10

Benjamin

4 agosto 1892

Il sole mi colpì come una cannonata. I colombi danzavano sul tetto. Dopo un po’ la porta della stalla si aprì. Di sotto c’era del movimento, una donna trillava come un uccellino e diceva: «Buongiorno, piccoli miei». Era Lizzie. Poi urlò.

«I miei uccelli!»

Mi alzai sulle braccia e sulle ginocchia, strisciai in silenzio fino alle scale. Guardai giù e la vidi con le mani dentro a un profondo bidone della spazzatura. Urlò ancora, tirò fuori un colombo morto, ali piegate e rigide, senza testa, come tutte le cose morte. Ne tirò fuori un altro e poi un altro ancora, ne fece una pila ai suoi piedi e gridò: «Lo odio! Lo odio!». Lizzie se li poggiava sul petto, per fargli ascoltare il suo cuore. Il sole penetrò nella stalla, il respiro del legno. Ricordai mio padre che si muoveva per casa, con i piedi nudi che sbattevano sul pavimento, finché si fermò davanti alla mia stanza. «Ragazzo. Ragazzo.»

«Sì, papà?»

«Apri.»

Aprii la porta. Odore di muschio e tabacco bruciato, di fango vecchio. Papà mi sorrise, col suo dente annerito. «Prendi il cappotto.»

Presi il cappotto e lo seguii fuori. Ci muovevamo veloci. «Dove andiamo?» I miei piedi marciavano come ratti.

«Devi tenermi ferme delle cose.»

Arrivammo al nostro pollaio. «Tu me li passi e io uso l’ascia.»

Papà prese d’assalto i polli. Io li tenevo a testa in giù e le loro zampe squamose mi pizzicavano, sfregando sull’interno del polso.

«Dammeme uno» mi disse papà.

Gli passai un pollo, guardando come si dimenava, guardandogli gli occhi che si gonfiavano. Quando l’ascia calò, il pollo saltò in aria e il suo sangue mi cadde sulla pelle; la testa si agitava ancora sul ceppo. Ne afferrai un altro, cercando di tenerlo fermo mentre si dimenava per la paura.

«Non riesco a tenerli. Svolazzano troppo.»

Gli passai un pollo. Poi un altro. Polli, polli.

Quando tutto finì mi disse: «Prendi le teste e portale alla mamma».

Erano accatastate a terra come sterpi. Avevo paura di toccarle. Una delle teste si mosse, un battito d’occhi e un rantolo dal becco. «Papà, è ancora vivo.»

«Sono i nervi.»

Allora le raccolsi con lentezza da terra e le misi in un secchio. Puzza di sangue. Ne ero ricoperto.

Fuori dalla stalla la voce roboante di Andrew disse: «Lizzie! Lizzie, vieni qui». Lei si voltò e io mi allontanai dalle scale. Andrew rimase sulla porta, la sua ombra riempì la stalla.

«Stammi lontano» disse Lizzie.

Andrew sospirò. «Speravo che non li avresti trovati prima che...»

«Li hai uccisi!» Lizzie gli gettò addosso un colombo. L’uccello lo colpì sull’addome e poi crollò a terra. Un’ala si spezzò.

Andrew entrò nella stalla e diede uno schiaffo in faccia a Lizzie. «Smettila di dire queste assurdità.»

Lizzie singhiozzava, batteva i piedi, come un soldatino di legno, e disse: «Perché?».

«Sono nocivi, Lizzie.»

«Sono i miei animali da compagnia. Ci tengo.»

«Portavano in casa le malattie.»

Lizzie si chinò, raccolse il colombo e lo strinse. «Perché siete stato così crudele? Avreste potuto semplicemente liberarli.»

«Lo sai che non se ne sarebbero andati. Alcune cose sono meglio morte.» Andrew si mosse verso di lei, alzò la mano e l’anello d’oro sul mignolo brillò. Lizzie lo colpì.

«Non voglio che mi rivolgiate mai più la parola.» Una lacrima incastrata in gola.

«Lizzie ti prego, cerca di essere ragionevole.»

Lei lo spinse da parte, stringendo il colombo morto. Io strisciai verso la finestra e guardai fuori. Lizzie, in piedi in mezzo al cortile, dondolava l’uccello avanti e indietro, avanti e indietro. Andrew le si mise alle spalle, cercò di accarezzare i capelli della figlia.

«Non toccatemi.»

Lui ritrasse la mano. «Ti riprenderai» disse. «Ne parliamo nel pomeriggio.»

Lizzie si girò verso di lui. «Credete di sapere tutto. Dio vi punirà.» Fece cadere l’uccello a terra e lasciò il padre da solo nel cortile.

Andrew si passò le mani sul viso. Il sole picchiava sul tetto della stalla, mi picchiava nelle ossa. Ecco il momento buono per andare da lui.

Iniziò ad allontanarsi dal cortile come un’eco: lento, sconfitto. Io scesi le scale, aprii la porta della stalla. L’aria fresca mi baciava le labbra, la luce abbagliante creava dei piccoli aloni attorno alle pupille. Lui raggiunse il fianco della casa, l’esile struttura annegava nel completo di lana grigio scuro. Un colombo gli volò sopra la testa. Si allungò per prenderlo, lo mancò. Si appianò la fronte con le mani rugose. Avrei voluto lanciarmi verso di lui, colpirlo in faccia con le dita strette in un pugno, farlo ragionare, ma se n’era già andato, era scomparso dentro casa.

Spalancai le braccia e raggiunsi il pergolato di peri. Tirai giù un frutto pesante e lo strinsi, lasciandomi colare il succo fra le dita. Mangiai. Ne tirai giù un altro, mangiai, buttai i torsoli delle pere a terra e mi pulii la bocca con la manica. Puzzavo terribilmente.

Camminai fino al centro del cortile, mi fermai accanto all’uccello morto, mi chinai e lo tirai su: piume di piombo. Staccai un’ala e l’osso risonò come un rametto, quindi me l’appoggiai sul viso prima di infilarmelo nella tasca dei pantaloni.

Si aprì una porta e qualcuno si lamentò. Dopo, dei piedi. Non volevo mi vedessero quindi mi affrettai verso la stalla e mi schiacciai contro il muro esterno. Bridget arrivò nel giardino sul retro, straccio e secchio in mano. Si passò il braccio sul viso e restò in piedi, immobile. Poggiò il secchio a terra, si piegò in due e vomitò sull’erba. Che rumore fece il suo corpo. Vomitò ancora, ancora, svuotò contenuti, un liquido abbondante, marrone, guasto. Si mise carponi e appoggiò la fronte a terra. Il sole era una luce dorata sulla cuffia e il grembiule bianco. Gli uccelli facevano un gran chiasso.

Bridget vomitò ancora una volta, poi si tirò su e se ne andò con il secchio sul lato opposto della casa. Si muoveva lenta come catrame. Quando iniziò a pulire le finestre io aspettai, quindi attraversai il cortile. Raggiunsi le porte del seminterrato, girai silenziosamente la maniglia. Chiusa. Cosa ci sarà stato di così prezioso in questa casa da dover chiudere tutto a chiave? Corsi verso il lato più vicino della casa, verso la porta di servizio. Non era chiusa a chiave. Bridget aveva commesso un errore. Mi intrufolai dentro. C’era una stretta scala di legno e lungo il muro ganci d’ottone per i cappotti. Andai avanti, arrivai in una cucina dove le persiane mezze chiuse gettavano ombre nella casa; profumava di pane cotto al forno, di carne vecchia, di pelle, di calore umano. Lo stomaco mi supplicava. Andai alla stufa, abbastanza grande da infilarci dentro qualcuno e bruciarlo per bene, e scoperchiai la pentola profonda e annerita: un odore acido. Misi la mano a cucchiaio e la tuffai nel brodo. Era tiepido. Me la portai ripetutamente alla bocca, il brodo gocciolava e gocciolava giù dal mento, giù dal collo sulla camicia e a terra. Sapeva di dolce, di marzapane. La carne non dovrebbe avere quel sapore. Non avrei dovuto essere così impaziente. Rimisi il coperchio sulla pentola, vidi un piatto di pancake sul piano della cucina. Ne tirai su uno, l’annusai, un profumo di zucchero, e mi misi sulla lingua l’impasto pesante come mattone, leccandolo prima di morderlo, di ingoiarlo in un sol boccone. Mi tolsi le briciole dalla camicia, udii dei passi sopra di me. Guardai il soffitto, notai cornici fuligginose. «Potrebbe essere Andrew lassù» dissi.

Sulla mensola del camino della stanza con il grosso divano c’era un orologio di legno scuro. Feci scivolare il dito sul legno, sulle foto di Andrew e Abby, su una foto di Lizzie, su quella di una donna che non potevo che supporre fosse Emma, i capelli scuri, il naso cesellato come pietra, la fronte alta. Non assomigliava affatto a sua sorella Lizzie, dalle guance tonde e paffute, le labbra carnose color prugna e la punta delle orecchie piegata con una piccola vela. Donne dall’aspetto molto ordinario.

Il dito dalla mensola scivolava sul muro, sulla libreria, sulla finestra. Era coperta da una tenda di pizzo fitto e dall’altra parte del vetro spuntava la cima della cuffia di Bridget. La sua testa ballonzolava su e giù e io nascosi le dita dietro alla tenda spingendole indietro, guardando Bridget che, in ginocchio, risciacquava un panno in un secchio di metallo.

Al piano di sopra qualcuno conficcava ampie falcate sulle assi del pavimento. Mi avvicinai al divano, mi sedetti e spostai le mani sulla superficie liscia del tessuto di crine di cavallo. Aveva una bella lucentezza quell’animale morto. Da quella posizione vedevo un’altra stanza con un pianoforte, le scale sul davanti, chi arrivava e chi se ne andava. Questa casa era più grande di qualsiasi cosa avessi mai visto. Avrei potuto chiarire la situazione con Andrew ovunque. Appoggiai la testa sul divano, sentii il mio stomaco contrarsi e ribollire, infilai le dita nello strappo dei pantaloni e palpai la cucitura del chirurgo. Pensai a mio padre. Stare in quella casa mi aveva fatto venir voglia di tornare a trovarlo, di dirgli tutte le cose che aveva sbagliato, nel modo in cui l’avrei detto a Andrew. Allora mi alzai, andai in sala da pranzo, girai attorno al lungo tavolo, feci toc-toc sul legno duro e strattonai la pesante tovaglia di pizzo lunga fino al pavimento, come se fosse la gonna di mia madre. Mi mancava. Le persiane delle finestre erano aperte, dinnanzi a me un giorno limpido, lo scorcio di una vicina di casa che si aggiustava il collo della camicetta. Mi spinsi contro la finestra e mi godetti il sole sulla testa, sugli occhi. Era ora di cercare Andrew.

Quando sentii che qualcuno stava iniziando a scendere le scale sul davanti mi voltai. Mi chinai un poco per riuscire a vedere chi era. Pensavo fosse Andrew, pensavo che sarebbe venuto da me, che avrei potuto prenderlo per le spalle, spintonandolo appena. “Lo sai perché sono qui, vero?” gli avrei chiesto. Lui avrebbe scosso la testa.

“Sei stato crudele. Non hai ascoltato.” L’avrei tirato verso di me, mi sarei fatto sotto.

Vidi le gambe di un paio di pantaloni scuri, un corpo sottile come un fuso, udii: «Mi raccomando, riguardatevi con questo caldo, Abby. Non sia mai che peggioriate». John era sulle scale. Qualche passo ancora e riuscii a vederlo da capo a piedi: si stava passando la mano nei capelli e si lisciava la camicia.

«Non ho nessun programma, a parte stare a casa» disse Abby.

Questo era un problema per me. John era ormai all’entrata quando i nostri occhi si incontrarono. «Tu!» I suoi occhi si spalancarono, stupefatti, e scoccò uno sguardo in cima alle scale.

A quel punto vidi anche Abby che, con la testa china e concentrandosi su ogni passo, si appoggiava con forza alla ringhiera. Scostai rapidamente una sedia dal tavolo e mi ci rannicchiai sotto.

«Che cosa avete detto, John?» domandò la donna.

«Non ci crederete, ma ho completamente perso il filo del discorso.»

«Succede anche a me più spesso di quanto voglia ammettere.»

John proruppe in una risatina soffocata, di quelle che fanno sollevare le spalle fino alle orecchie. Mi si contrasse lo stomaco, la testa mi iniziò a girare e gli occhi a lacrimare.

«Ebbene, dico a Bridget di preparare anche per voi oggi?»

«Sapete, credo di sì. Resterò un’altra notte. Mi piacerebbe passare un po’ di tempo con Lizzie.»

«Molto bene.»

«Suppongo che dopo aver concluso gli ultimi affari in città sarò piuttosto sfinito.»

John non aveva mai accennato a prolungare la sua permanenza. Mi aveva promesso di aiutarmi ad andarmene da Fall River. Non vedevo di buon occhio i bugiardi. Avremmo dovuto parlare.

Abby aprì un armadio, gli porse la giacca.

«Andrew a che ora rientra?» chiese lui.

«Di solito fa una capatina verso l’una.»

«Fantastico. Tornerò nel primo pomeriggio.»

Abby aprì la porta e lui se ne andò. Poi chiuse la porta, girò la chiave nella serratura, sospirò. Andrew non c’era. Tutte queste informazioni inaspettate. Mi toccava nascondermi in casa fino al suo ritorno. Pensai alle mie opzioni: una stanza da letto di sopra, il seminterrato, l’armadio sotto le scale. C’era la possibilità che si accorgessero di me, che Abby mi trovasse proprio lì sotto al tavolo. Vedendomi avrebbe urlato, avrebbe cercato di graffiarmi la faccia. Le nocche mi si sarebbero gonfiate in un pugno e la mia pelle avrebbe sbattuto sulla sua, spalancandole la bocca, spaccandole in due il labbro e la lingua. L’avrei messa a tacere.

Abby era in piedi al centro del soggiorno con lo sguardo fisso verso l’esterno. Mi si contrasse lo stomaco. Si avvicinò alla finestra, scostò il pizzo e picchiettò sul vetro. «Sei troppo frettolosa, Bridget» gridò. «Mi aspetto che tu pulisca come si deve.» Lasciò la tenda, camminò verso la sala da pranzo e si fermò. Pianse, piccole lacrime tremanti, segretamente. Il soffitto iniziò a scricchiolare. Non poteva che essere Lizzie. Mi si contrasse lo stomaco. Avevo mangiato pere, avevo mangiato brodo di montone.

Il soffitto scricchiolò ancora e Abby guardò in alto, andò in cucina e mentre si avvicinava al ripiano lo stomaco le iniziò a brontolare. Prese un pancake, tenendolo come un fermacarte. Lo morse e i resti le caddero sul collo della camicetta. Si ripulì con la mano, dando un’occhiata al pavimento, al pasticcio che avevo combinato. «E questo da dove arriva?» disse. Le briciole la condussero allo schizzo di brodo vicino alla stufa. Sentivo il suo stomaco. Si chinò in avanti, mise il dito nel brodo. Notai la fede stretta sul dito. Avrei potuto succhiarlo, un dito come quello. Come borbottava.

Abby si mise dritta, scrollò le gambe, scrollò i logori stivali di pelle e le caviglie grosse. In fondo alla gonna c’era uno strappo. Pensavo che le donne come lei spendessero più soldi per il loro aspetto.

«Bridget non è nemmeno capace di tenere puliti i pavimenti» disse stizzita.

Il soffitto scricchiolò ancora e Abby guardò in alto, seguendo quel rumore al piano di sopra fino alla sala da pranzo, proprio vicino al tavolo; le tremavano le gambe. Ritornò in cucina. Annusa, annusa. Ritornò nella sala da pranzo. Annusa, annusa. Mi stavo facendo scoprire.

«Lizzie» urlò Abby. «Lizzie, vieni quaggiù.»

Di sopra si aprì una porta e Lizzie discese le scale di legno. Entrò nella sala da pranzo e si mantenne a distanza da Abby, indossava un vestito blu sotto un grembiule bianco con le maniche lunghe. Mi si contrasse lo stomaco. La frutta non ti fa sentire così.

«Cosa c’è?» chiese Lizzie.

«Non senti questo puzzo disgustoso?»

Lizzie inspirò l’aria attorno a lei, espirò. «Non sento niente.»

«È più in cucina, mi sa.»

Lizzie entrò in cucina, inspirò. «Non lo sento.»

«È odore di marcio o di urina o...»

«Probabilmente state sentendo il vostro odore.»

«Che cosa ignobile hai detto.» Abby incrociò le braccia sul cuore. Lizzie alzò le spalle. «Non so proprio cosa vogliate che vi dica, io non sento niente.» Lizzie era brusca con lei.

Per un po’ Abby rimase in silenzio mentre Lizzie camminava lentamente verso di lei, accorciando la distanza. Si guardarono. Poi Abby disse: «Perché hai indosso un grembiule?».

Lizzie passò le mani sul bianco, sorrise. «La pulizia è importante quanto la devozione, signora Borden.» Fece un passo verso di lei e lo stomaco di Abby brontolò.

«Avete mangiato il montone?» chiese Lizzie.

«Un po’, sì.» Abby, quasi un sussurro.

«Siete riuscita a lasciarmene un po’?»

Abby si strofinò le tempie. «Pensavo che avessi già mangiato.»

«Perché?»

«Qualcuno ha impiastricciato tutto il pavimento.»

«Sicura di non essere stata voi?»

Schiacciai più forte la faccia sulla gamba della sedia, sentii un odore intenso di lucido per il legno.

«Piccola carogna.» Abby senza nemmeno pensarci le diede uno schiaffo sulla guancia e sulla bocca, facendola sanguinare.

Lizzie si morse lievemente il labbro, sentì il sapore del suo sangue. Incrociò le braccia, poi le sciolse, si avvicinò a Abby, si sporse verso di lei e la baciò sulla bocca. Poi le si premette contro, con forza, spingendole la testa leggermente indietro. Per un attimo Abby non batté ciglio. Poi Lizzie fece un passo indietro e si pulì le labbra sul grembiule, lasciando una macchia di sangue. Non si scambiarono una parola.

Lizzie si allontanò da Abby, diretta alle scale sul davanti. Salì su. Abby emise un grido agghiacciante da volpe femmina, come se le stessero tirando fuori qualcosa a forza, si premette le mani sul viso, scosse la testa, no, no, no. Si raddrizzò, asciugandosi le lacrime sulla manica. Io sentivo il ronzio di una mosca nell’orecchio.

Abby camminò verso le scale sul davanti, camminò finché smisi di sentire i suoi passi lassù. Mi si contrasse lo stomaco e oscillai in avanti, ebbi un conato, vidi il brodo di montone uscire da dentro di me e cadere sul tappeto. Come mi lacrimavano gli occhi. La mosca ronzava e atterrò nel mio vomito. Udii Lizzie e Abby parlare, udii Abby che diceva: «Se hai intenzione di stare lì...» io ebbi un altro conato e Lizzie parlò. La stanza iniziò a girare, tutto era bollente, cercai di resistere e poi tutto si fece scuro.

Mi svegliai e il sole era accecante, sentii sulla lingua il sapore salato del tappeto. Per quanto tempo ero svenuto? Fuori due bambini urlavano sul marciapiede oltre la casa, lunghi echi di risate che si rincorrevano. «Non trattare così tua sorella» urlò una donna. Quel modo di stare assieme a un fratello. Le mie labbra si aprirono in un sorriso.

Stavo per strisciare fuori da sotto il tavolo quando vidi Lizzie su una poltrona in soggiorno. Si era abbandonata, con le gambe aperte che tiravano la gonna come una fune, e guardava il tappeto, con lo sguardo privo di vita. Si era tolta il grembiule. Bisbigliava fra sé e sé, piccoli movimenti della lingua sulle labbra. Da quanto tempo era lì? Mi aveva visto? Si massaggiava la fronte, si tirava i capelli, restava in silenzio in una casa silenziosa. La gamba iniziò a farmi male, stufa di stare rannicchiata. Presto avrei dovuto spostarmi da un’altra parte della casa. Lizzie si toccò il grembo, tirò fuori una pera mezzo mangiata e affondò i denti nella polpa. Bocca stucchevole. Diede un altro morso, unì i piedi. Un morso, si raddrizzò. Un morso, si scrocchiò il collo. Un morso, si leccò le labbra, lappandosi con un sorriso.

Si alzò in piedi, andò in cucina e gettò la pera nel lavandino. Strisciai lentamente dall’altro lato del tavolo, immergendo le mani nel mio stesso vomito. Era freddo, si era indurito. Feci l’impossibile per restare in silenzio. Lizzie tirò fuori da un cassetto un cucchiaio, se lo ficcò in bocca e scomparve dal mio raggio visivo. Sentivo l’odore delle mie viscere sui palmi. Lizzie ricomparve con in mano un barattolo di gelatina di lamponi, piantò il cucchiaio ben dentro a quello sciroppo di frutta e fece tintinnare il vetro. Abby dov’era andata? Lizzie mangiò la gelatina, svuotò il barattolo e lo lasciò sul ripiano della cucina. Allungò le braccia sopra la testa e uscì dalla cucina in quella posa; poco dopo la porta di servizio si aprì e poi si richiuse sbattendo. Lizzie era una strana creaturina.

Strisciai da sotto il tavolo, sentivo Lizzie e Bridget parlare in cortile, borbottando concitatamente. Vista la situazione non potevo restare lì. Mi avrebbero trovato. Raggiungere il retro senza farmi vedere non sarebbe stato facile. Avrei dovuto nascondermi da qualche parte in casa fino al ritorno di Andrew. Mi diressi verso le scale sul davanti, salii su. Il caldo mi divorò come un corvo. Sulla ringhiera c’era dello sciroppo rosso. Lo toccai, me lo lasciai colare sulla punta del dito e me lo portai in bocca. Sentii il sapore di sangue giovane. La porta di una stanza era aperta e io entrai, vidi dell’altro rosso sullo stipite. Lo toccai, mi portai le dita alla bocca, l’assaggiai di nuovo. Le guance riconobbero quell’aroma acido e metallico. Avevo assaggiato sangue come questo già molte volte.

Feci qualche altro passo avanti, notai qualcosa di bianco accanto al calorifero. Mi avvicinai, sapevo che cos’era già prima di raccoglierlo. Un frammento di cranio, tinto di rosso, con la pelle ancora aggrappata a fili di capelli ingrigiti. Me lo portai all’altezza della faccia, inspirai: un impercettibile fischio nel naso e nella bocca. Qualcuno aveva fatto giustizia senza di me. Mi guardai alle spalle, il calore mi schiaffeggiò in faccia e feci cadere l’osso a terra. «Cosa sta succedendo?» Fuori due bambini urlavano, ridevano.

Allora vidi il letto, un piccolo schizzo di sangue sul copripiumone bianco, due fodere stirate alla perfezione che ricoprivano cuscini di piuma, un grumo di capelli intrecciati al centro del letto e, lì accanto, un altro pezzo di cranio. Sulla mia lingua il sapore di zolfo metallico. Mi avvicinai lentamente al letto, raccolsi l’osso e lo tenni stretto. «Guarda, guarda. Che tesoro che ho trovato.» Mi appoggiai sul letto e sentii che il materasso si abbassava sotto di me. Fu allora che vidi Abby giacere faccia in giù sul pavimento, il corpo intrappolato a metà strada fra la toeletta e il letto.

Il suo corpo era a forma di S, la faccia nascosta fra le braccia incrociate, le gambe rigide. Il sangue le circondava la testa come un alone, un bastoncino per il miele rosso intenso sul tappeto. Strisciai giù dal letto e mi inginocchiai accanto a Abby, cullandole le spalle. Le dita affondarono nella pelle e le guardai la nuca. Tagli spessi come radici di alberi raggiungevano l’inizio del cervello. Ficcai un dito in una delle incisioni. I tagli erano feroci, e io mossi le dita dentro e fuori dal solco dell’osso, quindi me le pulii sui pantaloni. Papà diceva sempre di non sprecare il sangue versato.

Guardai la stanza, alla ricerca di indizi che mi avrebbero aiutato a capire chi era stato a darle una lezione. Non mi piaceva l’idea che John avesse chiesto a qualcun altro di aiutarlo a risolvere il suo problema di famiglia. Lizzie sapeva che Abby era lì sul pavimento? Accarezzai la schiena di quella donna, pensai a mia madre. Guardai il piccolo frammento di cranio sul letto e mi allungai per prenderlo. In mano pesava come un pezzo d’oro. Me lo portai al naso, lo respirai, sentii una traccia di violetta. Mi misi l’osso nella tasca dei pantaloni per custodirlo, per mostrare a John che cosa era successo in sua assenza.

Ero in cima alle scale quando sentii Bridget e Lizzie parlare.

«Signorina Lizzie, ma avete visto? C’è un pasticcio tremendo nella sala da pranzo.» Bridget parlava veloce.

«Che cosa vuoi dire?»

«Qualcuno ha vomitato dappertutto!»

«Fammi vedere» rispose Lizzie, come durante una caccia al cervo.

Dovevo trovare John, dovevo trovare Andrew. Scesi giù e dalla ringhiera intravidi Abby, sotto al letto. Sentii Bridget che diceva: «Sono preoccupata per la signora. E se fosse suo il vomito?».

Volevo gridare: “È qui. È morta”. Ma non potevo farmi catturare.

«Forse lo è» disse Lizzie. «Forse è stata molto male.»

«Andiamo a vedere come sta.»

«Non possiamo. È uscita. Ha ricevuto un biglietto da un parente malato ed è andata ad aiutarlo.»

«Non ho visto arrivare nessuno» disse Bridget.

«Invece sì.» Lizzie esitò.

Le voci si smorzarono, una porta si aprì.

Scesi giù dalle scale, le mie scarpe un’eco, ma tutte le stanze erano vuote, nessuno nella stanza del pianoforte, nessuno nella stanza del divano, nella sala da pranzo. Nessuno nell’armadio sotto le scale. Qualcuno era la causa di quel sangue al piano di sopra, qualcuno mi aveva creato delle complicazioni. Presto avrebbero scoperto Abby, sarebbe arrivata la polizia. Il tempo a disposizione per occuparmi di Andrew si stava esaurendo.

L’orologio batté le dieci. Andrew sarebbe stato a casa all’una. Non potevo rischiare di restare per ore in casa. Avrei dovuto nascondermi nella stalla. Mi diressi verso il seminterrato, scesi, e nel toccare una parete sentii qualcosa di bagnato, di leggermente appiccicoso. L’assaggiai. Era Abby. Qualcuno aveva portato il suo sangue sotto la casa. Dentro di me un desiderio, una smania di cacciare. Feci qualche calcolo: la polizia sarebbe arrivata e avrebbe iniziato a perlustrare la casa, anche qui giù. Raggiunsi la porta doppia che conduceva al cortile, l’afferrai e tirai. Che fortuna: non era chiusa a chiave. La aprii, solo di uno spiraglio. Sbirciai fuori. Lizzie era nel pergolato di peri, staccava, mangiava, la polpa delle pere cadeva a terra. Passò del tempo, buttò il torsolo e si avvicinò al seminterrato, io mi spostai rapidamente dietro la porta, mi schiacciai contro il muro. Mi passò davanti e si pulì la bocca con una mano, portandosi dietro il profumo dell’erba, di sudore acre, e non mi notò affatto. Salì le scale ed entrò in cucina. Io uscii dal seminterrato ed entrai nella stalla. Mi serviva un buon nascondiglio. Sul tetto si sentì il suono di un colombo, guardai in su. Allora vidi il soppalco sopra la mansarda. Lungo come una bara. Salii le scale e poi saltai su, mi spinsi dentro a quello spazio angusto e appoggiai il fianco al muro. Il frammento del cranio di Abby mi si piantò nella gamba.

Sentii una donna singhiozzare in codice morse in cortile. Uno strillo, e poi un altro. Una cosa inaspettata. Non ero sicuro di sentire le cose a dovere. Poi, poco dopo, là fuori si scatenò il panico. «Fateli indietreggiare fino al marciapiede. Non lasciate entrare nessuno nella proprietà.»

«Sissignore.»

Mi spostai a fatica verso il bordo del soppalco, vidi che la porta della stalla era aperta. Qualcuno era entrato. Mi rannicchiai a terra, guardai fuori dalla finestra della mansarda. In strada si stava radunando una folla, la polizia faceva avanti e indietro lungo il fianco della casa.

Diedi una spintarella alla finestra, i colombi cantavano tra le fronde degli alberi, e Bridget fu scortata al centro del cortile da un agente, la mano dell’uomo una roccia sulla schiena. Bridget piangeva e l’agente disse: «Prendetevi pure del tempo, ma ditemi, per piacere, se avete visto qualcuno seguire fino a casa il signor Borden».

Lei scosse la testa. «No, signore. L’ho solo fatto entrare e poi Lizzie poco dopo mi ha gridato che qualcuno aveva ucciso suo padre.»

Qualcuno aveva ucciso il signor Borden. Una cosa proprio inaspettata. Cosa stava succedendo in quella casa? Meglio per John che non abbia cambiato idea, che non sia stato lui. Mi allontanai dalla finestra. Notai i cambiamenti sul pavimento della stalla: una rivista femminile sparsa sul pavimento, orme di stivaloni, strati di polvere cancellati. Qualcuno era stato lì. Come mai non avevo sentito niente? Nella stalla faceva un caldo torrido e un agente gridava: «State indietro. State indietro».

Vidi delle goccioline di sangue dirigersi lungo il pavimento della mansarda fino a una coperta vecchia e pesante. Le seguii e alzai la coperta: la testa di un’ascia, incrostata di sangue, ricoperta di minuscoli capelli grigi, muschio umano. Il metallo, temprato dall’uso, era stato staccato dal manico. «Guarda, guarda, guarda.» Sotto al sangue, sotto ai capelli grigi, due lunghi fili ramati. Tirai su la testa dell’ascia, la annusai. Quel puzzo di caramello. «Guarda, guarda, guarda.» Qualcuno aveva ucciso Abby. Qualcuno aveva ucciso Andrew. Dovevo prendere l’ascia, portarla a John, pretendere delle risposte, pretendere la mia ricompensa. Mi misi nella tasca dei pantaloni la testa dell’ascia.

Fuori, voci. Guardai ancora dalla finestra, vidi due agenti di polizia. Uno diede un calcio al colombo morto in cortile, l’altro prese una pera dal pergolato. Si voltò. Un occhio blu-viola. Lo conoscevo, riconoscevo la mia opera. L’agente di ieri. Niente giocava a mio favore. Saltai in piedi, mi rinfilai nel soppalco e mi sdraiai sulla pancia, respiravo a fatica. Pensai a John. Avremmo dovuto parlare. Ascoltavo tutti, ascoltavo i colombi sul tetto.