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Lizzie

4 agosto 1892

Stava ancora sanguinando. Urlai: «Qualcuno ha ucciso mio padre!». Inspirai aria satura di petrolio, densa e appiccicosa nella mia bocca. L’orologio sulla mensola del camino non faceva che ticchettare. Guardai mio padre, le mani strette sulle cosce, l’anellino d’oro che gli splendeva sul mignolo come un sole. Gliel’avevo regalato io per il compleanno, quell’anello, perché non lo volevo più. «Papà,» gli avevo detto «ve lo regalo perché vi voglio bene.» Lui aveva sorriso e mi aveva baciato sulla fronte.

Era passato molto tempo, ormai.

Guardai mio padre. Gli toccai la mano sanguinante, quanto ci mette un corpo a diventare freddo?, e mi avvicinai alla faccia, cercando i suoi occhi, aspettando di vedere se avrebbe sbattuto le ciglia, se mi avrebbe riconosciuto. Mi pulii la bocca con la mano e sentii il sapore del sangue. Il mio cuore batteva forte come in un incubo, veloce, sempre più veloce, mentre lo osservavo di nuovo, mentre vedevo il sangue scorrergli a fiotti sul collo e impregnare il tessuto dell’abito. L’orologio sulla mensola del camino non faceva che ticchettare, tic-tac tic-tac. Uscii dalla stanza, mi richiusi la porta alle spalle, mi diressi verso le scale sul retro e gridai ancora una volta a Bridget: «Fai presto. Qualcuno ha ucciso mio padre». Mi pulii la bocca con la mano, mi leccai i denti.

Lei scese, portandosi dietro un forte odore di carne marcia. «Signorina Lizzie, cosa...»

«È nel soggiorno.» Indicai oltre i muri spessi, tappezzati di carta da parati.

«Ma chi?» Il viso di Bridget formicolava di confusione.

«All’inizio mi sembrava ferito, ma non ho capito quanto fosse grave finché non mi sono avvicinata» risposi. Il caldo dell’estate mi risalì lungo il collo come una lama. Mi facevano male le mani.

«Signorina Lizzie, mi state facendo paura.»

«Mio padre è nel soggiorno.» Non riuscivo a dire altro.

Lei corse in cucina dalle scale sul retro e io la seguii. Corse fino alla porta del soggiorno, poggiò la mano sul pomello, giralo, giralo.

«Gli hanno fatto dei tagli in faccia.» Una parte di me voleva spingerla dentro la stanza, farle vedere che cosa avevo scoperto.

Tolse la mano dal pomello, si voltò verso di me e mi scagliò addosso quel suo sguardo da rapace. Un rivolo di sudore le scivolò dalla tempia alla clavicola. «Ma cosa intendete dire?» domandò.

Come riflesso in uno specchietto nella mia testa, vidi tutto il sangue di mio padre, la sua carne un pasto, i resti di un banchetto di cani selvatici. La pelle a brandelli sul petto, l’occhio che era finito sulla spalla. Il suo corpo ridotto a un’Apocalisse. «Qualcuno è entrato e l’ha fatto a pezzi» dissi.

Bridget tremava tutta. «Ma cosa dite? Come hanno fatto a tagliargli la faccia?» La voce aspra adesso, una lacrima. Non volevo che piangesse, non volevo doverla consolare.

«Non lo so» dissi. «Forse hanno usato un’ascia. Come per abbattere un albero.»

Iniziò a piangere e strane emozioni mi percorsero le ossa. Si mise di fronte alla porta e ruotò il polso, aprendo uno spiraglio di qualche millimetro.

«Va’ a cercare il dottor Bowen» dissi. Guardai dietro di lei nel tentativo di vedere mio padre ma non ci riuscii.

Bridget si voltò verso di me, si grattò la mano. «Forse dovremmo fare qualcosa per vostro padre, signorina Lizzie...»

«Porta qui il dottor Bowen.» Le afferrai la mano, tutta ruvida e appiccicosa, e l’accompagnai alla porta di servizio. «Cerca di fare presto, Bridget.»

«Ma signorina Lizzie, non dovreste star da sola.»

«E se la signora Borden tornasse a casa? Non dovrei essere io a darle la notizia?» I miei denti erano serrati, gelidi.

Lei guardò dritto verso il sole. «Va bene» disse. «Faccio più in fretta che posso.»

Uscì di corsa dalla porta di servizio, che la colpì sul fondoschiena, una sculacciata, e mentre correva verso Second Street vidi la sua testa che ballonzolava, la cuffia bianca da lavoro come una vela al vento. Poi si voltò e mi guardò, il viso istupidito dalla preoccupazione, e io la scacciai via, con un movimento e uno scrocchio del polso. Lei continuò a correre, diede una spallata a un’anziana signora, le fece cadere il bastone da passeggio, e quella strillò: «Cos’è tutta questa fretta, signorinella?». Bridget non rispose, che maleducata, e scomparve dalla vista, la donna raccolse il bastone e lo batté sui ciottoli, tac-tac tac-tac.

Guardai i passanti, mi piaceva il modo in cui l’aria si riempiva delle loro voci e tutto sembrava al suo posto, sentii le labbra aprirsi in un sorriso mentre gli uccelli saltavano da un ramo all’altro. Per un istante pensai di catturarli, di metterli nella colombaia dentro la stalla. Che fortunati sarebbero, se fossi io a occuparmene. Pensai a mio padre, lo stomaco mi brontolò per la fame, così mi avvicinai al secchio d’acqua accanto al pozzo e affondai le mani nel freddo, un sorso, e poi un altro. Bevvi, lappando con la lingua. Era morbida, delicata. Tutto rallentò. Vidi un colombo morto che giaceva grigio e inerte nel cortile e mi gorgogliò lo stomaco. Guardai verso il sole. Pensai a mio padre, cercai di ricordare le ultime parole che gli avevo detto. Presi una pera dal giardino e rientrai in casa.

Sul ripiano della cucina c’erano dei pancake. Ci lasciai scivolare le mani, li strinsi fino a farli diventare delle piccole pietre di impasto. Lanciai una manciata di pancake accartocciati contro il muro e li ascoltai frangersi in onde stantie. Poi mi avvicinai alla stufa, tirai verso di me la pentola del brodo di montone e inspirai profondamente.

C’erano solo i miei pensieri, e papà. Mi diressi verso il soggiorno, affondai i denti nella pera e mi fermai davanti alla porta. L’orologio sulla mensola del camino non faceva che ticchettare. Le gambe si misero a tremare, tamburellando sul pavimento, diedi un altro morso alla pera per tentare di fermarle. Oltre la porta del soggiorno sentii profumo di tabacco da pipa.

«Padre» dissi. «Siete voi?»

Aprii un poco la porta, un po’ di più, affondai i denti nella pera. Lui era ancora lì sul divano. Non si era mosso. La buccia della pera era croccante nella mia bocca, e io sentii di nuovo quell’odore. «Dovreste smettere di fumare, padre. Poi la pelle vi odora di vecchio.»

Sul pavimento accanto al divano c’era la sua pipa. Me la incastrai fra i denti, la lingua batteva sul bocchino. Inspirai. Fuori sentii Bridget che strideva come un uccello del malaugurio: «Signorina Lizzie! Signorina Lizzie!». Rimisi a terra la pipa, sfiorando con le dita delle pozze di sangue, e mentre uscivo dalla stanza socchiudendo la porta guardai con la coda dell’occhio mio padre.

Aprii la porta di servizio. Bridget, il viso in fiamme, rosso fuoco, mi disse: «Il dottore non era in casa».

Avevo voglia di sputarle addosso. «Trovalo. Chiama qualcuno. Muoviti» dissi.

La testa le scattò indietro. «Signorina Lizzie, ma non dovremmo chiamare la signora Borden?» La sua voce come un’eco in una caverna, basta fare domande.

Picchiai il tacco sul pavimento di legno e la casa gemette, poi ululò. «Ti ho già detto che non c’è.»

Lei corrugò la fronte. «E dov’è? Dobbiamo chiamarla subito.» Fastidiosa, insistente.

«Non mi dire che cosa devo fare, Bridget.» Sentii la mia voce avvolgere le porte e gli angoli. La casa: ossa fragili sotto ai piedi. Tutto risuonava più forte del dovuto, feriva le orecchie.

«Vi chiedo scusa, signorina Lizzie.» Si sfregò la mano.

«Va’ a cercare qualcun altro. Papà ha davvero bisogno di aiuto.»

Lei si lasciò scappare un sospiro e io la guardai correre in strada e superare un gruppo di bambini che giocavano a campana. Diedi un altro morso alla pera e mi allontanai dalla porta.

Al di là della staccionata laterale sentii una donna chiamarmi per nome, un suono penetrante, «Lizzie. Lizzie. Lizzie» mi trapanava le orecchie. Strizzai gli occhi per mettere a fuoco una sagoma che camminava verso di me. Premetti la faccia contro la zanzariera e ricomposi delle forme familiari. «Signora Churchill?» dissi.

«State bene, mia cara? Ho sentito Bridget che andava avanti e indietro per la strada gridando e poi vi ho visto qui sulla porta, con l’aria smarrita.» La signora Churchill si avvicinò alla casa aggiustandosi la camicetta rossa.

Già sulla soglia mi domandò, ancora una volta: «Mia cara, state bene?». Il cuore mi batteva forte, forte, forte e le risposi: «Signora Churchill, vi prego, entrate. Qualcuno ha ucciso mio padre».

Il viso le si accartocciò, la bocca si aprì in una “O”. Dal seminterrato arrivò un forte rimbombo: i muscoli del collo mi si contrassero.

«Non è possibile» disse lei a bassa voce. Aprii la porta, la feci entrare. «Lizzie, cos’è successo?» mi chiese.

«Non lo so. Sono entrata e l’ho visto tutto a pezzi. È di là» risposi indicando il soggiorno.

La signora Churchill si diresse lentamente verso la cucina, si sfregò le dita grasse e pulite sulle guance imporporate, poi sul cammeo d’oro della collana, coprendosi il petto con le mani. Vidi, in tutto il suo splendore, l’anello nuziale d’oro e diamanti, mi piacerebbe averlo per me. Il petto le si sollevò, morbidi seni che avevano allattato, e io attesi che il cuore le spaccasse la gabbia toracica e atterrasse sul pavimento.

«È solo?» Un topolino spaventato.

«Sì. Solissimo.»

La signora Churchill fece qualche passo verso la porta del soggiorno e poi si fermò, mi guardò: «Entro?».

«È gravemente sfregiato, signora Churchill. Ma potete entrare. Se lo desiderate.»

Lei indietreggiò, mi si rimise accanto. Contai le volte in cui avevo visto il corpo di mio padre da quando l’avevo trovato. Mi brontolò lo stomaco.

«Dov’è vostra madre?» domandò.

Buttai gli occhi al cielo, odio quella parola, poi li chiusi. «È andata a trovare un parente malato.»

«Dobbiamo assolutamente andare a chiamarla, Lizzie.» La signora Churchill mi strattonò la mano, nel tentativo di smuovermi.

Mi prudeva la pelle. Sottraendomi alla sua presa mi grattai il palmo. «Non voglio disturbarla adesso.»

«Lizzie, non siate ridicola. Questa è un’emergenza.» Mi rimproverò come se fossi stata una bambina.

«Potete vederlo, se volete.»

Lei scosse la testa, confusa. «Non so se...»

«Intendevo dire che vedendolo capireste perché non è una buona idea andare a chiamare la signora Borden.»

La signora Churchill mi appoggiò il dorso della mano sulla fronte. «Siete molto calda, Lizzie. Non siete lucida.»

«Sto bene.» La mia fronte le scivolò da sotto la mano.

I suoi occhi si spalancarono, minacciando di superare i confini delle orbite; mi avvicinai, lei sussultò. «Forse dovremmo uscire, Lizzie...»

Scossi la testa, categorica. «No. Mio padre non può restare da solo.»

La signora Churchill e io eravamo in piedi una accanto all’altra, davanti alla porta del soggiorno. Sentivo il suo respiro, la saliva densa che le sibilava tra le gengive, il profumo di sapone di Castiglia e di chiodi di garofano dei capelli. Il tetto scricchiolò, la porta del soggiorno si aprì di un soffio e io mossi le dita dei piedi, un passo, poi un altro, avvicinandomi a mio padre. «Signora Churchill,» dissi «chi pensate che s’occuperà di lavarlo quando sarà il momento?».

Mi guardò come se avessi parlato in un’altra lingua. «Io... non saprei proprio.»

«Forse potrebbe farlo mia sorella.» Mi voltai verso di lei, vidi la tristezza camminarle in punta di piedi sulla fronte e le sorrisi, su, coraggio, coraggio.

Le sue labbra si separarono, un mare. «Non pensiamoci ora.»

«Ah. D’accordo.» Mi girai e mi trovai di nuovo davanti alla porta del soggiorno.

Restammo in silenzio per un po’. Mi prudeva un palmo. Pensai di grattarmelo con i denti e, quando feci per avvicinare la mano alla bocca, lei mi chiese: «Quando è successo, Lizzie?».

Misi rapida la mano sul fianco. «Non saprei. Ero fuori e quando sono rientrata l’ho trovato ferito. Bridget era di sopra. E adesso è morto.» Provai a concentrarmi ma tutto rallentò. «Non è curioso? Non mi ricordo che cosa stavo facendo. Non vi capita mai di dimenticare le cose più banali?»

«Sì, credo di sì.» Le parole le uscirono gorgoglianti.

«Mi aveva detto che non si sentiva bene e che voleva stare da solo. Quindi l’ho baciato, l’ho lasciato che dormiva sul divano e sono uscita di casa.» Ci fu uno schiocco sul tetto. «Non ricordo altro.»

La signora Churchill mi poggiò una mano sulla spalla e mi diede qualche leggera pacca, e io sentii tepore, un formicolio. «Non dovete sforzarvi, mia cara. È tutto così...contro natura.»

«Avete ragione.»

La signora Churchill si asciugò gli occhi, rossi per le lacrime e per lo sfregamento. Aveva un’aria strana. «Non può essere vero» disse. Aveva un’aria strana e io cercai di non pensare a papà da solo sul divano.

Mi prudeva la pelle. Mi grattai. «Ho molta sete, signora Churchill» dissi.

Lei mi fissò, gli occhi rossi, e andò verso il ripiano della cucina. Prese una brocca d’acqua, riempì una tazza e me la porse. L’acqua sembrava calda e torbida. Bevvi. Pensai a mio padre. L’acqua era catrame nella gola. Avrei dovuto rovesciarla a terra e chiedere alla signora Churchill di pulire e di portarmi qualcosa di fresco. Ne bevvi un altro sorso. «Grazie» dissi. Sorrisi.

Lei si avvicinò, mi mise un braccio attorno alle spalle e strinse forte. Si chinò verso di me e mi bisbigliò qualcosa, ma da qualche parte dentro di lei strisciò fuori un odore di yogurt rancido che mi diede le vertigini. La spinsi via.

«Dobbiamo chiamare vostra madre, Lizzie.»

Dall’esterno provenivano dei rumori, sempre più vicini a casa; la signora Churchill corse alla porta di servizio e la aprì. Davanti a me adesso c’erano lei, il dottor Bowen e Bridget. «L’ho trovato, signorina» disse quest’ultima, cercando di riprendere fiato, rantola come un cane vecchio. «Ho fatto più in fretta che ho potuto.»

Il dottore si spinse sul naso affilato gli occhiali argentati e dalla montatura rotonda e chiese: «Dov’è?».

Indicai il soggiorno.

Poi, con la fronte corrucciata, mi domandò: «State bene Lizzie? Qualcuno ha cercato di farvi del male?». La sua voce era vellutata, melliflua.

«A me?»

«La persona che ha ferito vostro padre. Non ha cercato di fare del male anche a voi?»

«Io non ho visto nessuno. Ha aggredito solo lui» risposi. Le assi del pavimento sotto ai piedi si allungarono e per un attimo pensai di affondare.

Il dottore, in piedi davanti a me, mi prese il polso, che mani grandi, ed espirò e inspirò, il suo fiato che mi urtava le labbra. Me le leccai. Premette le dita sulla pelle finché sentì il sangue palpitare. «Il battito è troppo veloce, Lizzie. Non appena avrò controllato vostro padre mi occuperò di voi.»

Annuii. «Vi accompagno?»

Il dottor Bowen: «Non è... necessario».

«Ah» dissi io.

Poi si tolse il cappotto e lo porse a Bridget. Si diresse in salotto portandosi dietro la consunta borsa da medico di cuoio marrone. Trattenni il respiro. Il dottore aprì la porta come in segreto, spinse il corpo nella stanza. Lo sentii trasalire, esclamare: «Oh, Signore!». La porta era aperta quanto bastava. Da qualche parte dietro di me la signora Churchill urlò e io girai di scatto la testa verso di lei. Urlò ancora, come si fa in un incubo, e quel rumore mi attraversò rapido il corpo, mi si irrigidirono i muscoli e provai dolore. «Non volevo vederlo. Non volevo vederlo» urlò la signora Churchill. Bridget gridò, fece cadere il cappotto del dottore sul pavimento. Le due donne si abbracciarono e singhiozzarono.

Volevo che la smettessero. Non mi piaceva come avevano reagito alla vista di mio padre, lo stanno umiliando. Mi diressi verso il dottore, mi misi in piedi accanto a lui vicino al bordo del divano e cercai di impedire la vista del corpo di papà. Bridget mi chiamò: «Signorina Lizzie, non vada lì dentro». Tutto era immobile nella stanza e il dottor Bowen cercò di cacciarmi via. «Lizzie,» disse «non dovreste stare qui.»

«Voglio solo...»

«Non è bene che stiate qui dentro. Smettete di guardare vostro padre.» Mi spinse fuori dalla stanza e chiuse la porta. La signora Churchill urlò ancora e io mi coprii le orecchie. Ascoltai il battito del mio cuore finché non sentii più niente.

Dopo un po’ il dottor Bowen uscì dalla stanza, tutto pallido e sudato, e gridò: «Chiamate la polizia». Si morse il labbro, la mascella si mosse con la violenza di un piccolo tuono. Sui polpastrelli piccole gocce di sangue, coriandoli, e io provai a immaginare come avesse toccato mio padre.

«Oggi è il giorno del loro picnic annuale» disse la signora Churchill in un sussurro. «La centrale sarà vuota.» Si strofinò gli occhi, li irritò.

Volevo che smettesse di piangere perciò sorrisi e dissi: «Non importa. Arriveranno, prima o poi. Si sistemerà tutto, non è così dottore?».

Lui mi osservò e io gli guardai le mani. E pensai a mio padre.

Avevo quattro anni quando conobbi la signora Borden. Mentre mio padre non guardava, lei mi lasciava mangiare cucchiaiate di zucchero. La mia lingua cantava di gioia! «Li sai tenere i segreti, Lizzie?» mi domandò, una volta.

Io feci di sì con la testa. «So tenere i segreti più segreti.» Non avevo nemmeno detto a Emma che la nostra nuova mamma mi piaceva.

Mi infilò in bocca cucchiaiate di zucchero, avevo le guance zeppe di quella dolce ondata. «Teniamocelo per noi questo spuntino.»

Annuii più volte, finché tutto non divenne sfocato. Più tardi, mentre correvo per casa urlando: «Urrà! Urrà!» e mi arrampicavo sul divano in soggiorno, mio padre si mise a urlare: «Emma, hai dato a Lizzie dello zucchero?».

Emma entrò in soggiorno, la testa china. «No, papà. Ve lo giuro!»

Mentre gli correvo davanti lui mi prese per l’incavo del braccio, con uno strattone. «Lizzie,» disse mentre io ridacchiavo e barbugliavo «hai mangiato qualcosa che non avresti dovuto?»

«Ho mangiato la frutta.»

Lui si abbassò all’altezza del mio viso, profumava di torta al burro. «Nient’altro?»

«Nient’altro.» Risi.

Emma mi guardò, cercando di sbirciarmi in bocca.

«Stai dicendo una bugia?» domandò lui.

«No, padre. Non lo farei mai.»

Mi scrutò a fondo, esaminò le fossette sulle guance alla ricerca di una prova della mia disobbedienza. Sorrisi. Sorrise. Me ne andai via di corsa, saltellando, e quando in cucina passai davanti alla signora Borden, lei mi fece l’occhiolino.

Quando la polizia arrivò si mise a fotografare il completo grigio scuro che mio padre aveva indossato quella mattina per andare al lavoro e i suoi stivali di pelle nera, ancora stretti alle caviglie e ai piedi. Ogni sei secondi la lampada a magnesio scattava. Il giovane fotografo della polizia disse che avrebbe preferito non fotografare la testa del vecchio. «Non può farlo qualcun altro? Vi prego» disse, passandosi il dorso della mano sulla fronte, come se gli stesse grondando dell’olio dalla testa.

Un agente anziano gli disse di uscire mentre cercavano un vero uomo per portare a termine il lavoro. Ma non c’era bisogno di un uomo. Bastava una figlia. Mi ero amorevolmente presa cura di mio padre per tutta la mattina e la sua faccia non mi spaventava. Avrei dovuto dire: “Di quante fotografie avete bisogno? Quanto devo avvicinarmi? Che inquadratura vi condurrà all’assassino?”.

Invece il dottor Bowen mi iniettò una medicina meravigliosa e calda sotto la pelle, che mi fece sentire leggera e strana. Mi pregarono di sedermi nella sala da pranzo assieme alla signora Churchill e a Bridget e dissero: «Vi dispiace se vi facciamo qualche domanda?».

Nella stanzina l’aria si stava facendo nauseante e carica dell’odore di corpi caldi e di erba, delle bocche dei poliziotti che puzzavano di pollo semidigerito e birra. «Certo che no» disse la signora Churchill. «Ma non ho intenzione di parlare dello stato in cui ho trovato il signor Borden.» Iniziò a piangere, un rumore travolgente. Volai con la mente al piano di sopra, dove tutti erano ormai solo un’eco. E pensai a mio padre.

Un poliziotto si mise in ginocchio davanti a me, poggiò una mano sulla mia e mi sussurrò in faccia, sputacchiando: «Scopriremo chi è stato e gli daremo la caccia con tutte le nostre forze».

«Gli uomini fanno delle cose davvero orribili» dissi io.

«Sì, hai proprio ragione» disse l’agente.

«Spero che mio padre non abbia sentito nulla.»

L’agente si guardò le mani e si schiarì la voce: «Sono sicuro che non ha sofferto troppo». Strinse il taccuino. «Mi domandavo se poteste raccontarmi tutto quello che vi ricordate di questa mattina.»

«Non so se...»

«Non ci sono risposte sbagliate, signorina Borden.» Una voce monotona. Il pomo d’Adamo s’alzò e s’abbassò rapidamente.

Lo guardai negli occhi e sorrisi, non ci sono risposte sbagliate, che gentile che era a mettermi a mio agio. Ero certa che da quel momento Dio gli avrebbe sorriso. «Ero nella stalla e quando sono rientrata l’ho trovato così.»

«Vi ricordate perché vi trovavate nella stalla?»

«Stavo cercando dei piombini per la lenza.»

«Dovevate andare a pescare?» Scarabocchia, scarabocchia.

«Andrò con mio zio. Dovreste vedere cosa sono capace di prendere.»

«Verrà a trovarla?»

«È già qui.»

«E dov’è?» chiese il poliziotto, un pony che cerca la biada.

«È fuori per affari. È arrivato ieri.»

«Dovremo fargli qualche domanda.»

«Perché?» Le dita battevano insieme, battevano il ritmo, ritmo, ritmo, ritmo fino a raggiungere il centro del mio corpo. Seguii quella sensazione, mi guardai, notai una piuma di colombo soffice e grigia incastrata nella mia gonna. La staccai, me la sfregai tra le dita, divenne calda, bollente.

«Signorina, non vorrei essere brusco ma qui c’è stato un omicidio. Dobbiamo chiedere a vostro zio se ha notato qualcuno di insolito intorno a casa.»

Alzai di scatto la testa: «Sì. Sì, certo». Strinsi la piuma di colombo nel palmo, la tenni con me come un pegno d’amore.

L’agente continuò a fare domande. Mi guardai attorno, poi alzai gli occhi al soffitto, cercai di vedere le stanze al piano di sopra attraverso il legno e le crepe a ragnatela dell’intonaco: solo poche ore prima ero stata lì, avevo visto papà e la signora Borden che si aiutavano a prepararsi per la giornata. Lei si era intrecciata la folta e disordinata massa di capelli grigio chiaro, li aveva fissati in cima alla testa e mio padre le aveva detto: «Sempre incantevole, mia cara». Capitava, ogni tanto, che fossero amichevoli e amabili fra loro. Il poliziotto continuò a fare domande e la mente mi si annebbiò.

Accanto a me sentii Bridget dire con voce stridula a un secondo poliziotto: «Sua sorella è andata a trovare un’amica a Fairhaven. È via da...».

«Due settimane» la interruppi. «È via da due settimane e sarebbe anche ora che tornasse a casa.»

Il secondo poliziotto annuì, aggiunse con voce roca: «La mandiamo subito a chiamare».

«Bene. Tutto questo è troppo per me sola.»

Poi Bridget disse: «Io le porte le chiudo a chiave. La casa è sempre ben serrata». Il secondo poliziotto prendeva nota, freneticamente, finché tra i folti baffi apparve del sudore. Ogni tanto, quando papà si arrabbiava, gli si inumidiva la barba, e parlando ti si avvicinava alla faccia per farti sentire quello che stava dicendo; così l’umido ti accarezzava il mento e ti entrava dentro. La mente mi si annebbiò. Provai la sensazione di volergli accarezzare la barba e il viso fino a farlo tornare quello di prima. Buttai uno sguardo in soggiorno.

«E siete sicura che questa mattina tutte le porte fossero chiuse a chiave?» domandò a Bridget il secondo poliziotto.

«Sì, sì. Stamattina ho dovuto aprire la porta d’ingresso per far entrare il povero signor Borden che era tornato prima dal lavoro.»

Il modo in cui Bridget parlava di mio padre mi fece sorridere. Mi voltai per guardarli.

«A dire il vero,» dissi «a volte la porta del seminterrato non è chiusa a chiave.»

Bridget mi osservò con attenzione, le folte sopracciglia separate come la terra quando si spacca, e il secondo poliziotto prendeva nota, prendeva nota. I miei piedi tracciavano dei cerchi sul tappeto. Spalancai gli occhi, sentii la casa muoversi a sinistra, poi a destra, mentre il caldo si piantava nelle pareti. Tutti portarono le mani al collo per allentarsi gli abiti stretti. Io restai immobile, seduta con le dita intrecciate.

Sentivo che frotte di persone si ammassavano davanti a casa. Voci come cannonate. Vacillai per il caldo, sentii i chiodi delle assi del pavimento che cedevano. Udii il tac tac delle zampe dei colombi lungo il tetto e pensai a mio padre. Il sole finì dietro a una nuvola e la casa scricchiolò rumorosamente. Sobbalzai sulla sedia. Bridget sobbalzò sulla sua. E anche la signora Churchill. «Mi sa proprio che siamo tutte spaventate» dissi, avevo voglia di ridere. La signora Churchill scoppiò di nuovo a piangere, mi fece venire la pelle d’oca. Dentro la testa un macellaio non faceva che pestarmi il cervello fino a farlo uscire dalle orecchie e servirlo su un piatto da portata. Il corsetto mi stringeva le costole e piccole pozze di sudore si depositavano negli spazi fra le braccia e le gambe. Bridget si alzò dalla sedia, si scollò la gonna bianco-sporco da dietro le cosce e andò dalla signora Churchill per confortarla. Si parlarono. La polizia prendeva nota, entrava e usciva dalle stanze, mi guardava.

Mi strofinai il palmo sul viso, feci cadere la piuma sul tappeto, notai delle minuscole goccioline di sangue sulle mie dita. Me le portai al naso, alla bocca. Le leccai, assaggiai mio padre, mi assaggiai. Deglutii. Mi guardai la gonna, scoprii dei puntini di sangue. Fissai le macchie, le vidi farsi fiumi lungo l’orlo, li conosco questi fiumi!, e pensai a tutte quelle volte in cui da ragazze io ed Emma avevamo giocato nelle acque del Quequechan, a papà che dalla riva urlava: «Non andate troppo al largo! Chissà quant’è profondo».

Il mio corpo desiderava ardentemente il passato, una vita con Emma e papà: volevo tornare bambina. Volevo nuotare, pescare, asciugarmi al sole con Emma fino ad abbrustolirci la pelle. Le avrei detto: «Facciamo finta che siamo degli orsi!» e saremmo diventate giganti e marroni, cercando di colpirci a vicenda sul naso nero con le zampe pelose. Emma mi avrebbe fatto sanguinare e io le avrei affondato gli artigli nelle costole ricoperte di pelliccia, toccandole il cuore. Emma avrebbe tentato di colpirmi di nuovo ma papà le avrebbe detto: «Sii gentile con Lizzie» e tutto sarebbe finito con un abbraccio.

Appena due anni prima ero nel bel mezzo del mio Grand Tour europeo. Quanta libertà avevo! Non c’era Emma, sempre pronta a dirmi come comportarmi o di cosa parlare, e finalmente iniziai a godermi la vita. Su insistenza di mio padre partii con i miei cugini, Borden di sangue o acquisiti, con cui non avevo quasi mai parlato, e così salimmo su quella nave e, inspirando i venti dell’oceano, imparammo a opporci alle onde. Quante cose vedemmo!

Roma. Le mie scarpe fatte a Boston si incastrarono fra le pietre a mosaico dei marciapiedi, incespicai, facendo la figura della sciocca. Comprai degli stivaletti nuovi di pelle di vitello e riuscii a camminare diritta come s’addice a una donna, passando inosservata. Camminavo, le orecchie piene di quell’italiano veloce, con la voglia di balzare dentro a quella cantilena che scorreva da una bocca all’altra.

Tutto mi ricordava quanto fosse piccola Fall River, quanto stessi diventando grande io. Laggiù la scalinata di piazza di Spagna, ricoperta di lavanda e azalee rosse in fiore, uomini e donne che la percorrevano fino in cima, visi baciati dal sole, labbra baciate da altre labbra, due capre bianche e nere che tiravano un carretto di legno grigio pieno di arance e di ortaggi verdi, io e mia cugina in piedi sul basamento di una fontana di marmo, a sussurrare, indicando un largo edificio rosso-romano: «John Keats ha vissuto lì!», ma guarda quanto sono acculturata.

Laggiù, uomini con il borsalino in feltro di pelo di coniglio seduti in cerchio bevevano caffè densi come fango. Laggiù, bambine con virginali abitini di pizzo della prima comunione. Laggiù, tre persone che leggevano. Laggiù, colombi che sbattevano le ali e mangiavano semi. Quanto avrei desiderato portarmene uno a casa. Laggiù, laggiù, laggiù. I miei occhi si spalancavano nel vedere tutte quelle cose. Conoscevo il mondo più di Emma e ciò mi rendeva felice. Le inviavo una cartolina dietro l’altra perchè non si sentisse esclusa, le mandavo il mio affetto, le davo motivo di sentire di più la mia mancanza.

A Parigi bevevo e mangiavo tutto quello che volevo. Burro, grasso d’anatra, foie-gras, cremosissimi brie, vini di un rosso ciliegia scuro, marmellata di pere, di clementine e lavanda, torte alla crema, caviale, escargot rosolate con burro all’aglio e pinoli. Facevo come i francesi, mi leccavo le dita, non m’importava se la gente mi vedeva o pensava male. A mio padre non sarebbe piaciuto, avrebbe detto che ero una maleducata. Mangiai proprio tutto, mangiai anche i suoi soldi, ero deliziosa ovunque andassi. Imparai ad avvolgere la lingua attorno a vocali accentate, parlavo a un estraneo e poi a un altro ancora. Nessuno mi conosceva o si aspettava qualcosa da me. Avrei voluto restare così per sempre.

Io, l’esploratrice. Quanto avevo camminato! Un giorno vidi una donna buttarsi nella Senna, nuotare come un pesce sotto agli archi dei ponti di pietra bianca, sotto Pont Saint-Michel. Che rumore faceva, sembrava un’opera lirica. Con il sorriso sulle labbra si lasciò trasportare dall’acqua e poi sparì. Battei le mani, applaudendo il modo in cui aveva preso in mano la situazione. Se solo Emma avesse potuto vedere. Vedere quanta strada poteva fare una donna se si impegnava davvero. E io decisi di impegnarmi davvero.

La gonna mi si appiccicò alle cosce, maledetta sanguisuga, e incominciai a staccar via la stoffa spessa, cercando di coprire le minuscole gocce di sangue. Dal soggiorno il dottor Bowen aprì una delle porte che davano in sala da pranzo e disse: «Abbiamo bisogno di lenzuola per il corpo». Il modo in cui disse “corpo” mi fece digrignare i denti. Mi spostai sulla sedia, cercando di sbirciare in soggiorno per controllare se mio padre stava bene.

La signora Churchill chiese: «Bridget, dove sono le lenzuola dei Borden?».

«Nell’armadio in camera degli ospiti. Vi accompagno.»

«Dovrete salire dalle scale di servizio» disse loro un poliziotto. «Non avvicinatevi al soggiorno, signore.»

Annuirono, uscirono dalla stanza e mentre risalivano la scala di servizio i loro piedi suonarono ritmi sommessi di percussioni sul tappeto. Qualcuno mi diede un bicchiere d’acqua. Bevvi. L’orologio sulla mensola del camino non faceva che ticchettare. Bevvi ancora. Il dottore mi mise le mani sulla fronte e mi chiese come mi sentivo. Stavo per rispondergli quando due urla prolungate risuonarono dal piano di sopra. «Cosa succede, per l’amor del cielo?» chiese il dottor Bowen.

Ancora due urla prolungate. «Aiuto! Qualcuno ci aiuti!» gridò Bridget. Le urla, le urla.