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Bridget

4 agosto 1892

L’ultima volta che avevo provato ad andarmene da quella casa la signora Borden mi aveva aumentato il salario a quattro dollari alla settimana e mi aveva portato a Boston. «Lo sai che la mia schiena non è più quella di una volta. Ho bisogno che Bridget mi accompagni in giro» aveva detto al signor Borden quando questi aveva contestato la spesa di un secondo biglietto del treno.

«D’accordo.»

Avremmo fatto una visita in giornata a sua zia, che continuava a dimenticare cose, a dimenticare persone. La signora Borden voleva fare una buona impressione. La sera prima della nostra partenza le avevo lavato i capelli con sapone di Castiglia e rosmarino, grattandole con le dita il cuoio capelluto, ritrovandomelo fin sotto le unghie. «Non te ne pentirai, Bridget.» Non mi ero interrotta per chiederle che cosa intendeva.

E così ci eravamo stipate nel treno, la signora Borden con il suo cappotto beige da viaggio, io in nero; reggevo la sua sacca a fiori rossi e viola, colma di tutto ciò che necessitava, e lei mi aveva lasciato sistemare accanto al finestrino e si era seduta proprio vicino a me, e quando il treno si era mosso in avanti si era sentito un fischio: Fall River si allontanava dietro a noi. Fummo colte dalla sensazione di stordimento di quando si parte.

«Non sarà bello, noi due sole?» disse.

Quel modo di pensare a noi. Non era normale. Non eravamo parenti. Ma aveva il viso rilassato, sorrideva, e mi prese per mano, la sua così fredda e carnosa, e mi accarezzò dandomi dei colpetti affettuosi come avrebbe fatto mamma, e io le dissi: «È bello essere via da casa».

Boston. L’aiutai a scendere e lei per superare l’ampio spazio vuoto fra il treno e la banchina si appoggiò a me; ci insinuammo nel folto della folla, tra donne che indossavano abiti di cotone e di seta a righe bianche e blu scuro, e poi uscimmo dalla stazione, camminammo sul marciapiede di sassolini di catrame e aspettammo un tram sul ciglio della strada.

«Mi dimentico sempre quanto è più grande qui» disse la signora Borden.

Eccome se era più grande: pensai che lavorare a Boston mi avrebbe permesso di tornare a casa prima.

Salimmo sul tram, riposandoci sul liscio parapetto di legno, e chiesi alla signora Borden: «Dove incontreremo vostra zia?».

Lei si passò la lingua sulle labbra e disse: «Da nessuna parte. Ci prendiamo un giorno per noi».

Un’altra cosa che avrei dovuto tenere per me.

Il tram tintinnava, girava angoli e discendeva una strada dopo l’altra; l’aria della città mi colpì, quell’insieme di legna da camino, fango e carbone, di profumo e suole di cuoio, di corpi che camminavano vicini e di eccitazione, mi diede le vertigini, e scendemmo una strada dopo l’altra finché ci trovammo di fronte all’emporio Filene’s. La signora Borden gonfiò il petto, sembrando più imponente. «Scommetto che qui non ci sei mai stata.»

«No, signora.»

Mi prese per il braccio, mi spinse oltre le ampie porte e mi condusse nel reparto vestiti, come quelli che Emma e Lizzie indossavano per andare in chiesa. Mi fece cambiare. Un vestito dopo l’altro. Seta e cotone damascato, troppo per la mia pelle. «Questo è stupendo» diceva, ancora e ancora. Mentre mi trattava come la sua bambola vivente io scrutavo un piccolo ombrellino dai merletti viola e con la maniglia d’argento sbalzato, e mi immaginavo di possederlo, mi immaginavo di obbligare Mary a parlare in modo affettato mentre glielo mostravo. Ma non comprammo nulla. Quando la signora Borden si stufò ce ne andammo e continuammo la nostra giornata all’aperto.

Ci prendemmo a braccetto e la signora Borden mi trattò come una figlia mentre percorrevamo Park Street e superavamo la Brewer Fountain, dove l’acqua ci colpì dall’alto, freschi schizzi sul viso, mentre superavamo la chiesa e il suo campanile troppo bianco, le bandiere di stoffa rosse bianche e blu dell’Union Club, con i suoi rosoni rientranti nella facciata di mattoni. Proseguimmo dirette al parco Boston Common. Entrammo dai cancelli di ghisa appuntiti come le lance dei racconti di papà, lance su cui infilzare teste per mettere in guardia i nemici. La signora Borden si fermò un momento, mi lasciò andare, rimase sola. Si girò verso di me, disse: «Non è bellissimo?».

«Sì, signora.»

«Adoro gli olmi» disse. «Chissà quanto crescono. Non sarebbe stupendo essere alti come loro?» Alzò le braccia e il vestito le strizzò il petto.

Guardai in alto verso la loro volta verde e voluminosa, guardai il vento che scuoteva le foglie ruvide, vidi un coniglio selvatico raggiungere un tronco grigio dalla corteccia spezzata e strofinarcisi contro, perdendo il pelo. «Sì, davvero.»

Passammo un’ora sedute nell’erba alta, un’ora spesa a indovinare gli odori catturati nell’aria.

«Questo è caffè tostato.»

«Questo è il porto.»

«Questo è odore di cavalli freschi.»

La nostra pancia implorava cibo. «Andiamo» disse. «Conosco un posto.» Presi fra le mie le sue mani sottili e la tirai su da terra. Attraverso il parco raggiungemmo School Street, poi andammo ancora un po’ avanti fino all’hotel Parker House. Conoscevo questo posto. «Le signorine Lizzie ed Emma vengono qui a mangiare» dissi.

«E ora anche tu.»

L’hotel era in mattoni e pietra calcarea, mi ricordava una villa signorile che una volta avevo visto a Dublino quando mio padre aveva dovuto accettare un lavoro sul Liffey. Entrammo e ci sedemmo in sala da pranzo, ascoltando le chiacchiere concitate di tutta quella gente. Ci portarono dei panini freschi e croccanti, burro salato giallo scuro, una scodella di cremosa zuppa di vongole di colore grigio, addensata con biscottini salati e ricoperta da una spolverata di prezzemolo. Ci affondai il cucchiaio, trangugiandola come i Borden. Non avevo mai visto la signora sorridere così tanto.

Nel pomeriggio ce ne andammo, tornammo alla nebbia del cotonificio di Fall River. La signora Borden mi accarezzò la mano per tutto il viaggio e quando il treno iniziò a rallentare e si fermò in stazione disse: «Restare ha i suoi vantaggi, Bridget».

Con quelle parole mi aveva guastato la giornata, mi aveva ricordato che il giorno del mio ritorno a casa era ancora molto lontano.

Mi destai, un nuovo mattino, uguale a tutti gli altri. Mi svegliai dal caldo, mi pizzicava la pelle, mi girai e mi sentii svenire, sentii lo stomaco ribaltarsi. La giornata si preannunciava complicata. Accesi la lampada, guardai la mia famiglia appesa al muro e dissi: «Oggi le chiederò di restituirmelo».

Rimasi a letto. Il mattino era silenzioso, come non accadeva da tempo, nessuno camminava, nessun colombo faceva rumore. «Va bene, mi alzo» dissi; aprii la porta, uscii sul pianerottolo e notai che fuori c’era già molta luce. Avevo dormito troppo. Volai al piano di sotto senza fermarmi ad ascoltare il signore e la signora Borden. Misi il brodo di montone sul fuoco – Dio quanto puzzava – l’assaggiai per vedere se aggiungere del sale e notai che il muro vicino alla stufa luccicava, che c’erano due lunghe strisce di umidità. Passai il grembiule sul muro, annusai il cotone. Burro e grasso. Lo ripassai e le strisce iniziarono a gocciolare. Sentii qualcuno scendere dalle scale sul retro, mi guardai alle spalle. La signora Borden. Mi si avvicinò, inizialmente senza dire nulla, e continuai a rimescolare la pentola. Restò in piedi a guardarmi e finalmente disse: «Inizi tardi».

«Mi dispiace, signora.»

«Non permettere al dispiacere di impedirti di lavorare.»

Iniziai a preparare dei pancake. Lei mi guardava e presto il signor Borden scese giù dalle scale, col vaso da notte, e io sentii l’urina che ci turbinava dentro e la signora Borden che digrignava i denti. L’odore era penetrante. La cucina divenne calda, affollata. Il signor Borden uscì e svuotò il vaso. Mescolai di nuovo e la signora Borden mi guardò, grattandosi le tempie.

«Vai a chiamare il signor Morse» disse. Mi diede un’occhiata, mi rivolse un cenno con la mano e io feci quello che mi aveva chiesto, la giornata sarebbe passata più in fretta.

Bussai alla sua porta e sentii che si schiariva la gola, che la viscosità del mattino risaliva e veniva sputata nel secchio per l’acqua sporca.

«Signor Morse. È ora di colazione.»

Si precipitò verso la porta, la aprì. Eravamo di fronte, era ancora troppo presto per essere così vicini. «Buongiorno, Bridget.»

«’Giorno.»

«Non è una mattina splendida?» Il suo alito odorava di calze vecchie.

«Sì.»

«Una buona notte di sonno mi mette sempre di ottimo umore.»

Annuii. «La colazione è pronta.» Lo lasciai lì, tornai in cucina e iniziai a servire il brodo di montone e i pancake.

John raggiunse i Borden in sala da pranzo e parlò con la signora Borden di come avevano dormito, dei sogni che avevano fatto. Io portai il cibo, cercando di non annusare il brodo, cercando di placare la nausea. Li lasciai soli e andai a sedermi sugli scalini della porta di servizio, mi misi la testa fra le gambe, mi sentivo come su una nave diretta a casa, sopra e oltre le onde. Ascoltai il viavai di piedi sulla strada e chiusi gli occhi, contai da dieci a zero, da zero a dieci, ancora, ancora, aspettando che la nausea passasse.

Lizzie gridava il mio nome, fui costretta a rientrare.

«Oggi che cosa fai?» Lo chiese senza sbattere le ciglia, mi guardava in modo strano.

«La signora Borden non me lo ha ancora detto.»

«C’è una svendita di stoffa. Potresti comprarne qualche metro per farti una nuova uniforme.» Aveva addolcito la voce.

«Preferirei di no. Non ho energie.»

«Ma è solo oggi. Anche la signora Borden ci andrà.» Parlava rapidamente, sembrava afflitta.

«Non mi sento bene, signorina Lizzie. Preferirei...»

Mi fissò, poi disse: «Va bene, fa’ come ti pare» e mi lasciò sola, raggiungendo il padre in soggiorno.

«Buongiorno.»

«Buongiorno.»

«Come vi sentite oggi, padre?»

«Vedremo. Ancora non del tutto bene.» Lo disse lentamente. Mi chiesi quando le avrebbe detto dei colombi.

Andai in soggiorno, presi i piatti e li portai nel retrocucina, poi mi misi a lavarli. In quel momento la signora Borden entrò come un tuono e disse: «Quando avrai finito, pulirai l’esterno delle finestre». Lo disse come se fossi una sconosciuta.

Sfregavo il panno su una scodella, non le risposi. Lei rimase lì, mi guardava, e poi domandò: «Hai ancora intenzione di andartene?».

Sfregavo. «Sì, signora Borden.» La guardai, aveva gli occhi bassi, vitrei, sembrava molto debole. Pensai alla mia mamma.

«Signora, speravo di riavere il mio barattolo.»

Lei scosse la testa.

«Signora Borden, ci sono tutti i miei soldi lì dentro. Ho cucinato, ho pulito. Sono rimasta.»

Si strofinò le tempie. Ci guardammo, sentii Lizzie e il signor Borden che parlavano fitto, come d’abitudine, e lei disse: «Lava quelle finestre per bene e poi vedremo».

«Sì, signora.» Cercai di non essere sgradevole, perciò le dissi qualcosa di vero. «Penso ancora al nostro viaggio a Boston.» Sorrisi.

«Sì?» disse. Non riuscivo a indovinare il suo umore.

«Grazie, Abby.» Il suo nome mi scivolò dalla lingua, spontaneamente. Il ritorno a casa era vicino.

Lei si allontanò di qualche passo, si asciugò un occhio, fece per parlare ma poi rimase in silenzio. Invece, salì le scale sul retro, lasciandomi con i piatti, lasciandomi ad ascoltare Lizzie che diceva al signor Borden: «Vado a dare da mangiare ai colombi».

Finii l’ultimo piatto e quando entrai in cucina vidi che il signor Borden stava lì in piedi, le spalle curve in avanti. Mi asciugai le mani bagnate sul grembiule e lui disse: «Scusami». Mi spinse via e uscì con passo spedito dalla porta di servizio.

Scesi nel seminterrato, presi il sapone per le finestre e sentii Lizzie urlare. I colombi.

Fuori, al caldo, con la faccia in fiamme, lo stomaco si rivoltò come dopo uno spavento e sussultai, mi misi a quattro zampe e mi abbandonai, tutto quel vomito nell’erba. Dopo, mi sembrò di sentire un picchiettio provenire dalla stalla e pensai che dovevano essere colombi, che doveva essere Lizzie; mi diressi sul lato sinistro della casa e iniziai a pulire le finestre. Lungo la parte inferiore del vetro c’erano delle ditate e mi chiesi quando erano finite lì, in che momento Lizzie aveva deciso di rovinare il mio duro lavoro. Svuotai il secchio e mi diressi in casa per riempirlo, pensando di riferire alla signora Borden cosa avevo trovato.

Con l’acqua pulita ritornai alle finestre e notai delle pere mezze mangiate che dal pergolato conducevano al lato della casa. John e Lizzie erano stati là fuori la notte prima. Che strani giochi avevano fatto? Il sudore mi gocciolava sulle cosce e mi abbandonai di nuovo, vomitando davanti a me.

«Bridget?» La voce di Mary dietro la staccionata.

«Sì?»

«Stai bene?»

«Mai stata meglio.» Ah, che voglia di dormire che avevo. Mi appoggiai alla staccionata.

«Che ti ha preso?»

«La roba che ho cucinato.» Restai in silenzio, aspettando che la nausea passasse. «O forse è la signora Borden che mi punisce.»

Mary rise.

«Dico davvero. Probabilmente preferirebbe vedermi avvelenata che vedermi andar via.»

«Oh, Signore! Aspettami lì.» Mary strascicava i piedi dietro la staccionata, zoppicava, e ben presto fu davanti a me, le rosee guance da cherubino, la gonna tirata su che lasciava intravedere il fondo dei mutandoni.

La studiai. «Ho interrotto qualcosa o sbaglio?»

Mary mi diede un pugno sulla spalla. «Dai, smettila. Stavo pulendo i pavimenti.»

«Darai spettacolo andando in giro così.»

«Di sicuro niente in confronto a quello che hai dato tu quando hai parlato con la signora Borden delle tue novità.»

«Si è presa il mio barattolo.» Lo stomaco si lamentò, un piccolo diavolo.

«Ti tiene in ostaggio!» Mary si avvicinò zoppicando e mi mise la mano sulla fronte. «Bridget, sei ustionante.»

Gliela spinsi via, con delicatezza. «Continua così che diventi un investigatore.»

«Non dovresti essere qui.»

«Non ho voce in capitolo.»

Mary scosse la testa. Entrambe guardammo la casa, i pezzettini di vernice verde che si staccavano, la strisciata secca degli escrementi di un colombo accanto alla finestra della sala da pranzo. Un ragno che infilzava le zampe in una rete. Il signor Borden non aveva mai fatto manutenzione alle fiancate della casa.

Poi Mary mi guardò e disse: «Credi che domenica sarai già abbastanza in forma per giocare a carte?».

«Stai tranquilla. Ti batterò anche se sarò ancora malata.»

Lei fece un ampio sorriso. «Be’, è ora che torni, così non appena finito con i pavimenti mi esercito.» Mary mi toccò di nuovo la fronte, la mano fredda che dava sollievo, e si voltò per andarsene.

«Mary,» dissi «che cosa faccio se non riesco a recuperare il barattolo?»

Lei rispose con un’alzata di spalle. «Sono sicura che troverai il modo di andartene.»

Ma non sapevo come. Guardai la casa, sentivo la legna scoppiettare nella stufa, il fumo che usciva dal camino. Ricominciai a pulire le finestre. Ci doveva essere un modo.

La signora Borden bussò sulle finestre della sala da pranzo, con la faccia contrariata, e mi disse di fare un buon lavoro, come se non avessi mai pulito una finestra, come se fosse la prima volta che lo facevo. Lavavo, muovevo le mani sul vetro con piccoli movimenti circolari, e la signora Borden strizzava gli occhi, si strofinava la bocca. Mi vennero dei crampi ai polsi. Lei scomparve e io mi fermai. Non avevo voglia di fare nient’altro, dopo quella fatica. Rimasi seduta per un po’, ascoltai lo stomaco che sibilava come un demone, la gente che si precipitava da una parte all’altra di Second Street. Era troppo. «Non faccio più niente» dissi, e quando entrai in casa vidi che non c’era nessuno e notai che qualcuno aveva vomitato vicino al tavolo da pranzo. Nemmeno la decenza di uscire. «Proprio tipico.» Mi avvicinai per vedere meglio e Lizzie mi apparve alle spalle. Le dissi della sporcizia che avevo trovato, che ero preoccupata per la signora Borden. «È troppo vecchia, questo caldo le fa male.»

Lizzie mi accarezzò le spalle, non mi piaceva quando mi toccava e ora era troppo vicina; le guance sembravano arrossate, come se avesse corso. «Non ti preoccupare di nulla, Bridget.»

«Dov’è la signora Borden?»

Lei inclinò la testa di lato, guardandomi come se fossi un po’ scema. «Ha ricevuto un biglietto da un parente malato che le chiedeva di andarlo a trovare.»

Non mi ero accorta che qualcuno aveva consegnato un biglietto, non l’avevo sentita andar via. Lizzie continuava a guardarsi alle spalle e io mi chiesi se stava aspettando John.

«No, è uscito un po’ di tempo fa.» Si stava masticando un’unghia, poi la sputò sul tappeto.

Non avevo sentito uscire nemmeno lui. Mi sembrava tutto strano. Avevo proprio bisogno di riposarmi. In quel momento Lizzie ruppe la sua stessa promessa, offrendosi di aiutarmi a pulire in sala da pranzo. «Tu finisci le finestre, qua faccio io.»

Esitai. Se non avesse pulito alla perfezione la signora Borden non mi avrebbe restituito il barattolo. Ma l’idea di dovermene occupare io...«Va bene.»

Lizzie salì le scale, le ridiscese, fece dei rumori martellanti, dei lievi grugniti. Si lanciò nella stalla e ne uscì fuori con la stessa foga e non potei fare a meno di pensare che stava combinando qualcosa. Andai a controllare. Stava usando il manico di una scopa per ammonticchiare il vomito in un cumulo di poltiglia marrone prima di raccoglierlo con un panno e buttarlo dentro a un secchio. Lizzie e i suoi conati. Avevo voglia di riderle in faccia. Lizzie puliva soltanto se voleva qualcosa. Me ne andai.

Il mattino proseguì, si fece più caldo. Mi misi a pulire una finestra del seminterrato, augurando alla signora Borden di andarsene all’inferno per quella sfacchinata e fui raggiunta da Lizzie che, con l’aria da santerella, disse: «Perché non entri e ti riposi?».

Entrammo. Bevemmo insieme dell’acqua. Lei mi fissava. La peluria dietro al collo mi si rizzò.

«Ora vado su» disse.

«Va bene.»

Quando se ne andò ficcai la testa in sala da pranzo. Se n’era andata senza pulire per bene il vomito da sotto il tavolo. Portai il secchio dell’acqua in sala da pranzo e mi sedetti un attimo sul divano. La casa era silenziosa.

L’orologio suonò le dieci e poco dopo si sentì tamburellare sulla porta davanti, qualcuno cercava di entrare. Mi alzai e rimasi in attesa. Sentii un colpo, un altro colpo e poi il signor Borden gridò: «Non riesco ad aprire la porta».

Corsi da lui, armeggiando per prendere le chiavi – Uff! – e aprii, era tutto pallido e sudato.

«Signor Borden, state bene?»

I suoi occhi rotearono, forse involontariamente. «Purtroppo no. Sono stato male al lavoro, non la digerisco questa giornata.»

Entrò, mi porse cappello e cappotto e io sentii Lizzie ridere, la vidi in piedi sulle scale, a metà strada, dondolava leggermente, da una parte e dall’altra. Il signor Borden si andò a sedere sul divano nella sala da pranzo, massaggiandosi il viso con le mani.

«Lasciate che vi aiuti a mettervi comodo» dissi.

«No, Bridget. Ci penso io a papà.» Lizzie era lì dietro di me, le mani giunte davanti a sé. «Tu perché non vai su a riposare?»

«Va bene» dissi. «Chiamatemi quando avete bisogno.»

Li lasciai lì a parlare, nella sala da pranzo; Lizzie gli stava dicendo che la signora Borden era uscita e io salii le scale, mi dolevano la testa e il corpo, entrai nella mia stanza, chiusi un poco la porta e giacqui, accaldata, sul letto.

L’inverno scorso la neve e il vento avevano sferzato la casa per tutta la notte, come un fantasma che bussa chiedendo di entrare, come se volessero seppellirci. Ero scesa giù per le scale sul retro, con le caviglie che schioccavano, e avevo bussato alla porta del signore e della signora Borden finché le nocche non mi erano diventate viola. Lui aveva aperto la porta. «Che c’è?»

«Questa neve mi preoccupa. Sembra che stia arrivando una bufera.»

Aveva incrociato le braccia. «La casa è sicura. Passerà.»

«Sì, ma mi chiedevo se...»

«Bridget, lasciaci in pace. La casa è sicura.»

Aveva chiuso la porta e la signora Borden gli aveva detto: «È successo qualcosa a Bridget?». Avrebbe dovuto venire alla porta, parlare con me. Entrambi avrebbero dovuto ascoltarmi. Ritornai in stanza e al mattino mi svegliai per le urla della signora Borden che diceva: «La porta non si apre! Andrew, siamo bloccati».

Scesi di corsa le scale e la trovai davanti alla porta di servizio, sconvolta. «Bridget,» aveva detto «è successa una cosa tremenda». Guardammo la porta. Io avevo provato a dirlo al signor Borden. La casa non ci lasciava uscire.

Più tardi Lizzie aprì una persiana. Centimetri di neve si erano compattati contro la finestra. Lei schiacciò la mano sul vetro, impronte sudate sulla mia finestra pulita, e disse: «Sembra che sia dentro assieme a noi». La neve non era bianca, ma un nevischio sudicio di fuliggine, di sassolini e terra, c’erano anche dei rametti.

«Chiudi la persiana» ordinò il signor Borden.

«Ma voglio vedere per quanto tempo riesco a tenere la mano sul vetro.» Un gemito.

Lui sospirò e poi ribadì: «Ti ho detto di chiudere le persiane». La sua voce era un rombo di tuono. Lizzie obbedì.

«Preparo del tè per scaldarvi?» domandai.

Il signor Borden si voltò verso di me. «Va bene. Assicurati che tutte le finestre siano chiuse. Non voglio che da questa casa esca nemmeno un filo di calore.»

«Sì, signore.» Annuii e obbedii anch’io. La casa era bloccata.

Era stato l’inizio di una serie di giorni passati insieme. Lizzie ed Emma restavano nel loro lato della casa, rintanate in stanza come topi. Mi chiamavano per dirmi: «Bridget, vieni a portare via i piatti».

«Bridget, portaci del tè.»

«Bridget, è rimasta un po’ di torta?»

Gridavano e gridavano, non uscivano mai dalle loro stanze, mi facevano lavorare fino allo stremo delle forze. Dovevo andare a prendere i loro vasi da notte, le mutande sporche, raccontare che cosa facevano i loro genitori. Spesso litigavano, bisticci fra sorelle, e la casa si riempiva di urla e del rumore di porte sbattute, allora io mi tappavo le orecchie, cercavo di isolarmi dall’esterno e di continuare le mie faccende.

Poi, dopo quattro giorni di neve, quando i caloriferi al piano di sopra si spensero, Lizzie ed Emma dovettero raggiungere il signore e la signora Borden al piano terra. Tutti e quattro in soggiorno, con quell’orologio che ticchettava, la bocca ermeticamente chiusa, il signor Borden che aspirava la pipa mentre se la passava fra i denti, io che portavo avanzi di carne che tagliavo con mani gelide come la morte da cui mi scivolava il coltello, ferendomi le dita, e il calore dei corpi che urtava quello degli altri facendoli sbadigliare. E così, i miei nervi andarono in pezzi.

Lizzie ed Emma si intrecciavano i capelli a vicenda, la signora Borden faceva l’uncinetto. Leggevano, e io facevo ciò che mi chiedevano. Un pomeriggio, mentre eravamo tutti nel soggiorno avvolti nelle coperte e fuori la neve scendeva ancora fitta, i Borden si erano addormentati, con la bocca spalancata, l’aria che entrava e usciva come la marea dell’oceano e odorava di carne vecchia e burro. Io ero seduta e mi mordevo le unghie, e pensai di mettergli in bocca i pezzetti tagliati, per vedere cosa sarebbe successo. L’unica cosa certa era che mi avrebbero rispedito all’agenzia dicendo che nessuno avrebbe mai dovuto assumermi. Misi i pezzetti nella tasca del grembiule e li guardai dormire, chiedendomi che cosa stessero sognando. Uffa, che noia.

Mi spostai per guardare le foto sulla mensola del camino. Ecco Emma, ecco Lizzie, un anno dopo l’altro. Nelle foto Emma sembrava sempre sofferente, come se le avessero raccontato delle cose da incubo. Poi c’era Lizzie, l’opposto. Avevo sempre pensato che non sembrassero parenti, che avessero fatto apparire una bambina dal nulla e l’avessero piazzata nella stanza dell’altra. “Ecco qui” doveva aver detto qualcuno. “Ti abbiamo trovato una sorella, qualcuno che ti faccia compagnia.” Sembrava che Emma non fosse mai stata contenta di quell’accordo di sorellanza.

La bufera di neve era continuata per altri cinque giorni e noi eravamo rimasti insieme in casa, tutti stretti, tutti caldi, finché il tempo era cambiato, la neve si era sciolta, e allora avevo aperto per prima la porta e una finestra, per far entrare l’aria fredda.

Pensavo all’inverno e mi chiedevo quando la signora Borden sarebbe tornata dalla sua visita, quando avrei potuto andarmene da quella casa, tornare dalla mia famiglia, tornare alle sensazioni più belle, quando all’improvviso sentii un suono, un toc violento provenire dal piano terra.

Pensai al signor Borden e ai colombi. Toc. Non c’era rumore di colombi. Toc. Il cuore iniziò a battermi forte e mi aggrappai al letto, girandomi verso la mia famiglia. Toc, toc. Un suono simile a un grugnito, a un animale che mangia. Toc.

Da dove veniva? Toc, toc.

Un carretto trainato da cavalli passò per la strada. Toc, l’aria era immobile, toc, le campane della città suonavano, c’era troppo rumore. Mi aggrappai al letto, non riuscivo a muovermi, a respirare, a pensare. Mi sentivo scoppiare la vescica. Infine la casa divenne silenziosa. Per un momento mi chiesi se stessi sognando. Non volevo aprire la porta, non volevo scendere, non volevo sapere cosa c’era laggiù.

Poi sentii Lizzie gridare: «Bridget!».