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Emma

4 agosto 1892

Schiacciai il viso contro il vetro della finestra di Helen, sentii il sole del mattino: caldo come la carezza di mia madre. Come mi solleticava la pelle. Come mi faceva pensare a lei, a tutti quegli anni passati a sentirne la mancanza. Aveva l’abitudine di entrare nella mia stanza e tirar su la tenda. Io volevo che restasse, volevo essere lei, per averla per sempre. Ma la piccola Alice si metteva a piangere in un’altra stanza e la mamma mi lasciava lì. Da sola. Poi anni dopo era stata la piccola Lizzie a mettersi a piangere e io avevo iniziato a capire che nulla è per sempre.

Il sole del mattino. Un uccello volò davanti alla finestra e io misi da parte i pensieri su mia madre.

Tutto era silenzioso a casa di Helen: nessun orologio, nessun passo sul pavimento, nessuna voce incollerita, nessuna porta che sbatte, nessun padre, nessuna Abby, nessuna sorella. Le mie guance si gonfiarono come una mongolfiera. Non avevo avuto una sorella per due settimane, non avevo dovuto pensare ai bisogni, ai sentimenti, al cuore di nessun altro. In questa casa la mia mente era solo per me.

Schiacciai ancor di più il viso contro il vetro della finestra, pensai che, dopo questo periodo a Fairhaven, sarei scappata, avrei percorso lunghe e sconosciute strade di basalto che avrei poi schizzato sul mio album da disegno macchiandomi le dita con i pastelli a cera. Mi sarei lavata le mani in mari profondi e se mai avessi pensato ai miei familiari, gli avrei spedito una cartolina con scritto semplicemente: L’avventura continua. Avrei fatto in modo di spedirle dai luoghi che Lizzie non aveva visitato durante il suo Gran Tour europeo, per ricordare a papà quanto avevo dovuto sacrificare per la sua educazione e che anche io mi meritavo un viaggio.

E casomai fossi tornata sul suolo americano me ne sarei andata da Second Street e avrei vissuto da eremita, in silenzio. Avrei vissuto come la pittrice Maria a’Becket, avrei dipinto il mio Northern Lights. Niente più Lizzie, niente più papà, niente più Abby. Finalmente, a quarantadue anni, non avrei più dovuto fingere.

Il sole si spostò e allargai le spalle. Sentivo il mio corpo espandersi. Giù in cucina Helen con un tonfo fece cadere un bollitore di ghisa sulla stufa, io sobbalzai.

Mi chiamò, quasi cantando. «Emma, vuoi del tè?»

Sorrisi. «Sì. Sì, sempre.»

Che differenza fra le due case.

Prima di percorrere quelle sedici lunghe miglia fino a casa di Helen, a Fairhaven, Lizzie mi aveva supplicato di restare in Second Street, di non abbandonarla.

«No» le avevo risposto. Tutto ciò che avevo sempre sognato era racchiuso in quella piccola parola: avrei preso lezioni private di arte, la mia ribellione clandestina contro papà.

Lei mi aveva guardato, gli occhi lucidi. «Stai commettendo un grosso errore ad andartene.» Lizzie, una locomotiva, cercava di farmi sentire in colpa. Io alzai la mano, avevo pensato di schiaffeggiarla, ma invece la lasciai lì, da sola, a gridare nella sua stanza. La ignorai, la lasciai piangere.

Due giorni dopo arrivai a Fairhaven e Lizzie cominciò a mandarmi delle lettere:

Be’, non mi sto divertendo granché, devi credermi, Emma. Non hai idea delle conversazioni che mi devo sorbire a tavola. Papà è noiosissimo. Hai mai notato come gli si assottigliano le labbra quando dice: «Oggi»?

Non l’avevo notato. All’inizio le sue lettere mi divertivano. Le leggevo ad alta voce a Helen, durante la cena, e ridevamo fragorosamente. Poi si era messa a scrivere di Abby:

Ho sentito per caso la signora Borden dire a quella sciocca di sua sorella che si sentiva “al sicuro” ora che sapeva che avrebbe ereditato tutte le proprietà di papà alla sua morte e che lui non ci avrebbe lasciato nemmeno un soldo. Emma! Che infida bugiarda. Che faccia tosta. Cosa dovremmo fare secondo te?

Sentivo le loro voci nella testa, quella vecchia emicrania, le sentivo gridare da una parte all’altra del corridoio, della cucina, sulle scale davanti all’ingresso, attraverso i muri delle stanze da letto. Mi ero allontanata di sedici miglia ma ero ancora a casa. Ripiegai Lizzie in piccoli pezzi.

Ma le lettere continuavano ad arrivare.

Faccio ancora quei sogni strani, Emma. Li ho scambiati per la realtà. Devi tornare a casa.

Andare a casa. Pensai a Lizzie sdraiata sul letto nella sua stanza color bianco lenzuolo, che si rigira piume di struzzo fra le dita lunghe come forchette, le piume che pendono dalla testiera come frutta troppo matura. La immaginai schioccare la lingua e tirare in dentro le guance, come sempre, e allora strinsi la mano in un pugno, pensando di colpirmi le cosce, quella solita frustrazione, il mio patchwork di lividi sulla pelle. Invece, continuai a bruciare le lettere.

Ci misi un po’ ad abituarmi a vivere lontano dalla mia famiglia. Nei primi giorni ero costantemente in ansia, pronta allo scontro ogni qualvolta io ed Helen ci sfioravamo i gomiti o parlavamo insieme. Ma infine stare a casa di Helen si rivelò una liberazione. Mi dimenticai di come Abby, goffa e rumorosa, si muoveva per la casa, delle dita curve e artritiche della mano sinistra di papà, del tonfo costante del saliscendi di passi di fronte a casa, del putrido odore di alito intrappolato fra le mura ogni mattina prima di arieggiare, dei singhiozzi notturni di Lizzie.

Per abituarmi ad accettare una vita senza la mia famiglia andavo in città e disegnavo schizzi di gatti malconci, composizioni floreali sui tavoli dei ristoranti, madri con i loro bambini, cose piacevoli. Il modo in cui le dita si chiudevano attorno ad altre dita. Mi immergevo fra gli sconosciuti. Al ritorno a casa di Helen mi fermavo a raccogliere fiori di campo viola e gialli. Il loro profumo: di sole pomeridiano sui petali, di erba alta che si era strofinata contro i gambi, di terra secca. Quante cose mi vennero in mente:

  1. Nella marmellata di lamponi va aggiunto poco zucchero se si usa il succo di mela;
  2. Io chinata su mamma che giaceva nel letto. «Ti prometto di prendermi sempre cura di Lizzie.» Un bacio sulle sue labbra screpolate;
  3. Mamma che mi porgeva la piccola Alice per tenerla in braccio la prima volta. «Che puzza disgustosa.» Ma poi, quando mi aveva porto la piccola Alice per tenerla in braccio l’ultima volta, dopo che le convulsioni l’avevano scossa a morte, Alice non aveva più nessun odore;
  4. Quella volta che avrei dovuto badare a Lizzie e invece mi ero chiusa in camera a disegnare forme geometriche fino a farmi venire male al polso. Lizzie si era rotta il braccio scivolando lungo la ringhiera della scala all’ingresso. Papà mi aveva rotto le matite;
  5. Un giorno vedrò il mantello multicolore di Giacobbe all’Ashmolean Museum;
  6. Magari fosse morto papà invece di mamma;
  7. Lizzie aggrappata alle gambe di Abby. Come ha potuto amarla così facilmente?
  8. Quanto ci mette un corpo a dimenticare la sua storia?

Il sole mi si posò sulle dita. Mi fece ricordare l’ultima volta che avevo visto mio padre piangere. Mia madre era morta. Lui le aveva ricoperto di baci tutti i luoghi dimenticati del corpo, l’interno di una caviglia, la parte inferiore di un sopracciglio, gli spazi fra le dita. Mi aveva spaventato vedere quella scena.

Un pomeriggio, di ritorno a casa di Helen dalla città, aprii la porta d’ingresso, mi recai in soggiorno, riempii di fiori un vaso. Helen mi si avvicinò da dietro e disse: «Aspettavi qualcuno?».

«No.» Ti prego, non dirmi che Lizzie mi è venuta a trovare.

«È passato un uomo e ha chiesto di te. Ha detto di essere tuo zio.»

Mi si serrò la mascella. «Aveva i denti davanti molto grandi?»

Helen annuì. «Proprio lui. È il tuo preferito, no?» Sorrise.

«No. È John. Il fratello di mia madre. Perché mai sarà venuto a cercarmi qui?» Mi toccai la gola con forza. Come aveva fatto a sapere dove mi trovavo? Lizzie? Non l’avrà mica mandato lei per riportarmi a casa! Sapeva che non gli avrei dato retta, che detestavo le sue visite: il modo in cui parlava a papà, come se volesse qualcosa; il modo in cui Lizzie lo adulava e poi gli chiedeva dei soldi, ottenendoli; il modo in cui sembrava che stesse sempre escogitando qualcosa; in cui continuava a dirmi che assomigliavo a mia madre, facendomi venire ancora più nostalgia.

«Ha lasciato detto quando sarebbe tornato?»

«Non sono riuscita a chiederglielo. Sembrava arrabbiato, mi ha quasi sbattuto la porta in faccia. Aveva davvero bisogno di parlarti.»

Scossi la testa. «Mi spiace che si sia comportato così.» Sempre a scusarmi per i miei familiari.

«Lo sai che puoi restare quanto vuoi.» Helen si avvicinò, mi prese la mano. Il calore. Helen, la buona amica. Strinsi forte. L’opportunità di non tornare a casa. L’avrei colta. Sarebbe stato l’inizio di una nuova vita.

«Ma non sarei un peso per te?» domandai.

Con la mano libera Helen mi fece cenno di smetterla. «Non dire sciocchezze. Puoi vivere qui anche cent’anni, basta che Lizzie rimanga dov’è.»

Un secolo per me sola. Poter finalmente fare quello che volevo. Non vedevo l’ora di dire a Lizzie che sarei rimasta di più.

Le scrissi la mia lettera. Poi presi una lunga strada che portava all’ufficio postale e camminai finché la pavimentazione si fece terra e le case divennero campi. Mi portai alla bocca fiori di campo e foglie, poi li spezzettai, studiando la struttura della natura. Una rinascita. Gli alberi mi accolsero con i canti degli uccelli, mi incoraggiavano a continuare a camminare, a non voltarmi indietro. Le caviglie si sciolsero. Il sole colpì il prato, riscaldò la terra al di sotto e io mi sedetti, passando le dita fra i fili d’erba gialli e verdi.

Mi scostai dal vetro della finestra e iniziai a vestirmi, lentamente, mi massaggiai con le mani il corpo per sciogliere i muscoli. Era come se fossi a casa da sola in Second Street, come se stessi rivivendo una mattina di più di vent’anni prima, mio padre via per lavoro e Abby che stava per uscire per portare quella chiacchierina di Lizzie a prendere un gelato, chiedendomi se mi avrebbe fatto piacere unirmi a loro.

«No.» Le risposi in modo brusco, avevo già i miei progetti.

«Ti stai comportando da maleducata. Non dovresti parlare così a nostra madre» disse Lizzie agitando il dito sporco d’inchiostro.

«Comunque, no, grazie.» E poi restai sola in casa. Aspettai qualche minuto prima di gridare, prima di riempire la casa della mia voce e del mio corpo tanto da far tintinnare i bicchieri nella vetrinetta in sala da pranzo. Papà avrebbe severamente disapprovato quello scoppio di infantilismo. Ma non c’era nessuno a dirmi di non comportarmi da bambina e quindi feci quello che più mi andava. Mi sedetti in soggiorno e ascoltai la casa, il suo modo di dondolare sempre così lieve assieme al vento, i suoi versi sommessi nei muri. La casa mi fece sentire come fossi dentro a un gigante, o a una piramide, o a un pozzo profondo come l’oceano: come se dovessi essere ingoiata. Sorrisi. A volte mi piaceva fare delle cose strane.

Girai per casa come se fosse solo mia. Me ne andai nella mia stanza, mi fermai sulla piccola soglia di quella di Lizzie, stretta come la cella di un convento. Se nella vita ci fosse giustizia, avrei convinto Lizzie a spostarsi nella stanza degli ospiti e avrei trasformato quel minuscolo spazio nel mio studio. Non avrei dovuto temere che Lizzie corresse a dire a papà tutto quello che dicevo o facevo. Lui non era mai riuscito a capire com’è problematica la vita per due sorelle che si vivono addosso.

«È una stanza ricavata dentro a una stanza. Non ti sembra di averla sempre vicina, così?» Papà e i suoi capelli brizzolati lunghi fino al mento, il modo in cui si muoveva quando cercava di essere d’aiuto.

«Quella stanza era pensata per essere un armadio!»

«Le stanze sono stanze.»

«E poi parla nel sonno. Mi disturba.»

Lui aveva scrocchiato le dita, facendomi prudere i timpani. «La porta c’è. Chiudila e avrai uno spazio tutto tuo.»

A ventun anni sapevo che la mia stanza era ancora adornata di chimere. Sulla scrivania di legno scuro c’erano un mappamondo, una fotografia in cui sono seduta sulle ginocchia di mia madre, una cartolina dell’Opéra di Parigi (trovata nel nécessaire di mia zia), dei carboncini. Su uno scaffale c’erano enciclopedie, una collezione di spartiti, una piccola Bibbia rivestita in pelle che mi aveva regalato John. Dopo la morte di mia madre aveva sperato che l’avrei usata per avvicinarmi a Dio, trovare pace e accettazione. Ma io non volevo farlo. Per un po’ avevo dato la colpa a Lizzie. Se solo fosse stata una bambina più amorevole, mamma avrebbe avuto più motivi per restare accanto a noi. Quanta polvere s’è depositata su quella Bibbia!

Proprio lì, in quella casa silenziosa, tutta sola, alzai la gonna sopra la caviglia e mi levai le calze, stupendomi di quanto ero pallida. Poi mi sfilai la gonna. Com’ero comoda così. Scesi in soggiorno, mi sedetti sul divano di papà, appoggiai la testa sullo schienale e aprii le gambe, scimmiottando gli uomini. Avevo invaso lo spazio di mio padre. Pensai a come avrei gestito la casa se fossi stata io a decidere. Se il futuro fosse stato così, l’avrei atteso con grande impazienza. Sorrisi.

Un piccolo colombo sbatté contro la finestra chiusa, urtò forte con le ossa del petto prima di picchiare il becco sul vetro. Richiusi le gambe, mi sedetti dritta, calmai il mio cuore. Abbassai gli occhi e guardai la mia semi nudità. Dovevo forse vergognarmene? Il giorno dedicato a essere me stessa era finito.

Helen mi chiamò di nuovo. «Emma, il tè è pronto.»

Raggiunsi la cucina. Aveva preparato dei pancake alla banana e messo un barattolo di marmellata di mele sulla tavola. «Come hai dormito?» mi chiese.

«Devo ammettere che ero un po’ troppo emozionata per la lezione di oggi per dormire come si deve.»

«Sei sicura di non avere dieci anni?» Versò il tè, versò il latte, un po’ di panna e si soffiò via dagli occhi i capelli castani.

«Non è carino da dire, Helen.» Risate.

Spalmammo il burro sui pancake. Lei mi guardò e chiese: «Stai bene? Sembra che ti stia venendo l’orticaria».

«Sto bene.» Ma conoscevo questa sensazione. Stava accadendo di nuovo. Anni prima avevo sentito Abby lamentarsi con il dottor Bowen che la temperatura le si alzava, che soffriva di violenti scatti di ira. Lui non le aveva risposto e Abby aveva continuato a convivere con il suo malumore e i suoi pianti. Poi cominciò a capitare anche a me, era come uno strano dono ereditario, qualcosa che veniva scambiato da donna a donna, volente o nolente. Come le mie prime, tardive, mestruazioni. Per lungo tempo avevo pensato di essere difettosa, rotta dentro. Ero in ritardo su tutto: avevo diciassette anni. L’ultima del mio gruppo a essere considerata una donna. Le mie amiche mi avevano preso in giro ma quando infine arrivarono, Abby si dimostrò comprensiva: «Anche le mie erano in ritardo. Ma quando arrivano non ci abbandonano più per molti anni». In che modo sottolineò quel «ci», come se provenissimo dalla stessa progenie.

«Guarda il lato positivo» disse, accarezzandomi la spalla. «Ora potrai diventare madre.» Pensai a come sarebbe stato crescere un bimbo, l’attesa di un figlio. Una volta, dopo la morte di Alice, avevo scioccamente pregato Dio di farla tornare, di farla vivere dentro di me. Avrei fatto quello che fanno le madri e l’avrei spinta fuori come neonato urlante, e assieme avremmo ripreso a essere sorelle proprio dal punto in cui ci eravamo interrotte e avremmo vissuto per sempre felici e contente. Poi era arrivata Lizzie. Sarei stata delusa se mia figlia non fosse stata come Alice ma come Lizzie? Amore, genialità e mistero in parti uguali?

«Se è una cosa così bella perché non avete figli?» Non volevo mi uscisse in quel modo: scortese.

Abby alzò le spalle e rispose: «Purtroppo la vita a volte va così. Non si ottiene tutto quello che si vuole quando lo si vuole. Prima o poi lo capirai». Qualcosa nelle sue parole mi sembrò istantaneamente vero, e la detestai.

Udimmo dei carretti scivolare lungo la strada, legno pesante che strideva sulla pietra. Helen sbadigliò contagiando anche me. È incredibile che facendo così poco ci si senta così stanchi. «Direi che è ora di mettersi un po’ in attività» disse Helen.

«Oppure no. Dovresti rilassarti.» Riascoltai quelle parole dentro di me. Sembravo quasi Lizzie.

«Se non mi metto a cucinare non ci sarà niente da vendere sabato, alla riunione della Woman Temperance Union.»

«È per questo che dovresti avere una domestica. Lizzie di solito chiede a Bridget di preparare delle torte per quelle riunioni.»

«La cosa non mi stupisce affatto» disse Helen.

«Eppure grazie al pane irlandese di soda di Bridget raccolgono un bel po’ di soldi.»

Sorseggiammo il tè. Poi Helen disse: «Forse dovresti iniziare a prepararti per il tuo pomeriggio importante».

Guardai l’orologino d’oro che mi poggiava sul petto. Le dieci in punto. Il giorno fuggiva. Lo lasciai e oscillò come un pendolo. «Credo che uscirò, mi farò ispirare da questa giornata.»

Helen batté le mani. «Fantastico.»

Scovai un taccuino e una matita e mi diressi nel terreno vuoto dietro casa di Helen. Mi sedetti in pieno sole. Tutto luccicava attorno a me e per un attimo capii come Lizzie potesse credere così ardentemente in Dio. Le foglie sugli alberi, i movimenti lenti dei rami, il modo in cui il vento scuoteva i campi di graminacee, creava forme e poi le cancellava: questo disegnavo. Quando andavo ancora a scuola spesso facevo dei disegni per papà. Gli avevo regalato quello che per me era il più bello, Paesaggio con cavallo. Ero andata in camera sua mentre era a letto, scommettendo che mi avrebbe fatto entrare. Desideravo un momento d’intimità con lui e mi aspettavo dei complimenti: «Ma che bel disegno, Emma».

E poi mi avrebbe baciata sulla fronte.

Ma quando gliel’avevo dato non aveva detto altro che «Ah». Si era schiarito la gola. Aveva poggiato il foglio sul pavimento. «Va’ a vedere che sta combinando tua sorella.»

E così me ne ero andata, sbattendo la porta. Le dita mi si erano chiuse in due pugni sgonfi.

Mi accorsi che stavo disegnando un bimbo che giocava nel ruscello lì vicino. Lo feci paffuto, come Lizzie da piccola. Disegnai una grande testa con un ammasso di ricci, una bocca a forma di ala di farfalla e guance morbide e cicciotte. Un cherubino.

A volte, quando Lizzie era via, ne sentivo la mancanza. Due sensazioni in contrasto, sempre: sollievo e solitudine. Il periodo più lungo di distacco fra noi fu quello del suo Grand Tour europeo. Appena trent’anni e già se ne andava in giro per il mondo. All’epoca protestai: in quanto figlia maggiore quest’opportunità mi era stata negata più di una volta, mi era stato detto di avere ben più importanti responsabilità a casa, che la mia famiglia, una delle più ricche di Fall River, non poteva permetterselo. Sospettavo che in realtà mio padre non volesse che io partissi per l’Europa perché aveva il timore che non sarei più tornata e che ciò avrebbe incoraggiato Lizzie ad andarsene di casa. E che, se non fossi più stata costretta a vivere lì, non sarei neanche più stata obbligata a passare del tempo con loro, a sentirmi una Borden. E avrebbe avuto ragione.

Quando durante una cena Lizzie domandò a nostro padre se poteva andare in viaggio con i cugini lui le rispose: «Certamente». Sembrava quasi felice.

Lei non mi aveva mai parlato di questo progetto. Razza di ipocrita.

Abby si passò un tovagliolo sulla bocca e sorrise, mostrandole i denti sempre più grigi. «Sappiamo quanto questo viaggio significhi per te, Lizzie. Vedrai che ti divertirai molto.»

Lizzie si voltò verso di me, un’espressione trionfante dipinta sul volto. «Emma, non trovi che sia splendido e inaspettato?»

Io ero furiosa, mi era passato l’appetito. «Molto.»

Mio padre mi puntò il dito contro: «Sii felice per tua sorella».

Mi allentai il foulard. «Potete scusarmi?» Mi alzai da tavola, lasciandoli lì, e andai nel giardino sul retro per cercare di calmarmi. Da quanto tempo Lizzie stava macchinando questo piano? Avrei voluto urlare ma poi avevo cambiato idea. Non feci nulla, mi lasciai circondare dai grilli. Più tardi, mio padre uscì e mi spiegò la semplice ragione per cui pensava fosse giusto farla partire: «Per una volta devi anteporre le necessità di Lizzie alle tue. Sei tu quella matura. Lascia che veda il mondo e diventi una donna».

Dovetti sforzarmi con tutta me stessa per non rispondergli male.

Nei mesi precedenti il viaggio, Lizzie tenne banco nella sua stanzina da suora, facendo e disfacendo ininterrottamente il baule da viaggio. «Non so proprio cosa portarmi.» Lizzie non era affatto una persona pratica. Io sapevo cosa ci avrei messo dentro: qualche vestito, taccuini e matite, un libro, la pelliccia di nostra madre. Pensai a quanto tempo avrei passato senza Lizzie. Difficile da immaginare. La sua partenza avrebbe avuto anche dei lati positivi.

Con l’avvicinarsi del viaggio Lizzie si rifugiava sotto l’ala di nostro padre, gli parlava con dolcezza e l’accompagnava in chiesa. La piccolina di papà era tornata. Spesso sentivo Lizzie dire a Abby: «Mi manchi già». Quanto amore fingeva ci fosse tra loro due.

Dopo mi diceva: «La odio, Emma. E papà è uguale a lei».

E poi se ne andò. La mattina della sua partenza una carrozza bianca si fermò davanti a casa, le briglie del cavallo da tiro bianco erano decorate di coccarde e nastri vermigli. «Ti piace?» mi chiese Lizzie prima di uscire dalla porta d’ingresso. «Gli ho chiesto di agghindarla. Aggiunge un certo non so che, non trovi?»

Venne mezza via a salutarla e lei rispose con un cenno della mano. «Vedete di non cambiare Fall River in mia assenza.» Alcuni risero, altri la guardarono fisso. La signora Churchill diede a Lizzie un pezzo di torta di ciliegie per il viaggio. «Non dimenticarti i sapori di casa, mi raccomando.» Lizzie la baciò sulle guance, annusò la torta, la leccò e la mise sul sedile della carrozza. Avrei voluto che la strada si aprisse e se li ingoiasse tutti quanti.

Il conducente accatastò il baule sulla carrozza e Lizzie mi si avvicinò, mi abbracciò forte, sussurrando: «Mi mancherai, Em Em».

Nomignoli dell’infanzia. Il mio cuore non era poi così di ghiaccio. «Anche tu, Swizzy.»

Lizzie mi scoccò un bacio sulle labbra. Un intenso calore tra di noi. Il conducente disse: «È ora di andare». Ci separammo. Lizzie salutò per l’ultima volta papà e Abby e un attimo dopo il cavallo trottava lungo Second Street e la folla riprendeva le sue faccende.

La casa era silenziosa. A volte aprivo la porta che separava le nostre stanze e restavo lì in mezzo. Incrociavo le braccia sopra la testa, senza sapere che fare del mio tempo. Avevo addosso quella sensazione: felicità e perdita legate insieme. Mi sentivo come se mi mancasse un arto.

Mi abituai alla presenza di papà e di Abby, ai loro corpi nell’inverno della vita, al rumore che facevano mangiando, a come lui tratteneva il respiro quando russava, alla faccia di Abby, così tonda che la fossetta della sua guancia sembrava una luna crescente. Erano sempre lì.

A volte Lizzie mi spediva una cartolina: «Passeggiatine in giro per Roma», «Interminabile scalinata di Piazza di Spagna», «Il cibo, Emma! Che cibo magnifico». Io ingoiavo le sue parole. Alcune avrebbero dovuto essere mie. Feci innumerevoli passeggiate per Fall River, cercando di distrarmi. Ma era difficile sopportare senza di lei il calore dell’estate sulla schiena.

Camminavo. Le grida industriali del cotonificio colpivano la pietra. Di mattina il vapore della fabbrica ricopriva Fall River di una nebbia estiva, satura di un odore chimico che, mentre andavo in città, mi faceva tossire. Ogni tanto immaginavo che Fall River fosse la Costa Azzurra, un’impresa quasi impossibile senza l’oceano all’orizzonte. In città era sempre tutto uguale: gli uccelli nelle gabbie gracchiavano e cantavano appesi alle verande delle case o alle vetrine dei negozi; i cavalli e i carretti trasportavano uomini e donne in movimento; i bambini saltavano su e giù dai marciapiedi, ficcandosi caramelle dure nelle guance rigonfie; il signor Potter, il funzionario della compagnia del telegrafo Western Union, salutava gli uomini d’affari, cercando di nascondere il mignolo in più della mano destra. Nei giorni più caldi in commissariato aprivano le porte esterne delle celle, mostrando a tutta la strada gli ubriaconi che urlavano e bestemmiavano dietro le sbarre. Una volta avevo visto un detenuto tirarsi giù i pantaloni e prendersi in mano il pene, agitandolo in giro prima di lasciarsi scorrere lungo le gambe un fiotto di calda urina. «Ehi, tesoro» mi aveva chiamato. «Ah, tesoro. Non sai che goduria.»

Al termine delle mie passeggiate mi fermavo davanti alla pasticceria e guardavo a lungo le tendine di stamigna gialla, ricordando tutto il tempo che avevo passato con Lizzie lì dentro. Aspettavo che le porte si aprissero e poi inspiravo zucchero. Dopodiché, me ne andavo.

Quando Lizzie finalmente tornò a casa, la accolsi con dei baci. Lei mi chiese di scambiarci di stanza.

«Credo sia ora che me la lasci.» Lizzie masticò ogni parola che usciva dalla sua bocca, un drago che sputava carcasse. Mi aveva a malapena chiesto come stavo, che cosa avevo fatto.

«Non penso proprio» le risposi.

Lei si avvicinò, mi strizzò le guance. «Racconterò a nostro padre il tuo grande segreto» bisbigliò. Samuel. Le stritolai le mani, poi le spinsi via e i suoi occhi azzurri si spalancarono come il cielo. Avrei voluto spezzarle un osso. Invece si prese la stanza e io pensai che ero stata una stupida a sentire così tanto la mancanza di mia sorella.

«Oh, oddio Emma!» gridò Helen, così forte che la sua voce riempì il recinto.

Scattai sull’attenti. Dietro di me, dei piedi rumoreggiavano come piccoli tuoni sulla terra dura. Ancora il mio nome. Mi girai, mi spinsi verso quella voce.

«Cosa succede?»

«Una cosa tremenda.» Helen indietreggiò. Sentii un’assenza di gravità mentre le immagini mi passavano davanti agli occhi: una casa in fiamme, la tomba di mia madre profanata, papà che picchia Lizzie, Bridget che se ne va. L’idea di restare da sola con Abby.

«È successa una tremenda disgrazia.» Helen, un terremoto.

Un piccolo pugno mi si piantò in fondo all’addome. Lizzie. Cos’era successo alla piccola Lizzie? Volevo nostra madre.

Mi porse un telegramma. Le gambe mi spinsero dentro casa anche se volevo stare ferma. In qualche modo preparai le valigie. E poi eccomi su una carrozza che mi portava in stazione, che mi portava a casa. Lungo la strada. Più giù, lungo la strada, le labbra mi si seccarono, la gola si tese. Più giù, lungo la strada, mi tremarono le mani. Gli zoccoli dei cavalli erano come percussioni. Lungo la strada. Lungo la strada. Arrivai alla stazione.

Stavo scomoda sul sedile di pelle del treno. Il mio corpo tartagliava, memoria muscolare: «Tua madre non sta bene» mi aveva detto mio padre quando avevo appena dieci anni. «Ha bisogno che l’aiuti con le faccende di casa.» Per intere settimane mio padre aveva evitato di guardarmi negli occhi. Avevo scambiato il suo imminente dolore per delusione o risentimento nei miei confronti. Avevo fatto del mio meglio per non dargli fastidio, mi assicuravo che Lizzie facesse il bagno, che le venisse letta una storia prima di andare a dormire. Ogni tanto mi sedevo sul letto di mamma ed enumeravo le notizie del giorno: i matrimoni, le nascite, gli affari importanti, la politica locale. I necrologi non venivano mai menzionati. «Non muore più nessuno, Emma?» chiedeva mia madre, ridendo. Ma morivano, non potevano fare altrimenti. Anche a lei sarebbe toccato. Lizzie voleva solo prendere le mani di mamma e infilarsele in bocca. Non capivo come il suo mondo potesse continuare a girare lo stesso. «Un sacco di baci con lo schiocco» mi diceva Lizzie, e poi gridava: «Mammina, svegliati. Ti mangio».

Sul treno che mi riportava a Fall River osservai un bambino con la tosse e una madre preoccupata. Giù, lungo i binari. Giù, lungo i binari. Una tremenda disgrazia. Pensai a due mesi prima, a come Lizzie si era infilata nel mio letto verso l’alba e aveva sussurrato: «Voglio solo farlo soffrire...». A come aveva riso. «Pensa se cadesse dalle scale! Secondo te che rumore farebbe?»

Io non avevo dato peso alla cosa. Il treno continuava ad avanzare giù lungo i binari. Sempre più giù. Sempre più giù. Il telegramma in grembo per tutto quel tempo:

Padre aggredito. Signora Borden scomparsa. Una tremenda disgrazia. Torna a casa.