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Benjamin
3 agosto 1892
Avevo conosciuto John a Fairhaven, dopo una notte di risse sanguinose, dopo aver perso fino all’ultimo dollaro e dopo essermi squarciato la gamba con del filo spinato. Lo conobbi come mi capita quasi sempre, per fortuna, per caso, un incrocio di destini. Era l’alba e io ero fradicio. Stavo urinando contro il muro di una stradina, con i miei gioielli in mano, quando un uomo più vecchio di me, alto come un albero, svoltò velocemente nel vicolo, mi si avvicinò arrancando e mi vomitò sugli stivali un liquido denso come una salsa. Si ricompose e poi fece una risatina altezzosa. «Oh be’, questo proprio non me l’aspettavo.»
«Eh, nemmeno io.»
Sì pulì la bocca, mi guardò e disse: «Anche a me ogni tanto piace urinare all’aria aperta. È liberatorio, non trovi?».
Non mi andava di essere interrotto. «Faccio solo quello che devo.»
Annuì, disse: «Mi piace quando un uomo non pensa troppo alle cose che fa. Ci vuole coraggio».
Una cosa che avrebbe potuto dire mio papà. «Ehi vecchio, mi state dando dello stupido?»
Agitò la mano. «Al contrario.» Posò gli occhi sull’acciottolato, storse la bocca e disse: «Mi devi scusare per gli stivali. Ho paura di aver bevuto del latte decisamente andato a male». Si strofinò la mano sull’abito scuro, aveva l’aria del banchiere.
«Vostra mamma non vi ha insegnato ad annusare prima di bere?» Stavo per ritirarmi su i pantaloni quando una voce esplose: «Ehi, tu! Smettila».
Mi voltai velocemente e vidi all’inizio del vicolo un agente di polizia lievemente gobbo e dalla faccia brufolosa. Lo ignorai.
Quello si avvicinò, strascinando gli stivali. Digrignai i denti, ne sentii uno che ballava. Mentre mi mettevo la camicia nei pantaloni il poliziotto, con voce perentoria, disse: «Tu, lurido miserabile».
Mi misi di fronte a lui. «Certo che l’insulto non è il modo migliore per convincere qualcuno a collaborare.»
L’agente si fece più sotto, mi piantò il dito nel petto. «Io dico quello che mi pare.» Poi lanciò un’occhiata al signore anziano, inarcò le sopracciglia. «Che abbiamo qui, uno spettacolino padre-figlio?» Poi ridacchiò, indicando l’inguine di quell’uomo. «Hai tirato fuori l’uccello, vero?» L’uomo arrossì.
A quel poliziotto piaceva umiliare la gente. Non sopportavo quel tono.
«Vi sbagliate» disse l’anziano. «Non è affatto come pensate.»
«Urinare per strada è un reato, non lo sapevi? Dimmi il tuo nome» disse l’agente.
«John.»
«Non mi sembri un tipo laido sai, John? Mica come questo qui.» Il poliziotto si era avvicinato ancora, annusandoci come un cane.
«Non ti avvicinare» dissi. Sottovoce.
«Chiudi quella bocca. Le regole le faccio io.» Si sfilò il manganello dalla cintura, lo picchiò sul muro di mattoni e poi sulla gamba di John, che si ritirò come vecchia sterpaglia che arde.
«Non ti avvicinare» lo misi in guardia.
Il poliziotto, ancora più vicino. «Tu, lurido, lurido miserabile.»
Ne avevo avuto abbastanza. Gli diedi uno schiaffo in faccia, con il mio palmo di ferro, e gli feci girare la testa indietro. Come riscaldamento. Chiusi la mano a pugno e lo picchiai finché sentii un crac, una fontana di sangue; lui si ripiegò su se stesso e il manganello gli cadde a terra. John lo raccolse, se lo sbatté sul palmo e per un attimo pensai che l’avrebbe usato contro di me.
«Fossi in voi non lo farei» gli dissi.
«Nemmeno io.» Me lo porse. L’agente era a quattro zampe, un tavolino di cotone e lana blu. Sollevai il manganello e lo colpii forte. Lui gridò. Lo sollevai, sporcandomi le mani del suo sangue e dissi: «Così impari a colpire un anziano».
Il poliziotto non si mosse, sputò un dente. Non si sarebbe alzato. Poi John mi disse: «Questo proprio non me l’aspettavo».
Lo guardai, vidi l’inizio di un sorriso, uno spazietto fra i denti davanti. Tirò fuori la mano e io la presi, la strinsi. La sua pelle era morbida come quella di un anziano, di una persona che non aveva mai avuto bisogno di usare le mani per lavorare. C’era del sangue sul mio pollice, sul polso e, dopo la nostra stretta, anche sulla sua mano. Tirò fuori un fazzoletto di cotone bianco dal taschino sul petto e si ripulì.
«Piacere, Benjamin» gli dissi.
«Sono davvero contento di averti incontrato, Benjamin. Chissà cosa sarebbe successo se non fossi stato qui.» John mi guardò e indicò la mia coscia lacerata dal filo spinato. «Sembra proprio che ti sia cacciato in un piccolo guaio.»
Io osservai la gamba strappata dei pantaloni, lo squarcio lì sotto.
«Nulla che non possa gestire.»
«Ci credo. Ma dovrai curartela.»
«A suo tempo.»
John si pulì di nuovo la mano, si esaminò le unghie. Gli gorgogliò lo stomaco e ruttò. «Devi scusarmi» disse, massaggiandosi lo stomaco. «Direi che non sono ancora del tutto a posto.»
La gamba iniziava a farmi male, ricordai la ferita bruciante dell’acciaio mentre saltavo un recinto, il dente di un uomo sporco di sangue conficcato nel mio palmo dopo che l’avevo picchiato. Dovevo aver fatto una smorfia, perché John mi chiese: «Hai bisogno di riposare?».
«Non vi preoccupate.»
«Perché non andiamo da qualche parte? Ci riposiamo un po’ e beviamo qualcosa. Mi sento in debito con te, visto come mi hai difeso.» John era troppo amichevole, troppo insistente.
Guardai il poliziotto a terra, ancora svenuto per i colpi subiti. Se non fossi andato con lui mi avrebbe denunciato? Alcuni uomini hanno paura, altri fanno paura. E io sapevo bene a che categoria appartenevo. Con John decisi di rischiare. «Va bene» gli dissi. «Riposiamoci.»
Sorrise. «Conosco un posto tranquillo ma è un po’ lontano. Te la senti?»
«Ho camminato con ferite ben peggiori.»
Ce ne andammo dal vicolo, ci addentrammo a Fairhaven, superammo i ponteggi che circondavano il municipio senza tetto, passando come signori davanti a tutto, e camminammo fino alla tranquilla e polverosa facciata di un locale d’angolo. «Nessuno ci importunerà qui» disse John. Io annuii.
Entrammo, annusammo i fumi del whisky, vedemmo degli uomini: uomini aggrappati a un bicchiere mezzo vuoto, uomini aggrappati alle loro palle, uomini che si giocavano l’ultima chance a carte. Uomini come mio padre. Non badarono a noi. Ci sedemmo al bancone. Annusavo John, sentivo che non apparteneva a posti come questo. Lo respirai, profumava di pulito, appena una traccia di sudore.
Arrivò il cameriere, trascinandosi dietro le gambe corte da donnola. «Vi porto qualcosa?»
Misi le dita in tasca, era vuota, allora guardai John, che scavò nella tasca della giacca e tirò fuori alcune banconote ripiegate. «Due whisky, per scaldarci.»
Il cameriere li versò, ci diede i bicchieri e se ne andò.
Bevemmo a piccoli sorsi, la mia gola tiepida come il liquido, e io feci un cenno con la testa. John sorrise. «Senti, Benjamin, cosa ci facevi in giro stamattina?»
«Ah, niente di che.»
«Un uomo con dei segreti. È una cosa che rispetto.»
«E voi, invece, cosa stavate facendo?» domandai.
«Sono stato sveglio tutta la notte a vomitare e ho pensato che una passeggiata mi avrebbe aiutato ma, purtroppo...»
«Già, purtroppo.»
«D’altra parte, secondo me tutti si dovrebbero alzare presto la mattina. Chi dorme non piglia pesci.» Fece l’occhiolino, bevve del whisky e con un risucchio lo deglutì. Un uomo singolare.
Il locale era rumoroso, tutti bevevano. Uomini che sfidavano uomini e poi si arrendevano rapidamente. Dopo un po’ mi chiese da dove venivo.
«È una storia lunga» risposi.
«Ma non sei di queste parti?»
«No.» Non era mia intenzione dimostrarmi amichevole con lui, ma quella era una situazione insolita. «Voi siete di qui?»
«No, io no. Sono in visita prima di andare a Fall River.»
«E che c’è lì?»
John si sfregò il naso. «La mia famiglia. Per così dire.»
«Per così dire?»
«Le figlie di mia sorella vivono là.»
«E vostra sorella no?»
Si lisciò i capelli con le mani. «È morta tanti anni fa.»
«Io ho delle sorelle.» Lo dissi come se stessimo diventando amici.
«Ci vai d’accordo?»
«Ci andavo. Ma è un po’ che non le vedo.»
Queste parole lo fecero sorridere. «Quindi ti piace tenere le persone a distanza.»
«A volte.»
Mi guardò come se stesse facendo dei calcoli. «Cosa volete?» domandai.
Si lisciò di nuovo i capelli. «Cerco solo di conoscere la persona che mi ha aiutato.»
«Sono uno che risolve problemi» gli dissi. Una mezza verità. Se solo avesse saputo.
Sorrise. «Ah, ne sono certo».
Ci guardammo fisso. Lui si mangiava le unghie, come se stesse pensando a qualcosa, e dopo poco disse: «So che potrebbe sembrare prematuro, vista la nostra recente conoscenza, ma mi chiedevo se prenderesti in considerazione di aiutarmi ancora». Un tremolio nella voce.
«In che modo?»
«Ho bisogno di qualcuno che mi risolva un problema.»
«Di che tipo?»
«Familiare.»
Annuii. «Li conosco quei problemi.»
Sorrise. «Me lo sentivo.» John mi studiò di nuovo, quindi mi guardò la gamba. «Quella te la deve vedere qualcuno.»
Del sangue si era raggrumato sulla superficie dei pantaloni e la gamba emanava odori di ogni genere. «Ho avuto ferite ben peggiori.»
«Sì, però un taglio simile ti può dare problemi.»
«Già, in effetti.»
Gli uomini nel locale continuarono a bere, continuarono a giocare a carte, continuarono. Pensai all’agente, mi chiesi se l’avevano già trovato, se aveva già mandato qualcuno a cercarmi. Era pericoloso star lì seduto. Chiesi a John: «Questo problema che avete, è a Fall River?».
«Sì.»
«E vorreste risolverlo il prima possibile?»
«Prima è, meglio è.»
«Cosa dovrei fare, di preciso?»
«Non so decidermi. Non vorrei perdere il controllo della situazione.»
«Io so controllarmi molto bene.»
Lui fece un cenno con la testa. «Sì, certo, ma sai scomparire? Sai tenere dei segreti?»
L’eccitazione del pericolo mi invase, la sentii spingersi dentro al mio corpo. Non era la prima volta che mi chiedevano una cosa simile. I tempi d’oro stavano arrivando. «È la cosa che so fare meglio.»
John annuì e annuì, un cenno del capo e non si torna più indietro.
«Bene. Perché siamo gente molto riservata. Abbiamo solo bisogno d’aiuto. Ci serve una specie di mediatore, qualcuno che non ci conosce e non faccia preferenze.» Mi mostrò un sorriso a denti radi.
«Chi di preciso ha bisogno d’aiuto?»
«Le mie incantevoli nipoti.» Rimase in silenzio. «Purtroppo non vanno molto d’accordo con il padre. È un uomo testardo, non accetta di buon grado che qualcuno abbia qualcosa da ridire.»
Ne sapevo qualcosa di padri. Gli antenati sono importanti. Un tempo non sarei stato in grado di gestire questa faccenda.
Si esaminò le unghie e poi se le passò una per una sui denti.
«Volete che lo faccia ragionare?» domandai.
«Voglio che tu sia deciso con quell’uomo. Devi riuscire a convincerlo.»
«E quale messaggio dovrei riferirgli?» Pensai ai modi in cui avrei potuto farlo. Sarebbe stato proprio divertente.
«Voglio che sappia che ho osservato da vicino il modo in cui ha trattato le sue figlie nell’ultimo periodo.» Fece un’altra pausa, pensò un poco. «E voglio che rifletta su come sta spendendo i suoi soldi.»
Ah, gente ricca. La faccenda era sempre più interessante. «Capisco. Fino a che punto posso spingermi?»
«Voglio soltanto che le ragazze riconoscano che mi sono preso cura di loro, come promesso alla madre.»
Da piccolo ero come il burro: sparivo non appena la situazione si surriscaldava. C’erano stati giorni a scuola fatti di nocche che spaccavano la pelle, di scherno per il mio odore di pollaio. Papà era come un pugno alto e massiccio. Aveva i suoi metodi per trasformare i bambini in adulti. Spesso di notte mi svegliavo, febbricitante e sudato come un boscaiolo, e vedevo mio papà in ginocchio, chinato su di me.
«Oggi non ci vai a scuola.»
«Perché?»
«Ti insegnerò a diventare un uomo.»
In quanto uomini uscivamo con i fucili in mano e camminavamo di soppiatto fra gli alberi, e ogni volta che mio padre mi dava uno schiaffo in testa perché mancavo una preda, io scacciavo via i brividi dalla mia fredda spina dorsale.
A casa, mia madre era addetta alla polvere. Ore e ore di lavori servili per evitare di pensare: «Se mi fermo me ne vado e mica sono sicura di portarmi dietro i bambini». Ma poi restava, avvolgendoci in un alone d’amore.
Io e le mie sorelle guardavamo come papà la baciava, sempre con una lingua pericolosa, con le nocche delle mani pronte a scattare se lei mostrava di non gradire. «Fatti amare a modo mio» le diceva.
«No, non ora. I bambini.»
«A cosa servi tu?» Papà la prendeva a schiaffi. «Sei pure brutta.»
Volevo toglierglielo di dosso ma non trovavo mai il coraggio di farlo. Cosa c’era che non andava in me? Com’era possibile che riuscissi a guardare un animale negli occhi, a tagliare una gola, ma mi spaventasse così tanto intervenire per proteggerla?
Poi una sera era tornato a casa e aveva detto: «Questa famiglia se ne è andata in malora». Aveva sputato sul pavimento e poi si era seduto a tavola. Noi lo guardavamo mangiare il freddo brodo di montone che qualcuno quel pomeriggio aveva amorevolmente preparato per lui. Lo trangugiò.
«Che cosa ti ha preso?» Mamma tutta timida gli si era avvicinata.
«Stai zitta, donna.» Le aveva tirato uno schiaffo in faccia.
Io mi ero schiarito la voce, cercando di essere l’uomo che mio padre desiderava. «Non provare a toccarla.»
Lui si era alzato da tavola e si era mosso lentamente verso di me finché i nostri nasi si erano toccati. Ai lati delle sue narici avevo notato per la prima volta peli come quelli dei cinghiali. «Mi stai sfidando?»
«Dio ti punirà. È nostra madre» avevo risposto. Tutto mi si era teso, il cuore batteva, credevo che avrei vomitato.
Papà mi aveva spinto sulla gola. «Ti sbagli. Nessuno mi può punire.»
L’indice spingeva, spingeva più forte, e io sentivo il respiro intrappolato sotto al suo peso.
Fece le valigie e con un gesto ampio ed energico si mise il cappello in testa, poi mi strinse la spalla e disse: «Ora tocca a te». Le mie sorelle aspettavano che dicesse che ci voleva bene, che un giorno sarebbe tornato a riprenderci. Io cercavo di non sperarci troppo; lo amavo e l’odiavo. Ma l’unica cosa che fece davvero fu andarsene, nient’altro.
Quella notte mamma si inginocchiò e si fece il segno della croce. Io camminavo per casa covando un dolore così grande che sentivo che mi sarei spezzato. Doveva tornare a casa. Pensai di andare a cercarlo, mi chiesi se sarebbe stato necessario portarmi dietro una pistola. Non ero sicuro di farcela. Invece camminai fino al fiume Mackenzie, mi sedetti a riva e pensai a quella volta che mio padre mi aveva fatto reggere la sua canna da pesca. Legno leggero contro la corrente. «È giusto così, papà?»
«Sissignore, figliolo. Sissignore.» Mi diede persino una pacca sulla schiena, come si fa con i cuccioli.
Papà, quella cosa bella, l’aveva detta una sola volta.
Avevo bisogno di calmarmi perciò entrai nell’acqua finché non mi riempì gli stivali. Guardai in alto la luna. «Perché ci fa questo?» chiesi, poi piansi. Una volta, quando avevo ucciso un daino e piangevo, senza riuscire a smettere di tremare, mio padre aveva detto: «La prima volta è sempre la peggiore ma poi diventa più semplice. Credimi». Picchiare, lottare, sanguinare, urlare, strangolare. Un sacco di cose erano destinate a diventare più semplici.
Mia madre un giorno mi aveva detto: «Se chiedi a Dio qual è la cosa giusta da fare, lui ti dirà che la risposta è sempre dentro di te. Basta crederci».
Guardai in cielo il punto dove avrebbe potuto trovarsi Dio e domandai: «Signore, voglio risolvere questa situazione: qual è la cosa giusta da fare?».
Attesi una risposta. Pensai a papà, a tutto il dolore che aveva provocato, a cosa avrebbe fatto al mio posto, pensai ad averlo di nuovo a casa con noi, a ciò che avrebbe significato. Pensai ad alzare un sasso sopra la sua faccia, i denti sbriciolati sulle labbra, del sangue sulla guancia e sul mento. Da un luogo molto oscuro mi dissi: «È giusto proteggere ed è giusto risolvere i problemi».
Immaginai di scagliare il sasso in faccia a papà e provai sollievo. Non sentii Dio che mi diceva che quello che pensavo era sbagliato e così mi decisi a essere il degno figlio di mio padre. Gliel’avrei fatta pagare, l’avrei fatto tornare a casa e tutto si sarebbe aggiustato. Uscii dal fiume, con l’acqua che mi grondava dai vestiti. Un battesimo.
Diverse settimane dopo mio zio si fermò sugli scalini di casa, il cappello inclinato sugli occhi, e con la bocca rappresa ci disse: «Vostro papà vive qui vicino, a Rising Sun. L’ho visto a un matrimonio».
Alle mie sorelle si accelerò il respiro, scoppiarono a piangere. Si presero per mano e mentre gli davano del bugiardo si strattonavano la trama delle dita. Mi venne voglia di abbracciarle, di dire loro che sarebbe andato tutto bene, che avrei risolto tutto io.
«Era uno degli invitati?» domandai.
«Era il suo matrimonio. Ho visto la moglie tenere in braccio un neonato. Gli assomigliava molto. Assomigliava anche a te.»
Chiesi: «Sai dove abita?».
«Non andarlo a cercare, Benjamin» disse mia madre. «Tu devi stare qui con me.»
Lo zio si lisciò la barba con le dita. «Sì. L’ho seguito fino a casa. Circa a un quarto di miglio dalla chiesa battista...»
Sputai sul pavimento. La lingua si ritrasse per un sapore rancido e metallico che succhiai via.
Spinsi da parte lo zio e diedi inizio alla caccia a papà. Non appena entrato a Rising Sun, dopo venti lunghe miglia, l’odore di fieno bruciato e di fango mi accolse. Camminai per la città per ore, guardando attraverso le finestre e sotto le staccionate alla ricerca dei segni di una nuova vita familiare. Alcune case erano a pezzi, altre vuote e spettrali. Continuai a camminare.
E poi, all’improvviso, mi imbattei in mio padre e nella sua sposa. Erano nascosti dietro a una staccionata rossa. La moglie, i capelli rossi e il vestito troppo lungo, sedeva nella veranda all’ingresso e leggeva la mano a una donna. Papà tagliava l’erba di fianco alla casa, si pulì la bocca sulla manica della camicia. Sembrava felice. Io pensavo a un sasso, ai denti, al sangue.
Quando la moglie ebbe finito con la donna, lui la raggiunse e la baciò sulla fronte. «Tocca mettere a posto queste lame» disse. Immaginai le labbra di papà su altre fronti: di mamma, delle mie sorelle, la mia. Mi portai la mano alla bocca.
«Ti amo» gli disse la moglie.
«Anch’io ti amo.»
Che strano era sentirgli pronunciare quelle parole, come se fossero per lui qualcosa di naturale. Si incamminò per la strada e la brezza pomeridiana si alzò.
La moglie di papà mi vide e uscì da dietro la staccionata. Aveva un profumo stucchevole, i capelli, attorno alle punte delle dita, i fili della camicetta, stupide labbra e guance piene. Le si offuscò la fronte. «Stai bene? Sembri smarrito.»
Il sudore mi volava giù per la schiena. «Non proprio.»
Allora sorrise. «Capisco, be’, posso farti vedere la luce, tutte le cose buone del Signore. Far entrare dentro di te il Suo spirito.»
Borbottai qualcosa. Non mi interessava la magia.
Allungò una mano verso la mia. «Mi chiamo Angela.»
«Benjamin.» Ce le stringemmo. Mi succhiai la lingua. Angela, il suo viso roseo e sereno, bello come quello di un fauno, e anch’io sorrisi, mi venne un’idea: Angela sarebbe stata il castigo di papà.
Angela.
«Vieni dentro.» Cinguettava come un uccellino.
La seguii. Strinsi i denti e mi morsi il labbro.
«Prego, siediti. Mettiti comodo.» Si sedette accanto a me. «Hai una faccia così angelica. Guarda qui che fossette.» Si sporse verso di me, attraversandomi con lo sguardo. «I tuoi occhi mi ricordano...» La sua voce umida mi scosse con forza la spina dorsale.
Angela ridacchiò. «Hai incontrato il diavolo da qualche parte?»
«Forse.»
La loro casa era colma di libri e mobili, più di quanti ne avessimo mai avuto, e nel soggiorno c’era una piccola statua con una pancia gonfia. «Quello cos’è?»
Agitò le mani in quella direzione, come se stesse scacciando una mosca. «È il Buddha. Sempre meglio rivolgersi a tutti.»
Per un momento immaginai come sarebbe stato vedere dentro di lei, tutto quel rosso. «Sei giovane per andare in giro da solo» disse, liberandosi il collo dai capelli.
Cercai di pensare a cosa avrebbe voluto sentirsi dire. «Non ho una vera famiglia.» In soggiorno le finestre erano mezze aperte e una brezza leggera entrava in casa portando con sé il profumo dei platani e della cicoria.
«Non dev’essere facile.»
Feci no con la testa.
«Be’, se lasci entrare in te la luce del Signore, non sarai mai solo.»
Risi, come un bambino. «Sembra una cosa strana.»
«Anche mio marito lo pensava quando l’ho conosciuto.»
«Era quello che tagliava l’erba?» mi sporsi verso di lei.
Angela si mise comoda e si premette un dito sulle labbra. «Sì, era lui.»
«È un brav’uomo?»
Annuì. «Uno dei migliori.»
Non le avrei dato tregua. «Come vi siete incontrati?»
«Un giorno, durante una passeggiata.» Si sfregò le sopracciglia, come se stessi provocandole dolore.
«Quali sono state le prime parole che vi ha detto?»
Angela scosse la testa, sussurrò: «Non siamo qui per parlare di me. Mi interessa di più guarire te».
«Lui l’avete guarito?»
«Sì.»
Pensai alle sue ossa. «E come avete fatto?»
«Con l’amore.» Le guance di Angela erano rosa e tonde.
«E te lo ficca dentro?»
Lei indietreggiò sul divano, si fece improvvisamente pallida. «Ma che oscenità vai dicendo! Non credo di poterti aiutare oggi.»
«Ma come, non vedevo l’ora.»
«Mi spiace, te ne devi andare.» Angela raggiunse la porta d’ingresso.
Non volevo mi dicesse cosa dovevo fare. Allungai una mano per prenderla. Fissò gli occhi nei miei, mosse le labbra al ritmo di un silenzioso «Oddio», rosse e dolci labbra che danzavano. Feci un respiro profondo. Le pulsarono gli occhi. La strinsi con forza. Volevo tirare fuori da lei tutto quel sangue e quella vita.
Digrignai i denti. Da qualche parte in casa un bambino pianse. Lei cercava di spingermi via, guardava verso il retro. Non mi sarebbe sfuggita. Fuori due donne oltrepassarono la casa, con i tacchi immersi nella terra e nei sassi. Respirai profondamente, le strinsi forte i polsi ossuti e la spinsi contro di me, guancia contro guancia.
«Lasciami andare» disse.
Un’ondata di elettricità mi si diffuse nelle vene e poi nella pelle, mi tremavano le mani. Il suo respiro si fece corto, della saliva mi gocciolò sul petto. Era così calda.
Il neonato piangeva. Lei mi spinse via, ancora una volta, disse: «Per favore, lasciami andare».
«Devo dirti una cosa, Angela.»
«Che cosa?» sussurrò.
La stritolai contro il mio corpo, sentii che era tesa. «Tuo marito ha già una famiglia.»
Il neonato piangeva. «Per favore, fammi andare da lei» disse.
«Prima di avertelo ficcato dentro e di averti dato un bambino, ti ha parlato degli altri suoi figli?» Ero il suono di un masso che rotolava.
La bambina piangeva. Angela singhiozzava. «Ma cosa dici?»
Uniti in un abbraccio proiettavamo un’ombra sul muro. Poi la lanciai sul divano.
«Chi sei?»
«Sono venuto a dire due paroline a tuo marito. Dovresti ringraziarmi, in realtà. Prima o poi si stancherà di te, specie se diventi brutta.»
«Lasciami andare.»
«Adesso facciamo un gioco, Angela...»
Stava cercando di raggomitolarsi quando le era arrivato il mio primo colpo. Feci un passo indietro, le guardai la faccia in fiamme e pensai a mio padre, a quella volta che gli avevo detto: «Ti voglio bene» e lui mi aveva ignorato. Alzai il mio pugno in aria e glielo calai con forza sulla guancia. Un osso si incrinò.
«È colpa tua se mamma non sorride più.»
Un altro colpo. A ogni pugno che riceveva, Angela si accasciava sempre più sul divano. Io chiusi gli occhi, avevo la faccia bagnata. Il neonato piangeva. Tutto stava diventando giusto e nell’aria c’era odore di sangue, dolce come il miele.
Fu solo quando urlò con voce roca: «Basta, per favore» e la porta si aprì, che mi fermai. L’odore del cuoio, l’amarezza, mi colpì. Girai di scatto la testa verso l’uomo in piedi nella cornice della porta. Papà. Alla vista di Angela le chiavi gli caddero di mano. Le mie nocche cantavano.
Lui, quasi singhiozzando: «Cos’hai fatto, Benjamin?». Tutto quell’affetto sul viso. Dov’era finita la rabbia?
Il neonato piangeva. Angela urlava per il dolore. Spintonai papà per passare, ringhiai fra le fauci, uscii dalla porta e camminai lungo la strada. Scappai via, scappai via.
Quando finalmente arrivai a casa, mamma mi stava aspettando in veranda. «È venuta a cercarti la polizia. Cristo, dove sei stato?»
Stesi la mano per toccarla. «Sono stato ad aggiustare le cose. Ti voglio bene, mamma.»
Girò rapidamente la testa, mi spinse via le mani. «Hai sangue dappertutto.»
Mi guardai le mani: i taglietti sulle nocche sporgenti, il sangue secco e le unghie spezzate. «Va tutto bene, non è mio.»
«La polizia ha detto che eri a casa di papà.»
Non le risposi.
Portò all’altezza della mia faccia una lampada a cherosene. «Hai fatto del male a quella donna?»
«Non ho fatto del male a lei. Ho fatto del male a papà. Stavo facendo la cosa giusta per te.»
Lei scosse la testa come se stesse per piangere. «Non ti riconosco. Vado a chiamare la polizia.»
«Mamma, ti prego...»
Sbatté la porta d’ingresso. Rimasi in piedi sul primo gradino. Questo non sarebbe dovuto succedere. Pensavo mi amasse.
Picchiai sulla porta, urlai: «Chi si prenderà cura di me?».
Lei rispose piagnucolando: «Non posso avere in casa gente come te. Non ce la faccio».
Picchiai di nuovo sulla porta.
«Se non te ne vai, chiamo la polizia.»
Non volevo nulla di tutto ciò. Volevo solamente spiegare come stavo mettendo a posto le cose. Invece dovevo scappare. Guardai la casa un’ultima volta, sperando che un giorno, quando avrebbe capito cosa avevo fatto per lei, mi avrebbe amato come prima. Allora scappai nel bosco, scappai, pensando che un giorno sarei tornato da mia madre, scappai, finché mi trovai immerso negli alberi.
John voleva un po’ di tranquillità a casa. Conoscevo quel desiderio. Potevo esaudirlo. Spostai la lingua sui miei denti. «Le tue nipoti sanno che le stai aiutando?»
Alzò le spalle, sorrise. «Chissà. Mi piace pensare che le sto aiutando prima ancora che si rendano conto di averne bisogno.»
«Come si chiamano?»
Mi fece no con il dito, disse che non era importante, così io soffiai dal naso, fissandolo duramente. Allora disse: «Va bene, come vuoi. Emma è la maggiore, Lizzie la minore. Ma a casa ci sarà solo Lizzie. Non ti ci devi avvicinare».
Annuii. Meno persone erano coinvolte, meglio era. «Com’è fatta?»
«Perché ti interessa?»
«Se non mi ci devo avvicinare...»
Stringeva le mascelle. «Lizzie è la più giovane di casa, un po’ più bassa della media. Poi c’è Bridget. Non c’è molto da dire su di lei, a parte che è una domestica e che indosserà un’uniforme.» Sorrise, scoprendo i denti.
Annuii.
Mi disse che aveva bisogno di me solo per una notte, che mi avrebbe aiutato ad andarmene da Fall River, che sarebbe stato facile. Tutte cose belle, ma io volevo di più. Avevo i miei problemi a cui pensare. Gli chiesi della ricompensa.
Mi guardò con attenzione. «Ti rimetterò a posto la gamba.»
Risi. «La mia gamba non vale come ricompensa. Voglio i soldi.»
Si grattò la barba. «Mille dollari possono andare, sempre che tutto vada come deve?»
Più di quanto mi aspettavo. Aveva davvero un grosso problema da risolvere. Quante cose avrei potuto fare. Pensai a papà, a come avrei potuto finire di castigarlo. Che visita magnifica sarebbe stata. Annuì con la testa, ripetutamente.
«E il padre. Come si chiama?»
«Andrew Borden. Sua moglie si chiama Abby. Lei è piuttosto tracagnotta, hai presente il tipo? Dubito che dovrai parlarci.»
Nella mia testa tutto girava vorticosamente, iniziai a pensare al discorso che avrei fatto a Andrew. «Andiamo a Fall River.»
Uscimmo dal locale ed era giorno. L’orologio del campanile rintoccò le dieci. Procedemmo a zigzag fra la gente fino alla stazione, senza dire una parola. Dopo aver comprato i biglietti, John disse: «Non dimenticarti, la fermata è Fall River».
«So dove stiamo andando. Ci faremo un bel viaggetto in treno insieme.»
Mi diede delle pacche sulla schiena, come se fossi il suo giovane cucciolo. «Mi spiace, hai frainteso.» Mi diede il biglietto e indicò la fine del treno. «Il tuo posto è laggiù.»
Non mi piacque il modo in cui lo disse. Mi lasciò lì e si diresse alle carrozze in testa. C’è sempre qualcuno convinto di essere meglio di me. Non ero più sicuro di volerlo aiutare. Mi misi a camminare verso la coda del treno. La gamba mi faceva male e iniziò a sanguinare come un ruscello. Pensai alla ricompensa. Il treno fischiò. Pensai ai padri, ai problemi che creavano. Dovevo tenerlo d’occhio quel John. Saltai sul treno. E quello iniziò lentamente ad avanzare.