City,

rispose senza indugio dicendo che «Mr. Chopper porgeva i più devoti ossequi

ed era ben lieto di accettare il cortese invito del capitano». La sera, tornato

nella sua casa di Somers Town, mostrò alla moglie e alle figlie la brutta copia

della risposta, e in termini altamente elogistici parlarono dei militari e della

gente del West End, mentre sedevano intorno alla tavola e prendevano il tè.

Poi, quando le ragazze andarono a dormire, i coniugi Chopper discussero degli

strani eventi che turbavano la famiglia del «capo». Mai prima d'ora il segretario

aveva visto il suo principale così sconvolto. Quando era entrato nell'ufficio di

Mr. Osborne dopo che n'era uscito il capitano Dobbin, aveva trovato il vecchio

col volto livido, come se stesse per venirgli un colpo apoplettico. Tra lui e

Dobbin doveva esser scoppiata una lite furibonda, n'era sicuro. Chopper aveva

ricevuto l'ordine di fare il conto complessivo delle somme percepite da George

nel corso degli ultimi tre anni. «E per dire la verità il ragazzo ha incassato una

somma tutt'altro che trascurabile,» commentò il vecchio contabile pervaso di

rispetto sia nei confronti del padrone, sia in quelli del figlio di quest'ultimo,

data la liberalità con la quale era stato profuso quel denaro. La lite era

imperniata su una certa Miss Sedley. Mrs. Chopper dichiarò di provare pietà

per quella fanciulla costretta a rinunciare a un bel giovanotto come il capitano

Osborne, mentre dal canto suo il marito non provava alcun sentimento di

spiccata solidarietà per Miss Sedley, figlia di uno speculatore improvvido; che

aveva sempre pagato dei dividendi all'osso. Per lui la ditta Osborne era

superiore a qualsiasi altra nella City, e desiderava vivamente che il capitano si

legasse in matrimonio con un'esponente dell'aristocrazia. Quella notte il

contabile dormì di un sonno molto più tranquillo di quello del suo principale; e

accarezzando le sue figliole dopo aver consumato la sua colazione con ottimo

appetito (sebbene il suo tè fosse modestamente zuccherato con zucchero

bruno), se ne andò al lavoro con indosso il suo miglior vestito domenicale e la

camicia pieghettata, non senza aver promesso a Mrs. Chopper, che lo

guardava piena di ammirazione, di non abusare del Porto del capitano Dobbin,

quando la sera avrebbe cenato con lui.

Allorché Mr. Osborne arrivò in ufficio all'ora consueta, i suoi dipendenti

che, per comprensibili motivi, scrutavano sempre attentamente il principale,

notarono subito che la sua espressione era spaventosamente tetra. A

mezzogiorno Mr. Higgs (dello studio legale Higgs & Ellatherwick di Bedford

Row) si presentò puntualmente all'appuntamento fissato, e subito fu ammesso

nello studio del padrone col quale s'intrattenne per oltre mezz'ora. Poi, verso

l'una, il domestico del capitano Dobbin portò un biglietto a Mr. Chopper, unito

al quale ce n'era uno indirizzato a Mr. Osborne che il contabile andò a

consegnare al destinatario. Trascorse un'altra mezz'ora, e Mr. Chopper e Mr.

Birch (il secondo contabile) vennero chiamati per fungere da testimoni alla

firma di un documento. «Ho fatto un altro testamento,» fu la spiegazione

succinta di Mr. Osborne; dopo di che, in omaggio alla richiesta loro rivolta, i

due vergarono la loro firma. Non venne scambiata una parola. Quando uscì

dallo studio Mr. Higgs appariva molto grave e assorto: fissò Mr. Chopper ma

non ebbe il coraggio di aprir bocca. Quanto a Mr. Osborne, per tutto il resto di

quella giornata parve a tutti particolarmente pacato e gentile, tra la sorpresa

generale di coloro che la mattina, notando il suo aspetto così cupo, si erano

attesi il peggio. Quel giorno non svillaneggiò nessuno e nessuno lo udì

profferire una sola bestemmia. Se ne andò molto prima del consueto, ma

prima di lasciare l'ufficio convocò ancora una volta il contabile e, dopo avergli

dato istruzioni di vario genere, gli chiese, non senza palese riluttanza, se il

capitano Dobbin si trovava a Londra. Chopper rispose che riteneva di sì. E in

verità entrambi ne erano perfettamente convinti.

Osborne prese una lettera indirizzata al capitano e la consegno a

Chopper, pregandolo di consegnarla senza indugio a Dobbin, ed in sua mano.

«Ed ora, Chopper,» concluse con uno strano sguardo, prendendo il

cappello, «posso considerarmi tranquillo.» Poi, nell'istante in cui la pendola

batteva le due, Mr. Frederick Bullock venne a prendere Mr. Osborne, e i due

uscirono insieme. Non c'è dubbio che si fossero dati appuntamento.

Il comandante del ...° Reggimento nel quale Osborne e Dobbin

comandavano una compagnia era un vecchio generale che aveva fatto la

campagna con Wolfe a Quebec ed era ormai troppo vecchio e indebolito per

sostenere le responsabilità del comando. Ma conservava il comando nominale

del Reggimento al quale continuava ad interessarsi, ed era sempre lieto di

accogliere qualche giovane ufficiale alla sua tavola: usanza che oggi non credo

sia molto diffusa fra i suoi colleghi.

Tra i favoriti del generale c'era il capitano Dobbin, il quale aveva

un'ottima conoscenza della letteratura militare, sapeva parlare di Federico il

Grande e della Regina Imperatrice e delle loro guerre con cognizione di causa

quasi eguale a quella del generale in questione, il quale, del tutto incurante dei

trionfi bellici del momento, era rimasto sentimentalmente attaccato al ricordo

dei grandi strateghi di cinquant'anni prima. Ora avvenne che il generale

facesse pregare Dobbin di recarsi a pranzo da lui il giorno stesso in cui Mr.

Osborne aveva mutato testamento e Mr. Chopper aveva indossato la sua

miglior camicia pieghettata, e comunicò al suo ufficiale prediletto con due

giorni di anticipo rispetto ad ogni altro le notizie che tutti aspettavano:

bisognava imbarcarsi per il Belgio. Nel giro di un paio di giorni il Quartier

Generale avrebbe dato l'ordine al reggimento di tenersi pronto, e dal momento

che i mezzi di trasporto non scarseggiavano, la partenza avrebbe avuto luogo

entro la settimana. Nel periodo in cui il reggimento era stato di stanza a

Chatham si erano aggiunte nuove reclute, e il generale confidava che un

reggimento il quale aveva contribuito a sconfiggere Montcalm nel Canada e a

scacciare Washington da Long Island, una volta di più si sarebbe mostrato

all'altezza della sua fama e delle sue tradizioni battendosi sui campi dei Paesi

Bassi, già altre volte percorsi.

«E così, mio caro,» disse il generale prendendo una presa di tabacco con

la sua bianca mano tremante e indicando il punto della sua robe de chambre

sotto il quale pulsava ancora il suo debole cuore, «se avete per caso un affaire

, qualche Fillide da consolare, o dovete dire addio a mamma e papà, oppure

stilare un testamento, vi invito a farlo senza por tempo in mezzo.» E dopo aver

pronunciato queste parole l'anziano militare porse al giovane amico un dito da

stringere, e al tempo accennò a un lievissimo inchino flettendo appena il capo

incipriato e adorno del codino incipriato. Poi, non appena la porta si fu richiusa

alle spalle di Dobbin, sedette per redigere un poulet (era fierissimo del suo

francese) a Mademoiselle Aménaide dell'e His Majesty's Theatre».

La notizia lasciò Dobbin costernato: subito gli venne fatto di pensare ai

suoi amici a Brighton, e non senza vergogna si rese conto che Amelia era

sempre in cima ai suoi pensieri (che venisse, cioè, prima di sua madre, delle

sue sorelle e di chiunque altro; che venisse prima di quello dei suoi stessi

doveri quando si svegliava, quando si addormentava, e in qualsiasi momento

della giornata). Fu così che, rientrato in albergo, inviò un biglietto a Mr.

Osborne comunicandogli le notizie che aveva testé apprese, nella speranza che

lo persuadessero a riconciliarsi con George.

Il biglietto, consegnato alla stessa persona che il giorno prima aveva

portato il biglietto d'invito a Chopper, allarmò non poco il bravo contabile.

Infatti era contenuto in una busta che recava, quale indirizzo, il suo nome, e

mentre l'apriva tremava al pensiero che il pranzo sul quale aveva fatto tanto

assegnamento avesse subito un rinvio. Di conseguenza fu oltremodo sollevato

nel constatare che la busta in questione conteneva solo due righe per

ricordargli il suddetto impegno («Vi aspetto senz'altro alle cinque e mezzo,»

scriveva Dobbin). Chopper era tutto devozione nei confronti della famiglia del

suo principale, ma, que voulez-vous?, una cena di lusso gli stava più a cuore

degli affari di qualsivoglia mortale.

Com'era logico, Dobbin comunicò la notizia avuta dal generale a tutti gli

ufficiali del reggimento che gli capitò d'incontrare nel corso delle sue

peregrinazioni. Ne informò anche l'alfiere Stubble incontrato dall'agente, il

quale, preso da un impeto di foga guerresca, si precipitò a comperare una

sciabola nuova nel negozio di forniture militari. Il nostro giovanotto, sebbene

avesse solo diciassette anni, fosse alto in tutto e per tutto diciassette pollici e

avesse il fisico minato dalle soverchie e precoci libagioni di brandy, era

nondimeno coraggioso e aveva un cuor di leone. Si mise dunque in posa e lì

nella bottega, provò ripetutamente l'arma curvando e ricurvando la lama con la

quale si riprometteva di far strage dei francesi. Due o tre volte, gridando «Ah!

Ah!» e battendo a terra il piccolo piede nervoso, spinse la punta della lama

verso il petto del capitano Dobbin, che ridendo parava i colpi servendosi del

suo bastone da passeggio.

Com'è facile dedurre dalla sua esigua corporatura, Mr. Stubble

apparteneva alla fanteria leggera. Al contrario l'alfiere Sponney, un

giovanottone grande e grosso appartenente alla compagnia di granatieri

comandata dal capitano Dobbin, si provò un altissimo colbacco di pelo d'orso,

sotto il quale il suo viso giovanile appariva molto più truce di quanto fosse in

realtà. Poi i due giovincelli se ne andarono da Slaughter, ordinarono un pranzo

pantagruelico e si accinsero a scrivere lettere ai rispettivi quanto amati

genitori: lettere traboccanti d'amore, di calorosa esaltazione, di attestazioni di

coraggio e di strafalcioni d'ortografia. Molti cuori battevano d'inquietudine in

quel momento, in Inghilterra; e dietro la facciata di innumerevoli case molte

mamme piangevano e pregavano.

Quando, nella coffee-room di Slaughter, Dobbin scorse il giovane Stubble

impegnato a scrivere la sua lettera (mentre le lacrime gli scendevano a ritmo

alterno lungo il naso, al pensiero che forse non avrebbe rivisto mai più la sua

cara mamma) rinunciò a vergare la lettera che stava scrivendo a George

Osborne: s'interruppe e un pensiero gli attraversò la mente: «A che pro'

scrivergli? Concediamogli un'altra notte di felicità. Domattina, di buon'ora,

andrò a salutare i miei genitori, e nel pomeriggio partirò per Brighton.»

Così si alzò, posò la sua larga mano sulla spalla di Stubble, confortò il

giovane eroe, gli disse che era sempre stato generoso e coraggioso e che

sarebbe diventato un ottimo soldato (a patto, beninteso, che avesse smesso di

tracannare brandy). Al che gli occhi di Stubble brillarono di soddisfazione,

poiché Dobbin nel reggimento era sempre stato considerato il miglior ufficiale e

l'uomo più capace.

«Grazie, Dobbin,» disse tergendosi le lacrime col dorso della mano.

«Stavo appunto... stavo appunto scrivendo alla mamma che sarò un bravo

soldato; lei... ah, capitano, la mamma è sempre stata così maledettamente

buona con me!» Dopo di che le cateratte si aprirono di nuovo, ed io non

giurerei che al buon capitano non si velassero gli occhi di commozione.

I due sottotenenti, il capitano Dobbin e Mr. Chopper cenarono insieme

nello stesso séparé. Chopper consegnò a Dobbin la lettera di Osborne nella

quale quest'ultimo porgeva i suoi saluti al capitano, e nel contempo lo pregava

di voler consegnare l'unito biglietto al capitano George Osborne. Chopper, in

argomento, non sapeva altro. Descrisse senza esitare l'aspetto del principale,

riferì dell'abboccamento con l'avvocato e manifestò il suo stupore per il fatto

che quel giorno il vecchio non avesse insultato nessuno dei suoi dipendenti. Le

ripetute libagioni lo indussero ad abbandonarsi vieppiù a una ridda di

congetture e riflessioni, che però ad ogni bicchiere si facevano sempre più

vaghe e confuse, e alla ne apparvero del tutto prive di senso. Era ormai tarda

ora quando il capitano Dobbin issò il suo ospite dentro una carrozza di piazza,

mentre Chopper continuava a professare farfugliando il suo proposito di

serbare eterni sentimenti di amicizia nei confronti del nostro amico.

Come abbiamo già visto, nel prender congedo da Miss Jane Osborne il

capitano Dobbin le aveva chiesto il permesso di rinnovare la sua visita, e il

giorno successivo, la matura signorina lo attese per alcune ore. Se si fosse

recato da lei e le avesse manifestato quei propositi ai quali ella era prontissima

ad accondiscendere, si sarebbe del pari dichiarata amica di suo fratello, e forse

avrebbe contribuito a rendere attuabile una riconciliazione formale tra George

e il suo adirato genitore. Ma l'attesa di Jane fu vana: William Dobbin non si

fece vedere. Aveva ben altro a cui pensare, in simili frangenti: doveva recarsi

in visita dai suoi genitori, e nelle prime ore del pomeriggio salire sul

«Lightning» per andare a Brighton in visita dai suoi amici. Durante la giornata

Jane udì il padre ordinare che per nessuna ragione si lasciasse entrare in casa

quel farabutto, quell'inframmettente del capitano Dobbin che amava pescar nel

torbido; e così svanirono tutte le speranze ch'ella aveva forse coltivato nel

segreto del suo cuore. Venne, invece, Mr. Frederick Bullock, e se si mostrò

particolarmente tenero con Maria, fu parimenti cortesissimo e ossequioso col

vecchio signore mesto e sconfortato. Infatti, sebbene avesse dichiarato che

«ormai poteva star tranquillo», non si può dire che le misure adottate per

garantirsi questa pace dello spirito avessero prodotto l'effetto auspicato: era

evidente che le vicende degli ultimi due giorni lo avevano stroncato.

XXV • NEL QUALE TUTTI I PRINCIPALI PERSONAGGI RITENGONO