13
Lizzie
4 agosto 1892
Prima che la notte calasse, Emma e io avevamo già offerto una ricompensa per la cattura dell’assassino di papà. Lei si era lamentata che la somma era troppo alta, eclatante.
«Sembri proprio lui» dissi.
Emma scosse la testa, rivoltò un labbro. «Perché dici così?»
«Secondo me dimostra quanto ci teniamo.»
«I soldi non dimostrano niente.» Alzò la voce.
«E invece sì! Il cognome Borden è importante a Fall River. Dobbiamo fare le cose come si conviene.»
Emma fece un gesto di rassegnazione. «Basta» disse. «Voglio solo trovare il responsabile di tutto questo e finirla qui.» Il rivoltante desiderio di Emma di avere risposte mi fece battere il cuore più velocemente. Mi fece venir voglia di affondare i denti nella sua carne ed eliminarla a morsi dalla mia vita, di arrampicarmi nella sua mente e catalogare tutto ciò che pensava di me: che ero troppo testarda, ero troppo riservata, ero troppo cattiva, ero questo, ero quello. Sentivo la sua malvagità che mi strisciava sulla pelle, minuscole morti che mi facevano desiderare di smettere di esistere. Emma sedeva pesante come un macigno e mi guardava come un genitore che vede per la prima volta il figlio comportarsi male, disapprovando completamente. Lo stesso sguardo che mi rivolgeva ogni tanto la signora Borden.
Emma inclinò la testa, mosse le labbra in un breve sussurro e poi la scosse. «Non è possibile che nessuno abbia visto o sentito nulla.»
«Cosa vorresti dire?»
Emma scrollò le spalle, sconfitta. «Non lo so. Niente.»
Un peso mi attraversò lo stomaco, mi perforò i muscoli. C’erano altre persone che mi guardavano in quel modo? Che la pensavano in quel modo? I palmi mi dolevano, diventarono piccoli deserti. Li sfregai l’uno sull’altro, facendo aderire i calli appena formati. Perché la verità era così difficile da credere? La polizia aveva fatto domande, domande, domande, aveva scritto le mie parole come fossero vangelo. Quando Emma era tornata a casa la polizia le aveva scagliato addosso una valanga di informazioni, scommetto che è per questo che mi tratta così, ricostruzioni e ipotesi che le avevano fatto pensare chissà cosa. Lì seduta, Emma aveva la stessa identica aria della signora Borden questa mattina mentre mi seguiva per casa, l’ombra di un’ombra.
Mi sentivo sprofondare. Per tutto il giorno avevo fatto in modo di essere la figlia che mio padre aveva cresciuto, avevo risposto alle loro domande. A un certo punto, dopo pranzo, avevo sentito due agenti domandare: «Quanto tempo vorresti passare da solo in una casa dove hai trovato tuo padre ucciso?».
«Forse la signorina Borden non è scappata via dalla casa perché sapeva che qualcuno alla fine sarebbe arrivato e rimasto con lei.»
«Oppure non si è sentita in pericolo.»
«Quale folle resterebbe nei paraggi in attesa di uccidere di nuovo? È probabile che non le sia venuto in mente di essere una potenziale vittima.»
Quella conversazione mi agitò. Non era giusto far sentire così una figlia addolorata, mettere in discussione le sue azioni come se la credessero in qualche modo responsabile della tragedia, questo vuol dire che mi verranno a prendere?
Emma si strofinava il viso. Niente di tutto ciò sarebbe avvenuto se non mi avesse lasciato da sola a casa.
«Pensi che siano vicini a trovare un sospetto?» chiesi.
«Non lo so. Non so come funzionano queste cose.» Emma schiuse le mani e poi le unì davanti a lei, come i mendicanti.
«Che cosa faranno all’assassino quando lo cattureranno?»
«Immagino che ci sarà un processo.»
«E se sarà dichiarato colpevole?»
Si sporse verso di me e spalancò la voragine della sua bocca prima di dire: «Lo impiccheranno».
«È sempre così?» Il caldo mi inondava il corpo, facendomi girare la testa in tondo per poi precipitare.
«Dobbiamo proprio parlarne adesso?»
«Sono solo preoccupata.»
«Potresti invece preoccuparti del fatto che papà è morto» strillò.
Sentii uno schiocco al centro del mio orecchio. Strisciò fuori e si scagliò contro i muri della casa. Una finestra tremò. Emma si irrigidì sulla sedia, si mise con foga una mano sulla bocca e chiuse gli occhi. «Mi dispiace» disse. «Non mi voglio arrabbiare con te.»
«E perché lo fai?» Sentii la mia voce risuonare come sassolini sulle assi del pavimento. Non mi piaceva come mi guardava.
«Vuoi che ti porti del tè?» Emma si alzò in piedi.
«Chiedi a Bridget di prepararlo.»
Emma intrecciò le dita, disse: «Bridget se ne è andata».
«Perché? Che cosa hai combinato per farla andar via?» Pensavo che Bridget sarebbe stata più contenta ora che le cose erano cambiate.
Emma mi rivolse un’occhiataccia vacua e se ne andò in cucina, senza aggiungere una parola al riguardo. L’orologio sulla mensola del camino non faceva che ticchettare. Passai la mano sulla carta da parati e poi sulla mia sedia: sentii la copertura appiccicosa della torta alla crema della signora Borden. Mi passai il dito sui denti, assaggiando i resti del ricevimento di qualche giorno prima
Quando avevo dieci anni, e papà e la signora Borden invitavano a casa un amico, io ne ero felice, mi piaceva potermi muovere inosservata come una bestiolina, interrompere la conversazione qua, bere un bicchiere di vin brûlé là. Emma veniva spesso invitata a sedere con la signora Borden e gli amici. A me non l’avevano mai permesso.
«Lo fa per conquistarmi» mi aveva detto Emma una volta, con veemenza.
«È perché sei grande. Sei fortunata tu.»
Emma si era stretta la gola con la mano. «Non è così divertente.»
Dalle scale sul davanti guardavo Emma che in salotto beveva tazze di tè. La signora Borden diceva: «Emma, tesoro, raccontaci dei tuoi lavoretti».
Glu, glu. «Sto preparando lo schizzo di un panorama.» Glu, glu. «Nulla di che.»
«Tua madre dice sempre che sei davvero portata» raccontava un’amica.
Glu, glu. «Ah.» Glu, glu ed Emma fissava la signora Borden prima di dire: «Ho ancora molto da imparare sulla forma e sul colore». Glu, glu. Quando avrebbero parlato con me di quello che mi piaceva? Dopo essere arrossita, Emma adduceva delle scuse per alzarsi da tavola e portandosi dietro una manciata di biscotti fatti in casa se ne andava in cortile. Tutti scelgono sempre la sorella sbagliata. Io ci tenevo a stare a tavola. Allora andavo di là, silenziosa sulla sedia di Emma, e ascoltavo i discorsi degli adulti.
«No, Lizzie. Questa volta non è il caso.» La signora Borden mi passava frettolosamente le dita sulla testa e io sentivo un fremito sulla pelle. Non era mai il caso per me.
Mi strofinai le dita sulla fronte, come per scacciare un dolore con quel massaggio. Emma ritornò in salotto, mise il tè sul tavolino che ci separava e mi guardò.
«Stai bene?» Mi fissava, facendomi rabbrividire.
«Perché?»
«La testa. Continui a toccartela.»
La strofinai ancora. «È solo una strana pulsazione, nient’altro.»
«Chiamiamo di nuovo il dottor Bowen domani mattina.»
Sorrisi, Emma continuò a farmi la guardia e io lasciai vagare lo sguardo intorno a me. Eravamo circondate dai fantasmi della compassione. Sui tavolini tazze mezze piene di tè con la panna liquida, lasciate lì dagli amici di mio padre e della signora Borden, che non erano più riusciti a sopportare il tanfo della loro assenza. Sotto al divano c’erano alcuni pezzettini di carta caduti dai taccuini degli agenti di polizia, che formavano un sentiero che arrivava fino in cucina, come le briciole di Hansel e Gretel. Mi strofinai di nuovo la fronte. Ci sarebbero state molte cose che Emma avrebbe dovuto aggiustare per rimettere tutto a posto. Vedevo il sangue di papà sul divano.
E poi le parole mi sfuggirono. «Questa mattina ero qui che parlavo con la signora Borden.»
Emma colse l’occasione al volo. «Quando?» La sua voce mi graffiava l’orecchio.
«Dopo che ha detto a Bridget di continuare a pulire le finestre. Diceva che c’era uno strano odore.»
Il naso di Emma vibrò. «Che tipo di odore?»
Sentii un dolce sciroppo che mi si spostava lungo gli arti. «Non saprei. Probabilmente era il suo.» Ridacchiai.
«A che ora le hai parlato?» chiese Emma.
La mia testa si mosse di scattò verso di lei. «Te l’ho appena detto.»
«Ma avevi detto che era andata da un parente malato.»
Mi sfregai la fronte. «E così è stato, ma prima ho parlato con lei.» È proprio così che vanno le cose?
Emma divenne arrogante. «Voglio solo capire...»
Sentivo una vocina che mi diceva di non parlare più, che lei non avrebbe capito i pensieri che mi nuotavano dentro. Ma era difficile tenere a bada la lingua. L’orologio sulla mensola del camino non faceva che ticchettare. Mi sentivo svenire e i vestiti mi si strinsero forte alle costole. Quella sensazione di quando ero più giovane, di essere tenuta troppo stretta, prima da mio padre e poi da Emma. Quella sensazione che fa venir voglia di schizzare fuori dalla propria pelle, correre a più non posso, lontano, non dovrei sentirmi così adesso.
Mi voltai verso Emma, vidi che mi osservava come se fossi un animale in gabbia. «Perché continui a fissarmi?»
«Sembri pallida» disse Emma.
Mi toccai la faccia, tirandomi la pelle. «Ah, sì?»
«Dovresti riposare.»
«C’è così tanto da fare. Dobbiamo organizzare il funerale.» Aprii le finestre del salotto, guardai fuori dalla finestra, vidi persone prendersi per mano mentre passavano davanti a casa e cercavano di vedere dentro. Che forme singolari hanno le teste. «Secondo te papà chi avrebbe voluto al suo funerale?»
Il respiro di Emma si avvolse attorno al mio orecchio. «Non me la sento di parlarne adesso.»
«Ma è importante.»
Emma sbiancò in viso. Mi sporsi verso di lei e le vidi sulla mascella delle vene blu chiaro che si tendevano e pulsavano, tutte le piccole arrabbiature in attesa di uscire e riversarsi. Mi avvicinai ancora di più.
«Stai indietro» ringhiò.
«Smettila di guardarmi così.» Mi strinsi la mano al collo. Emma continuò a guardarmi finché me la sentii strisciare sotto la pelle, gli occhi come parassiti.
«Così come?» disse.
I suoi occhi continuavano a banchettare con la mia pelle, mangiavano uno strato dopo l’altro finché arrivò nelle interiora. «Fai sempre così» dissi.
«E che cosa starei facendo, di grazia?» Emma scavò ancora di più, masticando fino all’osso. Tutti i laccetti che tengono insieme un corpo minacciavano di disfarsi. Quanto oltre si sarebbe spinta?
«Niente» risposi. Ma più mi guardava più pensavo alle cose, pensavo al furto dell’anno scorso, al modo in cui Emma aveva continuato a guardarmi nei giorni successivi. Proprio come adesso. «Hai detto tu a papà della collana, vero?» Chiusi la bocca, denti su denti.
«Di che cosa stai parlando?»
«L’anno scorso. Gli hai detto che avevo preso io la collana, che ero stata io a rubare i gioielli della signora Borden.»
Lei chiuse gli occhi e scosse la testa. «Da non credere. Non è così importante.»
Il mio cuore tambureggiava, musica maestro!, e mi premeva sul petto, mi si strinse la gola. «E come faccio a sapere che non dirai alla polizia delle cose che mi riguardano? Delle cose che ho detto?»
Strizzò gli occhi fissando il nulla. «Perché dici...»
«Ho commesso solo un piccolo errore! Sempre solo un piccolo errore e tu ogni volta fai in modo che venga punita. Non sai quanto ti odio a volte.» Il cuore mi tambureggiava nella testa. L’orologio sulla mensola del camino non faceva che ticchettare.
«Lizzie, piantala immediatamente» la sua voce furibonda si diffuse nella stanza.
Il mio corpo balzò in avanti e poi indietro, avanti e indietro, il dondolio di un corpo sulla forca. Mi doleva il collo. Piansi. Tremai finché le assi del pavimento sussurrarono: basta, basta. Al piano di sopra sentii lo zio che gridava: «Che cosa succede laggiù?». Emma si precipitò accanto a me, mi circondò col suo braccio scheletrico e mi fece sss, sss, sss. «Andrà tutto bene» diceva. Appoggiò la testa sulla mia, pelle magnetica, e così inspirammo, espirammo, come bambini, noi bambine senza genitori.
«Dovresti sempre essere così con me» le canticchiai nelle orecchie. Per un po’ restammo vicine, amorevoli. Poi le sue dita si spostarono lentamente sulla mia testa, confortanti come Dio, mi resero elettrica.
«Questo cos’è?» Le dita si fermarono improvvisamente sulla tempia. Si scostò, mi studiò.
«Cosa?»
«Che cos’hai nei capelli?» sussurrò.
Misi la mano su quel punto che l’aveva fatta staccare da me: c’era qualcosa di fragile e incrostato.
Emma mi tirò la testa verso di lei e l’osservò. L’orologio sulla mensola del camino non faceva che ticchettare. «C’è qualcosa di duro incastrato nei capelli.» Le sue dita si insinuavano fra i fili, tiravano delicatamente. «Oh Signore» sussurrò di nuovo.
Le osservai le dita, vidi un pezzettino d’osso. «No.» Dissi, no, no, no, restammo in silenzio.
Emma mi guardò a lungo e poi si guardò attorno. Si strofinò gli occhi, allungò il collo verso il soffitto. Il sangue della signora Borden è ancora là! L’orologio sulla mensola del camino non faceva che ticchettare. Io guardavo la cassa toracica di Emma che si dilatava e si sgonfiava. Mi chiesi cosa sarebbe successo, come sarebbe stato se fosse morta in quel momento. Emma mi fissò un’altra volta e dopo un po’ disse: «Credi che potresti esserti fatta male?».
Mi si fermò il cuore per un istante. Toccai il punto di prima, non sentivo sangue. Mi concentrai forte. Ero molto confusa. «Sì.» Mi toccai la fronte e la massaggiai. «In effetti, ora che ci penso, è tutto il giorno che mi fa male.» Me la massaggiai ancora. «Mi sono fatta molto male quando non c’eri.»
Quando Emma era a Fairhaven io ogni tanto mi mettevo a sedere nella mia stanza e mi staccavo la pelle. Cominciavo con la pelle secca dei piedi, lasciandola cadere sul tappeto rosso di lana accanto al letto, poi proseguivo con quella attorno ai gomiti e alle ginocchia, facendomi uscire un po’ di sangue, goccia a goccia sulle lenzuola bianche. Se avesse risposto alle mie lettere non mi sarei sentita così vuota e sola, non mi sarei dovuta sforzare di fare la brava con papà e con la signora Borden. Tante cose non sarebbero accadute. Non avrei dovuto sedere con loro la sera. Li trovavo spesso in soggiorno, papà sul divano, con un libro fra le mani, la signora Borden con il suo ricamo troppo elaborato, ogni punto un nodo di filo colorato: Casa dolce casa, Il mio cuore riposa qui. Una sera pregai che si trafiggesse le dita con l’ago, che cucisse la pelle con la pelle.
«Salve, Lizzie.»
«Buonasera.» Mi sedetti sulla sedia più vicina al salotto e li osservai, mentre le lampade a cherosene mandavano il solito odoraccio di zolfo, oscurandogli per metà il viso. Mio padre ogni tanto sollevava lo sguardo dal libro e lo posava su di me; poi guardava la signora Borden e ritornava alla sua pagina. Lei intanto ricamava, la mano alta, le dita strette e spigolose, infilava l’ago nella stoffa, ancora, ancora. L’orologio sulla mensola del camino non faceva che ticchettare e quel tic-tac si calava giù dal ripiano e muovendosi lungo il tappeto giungeva ai miei piedi: piccoli cannoni. Mi venne voglia di mettermi a saltare su e giù, un ballo sincopato: «Sono qui! Sono qui!». Invece tossii. Loro rimasero in silenzio. Tossii di nuovo e ascoltai il loro respiro, l’aria che si trascinava su per quei vecchi polmoni e fuori da bocche secche e labbra rotte.
La signora Borden disse: «Andrew, lo sai? Bridget crede che di sopra ci sia un odore particolare».
«Ah sì?» rispose papà. «E secondo lei che cosa potrebbe essere?» Cosa importa che cosa crede lei.
«Forse un animale?» disse la signora Borden.
«Un roditore?» Papà si era toccato la barba corta.
«Chissà.» La signora Borden ricamava.
«Con questo tempo poi, si accentua» disse papà.
«Le ho detto di aprire le finestre.» La signora Borden ricamava.
«Magari è rimasto intrappolato nei muri. Toglierlo comporterebbe una spesa e un danno enorme» disse.
«Sì, sarebbe piuttosto caro.» La signora Borden, le dita chiuse sull’ago, dentro e fuori, dentro e fuori dalla stoffa. Poi cambiò il colore del filo da rosso a viola, dentro e fuori. «Immagino che dovremo aspettare la fine dell’estate.»
«Sì, a quel punto l’animale si sarà già decomposto per bene e il problema si sarà risolto da solo.» Papà sorrise, fiero della sua soluzione. Poi tornò al suo libro.
Quella conversazione mi fece venire voglia di sbattere la testa contro il muro. Non capivano niente. Mi schiarii la voce. «Forse Bridget sta portando lassù del cibo che sta diventando rancido.»
«E perché mai dovrebbe farlo?» La signora Borden smise di ricamare.
«E io come faccio a saperlo? Si sa che le domestiche rubano. Non mi sorprenderebbe...»
«Non essere ridicola.» Mio padre mise giù il libro. «Sappiamo tutti che in questa casa non è Bridget quella che ruba, o sbaglio?» I nostri occhi si incontrarono. La sua bocca si aprì. Vedevo la lingua grigia che gli spingeva sulle gengive.
«Purtroppo, padre, nella nostra amata Fall River ci sono dei criminali. Molte persone fanno molte cose.»
«Sì, Lizzie, certo. Certo.» Papà si toccò la barba corta. La signora Borden si posò il ricamo in grembo. Le lancette dell’orologio sulla mensola del camino si mossero rapidamente, perdendo il ritmo. Tutti ci girammo a guardarlo. Le lancette ruotarono ancora rapidamente e poi si fermarono. Silenzio.
«Era da tempo che non succedeva» disse la signora Borden.
Restammo in silenzio.
Allora papà disse: «Domani lo porto in città e lo faccio riparare».
Allungai le gambe finché la caviglia coperta da una calza comparve da sotto la gonna, perbacco, che gambe forti che hai, feci scattare la mascella e poi sospirai. Papà si voltò e mi guardò. Ci fissammo e in quel momento ero di nuovo piccola. Volevo balzargli addosso come un gattino e affondargli le unghie nelle gambe, colpirgli la guancia con una zampa e guardare il sangue che sgorgava, fargli dimenticare la conversazione che avevamo appena avuto. “Sei una bambina impertinente,” avrebbe detto “ma è per questo che ti voglio bene. Sei proprio una meraviglia.” Eccome se sono una meraviglia, e avrei leccato il sangue e la guancia con la mia lingua da gattino, l’avrei pulito col pelo e gli avrei lisciato la barba.
Papà e io ci fissammo. Non mi aveva mai lasciata crescere, come se non si fidasse di me. Facevamo così una sera dopo l’altra e io finii per staccarmi la pelle perché Emma non era a casa. Avevo pensato così tante volte di andare a piedi fino a Fairhaven, di avvicinarmi al letto di Emma di soppiatto come la luna e di sdraiarmi al suo fianco, di farmi crescere dei tentacoli per avvolgerglieli attorno finché i nostri respiri diventavano uno solo.
Una settimana dopo che Emma se n’era andata a Fairhaven, avevo iniziato a osservare la signora Borden che si muoveva rumorosamente per casa, piedi pesanti come ferro che camminavano sulle scale e sulle assi del pavimento, il respiro affannoso che mi si avvolgeva attorno al collo e le labbra come un’infezione ogni volta che mi passava accanto.
«Lizzie, ti vedo spersa» disse la signora Borden.
«Non sono spersa. So bene di essere bloccata in questo posto infernale.»
Lei aveva riso. «Lo sai che non era questo che intendevo.»
Le mie labbra si lasciarono scappare un sorriso, che cercai di risucchiare.
«Emma tornerà presto.» Cantilena, cantilena.
«Non m’importa» dissi.
«Ah...»
«A dire il vero stavo pensando che a volte è meglio stare a casa di tanto in tanto.» Notai la disinvoltura con cui parlavo, il modo in cui la mia voce si spalmava come burro dolce. Sapevo che se Emma fosse stata lì mi avrebbe detto: “Che cosa stai cercando di ottenere da loro adesso?”.
“Non sono affari tuoi»” le avrei risposto. Poi, dopo un po’, le avrei detto: “Voglio che mi paghino un altro viaggio in Europa”.
«Direi che hai ragione» rispose la signora Borden. Mi concessi di sorriderle, che cosa mi sta succedendo?
La porta di servizio si era aperta ed entrò mio padre, che rimase rigido davanti a noi. «State parlando, vedo.»
La signora Borden alzò le sopracciglia. «Lizzie e io stavamo discutendo dei pregi del restare a casa.»
«Di tanto in tanto» aggiunsi io.
Mio padre mi aveva guardato. «Purché ci si renda utili.»
«E non lo faccio sempre, padre?» Le labbra si arresero a un sorriso. Volevo gridare, Datemi ciò che mi merito! Ma ero rimasta in silenzio.
«Hai notizie di tua sorella?» domandò.
«Sì. Sta bene.»
La signora Borden aveva piegato la testa da un lato e mi aveva osservato, maligna, prima di dire a papà: «Bridget sta preparando il pranzo. Un ottimo montone arrosto...».
«Sarà meglio che non sia troppo grande. L’ultima coscia che le hai permesso di comprare è andata sprecata» le disse mio padre.
«Sono sicura che andrà benissimo» rispose lei.
Lui brontolò: «Preferirei che la gente fosse più attenta a quello che fa».
Il sole batté sulla finestra del soggiorno e si infilò nella fessura tra le tende, mi rimbalzò sulle dita, mi fece scrocchiare e gonfiare le nocche. «Lizzie,» disse la signora Borden «visto che hai voglia di stare a casa, ti va di pranzare con noi?»
Papà si lisciò il mento con le mani, le dita lunghi fiammiferi di pelle, accenditi e brucia, padre caro. Sentii Bridget che in cucina soffiava sul cibo per raffreddarlo un poco. Tossì, e sopra di noi la casa schioccò come una frusta. Papà, di nuovo gli occhi su di me.
«Sì, penso che pranzerò con voi» dissi.
Papà sorrise alla signora Borden. La pancia mi pulsò, si torse.
Ci sedemmo attorno al tavolo di legno e mentre Bridget ci serviva restammo in silenzio. Papà le chiese i prezzi della carne e io dissi: «Accipicchia, non possiamo godercela un po’, una buona volta? So che possiamo permettercelo...».
Allora mio padre batté il pugno sul tavolo. «Sono i miei soldi. Le faccio io le domande qui, Lizzie, per favore.»
Mi misi in bocca il montone, carne calda e secca, la mandai giù con forza. «Non sopporto che vi comportiate come se fossimo poveri, padre. Siete il proprietario di un palazzo con su scritto il vostro nome!»
La signora Borden incrociò il coltello e la forchetta sul piatto e si pulì la bocca. «Tuo padre lavora molto duramente e si merita il tuo rispetto.»
«Stavo solamente esponendo un dato di fatto.»
Bridget se ne andò in cucina, dandoci le spalle. Spostava il peso su una gamba e muoveva la mano avanti e indietro sul ripiano della cucina.
Un tintinnio di posate sulla porcellana. Papà tagliava il montone, muoveva i denti in avanti fino a coprire il labbro inferiore, osservava la tavola. Aspettavo che mi urlasse contro ma il silenzio continuò.
«Cosa c’è, padre?»
Lui masticò il montone e lo mandò giù. La signora Borden si pulì la bocca con un tovagliolo di lino, le labbra diventarono rosse per la frizione. Per un attimo parve giovane. Per un attimo. «Avete gradito tutti il montone?» domandò lei. Un pezzetto di carne mi si era incastrato sul lato della gola. Era pesante, mi faceva sudare. Pensai a Emma, alla mia noia. Pensai all’Europa, alla vita raffinata che facevo là, avevo persino mangiato caviale!
«È delizioso» risposi. Papà tagliava la carne come un taglialegna, si fece cadere in bocca un grosso pezzo di montone. La casa era silenziosa. Lui non mi rivolse più la parola in tutto il giorno. Iniziarono a venirmi dei pensieri.
Mandammo Emma a preparare altro tè e lei ritornò, l’orologio sulla mensola del camino non faceva che ticchettare, tic-tac tic-tac, le sette in punto. Zio John scese le scale, cuoio pesante, e disse: «Ragazze! Non è il momento per litigare.»
«Abbiamo fatto molto rumore?» domandai, dolcissima.
«Solo un po’. Ma è comprensibile.» Mi baciò i capelli e disse: «Direi che è ora di mangiare, che ve ne pare?».
Lo stomaco mi si strinse. «Oh, sì!»
«Io non ho fame» disse Emma.
Zio si massaggiò la pancia con le dita, vieni micio micio, picchiettandole tre volte. «Le pere non bastano a sfamare un uomo.» Rise. Sapeva essere molto affascinante. Sorpresi Emma rivolgere gli occhi al cielo.
Sedevamo in salotto, io grattavo con la mano la copertura di velluto del bracciolo e d’un tratto mi trovai nel bel mezzo del mio Grande Viaggio a Londra, un cappellino da sole su un manichino, la campanella di un negozio che suonava, odori di nascondigli di animali e di melassa che provenivano dal laboratorio sul retro. Mi tolsi i guanti e passai la punta delle dita sul velluto verde scuro del cappellino da sole. La cucitura era precisa, la visiera robusta. Sul davanti del cappello erano stati cuciti dei minuscoli strass dorati, mi ricordavano sogni pieni di sole. Mi avvicinai, respirai a fondo, qualcosa di impercettibilmente speziato e urticante si era depositato sulla stoffa, mi scaldava e mi provocava un formicolio. L’eccitazione della novità. Mi avvicinai ancora, leccai rapidamente il cappello, volevo divorarlo. Non avrei trovato niente di simile a Fall River.
«Lizzie!» strillò Emma.
Spalancai gli occhi di scatto. «Sì?» Mi misi la mano sulla bocca. Leccai del sale, una traccia di lucido per il legno, un po’ di sapore di me.
«Che cosa vorresti mangiare?» Emma era seccata. Era sbagliato arrendersi agli impulsi? Sembrava papà, mi faceva vergognare di chi ero, un’eterna bambina.
Brodo di montone freddo. Sorrisi. «Qualsiasi cosa, sorella cara.»
Lo zio si diede un colpetto sulla pancia ed Emma si alzò, spingendo sotto la sedia gli stivali, che trascinò lungo il tappeto. Uscì dalla stanza.
«Zio, credi che la polizia ci impiegherà molto a trovare chi ha commesso tutto questo?»
Lui inarcò un sopracciglio. «Vista la stranezza dell’accaduto, credo che gli ci vorrà del tempo prima di risolvere il caso.»
Appoggiai la testa sul bordo della sedia, mi chiesi quanto ci avrei impiegato a sentirmi a mio agio, a sentirmi sicura.
Emma arrivò con il cibo.
«Sono davvero famelico» disse lo zio.
Pane duro, burro, brodo di montone vecchio. Frutta quasi marcia. Latte fresco, torta di mele e spezie. Zio John affondò il coltello nel pane e ci spalmò sopra uno strato spesso di burro, come fa chi è sicuro che nessuno gli dirà di non esagerare. Emma lo guardava e sorbiva il tè. Io presi la torta e la feci a pezzettoni, lasciando che quella squisitezza formasse morbide piramidi nelle mie guance. Una dolce melodia.
«Davvero delizioso, Emma» disse lo zio.
Emma mi fissò. «Dovresti mangiare qualcos’altro oltre alla torta, Lizzie. Perché non prendi un po’ di brodo di montone?»
«Non ho molta fame.» La torta mi finì in bocca. «Ne puoi prendere un po’ tu, se vuoi.»
Mangiammo ancora. Io divoravo.
Poco dopo lo zio disse: «Sapete, questa mattina, quando ero in giro, vi avrei accusato di bestemmia se mi aveste detto che un giorno così bello sarebbe finito in modo così violento. E pensare che la vostra povera Abby è stata aggredita nelle prime ore della giornata».
Io bevevo il latte. Emma muoveva lentamente le dita sul bordo della tazza da tè, producendo un suono ostinato e distorto. «Come fate a essere sicuro che la signora Borden sia morta appena dopo colazione?»
«Lo immagino.» Lo zio si ficcò il pane in bocca. «Se no come si spiega? Ti dirò, è stata una vera sorpresa tornare a casa e vedere tutta quella gente davanti all’ingresso.»
«Ho ben presente che shock è stato» disse Emma.
Lo zio smise di mangiare. «Hai ragione, Emma cara. Avrei dovuto pensarci...»
Emma si alzò. «Vogliate scusarmi. Ho bisogno di prendere una boccata d’aria.»
«Fossi in te non uscirei» dissi. «L’assassino potrebbe essere là fuori.»
«Apro soltanto la porta di servizio.»
Se ne andò. Io e lo zio continuammo a mangiare.
In cima alle scale, nella stanza degli ospiti, le tracce di sangue della signora Borden stavano ribollendo. Lo zio entrò nella stanza, si sedette sul letto. «È così strano sapere che quest’orribile vicenda è iniziata qui» disse.
«Da qualche parte doveva cominciare.»
Unì con forza le ginocchia. «Già, è vero. La polizia ha avanzato qualche ipotesi.»
«Ah, sì?» Dovevo conoscerle.
«Tutte sbagliate, ne sono certo.» Lo zio alzò la mano all’altezza del viso. Le lunghe dita erano dei saltellanti insetti stecco. Si annusò le dita e disse: «Come ha fatto così tanta sporcizia a finire qui sotto?». Tirò fuori il fazzoletto e iniziò a rigirarselo sotto le unghie, pulendole dalla polvere. Io lo annusavo, annusavo la terra.
Restammo in silenzio. Sul calorifero di fronte a noi scorsi del sangue, il sangue vola, il sangue si libra, e sentii un vuoto allo stomaco. «Siete sicuro di voler restare in questa stanza?»
«Ma certo, tesoro mio. Non c’è problema. C’è solo un pochino di sangue.» Fece un sorriso allegro, come faceva mamma, e mi sentii di nuovo bene, mi sentii pervadere dal calore, come se lei fosse lì con noi. Mio zio, il dono.
Diede una pacchetta sul letto, proprio accanto a lui, e mi sedetti. In fondo al letto c’erano delle macchioline di sangue. Le coprii con la mano. «Quanto resterete qui con noi?»
«Il più a lungo possibile, Lizzie.» Sorrise, mostrando i denti. Lo zio sapeva sempre cosa dire per farmi stare meglio. Poi aggiunse: «Hai notato qualcuno in casa oggi?».
«Ho già detto alla polizia...»
«Non ti preoccupare di quello che hai detto alla polizia. Sono solo curioso. Hai notato qualcuno in casa? Un uomo, per esempio?»
Non capivo dove voleva arrivare. «No.»
Mi guardò le mani e poi mi squadrò dalla testa ai piedi. «Sei ancora turbata per la conversazione di ieri sera con Andrew?»
Iniziavo a innervosirmi. «Non ci ho più pensato.»
Mi fissava. Che cos’è che ha in mente? Sentivo il vento sbattere sul fianco della casa, selvaggio. Qualcosa che strisciava verso di me.
Diede un’occhiata dietro di sé, verso il punto in cui era stato trovato il corpo della signora Borden. «Secondo te se n’è accorta?» sussurrò.
Mi doleva la fronte. La massaggiai. «Forse. Verrebbe da pensarlo...»
«Immagino di sì.» Mi studiò ancora un po’ e la peluria dietro al collo mi si drizzò come grano al sole. Poi domandò: «Sei stata nella stalla oggi?».
Feci cenno di sì.
«Capisco.»
«Ci sono andata diverse volte oggi. Perché?»
Un lento sorriso gli si stagliò sul viso. Mi fece sentire a disagio. «Lizzie, ti va di parlare?»
Sentivo Emma muoversi rumorosamente per casa. Che mal di testa mi faceva venire. Avrei parlato di qualsiasi cosa per far cessare quel dolore. «Okay.»
Lo zio si alzò dal letto, chiuse la porta della stanza e si voltò verso di me.
Mi sciolsi le trecce, scuotendo i capelli. Mi voltai verso la toeletta e vidi il sangue della signora Borden che lambiva le gambe del tavolo. Incastrati nelle maniglie del cassettone c’erano alcuni fili dei suoi capelli grigi e mi domandai per quanto tempo sarebbero dovuti restare lì prima che qualcuno pulisse la stanza e facesse scomparire quella sporcizia. Attorno al letto impronte di scarponi insanguinati, una mappa di sofferenza e incredulità. Avevano spostato la signora Borden per tutta la stanza, dalla finestra al calorifero, poi alla soglia, dove le impronte degli stivali avevano esitato prima di correre giù dalle scale e urlare che era morta. E ora era a pancia in su sulla tavola da pranzo.
La giornata più strana della mia vita. «Zio, non sono tanto sicura di che cosa sia vero e cosa no.»
Mi massaggiò le spalle, come faceva spesso. «Non ti preoccupare. Ti dirò io che cosa è vero, se ce ne sarà bisogno.»
«Che cosa faremo adesso Emma e io?» Domandai.
«Io vi consiglio di restare insieme.»
Lo guardai e lui mi scostò i capelli dalle spalle. Poi sorrise e disse: «Ti ho mai detto quanto mi ricordi tua madre?».