15
Benjamin
6 maggio 1905
Non ho mai dimenticato Fall River. Mentre vagabondavo di paese in città, ferivo volti, risolvevo problemi, non avevo mai dimenticato di avere una questione in sospeso. Più di dieci anni e non avevo dimenticato. Il mio ritorno era sempre stato solo una questione di tempo. Ogni tanto pensavo a Andrew e Abby, mi domandavo chi li avesse fatti a pezzi e mi chiedevo: se fossi arrivato prima io da Andrew, sarei stato più delicato? Non si sa mai cosa può fare una persona nell’eccitazione del momento. Qualche mese dopo Fall River avevo aiutato qualcun altro a risolvere un problema, avevo schiacciato forte, spaccato una faccia, torto un collo, una gamba, riscosso la mia ricompensa; poi avevo aiutato un altro, e un altro ancora, avevo continuato ad aiutare finché avevo raccolto abbastanza soldi per aiutare me stesso, per risolvere il mio problema.
Arrivai a casa di mio padre all’alba. Erano passati più di tredici anni dall’ultima visita. Sgattaiolai dentro dalla porta sul retro, procedendo a naso fra le stanze finché giunsi in quella di una ragazzina. Dei piccoli carillon appoggiati a una toeletta, una pila di vestiti accanto al letto. La guardai dormire, poi mi avvicinai. «Indovina chi sono?» sussurrai. Era immersa nel sonno, russava lievemente. Le toccai i capelli, mi piaceva sentirli sul palmo, e avvicinandomi vidi le mie sorelle nella trama della sua pelle. «Sono tuo fratello.»
Da qualche parte sentii un cric cric. Lo andai a scovare. In un’altra stanza, due corpi addormentati. Entrai dentro, guardai mio padre dormire. Il suo viso era di cuoio, solcato da rughe profonde. C’era qualcosa in lui, qualcosa di mite. Qualcosa che non avevo mai visto prima. Colsi la fragranza del sapone sulla sua pelle e mi chiesi se aveva sempre avuto quell’odore e me ne fossi dimenticato? Papà scalciò sotto alle lenzuola come un cavallo, come gli avevo visto fare già molte volte e Angela mosse il braccio nel sonno cingendogli il corpo, lo carezzò finché lui si calmò e si rimise a sognare. Dormivano tranquilli e la cosa non mi piaceva. Lui avrebbe dovuto essere così anche con noi. Come sarebbero stati diversi quegli anni. Sarei stato ancora a casa con mia mamma, le mie sorelle, con un po’ di affetto. Perciò preparai le mani e gli piazzai un palmo sulla bocca. Lui aprì gli occhi. Si prova una strana sensazione a guardare negli occhi il passato. Sembra di sognare. Papà mi guardò, il suo respiro sulla pelle. Mi affondò i denti nella mano. Pareva sul punto di piangere. Io schiacciai forte e la mano di mio padre si chiuse sulla mia, la spinse via, e dopo aver preso fiato disse: «Sei tornato».
Io annuii. Una parte di me voleva strisciargli sul petto, scaldarsi.
«Io non dimentico mai, papà.»
Lui mi fissò. «Non è il momento.» Si tirò a sedere puntandosi sui gomiti e mentre si spingeva contro di me grugniva, la rabbia di un vecchio. Lo spinsi giù, facendo scricchiolare il letto. Angela si girò e si mise accanto a lui, il viso accartocciato nel sonno.
Papà cercò di mettermi le mani addosso, mi sentii ardere dentro. Mi scrocchiai le nocche. Non avrei ceduto. Ero lì per farla finita. Gli rimisi le mani sulla bocca e diedi un’occhiata ad Angela, quindi lo fissai finché non abbassò lo sguardo.
Una cosa che non avevo mai capito, in tutti quegli anni passati ad aiutare le persone, era perché non erano mai completamente soddisfatte della conclusione vera e propria. Forse perché alla fine non avevano avuto la possibilità di un’ultima conversazione? O magari perché niente avrebbe mai cancellato il passato? Ero lì con mio padre e quindi gli chiesi: «Sono ancora una delusione per te?».
Lui cercò di dire qualcosa ma io scossi la testa e gli premetti più forte la mano sulla bocca. Lo guardai negli occhi, li vidi saettare da una parte all’altra, sentii le labbra tremare sotto il palmo. I suoi occhi spaventati. Per un momento pensai di liberarlo. Papà cercò di opporsi ma io ero più forte e finii il lavoro, lo sentii irrigidirsi sotto la mano. Quando mi allontanai da lui sentii del movimento lungo il corridoio, il cigolio di un letto. Corsi fuori dalla stanza, fuggii dalla casa ed era già mattina. Corsi e corsi. Ma era strano. Non mi sentivo sollevato, non provai nulla di speciale, questa volta. Mi mancava ancora qualcosa.
Mi chiesi se era stato lo stesso anche per Lizzie quando Andrew era morto. L’avevo tenuta d’occhio, avevo tenuto articoli di giornale in uno zainetto unto che portavo in spalla, avevo tenuto l’ascia, il frammento di cranio, avevo continuato a pensare che a tempo debito sarei tornato da lei e da John. Avevo raccolto il primo articolo una settimana dopo essermene andato da Fall River. Accusata di omicidio. Che demonio di figlia, una che uccide il padre e la madre. Pensai a lei in casa quel giorno, ai suoi movimenti, a quegli strani modi, alla sua rabbia. Forse era stata proprio lei, ci aveva sorpreso tutti, si era presa la mia ricompensa, il mio divertimento.
Avevo rubato i giornali dai negozi, collezionando Lizzie per quasi un anno mentre era in attesa del processo, e poi l’avevo messa via, la ritiravo fuori soltanto quando mi andava. L’avevo collezionata per tutto quel tempo. Volevo vedere se c’era qualche indizio sul responsabile del crimine, volevo tenere d’occhio John, vedere cosa succedeva a tutti quei soldi di famiglia. Osservai più volte l’illustrazione di Lizzie vestita di nero in un’aula di tribunale, il titolo che diceva: LIZZIE BORDEN SI DICHIARA NON COLPEVOLE.
Mi fece ridere, quella dichiarazione. Il dubbio che dilagava in città pesava su di lei. Solo due giorni dopo l’uccisione di Andrew e Abby, per la strada le insinuazioni balzavano di bocca in bocca. È stata Lizzie, odiava la signora Borden, la domestica ha detto di averla sentita ridere quando il signor Borden era tornato a casa. Non c’è niente di peggio dei vicini che puntano il dito.
Non tutti accusavano Lizzie. Il reverendo Buck, amico di famiglia, dichiarò che «Fall River non poteva permettere che un’ignobile creatura, un macellaio di tale sorta, si muovesse in libertà. Lizzie mi ha detto di aver visto qualcuno gironzolare per la casa in quella notte fatidica». Se n’era ricordata. Doveva essere stato divertente per lei. La polizia aveva controllato e ricontrollato la casa, esaminando a fondo le storie che aveva raccontato. Quando si erano resi conto di quanto sedativo le era stato dato, avevano attribuito quell’uomo ai fantasmi evocati dal sonno, e io me l’ero cavata. Fu durante quelle nuove ispezioni che la polizia fece delle scoperte. Trovarono una macchia di sangue su una delle sottovesti di Lizzie; Alice Russell si fece scappare che il giorno dopo gli omicidi Lizzie aveva bruciato un grembiule e un vestito macchiato nella stufa, incoraggiata da Emma, e che quando Alice aveva implorato: «Lizzie, pensa a cosa sospetteranno», Emma aveva attizzato il fuoco, stando attenta che il cotone bruciasse rapidamente.
E poi, l’11 agosto 1892, era successo. Dopo i funerali e l’inizio dell’inchiesta, la polizia andò a prendere Lizzie. Lei era in salotto, le finestre erano aperte, come Andrew e Abby non avrebbero mai permesso di fare la sera. Quando entrarono, Emma era accanto a lei. Non la lasciò andare di buon grado. Alcuni dicono che si tenevano per mano, altri che Emma non aveva permesso che l’arrestassero prima di chiudere le finestre. Le accuse vennero formulate, e lei venne arrestata. «Lizzie, siete voi la responsabile.» Lei si era messa a tremare, aveva quasi pianto, si era piegata come lo stelo di una canna. Se fossi stato presente le avrei detto che non si sarebbe trovata in quella situazione se avesse mostrato qualche emozione, se gli avesse dato a vedere ciò che volevano. Ma lo sapevo bene, non è possibile fingere e nel frattempo elaborare una strategia. Avrebbe dovuto scomparire, come avevo fatto io.
La portarono in commissariato, l’arresto divenne ufficiale, e la prepararono per la prigione di Taunton. Mentre veniva organizzato il trasporto, Emma era rimasta seduta accanto a lei. Un agente disse al «Boston Herald»: «La sorella teneva Lizzie come un bambino. Suppongo che le donne facciano così. Non so, non mi era mai capitato prima di assistere all’arresto di una donna». Io pensai che non le conosceva per niente, le donne.
Ho letto gli articoli che sono seguiti, ma quella parte della storia non mi è mai piaciuta, forse perché mi ricordava la mia ricompensa perduta. Ringalluzzita dall’eredità del padre, che ammontava a trecentomila dollari, Emma disse a Lizzie di non preoccuparsi. «Ti salverò. Non importa quanto costerà, ti salverò.» C’era un’illustrazione delle sorelle che si abbracciavano prima che portassero via Lizzie, prima che la mettessero sul treno per Taunton.
Fall River si divise: colpevole, innocente. Mentre Lizzie era chiusa in una cella e orinava umiliazione in un secchio, Emma aveva assunto l’avvocato di suo padre, Jennings, e si preparava al processo. Quando gli amici vengono chiamati a testimoniare si leggono sempre le stesse cose: «Conosco Lizzie da anni. Non farebbe mai una cosa del genere»; «Nient’altro che amore per il padre». Stronzate. Il bello era iniziato quando, uno dopo l’altro, amici e conoscenti avevano detto ai giornalisti: «Be’, la signora Borden e Lizzie non sono mai andate molto d’accordo».
La tennero in prigione dieci mesi. Mi piaceva pensare che l’avessero fatto perché temevano che sarebbe scappata. Le era però riservato un trattamento speciale, poteva mangiare pasti cucinati in casa, coltivare le fragole in cella. Viziata senza ritegno. Poi, finalmente, il 5 giugno del 1893 il processo ebbe inizio. Per tredici giorni i quotidiani mandarono i loro inviati al tribunale di seconda istanza di New Bedford, a fare il punto.
Primo giorno. Iniziò il processo. Secondo giorno, la giuria venne condotta sulla scena del crimine. Avrei potuto fargli io da guida: qui è dove Abby ha cercato di salvarsi strisciando sotto al letto. Come potete vedere, era proprio troppo grossa. Qui è dove ho trovato il sangue. Qui è dove Bridget ha vomitato. Qui è dove la rabbia ha preso il sopravvento su Lizzie. Queste sono le porte che erano chiuse a chiave. Laggiù è dove Bridget ha lavato le finestre e Abby l’ha sgridata. Questo è il tavolo dove hanno composto i corpi. Qui è dove, qui è dove, qui è dove. I giurati avrebbero cacciato le dita ovunque, fingendo di investigare i fatti, quando in realtà volevano solo toccare gli spazi occupati dai morti.
Mentre si trovavano nella casa fu detto ai giurati che Emma viveva ancora lì, nonostante tutto. Uno degli uomini disse che aveva notato fotografie della famiglia Borden sparse in tutta la casa, sulle mensole e sui tavolini di servizio, sui muri e sui cassettoni, sulle librerie e nelle credenze. In quel modo Emma aveva sempre compagnia. Un altro giurato disse che era una cosa molto triste. «Quella sua solitudine. Penso che non le piaccia starsene da sola con i suoi pensieri giorno dopo giorno». Un altro: «Mentre eravamo lì la signorina Borden ci ha preparato il tè. Sembrava che rendersi utile le facesse piacere». Ognuno aveva la sua verità.
Il processo andava avanti e gli articoli parlavano sempre dei vestiti di Lizzie, sciatti e neri, di un bottone che mancava, del suo volto provinciale, delle guance bianco acido, dell’andatura a grandi passi con cui entrava e usciva dall’aula del tribunale. Del fatto che la prigione la faceva ingrassare. Lizzie sedeva, fissandosi le mani, fissando i testimoni che uno dopo l’altro descrivevano il suo rapporto con Abby. Cosa avrebbe detto la gente del mio rapporto con papà se mi avessero mai catturato e giudicato?
Il terzo giorno, John raccontò balle su dove si trovava il giorno degli omicidi, con una tale convinzione che sembrava crederci davvero. «Ero in soggiorno e il signor Borden e la moglie sono andati e venuti dalla stanza per tutta la mattina. A un certo punto la signora Borden è entrata con un piumino e si è messa a pulire.»
«E poi che cosa avete fatto?»
«Sono uscito di casa e sono andato in posta.»
«E poi?»
«Sono tornato dai Borden in tram.»
«Quando siete arrivato dai Borden, c’è stato qualcosa che ha subito attirato la vostra attenzione?»
«No, signore. Sono arrivato e per prima cosa ho mangiato una pera.»
«Ma eravate stato informato dell’accaduto?»
«Sì.» Ero sicuro che l’aveva detto in tono compiaciuto.
«Chi avete visto prima, il signore o la signora Borden?»
«Ho visto Lizzie.»
«No, signor Morse. Quale vittima avete visto per prima?»
«Ah, ho visto il signor Borden.»
John continuò a parlare. Io pensai a quel giorno: dopo il ritrovamento di Andrew erano arrivati i poliziotti, da soli o in coppia, e manciate di persone si erano raggruppate di fronte alla casa. Era difficile non accorgersi che la situazione era davvero grave, ma John per prima cosa aveva sentito il bisogno di mangiarsi una pera, avrebbe indagato su quello che stava facendo la polizia in un secondo momento.
Il quarto giorno, Bridget, quella bomba a orologeria di segreti considerata da tutti una sciocca, aveva detto alla corte che dopo avere trovato Andrew e Abby uccisi aveva portato tre poliziotti giù nel seminterrato, dove i Borden tenevano una cassa di asce accanto alla caldaia.
«Io non le ho toccate ma la polizia ne ha prese tre» disse.
Non le credettero. «E perché la polizia ne ha prese tre?»
«Non lo so» rispose Bridget con una scrollata di spalle.
«E voi, le avete toccate?»
«No, le ho lasciate stare.»
«Ora, ditemi, quando la signorina Borden vi ha fatto scendere dalla soffitta e vi ha detto che suo padre era stato ucciso, che cosa stava facendo?»
«Era davanti alla porta. Era elettrizzata.» Proprio così. Lizzie quel giorno era elettrizzata, lo era ogni suo movimento. La vedevo ancora in casa, li vedevo tutti, muoversi come se fossero estranei, senza notare il sangue che ribolliva dentro di lei. Andrew e Abby sul tavolo da pranzo. L’odore di pere marce, di carne marcia. John che fra le ombre della notte mi guardava, in piedi davanti a me.
«Elettrizzata?»
«Non l’avevo mai vista così elettrizzata.» Gli occhi di Bridget enormi e spalancati.
«Piangeva?»
«No, signore.» Una forte scossa del capo.
«Non è quello che avete detto durante l’indagine. Avete detto: “La ragazza stava piangendo”.»
«Non ho detto che stava piangendo. È impossibile. So bene cosa stava facendo.»
Più le persone parlavano, più Lizzie si trovava nei guai.
«Non andava d’accordo con la madre.»
«C’era tensione.»
«A volte il signor Borden le urlava contro.»
«La signorina Lizzie è molto capricciosa. O così mi hanno detto.»
«Quando il giorno degli omicidi ho interrogato la signorina Borden, la sua storia continuava a cambiare. Sono arrivato a pensare che mi stesse dicendo qualche bugia.»
Il settimo giorno avvenne un miracolo grandioso, di quelli che riescono solo a chi ha abbastanza soldi per tirarsi fuori dai guai. L’avvocato Jennings riuscì ad argomentare che la testimonianza di Lizzie, resa durante le indagini, era inammissibile. «Nessuno l’aveva informata dei suoi diritti. Non sapeva che le sue parole avrebbero potuto essere usate contro di lei. Era tremendamente sotto shock. Non era stata ancora arrestata, all’epoca.»
Il giudice accettò. Era stato fatto buon uso dei soldi del padre. Lizzie ebbe una seconda occasione, le sue parole riacquistarono credibilità. Ogni volta che leggevo mi surriscaldavo, mi arrabbiavo, mi infuriavo contro il giornale: «Parte di quel denaro mi appartiene». Cosa avrei dato per avere tutti quei soldi, per avere ciò che mi spettava.
Fu per questioni di denaro che Emma salì sul banco dei testimoni l’undicesimo giorno. Fu costretta a riconoscere pubblicamente i problemi della famiglia, a parlare del patrimonio, di come era diviso tra i discendenti. Emma esponeva pezzi di puzzle dei Borden che cercavo di ricomporre. Fu la volta che mi avvicinai di più a sentire la voce di questa misteriosa sorella che era andata in vacanza nel momento perfetto. Mi immaginai la sua voce sudare tensione e gocciolare sul pavimento dell’aula del tribunale ogni volta che saltava fuori il tema di Abby.
«Perché vostra sorella ha smesso di chiamare “madre” la signora Borden?»
«Non so.»
«E quindi vostra sorella come le si rivolgeva?»
«La chiamava “signora Borden”.» Quel modo freddo di rapportarsi.
«E quando aveva iniziato, invece, a chiamarla “madre”?»
«Quasi subito, quando era molto piccola. Prima ancora che lo facessi io.»
Avrei potuto dirgli con certezza che non era così che Lizzie l’aveva chiamata quell’ultimo giorno insieme.
Emma fu congedata. Non aveva fornito nessuna informazione. Mi chiesi se Emma era come me, una protettrice di sorelle, se avrebbe fatto qualsiasi cosa per saperle felici e al sicuro. Nelle illustrazioni sembrava che Lizzie cercasse Emma con gli occhi, e che Emma guardasse sempre da un’altra parte. Immaginai che sapesse qualcosa sulla sorella, sconosciuto a tutti tranne che a lei.
Fu uno spasso quando Lizzie venne obbligata a guardare il cranio spaccato del padre. «Ed ecco cosa può fare un’ascia» disse l’accusa alla giuria. Io sapevo cosa potevano fare tante cose. Avevo visto le teste di Andrew e di Abby, avevo annusato il calore che gli usciva dal cranio. Avevo sempre desiderato vedere come erano le loro teste una volta spellate. Erano come bambole di gesso? Lessi e rilessi quegli articoli, come se fosse vitale per me.
Portarono una cassa nera nell’aula del tribunale, la piazzarono sul tavolo dell’accusa e l’aprirono. Il primo a uscire fu il cranio di Abby, poi quello di Andrew, osso cesellato bianco-giallognolo. L’aula restò a bocca aperta, Emma scoppiò a piangere, Lizzie perse il controllo, svenendo sulla sedia. Chissà come avrebbero reagito se li avessero visti di prima mano, ancora freschi, come era capitato a me. Io avevo capito come stavano le cose: l’accusa sperava di trovare un’arma compatibile con le ferite. Non l’avrebbero mai trovata. Ciò mi fece ridere moltissimo.
«Ma è uno scandalo!» disse Jennings. «La mia cliente e la sorella non sono state in alcun modo consultate prima di fare una cosa del genere ai corpi dei loro genitori.»
Perché mai qualcuno avrebbe dovuto chiedere alle sorelle il permesso di decapitare i cadaveri dei genitori dopo il funerale? I medici legali avranno sicuramente atteso di vedere che anche l’ultima carrozza partisse dal cimitero di Oak Grove, prima di portare le bare in qualche stanza e aprirle. Che scena doveva essere stata. Come tutti i morti, i Borden saranno scivolati fuori dalla pelle, i corpi si saranno gonfiati prima di ritornare della propria misura, le teste ridotte a un guazzabuglio di odio estivo. I dottori avranno trattenuto il respiro, preparandosi a rimuovere le teste in decomposizione in modo da rimettere subito i corpi sotto terra, ricoprirli e compiangerli.
La descrizione dell’accusa la fece sembrare una scena piena di allegria, una vacanza in famiglia: le teste si erano messe in viaggio per Boston, su un treno dalle comode carrozze, ed erano arrivate alla North Station; poi avevano proseguito lungo strade pavimentate ricoperte di fango e stallatico, oltre edifici di arenaria a più piani e lungo marciapiedi, finché avevano raggiunto la Harvard Medical School. Mentre le teste si avvicinavano gli scoiattoli si arrampicavano sugli alberi, i tram suonavano a mo’ di saluto, per dargli il benvenuto, e i fili della corrente emettevano delle scariche quando l’elettricità le attraversava, pulsando come il sangue. Un grandioso spettacolo per quelle tristi teste del New England. Andrew l’avrebbe considerata un’esagerazione.
Imparai come si faceva a separare la pelle umana dall’osso. Per prima cosa fu portata a bollore una vasca d’acqua, poi le teste furono estratte dalla cassa e un fluido denso colò da sotto, penetrando nella fodera di velluto. I medici legali dissero: «Ci siamo resi conto che i loro cervelli avevano iniziato a liquefarsi. Il cervello della signora Borden è evacuato da un grande buco sul lato destro del cranio». Evacuato. Mi piaceva quell’immagine, proprio come quella dell’acqua che bolle e delle teste che ci venivano buttate dentro, come cosce di montone, e ballonzolavano come in una danza, finché la pelle, ribollendo come grasso animale, non galleggiava in superficie in una confusione di capelli.
C’erano illustrazioni che rappresentavano i crani mostrati al pubblico nell’aula del tribunale. I Borden – o meglio, ciò che era rimasto di loro – non avevano poi un brutto aspetto. Ma a Jennings quella dimostrazione non piacque. «Vostro onore, gradiremmo che le teste fossero riposte in questo stesso istante. Non ci sembra che siano utili alla risoluzione del delitto. La povera signorina Borden verte in un tremendo stato di prostrazione. Guardatela.» Immagino che a quel punto tutti avranno guardato la povera, pallida Lizzie, così come del resto dovevano aver fatto durante tutto il processo, mentre Jennings proseguiva nel suo discorso: «Vorrei cogliere l’occasione per affermare un’ovvietà. Il suo comportamento dimostra che non può avere commesso lei il delitto. La sola vista delle teste la fa sentir male».
Le teste furono riposte. Nessuno aveva il minimo senso dell’umorismo.
Il tredicesimo giorno, il giorno che stavo aspettando, Lizzie fu chiamata a testimoniare, a dire la sua. Ma fu inutile. Si toccò la fronte, si ricompose e disse: «Sono innocente. Sarà il mio avvocato a parlare in vece mia». Poi si sedette, disse poco di più sull’argomento. Mi ricordavo di lei nella sua casa. Sembrava avesse molto da dire, allora. A quel tempo non era che un borbottio costante, un susseguirsi di preghiere e di esternazioni saccenti.
Entrambe le parti in causa tennero la loro arringa finale e la giuria fu mandata a deliberare se appendere o meno una donna rispettabile alla forca. Se fosse stata una come me, come una delle mie sorelle, l’avrebbero spinta fuori di corsa dall’aula del tribunale e l’avrebbero impiccata loro stessi. I giurati considerarono il fatto che non era stato trovato del sangue addosso a Lizzie, considerarono che la casa non mostrava segni di effrazione, considerarono che Andrew a volte era un uomo molto duro, considerarono che non era stata trovata l’arma del delitto. Se fossi stato lì, gli avrei dato molte altre informazioni. Quando i dodici uomini decisero che Lizzie non era colpevole in quanto «riteniamo semplicemente che le donne non compiano crimini del genere», l’aula esplose come cannoni, gli evviva durarono tre minuti e si sentirono quasi a un miglio di distanza. Ridussero Jennings in lacrime e Lizzie in uno stato di estasi. Emma sedette con la sorella e aspettò che si ricomponesse.
Pensai che se fossi stato lì gli avrei mostrato la testa dell’ascia, il frammento del cranio di Abby, avrei detto che grazie a John i Borden sarebbero comunque morti. Avevano bisogno di qualcuno che gli spiegasse che è dei familiari che si deve aver paura, non degli estranei. Perché io sì che sapevo di cosa era capace la gente.
«Nessun’arma del delitto trovata.» Mi ero tenuto per me un grosso segreto dei Borden per dieci anni. Avevo salvato Lizzie. E ora lei era in debito con me, così come John. Mi piaceva l’idea che un giorno questa piccola cosa avrebbe potuto saltar fuori, facendole avere ciò che si meritava. E dando a me ciò che mi meritavo. Forse avrei sentito che le cose andavano nel modo giusto, e dopo aver chiuso con Fall River avrei cercato di nuovo mia madre e le mie sorelle, sarei di nuovo stato parte di una famiglia, avrei detto a tutte loro che non dovevano più preoccuparsi di papà.
Salii di nascosto su un treno per Fall River. Una volta arrivato camminai lungo le stesse strade che John mi aveva mostrato. C’era lo stesso odore di fiume e di zolfo, le campane della chiesa rimbombavano come un dolore persistente. Mi sanguinavano le gengive, così mi avvicinai alla finestra di un negozio e aprii la bocca. Un dente penzolava. Lo spinsi con delicatezza al suo posto, poi continuai verso Second Street.
Ecco il tetto coperto di tegole color verde alga della casa di Lizzie. I pedoni si incuneavano l’uno nell’altro, i bambini ridevano e si punzecchiavano le braccia, le gambe. Vicino alla casa la gente attraversava la via, si faceva il segno della croce, zigzagando rapidamente da un lato all’altro della strada. Mi affrettai per raggiungerla. Un bimbo mi sfrecciò davanti, gridando: «Evviva, evviva, l’ho toccata! Ho toccato la casa degli omicidi!» e corse via, verso un gruppo di bambini che l’aspettavano in strada. Gli presero le mani e gliele sfregarono. Il bambino rivolse lo sguardo indietro, alla casa da cui era scappato, e quando mi vide disse: «Non lo faccia, signore. È maledetta».
Mi fermai. Il novantadue di Second Street: un cancelletto verde, due alberi mezzi frondosi sui fianchi del sentiero acciottolato. Una lampada. Erba troppo alta. Sulla porta principale, vernice scrostata giallo scuro. Il 9 e il 2 d’ottone penzolavano. Un colombo camminava avanti e indietro sul tetto. L’odore di pelle di animale vecchio e di crescente umidità saliva dalle fondamenta della casa. Mi avvicinai alla porta e mi sentii strattonare la giacca.
«Signore, cosa state facendo?» chiese il bambino. Aveva il viso lentigginoso, marrone, decisamente troppo preoccupato.
La sua voce mi corrose l’orecchio. Emisi un grugnito.
«Scusatemi, signore.» Poi corse via.
Costeggiai il lato della casa ed entrai nel cortile. La stalla era legno mangiato dalle termiti e finestre rotte, come la casa di mia madre quando avevo provato a tornarci dopo aver punito papà. L’erba troppo alta nascondeva una pala arrugginita. Le sorelle Borden avevano trascurato moltissimo quel posto. Raggiunsi il pergolato di peri, presi un frutto e lo mangiai. Dolce e succoso. Lanciai il torsolo della pera, colpii il cancello rumorosamente. Mentre mi dirigevo verso la porta doppia del seminterrato vidi un gatto nero che si aggirava furtivo intorno ai margini della casa. Mi chinai per accarezzargli il pelo e lui soffiò. Io soffiai di rimando. A mio padre sarebbe piaciuto spellare un gatto come quello.
Spinsi la porta, anche se vedevo che era ancora chiusa a chiave, come tanti anni fa. Ma io volevo entrare in quella casa. Spinsi ancora, tendendo tutti i muscoli, e così la porta cedette come una diga inondata, e io entrai nel seminterrato, sentii odore di muffa, vidi cumuli di vecchie posate ammucchiate una sull’altra, vidi un topo correre sul pavimento, con le unghie che sembravano perle che cadevano.
Mi diressi in cucina, era tutta impolverata. Sui ripiani, altri piatti e pentole ammucchiate, pile alte come monumenti. Pensai a Abby mentre assaggiava quella zuppa schifosa, il suo ultimo pasto. Avrebbe dovuto concedersi qualcosa di meglio.
Andai in soggiorno. Era pieno di mobili ammonticchiati contro i muri, un leggero sentore di canfora. Passai le dita sulla mensola di legno del camino, guardai verso l’alto e mi vidi riflesso nello specchio. Controllai il dente, frutta morta che penzolava, e lo tirai, liberandolo con uno strattone, poi succhiai via la saliva e lo misi sulla mensola.
C’era il divano di Andrew. Era instabile, mangiato dalle tarme. Mi ci distesi sopra, sentendo sotto di me lo scricchiolio delle stecche di legno mentre mi abbandonavo e riposavo, con il collo schiacciato sul bracciolo. Odore di muschio intrappolato e tabacco. Pensai a Andrew, a come la sua testa si doveva essere girata di lato mentre moriva. Ce ne voleva per roteare un’ascia nella carne e nell’osso. Doveva essere stato faticoso alzarla e abbassarla, il manico che scivolava avanti e indietro nella mano dell’assassino, lacerando la pelle, facendo affiorare il sangue. A metà del lavoro le sue braccia dovevano aver iniziato a far male, spingendolo a riposarsi per un attimo o due. Poi l’assassino doveva aver guardato la faccia di Andrew, meravigliandosi di come le ossa si scheggiassero proprio come la legna di bosco. Allora probabilmente aveva preso un respiro profondo mentre impugnava di nuovo l’ascia, taglia e rotea, taglia e rotea. Forse Lizzie era stata capace di fare tutto questo.
Decisi di salire al piano di sopra, andai nella stanza di Lizzie. L’ultima luce del pomeriggio fluttuava dalle finestre, si muoveva sulle mensole dalla vernice scheggiata, sulla toeletta di legno vecchio. Lo spoglio lettino di legno era poggiato a una porta, rotto. Il lungo specchio davanti al quale ero rimasto in piedi anni prima aveva una crepa in basso, una ragnatela. Della carta da parati mezzo strappata pendeva dalla finestra di destra, i bordi di colore giallo e marrone. Guardai fuori, verso Fall River. Che lurido posto.
Risi e la mia voce riecheggiò nella casa. Nessuno ormai chiamava casa questo luogo. Di certo non le sorelle. Dovevo trovarle.
Il giorno dopo me ne andai in città: il tintinnio del souvenir osseo dentro la borsa faceva girare le teste delle persone. Un padre, preoccupato, disse al figlio: «Stammi vicino». Io camminavo, pensando a come fare per trovare Lizzie.
Percorsi Main Street per ore, guardando la gente che andava e veniva; notai cani che sembravano più grassi e che c’erano più edifici, era più facile spendere molti soldi e perdere tempo. Ma di Lizzie, nessuna traccia. Continuai a camminare, andai addirittura dal medico che mi aveva messo a posto la gamba, ma la vetrina era vuota. Stavo tornando nelle viscere della città quando la fortuna mi affiancò. Dall’altra parte della strada c’era Lizzie, in piedi al sole, come una santa. Emma era accanto a lei, l’immagine del disdegno, le braccia incrociate sul petto come legna da ardere; diceva: «Lizzie, andiamo».
«Non ho ancora finito.» La voce di Lizzie lenta, invecchiata.
«Non mi va più di aspettare. La gente ci guarderà» disse Emma.
«Bene. E perché non dovrebbe? Siamo Borden, noi. Abbiamo fatto molto per questa città.»
Emma si allontanò dalla sorella e si mise all’ombra di una vetrina. Due bambini corsero sul marciapiede, andando verso Lizzie, e lei si girò e li guardò, rivolgendogli un sorriso. «Buongiorno, bambini» disse, con la voce di una strega. «Avete ringraziato il Signore di questa magnifica giornata?» I bambini si fermarono e scossero la testa. Uno era sul punto di piangere.
«No, signorina Lizbeth.»
«Dovreste pensare sempre al Signore.»
I bambini cercarono la loro madre, poi corsero via. Lizzie rise.
«Vorrei che la smettessi di comportarti in questo modo» disse Emma.
«Mi sto solo divertendo. Rilassati, Emma.» Restò in mezzo al marciapiede, obbligando i passanti a girarle attorno e a sfiorarla lievemente, come in una danza. Nessuno cercava il suo sguardo. Emma si incamminò, salutò un uomo che si stava avvicinando, entrambi fecero un educato cenno del capo, e Lizzie dopo un po’ la seguì. Sgattaiolai silenziosamente dietro a loro.
«Vorrei fare un pranzo con degli invitati» disse Lizzie.
«L’abbiamo già fatto la settimana scorsa» rispose Emma, afflitta.
«Ma voglio che vengano altri ospiti» proseguì Lizzie come se avesse il broncio.
«Mi sembra un’ostentazione.»
«Come dite, padre?» Lizzie rise.
Emma affrettò il passo, le anche le tremavano dallo sforzo.
«Mi è uscita un po’ male, lo so.» Lizzie cercò di ridurre lo spazio fra lei e la sorella. Io continuavo a seguirle, mantenendo la distanza, aspettando il mio momento.
Uscì il sole. Gli uccelli cantarono. Lizzie dischiuse la mano finché divenne piatta e la alzò al cielo, schioccando la lingua dietro ai denti, in attesa che un uccello ci si posasse. Visto che non ne arrivò nessuno, cercò di infilare il suo braccio sotto a quello di Emma. Lei si allontanò ancora. Percorremmo ampie strade, le case divennero ville, gli spazi fra di loro pianure. Alcuni cagnolini uggiolavano sui prati all’inglese, urinavano su cespugli di rose e di regine dei prati, scavavano attorno a malvarose gialle e del colore del sangue rappreso. Girato l’angolo per imboccare French Street, le sorelle si diressero verso una grande casa bianca. Queste cose ti porta un’eredità: soldi, vita.
«Oggi mangerò nella stanza sul davanti.» Lizzie, la dolcezza fatta persona.
«Come, scusa?» Emma raddrizzò la schiena.
«Tocca a te preparare da mangiare.»
«Non sono la tua domestica.»
Lizzie agganciò il braccio a quello della sorella, le appoggiò la testa sulla spalla. Poi le passò il pollice sulla gonna. «Sii gentile, Emma cara. Sono solo una bambina...»
«Sì, Emma, è solo una bambina» dissi io a quel punto, mettendomi il pollice in bocca. Non avevo pensato di palesarmi così presto, ma si era presentato il momento perfetto.
Emma si girò per prima, e nel vedermi inspirò con una tale foga da risucchiare tutta l’aria intorno a lei. «Buon Dio!» Le guance si infossarono, gli zigomi si fecero aguzzi.
Lizzie mi studiava, mi osservava il viso.
«È un po’ che non ci si vede, Lizzie» dissi. «Ma sono tornato, come avevo promesso a vostro zio.»
Emma si sfregò la mano sul petto, si massaggiava il cuore. «Lizzie, conosci quest’uomo?»
Lizzie inclinò la testa. «Non ne sono sicura» sussurrò.
Mi avvicinai, dissi: «Per la vita del Signore, non avrai alcuna colpa per...».
Lizzie si toccò la fronte. «Come fai a conoscere...»
«Lizzie, chi è questa persona?» chiese Emma.
Mi avvicinai, aprii la borsa con le mie cose. «Ho pensato che ci teneste a riavere i vostri oggetti. Stavo per darli a vostro zio ma poi le cose si sono complicate.» Sorrisi a entrambe. «A dirla tutta sono contento di averli tenuti. Perché adesso posso avere quello che mi è dovuto. Direttamente da voi.»
«Di cosa parli?» Lizzie era confusa.
«Della mia ricompensa. John mi chiese di aiutarvi. Io ho tenuto il segreto. Ora mi rendo conto che John non ha rispettato gli accordi.»
«Non ci parlo quasi più con zio John.» Lizzie pronunciò queste parole come in stato confusionale.
Emma la tirò per la spalla, cercando di allontanarla da me. «Ora chiamo la polizia.»
Il sole era caldo, faceva prudere la pelle. Infilai la mano nella borsa, tirai fuori il frammento di cranio di Abby e lo misi a terra. Lizzie si toccò la fronte. «L’ho trovato nella stanza» dissi.
Lizzie si allungò per prendere il frammento ed Emma si coprì la bocca, sbiancò. «Feci un sogno strano quella notte» sussurrò Lizzie.
«E poi ho trovato questa.» Tirai fuori la testa macchiata dell’ascia, mettendola accanto al frammento di cranio. Guardai Emma, poi dissi: «Eravate a conoscenza delle sue intenzioni?».
Le sorelle fissarono ciò che stava davanti a loro. Emma si irrigidì, come in una bara, guardò la sorella, mi gettò un’occhiata. Colsi qualcosa nei suoi occhi, come se stesse cercando di capire. «Sta dicendo la verità?» Emma, con la voce soffocata.
Lizzie si voltò verso di lei e la sorella indietreggiò. Lizzie iniziò a dire: «Non è...».
Emma indicò gli oggetti, era calma. «Allontana da me queste cose.» Per un istante ci fu silenzio. C’era un lieve venticello. Poi il corpo di Emma iniziò a tremare, una frana di emozioni. Uno strano rumore procedeva lentamente dalla sua gola. Avrei riso di lei se non avessi desiderato così tanto il denaro che mi spettava.
Lizzie provò a circondare con il braccio la schiena di Emma. «Lo sapevo» sussurrò quest’ultima. «Lo sapevo.» Spinse via la sorella, corse più in fretta che poteva verso casa.
Guardai il frammento di cranio e la testa dell’ascia. «Lizzie,» dissi «mi chiedevo: siete più felice ora che vostro padre è morto?» Parte di me voleva che rispondesse di no. Non volevo essere l’unico a sentirsi insoddisfatto dopo aver punito i suoi genitori.
Lei urlò, mi sputò ai piedi. «Sei un essere spregevole, malvagio» balbettò, sembrava che la linfa vitale la stesse abbandonando.
«È così che mi ringraziate per aver preso l’arma? Vi ho aiutato a salvarvi. Ho mantenuto il segreto per voi. Voglio i miei soldi.»
Lei si toccò la fronte, rivolgendomi un’occhiataccia. Infilò la mano nella borsetta, prese una moneta e me la buttò ai piedi. Non mi piacque quel gesto. Lizzie se ne andò con passo traballante verso casa e io rimasi lì, incerto e pensieroso. Nelle case attorno c’era un po’ di agitazione, i vicini sporgevano la testa dalle zanzariere. Se non avessi fatto attenzione avrei avuto degli spettatori. Non potevo farmi catturare, non ora che mancava così poco. Ero in quella situazione per colpa di Lizzie e di suo zio. Presi gli oggetti e li rimisi nello zaino.
Restava solo una cosa da fare. Avrei dovuto punirla, proprio come papà, come facevo di solito quando sistemavo i problemi. Avrei potuto assaggiare la dolcezza del sangue. Un uccello riecheggiò forte tra i rami degli alberi, alcune porte si aprirono lasciando fuoriuscire delle voci. Mentre camminavo verso la casa di Lizzie ed Emma mi sentivo le gambe dure come il cuoio, uno schiocco di frusta, mani gonfie, fatte di nocche. Sentivo che Lizzie mi doveva spiegare per filo e per segno che cosa era successo quel giorno.
La casa sembrava dipinta di fresco, bianco su bianco, e c’era un piccolo roseto dai fiori penduli rosa e bianchi. I gradini di cemento che portavano alla porta erano grossi, semplici, un posto adatto a spaccare un cranio. Nel portico anteriore un dondolo oscillava al vento, e mentre dondolava vidi con la coda dell’occhio un uomo uscire da casa sua con in mano delle cesoie per siepi; gli feci un cenno del capo, come un bravo vicino.
«Che cosa fai?» gridò il vicino.
Io girai la testa. Lui si schiarì la gola, mi guardò. Lo ignorai, pensando che, se fosse stato necessario, me la sarei vista con lui più tardi.
Ridiscesi i gradini sul davanti e mi diressi verso il lato della casa. Sentii ancora quella voce. Lungo la fiancata della casa c’era un piccolo avvallamento del terreno e sopra una finestra aperta. Mi guardai attorno in cerca di qualcosa su cui salire e, vicino a un pero, vidi una sedia di vimini. La spostai facendo un gran rumore, la misi sotto la finestra e guardai dentro. Sentii Lizzie ed Emma nel corridoio, voci di ceramica rotta.
«Non puoi farmi questo» disse Lizzie.
«Ti ho creduto più a lungo che ho potuto.»
Si avvicinarono, la schiena di Lizzie rivolta all’ingresso della stanza. Batté i piedi. «Hai promesso di non lasciarmi mai.»
«E tu mi hai promesso che il passato sarebbe rimasto nel passato.»
Mi leccai le labbra, mi appoggiai alla casa e mi sporsi dentro attraverso la finestra. Stavo contribuendo a distruggerle.
«Non è colpa mia. Il tizio che abbiamo incontrato era soltanto un folle.»
«Non voglio vederti mai più.»
«Non lo pensi davvero.» La voce di Lizzie iniziava ad assottigliarsi, a morire, come quando aveva trovato i suoi colombi uccisi.
«Sono stanca, Lizzie.»
Le dita di Lizzie afferravano, si spostavano sulle mani di Emma.
«Ho già chiamato il signor Porter. Fra poco verrà a prendermi.»
«Stai venendo meno alla promessa che hai fatto a mamma.»
«Non ti devi permettere.» Emma la spinse leggermente e lei mise il piede in fallo, poi proseguì lungo il corridoio, lasciando lì Lizzie, che urlava con voce gutturale: «Siamo sorelle! Siamo sorelle!».
Lizzie urlò dietro a Emma, disse: «E io ti voglio bene». Gridò un’ultima volta: «Non mi lasciare sola, Emma».
Pensai a mia madre, anche fra di noi era finita così. Niente più promesse d’amore. Digrignai i denti.
Il vicino gridò: «Cosa stai facendo?». E io mi voltai, lo vidi di fronte a me nel suo cortile e capii che il mio tempo si stava esaurendo. Saltai giù dalla finestra e ritornai di corsa verso la porta principale lungo il fianco della casa. Strinsi i denti. Immaginavo la mia mano sulla bocca di Lizzie, la forza con cui l’avrei schiacciata.
Mi avvicinai alla porta principale mentre si apriva. Emma uscì con due valigie, un sorrisino sulle labbra. Lizzie gridò: «Dammi un’altra possibilità». Ma lei non rispose e percorse il sentiero fino al ciglio della strada. Una Cameron Runabout gialla si fermò; ne discese un uomo che le prese le borse mentre lei saliva in macchina. Il motore andò su di giri.
La mia ultima opportunità per sistemare le cose. La porta davanti si chiuse mentre la macchina si allontanava. Sentii il vicino – «Io ti ho avvertito, adesso chiamo la polizia» – e camminai con passo breve e veloce fino alla facciata della casa, calpestando la parola Maplecroft tatuata nel cemento. La testa dell’ascia ballonzolava nello zaino. Immaginai la grazia con cui il mio pugno sarebbe affondato dentro Lizzie, e come l’avrei fatta diventare rosso brillante. A cose fatte avrei saccheggiato la casa, mi sarei preso quello che mi spettava e poi sarei scappato via di corsa, il più veloce possibile, finché avrei trovato mia mamma, finché mi sarei sentito meglio, finalmente. Dentro casa Lizzie singhiozzava e io bussai alla porta, aspettando che lei rispondesse.