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Lizzie

4 agosto 1892

In sala da pranzo papà e la signora Borden, rigidi e diritti sui tavoli dell’impresario delle pompe funebri, aspettavano il medico legale, aspettavano di poter raccontare com’era la morte.

La polizia era uscita un attimo, lasciando incustodito l’interno della casa. I vicini se n’erano andati. Emma era da qualche parte. Da un estremo della mia testa udii la signora Borden che mi chiamava: «Vieni da noi, Lizzie. Ti faccio vedere un segreto». Non volevo deluderli. Scesi furtivamente le scale dirigendomi in sala da pranzo. Mi accertai di essere sola. Aprii la porta e mi guardai attorno. Trattenni il respiro. Là, sotto lenzuola bianche, i loro corpi, spaventati e silenziosi, erano stretti come quelli di due giovani amanti. Chiusi gli occhi mentre mio padre allungava il braccio per cingerla e le diceva: «Presto sarà tutto finito».

Entrai nella stanza. Una grossa macchia di sudore e sangue, di ossa e muscoli spezzati mi si conficcò sotto al naso, strisciando come un insetto. Camminai lentamente verso il tavolo e mi sedetti. Toccai il bordo di un lenzuolo fresco di stiro. Alzai la testa al soffitto. Sotto la plafoniera la vernice si stava sbriciolando in minuscoli fiocchi bianco giallognolo, neve estiva che cadeva sulle lenzuola che coprivano papà e la signora Borden. Lui non avrebbe sopportato quel disordine.

Nascosi un sorriso con la mano e sentii il sapore del sale. Sui polsi avevo uno schizzo di sangue, minuscole goccioline che tentavano ancora di penetrarmi sotto la pelle. Mi leccai il dito e lo pulii, cancellando papà, cancellando la signora Borden dal mio corpo. Sollevai le lenzuola. Sotto, come un’eco, sentivo la signora Borden canticchiare, le vibrazioni assalirono il mio corpo, erano le canzoni di quando ero piccina e non riuscivo a dormire. Volevo gridarle: “Basta! Non sei più quella persona” invece pensai a ciò che era adesso: un principio di carogna. Morbida pelle spaccata come una pietra: duro sotto al duro sotto al freddo. Sollevai le lenzuola ancora un po’. Erano nudi. Diedi qualche colpetto sulla coscia della signora Borden, che fredda, rimisi velocemente giù le lenzuola.

Pensavo a mio padre, disteso come uno xilofono di ossa, un braccio incollato al torso e l’altro proteso in cerca di pietà, in cerca della signora Borden. Raggiunsi il lato di papà e sollevai di nuovo il lenzuolo. I capelli erano sottili e opachi. Sembrava stesse soffrendo. Mi chinai, solo un pochino, lo baciai sul lato del viso dove era stato tagliato. L’orologio sulla mensola del camino non faceva che ticchettare.

«Povero padre mio» dissi. «Posso portarvi qualcosa per stare più comodo?» Attorno a me i muri sibilarono. Erano nudi. Mi chiesi se mi sarebbe mancato. Rimisi giù il lenzuolo e li vidi dimenarsi per avvicinarsi, accarezzandosi con le mani.

Strinsi i denti, Smettetela di toccarvi! Smettetela di fare finta di amarvi!, e mi allontanai dal tavolo per raggiungere la porta. Sull’angolo dello stipite vidi un petalo di fiore aggrappato al legno. Tre giorni prima la sala da pranzo era ricoperta di violette, poiché la signora Borden aveva riempito un’infinità di vasi di quei fiori insulsi di cui amava così tanto circondarsi. La guardavo annusare quei piccoli petali, la guardavo sorridere e dondolare i fianchi. Quando era uscita, ero entrata e avevo strappato i petali finché non erano rimasti che i gambi e il vetro. L’avevo fatto con tutti i vasi. Per un attimo quell’impeto meschino e violento mi aveva placato. Ma poi, dopo poco, l’effetto era cessato. Mi ero sentita esattamente come prima. Avevo raccolto più petali possibile e me ne ero andata. Non avevo detto nulla.

Presi il petalo dallo stipite e me lo ficcai in tasca. Uscii dalla sala da pranzo ed entrai in soggiorno, lasciandomi alle spalle mio padre e la signora Borden. Mentre passavo davanti alla finestra del salotto per raggiungere le scale sul davanti, sentii qualcuno gridare fuori: «La vedo». Mi ravviai i capelli con le mani. Salii le scale, facendo gridare il legno.

Scorsi il palmo sulla ringhiera rovente, che al contatto con la mia mano quasi si scioglieva. Tutto rallentò e i muri si separarono dalle loro fondamenta. Non c’era più silenzio. Man mano che mi avvicinavo alla cima delle scale tutto diveniva rumoroso e rombante. Sul pianerottolo il caldo era un tiranno furioso che mi aprì a forza la bocca costringendo il respiro a farsi breve e poi lungo. Mi sentii urlare e poi ridere.

Entrai nella stanza degli ospiti dove avevano trovato la signora Borden e vidi che la polizia aveva aperto tutti i cassetti e gli armadi, spargendo la nostra vita sul pavimento, rendendola sporca e sudicia. Mio padre si sarebbe arrabbiato nel vedere quel disastro. Pensai a come avrebbe preteso che pulissi e a come io, voltandomi, mi sarei rifiutata. A un certo punto avrebbe sbattuto con forza le palpebre, il collo gli si sarebbe gonfiato e allungato. Avrebbe stretto le dita a pugno e urlato: «Farai come dico io» e io gli avrei sorriso dolcemente e mi sarei tappata le orecchie. Avrei visto la sua bocca aprirsi, aprirsi e chiudersi, aprirsi, aprirsi e chiudersi e avrei finto che stesse dicendo: “Ho torto, Lizzie, e tu hai ragione”.

La polizia aveva disteso un vecchio asciugamano sul pavimento. Era ricoperto di orme di scarponi insanguinati, soldati invisibili, e io pensai a quando avevo otto anni, a quella volta che Emma e io eravamo diventate fantasmi e avevamo lasciato impronte di farina in tutta la cucina, ero così piccola, piccola, piccola. Così tanto tempo fa.

Avevo camminato in punta di piedi attorno al letto di Emma e avevo sussurrato: «Fammi ridere, signora Chiacchierina!».

Emma si era girata, si era asciugata la saliva dalla bocca chiedendomi: «Che cosa vuoi fare?» e io le avevo risposto: «Facciamo le birichine». E allora scendemmo al piano di sotto, io saltando come una cavalletta ed Emma come un topolino, raggiungemmo la cucina fredda, in attesa che il sole arrivasse e ci scaldasse. Frugammo nelle dispense dicendo: «Potremmo mangiare lo zucchero!».

«Potremmo nascondere uno dei coltelli.»

«Potremmo nasconderci qui e saltare fuori quando qualcuno apre.»

«Mangiamo tutto il cibo a parte le cose cattivissime.»

E poi Emma vide il barattolo della farina e mi chiese: «Lizzie, vorresti diventare invisibile?».

«Come un fantasma?»

Mosse il capo come durante un salto. «Sì.»

Le dissi che volevo, ma solo se significava che nessuno avrebbe visto le cose cattive che facevo, e lei mi rispose: «Non ti vedrà mai nessuno, neppure quando sarai vecchia e ricoperta di macchioline».

Ci posizionammo al centro della stanza con il barattolo fra i piedi e ci togliemmo le camicie da notte; ci chinammo affondando le mani nella farina, lanciando manciate di nuvole sui nostri corpi.

«Coprimi bene la faccia» disse Emma, e io le tirai un’altra manciata, che le finì nell’occhio. Lei gridò con quella voce che sapeva che mi spaventava, gridò e gridò finché sentì papà scendere le scale sul retro e slacciarsi la cintura. Ascoltammo il cuoio scivolare tra i passanti di stoffa, gli scarponi saettare sulle scale. Poi, silenzio. Chiudemmo gli occhi e diventammo invisibili.

Aprii gli occhi. Le mie scarpe si lasciavano trasportare sul tappeto macchiato di sangue, gli ultimi frammenti della vita della signora Borden mi lambivano i tacchi come un oceano. Sono dentro al mare. In fondo all’oceano vedevo spiagge sottili di alghe grigie e pesciolini che vi nuotavano in mezzo, nella speranza di nascondersi dagli squali. Mi accovacciai nell’acqua e lasciai che il sale marino insanguinato mi pulisse la faccia. Guadai un’onda. Immaginai di essere un’esploratrice, un palombaro. Sulla superficie dell’acqua trovai un pettine per capelli, una collana con un cammeo, un pezzo di merletto della fodera di un cuscino, un frammento di osso. Tracce di un tesoro affondato, un bottino rubato dai pirati. Cercai di mettere il tesoro nella tasca della gonna, stando attenta a non affondare per il peso. Respirai profondamente. Qualcosa mi fece venire voglia di piangere. Me ne andai dall’oceano, dalla stanza, sentii l’aria fresca che mi spazzava la faccia.

Al piano di sotto un tonfo risonò ed echeggiò in tutta la casa. Gli stivali pesanti di un agente salirono rumorosamente le scale. Dal pianerottolo raggiunsi rapidamente la mia stanza e chiusi la porta a chiave.

Nella camera non si respirava dal caldo. Guardai il crocifisso d’argento sopra al letto e ricordai a me stessa che anche Lui aveva sofferto. Il corpo mi doleva e sentivo che il sangue mi montava nelle orecchie e nella fronte, rendendo tutto nero e uniforme. Mi misi in piedi davanti allo specchio e mi scollai i vestiti dal corpo, quand’è che sono diventati così stretti?, mi tolsi tutti gli strati fino a restare nuda. La pelle era pallida e opaca, a trentadue anni non si dovrebbe essere così. Mi faceva male tutto. Volevo sentirmi meglio. Mi misi a forza le dita sulle braccia ordinando loro di marciare come formiche. Vinsero battaglie su colline e montagne, scavando trincee sotto le braccia e i seni, inizio a sentirmi meglio, e l’esercito avanzò giù per lo stomaco tondeggiante per visionare l’inguine e le cosce. Mi riempii di formicolii, di sensazioni piacevoli. La pelle si raffreddò e la casa attenuò il suo calore. Al ritmo di uno, due, destra, sinistra, l’esercito proseguì verso le dita dei piedi, lacerando la ragnatela che avviluppava la mia pelle, fino a farla diventare liquida, stupenda. Mi schiacciai contro lo specchio.

Mi rimisi gli strati di vestiti e mi sistemai i capelli, perfetti. Mi sporsi dalla finestra che dava su Second Street, inspirando i vivaci bianchi e viola del magnifico giardino sul davanti e gli umidi strati di sabbia e marciume attaccati alle case. Sotto di me Mary l’irlandese stendeva dei vestiti. Si grattò la testa, quell’essere sbilenco, e poi guardò per un po’ il seminterrato. Sapevo a cosa stava pensando. Le cose brutte succedono davvero.

Volevo che Emma venisse su ma avevo paura che fosse arrabbiata con me per aver permesso che papà morisse. C’erano molte cose che avevo bisogno di spiegarle ma non sapevo con che parole. Pensai a lei che saliva su di corsa a cercarmi. Avrei aperto la porta e lei mi avrebbe preso in braccio e mi avrebbe cullato in grembo e io le avrei detto: “È stato così tremendo Emma, così tremendo. Pensavo che non avrebbero più smesso di fare domande” e poi lei mi avrebbe guardato con quegli occhi amorevoli e mi avrebbe baciato sulla fronte, dicendo: “D’ora in poi me ne occupo io Lizzie, vai via ora, scompari e dimentica tutto”.

Volevo dirle qualcosa. Mi sedetti sul pavimento accanto al letto e pensai alle cose di cui non ero mai riuscita a parlarle. C’era quella volta in cui la signora Borden mi aveva detto che ero una delusione per papà, quella in cui mi aveva schiaffeggiato e io le avevo riso in faccia; quella volta che l’avevo vista dal buco della serratura, nuda e tremante. Pensai alla notte dopo che Emma se n’era andata a Fairhaven. A quella cosa vergognosa che avevo fatto.

Gli incubi mi avevano assalito nel sonno, ferendomi tanto da farmi urlare. Che cose avevo sognato! Mi ero destata in un mattino ancora mezzo addormentato. Avevo guardato la stanza, con la sensazione che qualcuno avesse infilato una mano dentro di me e mi avesse tirata fuori ribaltandomi, lasciando solo rumori di animali che mi gocciolavano da dietro le orecchie, forti, sempre più forti, tanto da non riuscire più a sentire i miei pensieri. Iniziai a sudare, inondai di sale la biancheria da letto, il giorno è già troppo lungo, così mi alzai, tolsi le lenzuola, tolsi i vestiti impilando il cotone pesante nell’angolo della stanza, pronto per essere lavato da Bridget. Il cuore batteva, batteva, mi galoppava nella gola e poi era esploso. Non riuscivo a smettere di tremare. Avevo bisogno di Emma, di qualcosa che mi fosse di conforto. Indossai un vestito, cercando di calmarmi, ma ogni volta che sbattevo gli occhi, che li chiudevo più a lungo del dovuto, il bagliore della notte si ripresentava. Dietro al muro udii papà o la signora Borden agitarsi nel letto, ci sono già stata lì dentro, e volevo sentirmi al sicuro, volevo sentirmi di nuovo una bambina. Allora andai nella loro stanza, entrando senza indugiare.

Le ombre giocavano sulle tende. Nel letto giaceva la signora Borden, Papà si è già alzato, la massa del suo corpo quasi immobile.

Emma mi avrebbe detto di non andare ma era più forte di me. Camminai verso di lei e le assi del pavimento urlarono. La signora Borden respirava pesantemente, dentro e fuori, un piccolo tornado, e io mi avvicinai, carezzando con le dita le lenzuola e la struttura di legno del letto. Diedi una ginocchiata e spostai il peso in avanti, chinandomi verso la sua testa. Non sapeva nemmeno che ero lì. Un lato del suo viso era rugoso, non più quello dei miei ricordi d’infanzia. Mi avvicinai ancora di più, le toccai le pieghe attorno all’occhio, la pelle sottile e flaccida, staccagliela, rimettigliela, e il mio cuore rallentò e, per un istante, mi sentii tranquilla. Che potere che ha il contatto umano. Le dita scivolavano fra i suoi capelli grigi, l’accarezzai a lungo. Lei sembrava tranquilla mentre dormiva, come in passato, come per tutto il resto della sua vita, l’accarezzavo, capelli come crini di cavallo, e mi avvicinai ancora di più, le annusai la pelle, ali e saliva di una vecchia falena, le baciai la fronte, sentii la punta del mio incisivo spingere sulla pelle e sull’osso. La signora Borden si mosse sotto di me. Mi tirai indietro e vidi che mi stava fissando.

«Per l’amore del cielo, che cosa...»

«Non mi sento tanto bene. Ho fatto dei sogni stranissimi e tremendi.»

Si tirò le coperte fin sul mento. «E cosa vuoi che faccia io? Tuo padre non c’è.» Stizzita.

Mi sedetti sul letto vicino a lei. Il cuore mi batteva forte e mi fece leccare le labbra. Le dissi: «Voglio che i brutti sogni smettano ma non c’è Emma ad aiutarmi».

La signora Borden si lasciò sfuggire un lieve gemito, si tirò su sui gomiti e si mise a sedere. Mi fissò, per un’eternità, e io guardai come gli angoli delle sue labbra si piegavano e si appiattivano. Poi guardai lo spazio sul letto accanto a lei, lo spazio di mio padre, probabilmente è ancora caldo, e la signora Borden seguì il mio sguardo e scosse la testa una volta, e poi un’altra. «No» sussurrò. Sentii di avere di nuovo tredici anni, quel giorno in cui lei e mio padre non mi avevano più voluto nel letto con loro. «Non puoi continuare a venire qui ogni volta che fai un incubo, Lizzie.» Papà e le sue parole cattive. Mi ci volle del tempo per mandarla giù.

La fissai, la fissai dritta nel cuore e attesi. La stanza era silenziosa. Poi tirò giù le coperte da un lato, mostrandomi lo spazio accanto a lei. Se solo Emma fosse stata lì: non avrei avuto bisogno di mettermi nel letto accanto alla signora Borden, non avrei avuto bisogno di trattarla come una madre.