8

Benjamin

3 agosto 1892

Il treno entrò nella stazione di Fall River, affumicò la piattaforma con un denso vapore e fece svolazzare le sottane delle donne, mostrando la parte alta dei loro stivali, e le calze. La gamba aveva smesso di sanguinare ma faticavo a muovermi, mi sembrava di avere una sbarra di acciaio sotto la pelle. I passeggeri si alzarono, si stirarono e scrocchiarono le ossa, mandando verso di me il loro odore di canfora. Mi alzai anch’io, schiacciai la testa sul finestrino e sentii il sole che mi scottava la fronte e il capo, i pidocchi mi prudevano. Mi grattai. Vidi John in piedi sotto a un cartellone bianco che indicava il binario e mi accorsi che non aveva bagaglio. La sua visita familiare sarebbe stata breve. Salutava con un cenno gli uomini dal cappello a cilindro che gli passavano davanti. Mi trascinai a fatica per il corridoio e scesi dal treno, raggiungendolo.

«È andato bene il viaggio?» Fece un sorriso così ampio che mi venne voglia di prenderlo a pugni.

«Era affollatissimo» dissi.

«Be’, ormai siamo qui. Andiamo.»

Partì a grandi passi e io lo inseguii. Uscimmo dalla stazione e ci trovammo in un’ampia strada di arenaria azzurra. Ecco le forti grida dei guidatori di un tram a cavalli: «Vi portiamo a Main Street, in men che non si dica!». Si sentiva il clangore intenso e argentino delle campanelle del tram, un bambino che urlava come un animale malato e con un miagolio chiamava la madre, i negozianti che spazzavano il loro pezzo di marciapiede, con i baffi folti che gli inghiottivano la faccia. C’era troppo rumore per me. «Resteremo qui a lungo?»

«Abbi pazienza.»

Iniziammo a percorrere la strada. Io mi trascinavo dietro la gamba pulsante e allora John disse: «Prima di tutto dovremmo far vedere a qualcuno quella gamba».

Ritardi. Non portavano niente di buono. «Sto bene.»

«Sciocchezze. Fa parte del tuo compenso, no?»

Non avevo voce in capitolo. Continuammo a camminare e fummo aggrediti da un fetore che erompeva dalle fabbriche e dai cotonifici. John mi condusse in strade di case addossate attigue a negozi; le nostre scarpe risuonavano sul marciapiede come piccoli martelli. Presto giungemmo a un negozio dalla facciata bianca; il telaio della porta era di smalto scheggiato e alcune lettere nere si stavano scrostando, V T RIN R O; sulla finestra c’era un gatto meticcio raggomitolato.

«Dove siamo?»

John, con un rapido movimento del capo guardò la strada, sul chi vive, e disse: «Conosco un medico che ti può aiutare. Basta che ti fai i fatti tuoi».

Entrammo, si sentì il suono di un campanello e John mi disse di sedermi su uno sgabello di pelle accanto al muro. Il puzzo di antisettico mi pungeva il naso, ero circondato da un odore di pelliccia bagnata. John scomparve in un corridoio e io mi chiesi come mai conosceva questo medico. La gamba ricominciò a sanguinare. Poco dopo John ritornò, assieme a un dottore.

«Ecco qui il vostro paziente» disse John.

Il dottore indossava grembiule e stivaloni di cuoio e mentre si avvicinava si spinse gli occhiali sul naso e tossicchiò nella mano. «Lo vedo.» Mi piombò sulla gamba, in picchiata, e ci ficcò il dito. «Posso pulirla, ricucirla e rimetterti in piedi. Che ne dici?»

John e il dottore sorrisero e un altro gatto giunse furtivo dal corridoio, avvolgendosi intorno alla gamba del dottore. Mai fidarsi di un gatto.

«E sia» risposi. Era la prima volta che mi ricucivano, avevo sempre lasciato che il mio corpo facesse da solo.

«Bene, bene. Mentre ti fai rimettere in sesto io aspetto qui vicino.» John mi diede una botta sulla schiena, colpendomi forte le costole. Passando per il corridoio il dottore mi condusse in una stanza spoglia. «Siediti lì» disse indicando un divano. «Togliti i pantaloni.»

Lo feci, mostrando lividi e cicatrici, le ginocchia ossute come quelle dei polli. La ferita sulla gamba si era aperta per bene e avevo voglia di metterci dentro il dito per vedere quanto era profonda. Il dottore si diresse a un banco, cercando alcune fiale di vetro ambrato disposte lungo il muro. In mezzo alla stanza c’era un grande tavolo di legno con delle goccioline di sangue, e da qualche parte udii il tintinnio di una gabbia. Prese una fiala, la borsa da medico e li portò da me. Dentro c’era una grossa siringa d’ottone, oggetti lunghi e affilati che sembravano sottili ceselli, un paio di forbici pesanti, pinzette. Tirò fuori le forbici e le pinzette, sollevò il barattolo ambrato e disse: «Bene, ora lo verserò sulla ferita. È un tipo di acido. Brucerà ma farà meraviglie».

Guardai rapidamente fuori dalla porta, vidi un gatto nero che vi passava davanti zoppicando. Il tappo della bottiglia venne tolto e mi fu versato addosso il liquido. La gamba si contrasse come se ci stessero camminando sopra delle formiche rosse. Ululai, e dal retro dell’edificio si alzò un altro ululato, che si unì al mio.

«Ecco fatto» disse. «E ora, i punti.» Si avvicinò come un pescatore, con un piccolo uncino e un filo da sutura e mi ricucì insieme la gamba, infilzando lembi di pelle. Mi sentivo la testa annebbiata, calda, e mi venne voglia di dormire profondamente. Chiusi gli occhi e mi risvegliai perché John mi scuoteva. «Di già?»

Mi asciugai la saliva dalla bocca. «Ha finito?»

«Facile, vero?» Mi guardava come un gufo nella notte.

La gamba era stata bendata e mi ero rimesso i pantaloni, John mi aiutò ad alzarmi e poi disse: «È ora di andare». Mi guardai attorno in cerca del dottore, in cerca di altri pazienti, ma non lo vidi, non li vidi. Uscimmo dal negozio e andammo in strada.

«Credo che ora starai molto meglio» disse John.

«E quindi, ora che facciamo?»

«Ci separiamo. Devo vedere mia nipote e poi occuparmi di qualche affare. Ci rivediamo in stazione alle sei in punto e ci incammineremo verso la casa.»

«D’accordo» risposi. «Io ho fame, però.»

«Mi dispiace. Temo di non avere niente da darti al momento.» Il suo sorriso dai denti radi. «A dopo!» John se la batté, lasciandomi in strada. Non mi piaceva essere abbandonato. Non avrei dovuto permettergli di andare ma alla fine mi convinsi che dovevo stare alle sue regole. Volevo i soldi, volevo mettere papà al suo posto.

La città. Annusai l’aria. Un cavallo tirava il carretto di una fabbrica. Due cani si annusavano e correvano in un vicolo. La gente sui marciapiedi parlava del tempo, si intratteneva in quelle chiacchiere frivole che ti entravano dentro, facevano digrignare i denti.

In Main Street un poliziotto parlava con uno straccivendolo. Mentre mi avvicinavo l’agente gli fece togliere dalle spalle il sacco e svuotarne il contenuto sul ciglio della strada, in un cozzare di piatti di latta. Mentre l’agente rovistava fra le sue cose e ispezionava i piatti prima di ributtarli a terra, la schiena dell’uomo si curvò. Ridussi la distanza e sentii il poliziotto dire all’uomo: «Per me non è vero che te li hanno regalati».

«Le persone sono gentili. Quelle signore della chiesa mi hanno regalato le loro cose vecchie, davvero.» La voce era tesa.

«Vuoi finire in prigione?» chiese il poliziotto.

Mi fermai accanto a loro, fissando l’agente, gli arti da insetto incrociati sul petto, la sua stupida faccia minacciosa. Lui mi disse: «Posso esservi d’aiuto?».

Percepivo l’odore dei suoi pugni, il modo in cui si preparava a pestare quell’uomo. Strinsi le nocche, sentivo il desiderio di punirlo. «Siete tutti uguali. Create solo problemi» dissi. Spostai il peso da un piede all’altro, i sassi scricchiolarono sotto agli stivali.

L’agente schioccò la lingua. «Ah, è così?».

Strinsi più forte le nocche. «Sì.»

«Forse dovreste farvi gli affari vostri.»

Le sue parole mi fecero ridere. La strada si riempì di me.

«Questo posto è pieno di matti» disse l’agente, piantando il dito nel petto dell’uomo e schiacciando forte. «Come te.»

L’uomo non disse nulla e cercò di raccogliere i suoi averi, di infilarli nella borsa sporca di polvere e di grasso.

«Mettila giù» ordinò l’agente. Sembrava proprio mio padre quando ci diceva che cosa fare e allora gli assestai un pugno, colpendolo sull’occhio.

Il poliziotto si coprì la faccia. «Cazzo» disse.

«Prendi le tue cose e vattene» dissi all’uomo. Lui annuì, continuando a mettere via. Io colpii di nuovo il poliziotto e poi scappai lungo la strada, lo sentii usare il fischietto, soffiarci dentro. Io continuai a correre, nonostante il dolore alla gamba, ridevo, ridevo, mi sentivo vivo. Il fischietto strillò ancora e alcune voci gridarono: «Fermatelo! Fermate quell’uomo».

Camminai lungo una viuzza, camminai lungo strade parallele finché non fui vicino alla stazione del treno. La gamba mi pulsava ma andavo avanti e giunto alla stazione cercai gli orinali. Odori dolciastri, odori fetidi. Mi misi dentro a uno dei bagni, chiusi la porta a chiave e mi rannicchiai sul sedile del water, porcellana sotto agli stivali. Aspettai lì.

Le campane della città batterono le sei. La gamba mi pulsava, così mi disincastrai dal sedile del water, mi stiracchiai e mi toccai la coscia. Niente sangue. Aspettai John fuori dalla stazione. Era in ritardo. Era una cosa che non sopportavo. Il tempo passava. Arrivò, allampanato, fischiettando. «Ah! Benjamin.» Mi diede una pacca sulla schiena. Profumava come se fosse stato vicino a una donna.

«Adesso andiamo alla casa?»

«Aspetta un attimo, ho qualcosa da raccontarti.» Era troppo vicino a me, ne sentivo il sudore e il calore. «Speravo di riuscire a procurarti una chiave da usare questa sera ma la domestica non è stata di aiuto. Forse dovrai fare il lavoro domani.»

«Ma voi dovete farmi entrare. Non posso fare un buon lavoro se non conosco la casa.»

«Sai, Benjamin, non credo di riuscirci. È una questione di tatto.»

Mi sono reso conto che alcune persone non riflettono mai a fondo sulle loro necessità. Avrei dovuto farlo io al posto suo. Dissi: «Dovete farmi entrare se volete risolvere il problema».

John scosse la testa. «Dovrai trovare da solo il modo di entrare.»

«Lasciate una porta aperta.»

«A Andrew piace serrare bene la casa. E poi te la dovrai vedere con la domestica.»

Quante persone. La gente non dovrebbe nascondermi le cose. «Questa domestica. Sarà un problema?»

Lui si picchiettò le labbra con le dita. «Potresti incrociare Bridget, certo, ma a dirla tutta è un po’ stupida. Potrebbe anche non rendersi conto che sei dentro casa.»

Si sentì il fischio di un treno.

«Vostra nipote è a conoscenza del mio arrivo?»

«Meno sa, meglio è.»

Avrei dovuto dirgli che le cose non erano necessariamente così ma lasciai perdere. «Avete deciso come vorreste che risolvessi il problema?»

John corrugò le labbra storte. «Scegli tu. Ma mi preoccupa che possa capire chi ti ha mandato. Questo sarebbe un problema per me.»

«Cosa mi state chiedendo di fare, John?»

Lui schioccò la lingua.

Avevo pensato a tantissime opzioni per Andrew. Sarei entrato dalla porta di servizio, sorprendendolo mentre si allacciava le scarpe. Gli avrei chiuso le mani nelle mie, avrei preso una stringa e gliel’avrei annodata ai polsi, l’avrei schiaffeggiato sulle orecchie. «Ascoltami bene» gli avrei detto, e lui l’avrebbe fatto. Poi avrei potuto prendere un trinciante e agitarlo in giro finché se la sarebbe fatta sotto dalla paura. Avrei potuto prendere una logora mazza da baseball di legno e spezzargli le gambe. Avrei potuto riempirlo di pugni, insultarlo, fargli invocare il Signore, trattarlo come faceva mio padre. Solo allora avrei davvero iniziato a risolvere i problemi.

«Sarò discreto» dissi.

John mi guardò con attenzione, un esame. «Bene. Perché in fondo voglio solo che le mie nipoti siano felici, non sopporterei che avessero paura a casa loro.»

«Certamente.»

«Non deludermi.»

Io lo fissai. «Non deludetemi voi, John.»

Lui smise di guardarmi per un istante e poi si sfregò le mani. «Magnifico. Andiamo? Ora vorrei mostrarti la casa.»

Lo lasciai andare avanti qualche metro prima di seguirlo. Ci incamminammo per Main Street oltrepassando case con ampi prati all’inglese, andando verso case prive di spazio e di intimità. Ogni tanto guardavo in giro in cerca dello straccivendolo, del poliziotto, ma non vidi nessuno.

Mentre camminava John fischiettava. Quel suo motivetto mi aveva già stufato. Percorremmo strade i cui numeri decrescevano fino all’inizio di Fall River: Fifth, Fourth, Third. Arrivati a Second Street John si fermò e senza voltarsi disse: «Eccoci qui». La strada era costeggiata da alberi di un intenso color verde che mascheravano finestre e porte, era ingombra di uomini e donne intenti nella passeggiata del tardo pomeriggio, di un carretto trainato da cavalli che trasportava casse di legno vuote, di falene grigio sporco che si battevano per la luce dei lampioni.

«Vedi la palazzina a due piani grigio scuro? È quella.»

Non mi aspettavo che la casa fosse su più piani. Ero abituato ad abitazioni piatte, nient’altro che una facciata spoglia e qualche stanza. Diversamente dalle altre case, dalle finestre sul davanti non proveniva alcuna luce, niente suggeriva che fosse abitata.

«Va’ nel giardino sul retro» mi disse John in tutta fretta.

«A far che?»

«A un certo punto ti raggiungerò.»

Per la prima volta dal momento del nostro incontro sembrava nervoso. Non potevo permettermelo. Annuii e per tranquillizzarlo gli feci addirittura un sorriso.

Attraversò la strada, raggiunse la casa e bussò alla porta. Una donna cicciona e anziana con in testa una cuffia blu aprì la porta, occupando la soglia coi fianchi e la pancia; John le prese le mani e le baciò. A voce alta disse: «Buona sera, cara Abby». La moglie. Lei rivolse lo sguardo da un’altra parte, come se lui avesse in faccia una maschera disgustosa, sicché John si precipitò dentro, sbattendo la porta.

Io contai fino a tre, attraversai la strada, saltai un piccolo recinto bianco dopo essermi assicurato che non stesse passando nessuno e mi avvicinai alla casa. Sentii un flusso di cherosene serpeggiare da sotto la porta. Appoggiai la mano sull’ingresso, la porta era di legno caldo e sormontata da numeri di ottone: 92. Girai la maniglia. Chiusa a chiave. Raggiunsi di corsa il fianco della casa e scivolai verso una delle finestre. Il sole calò. Da lì riuscivo a vedere dentro, vedevo la parte alta di un divano nero lucido e, sopra, il dipinto di un cavallo in un campo, una bestia muscolosa che spingeva indietro le zampe e tutta la sua rabbia. Vidi John stendere il braccio per stringere le mani di un uomo alto: quel modo di guardarsi, il modo in cui l’uomo alto sorrise mostrando i denti. Sapevo che era Andrew. Lo inquadrai meglio, le braccia storte e la struttura sottile. Mio papà era più basso, aveva le spalle robuste, era debole di mente. E io ero in grado di tenergli testa. Andrew non sarebbe stato un problema.

John e Andrew si strinsero le mani, si strinsero le mani, si strinsero le mani, poi si staccarono. Allora la domestica si mise fra di loro. «Bridget» dissi. I folti capelli, le spalle ampie, il mento aggressivo. Le domestiche si impicciavano sempre delle cose sbagliate. Bridget guardò dritta verso la finestra. Io mi buttai a terra, sbattendo i gomiti sul muro laterale della casa. Mi raggomitolai silenziosamente, cercando di scomparire nella sera sempre più scura. Alcune formiche mi strisciavano sul braccio, mordendomi per bene, e sotto di me l’erba era riarsa, secca, dritta, pungeva. Attesi a lungo, quindi guardai ancora nella finestra. La stanza era vuota, come se quelli che avevo visto prima fossero fantasmi.

Me ne andai nel giardino sul retro. Lungo lo steccato c’era un pergolato di peri tutto fiorito, l’odore dolce nauseabondo di frutta mangiata a metà e gettata a terra. Pensai ai vermi sotto la terra smossa, che si arrampicavano l’uno sull’altro finché i loro corpi gelatinosi e morbidi rotolandosi diventavano una cosa sola. Strappai una pera e la mangiai, il succo mi cadde sulle dita e sul mento. Sentii un dolore improvviso e lancinante in fondo alla bocca, così ci infilai dentro l’indice e mi accorsi che un altro dente ballava. Lo afferrai, lo tirai e lo rigirai, poi lo gettai sotto al pergolato.

Tutto attorno a me i grilli rumoreggiavano con la loro piccola gola e la luna iniziava a rivelarsi, coprendo l’erba di un fragrante splendore. A sinistra del cortile c’era una stalla e su una corda da bucato un grande tappeto. Mi iniziò a prudere la gamba e la grattai, mi piaceva come la pelle mi finiva sotto le unghie, come strati di me si impilavano l’uno sull’altro. Guardai il retro della casa, guardai le finestre che si illuminavano e si oscuravano alla luce delle lampade a cherosene, Bridget che si spostava da una stanza all’altra. Una volta in soffitta si tolse la cuffia e premette il corpo sulla finestra, osservando quel cielo vespertino. Mi domandai se agitando le mani mi avrebbe visto fra le ombre. Ero sicuro che fosse a conoscenza dei problemi del padre di Emma e Lizzie. Avevo voglia di farle qualche domanda su di loro. Avremmo potuto conversare un po’. Come sarebbe stato facile il mio compito così! Bridget restò in piedi alla finestra e io mi mossi verso la casa. Cercai di alzare le finestre al primo piano, erano tutte chiuse, perciò provai la porta doppia del seminterrato, girando più volte la maniglia. Faceva resistenza e quando la lasciai andare fece un gran rumore. Qualcuno dietro la porta. C’era una chiave nella serratura, un brontolio, allora corsi al pergolato e mi appiattii sul terreno. La porta del seminterrato si aprì, improvvisa come un terremoto, e ci fu un bagliore di cherosene. Una donna in piedi. Teneva alta la lampada, guardò una falena sciamare verso la luce prima di scacciarla via con il dorso della mano.

La donna uscì fuori, in cortile, e io sentii il suo respiro, corto e nervoso, sentii che qualcosa le ribolliva dentro. Si passò le dita sugli occhi, come se avesse pianto, appoggiò a terra la lampada ed emise un suono viscerale e profondo, di rabbia.

Alzai un po’ la testa, affamato del suo rumore. La conoscevo quella sensazione. Quante cose ti porta a fare. Lo fece ancora e disse: «Per la vita del Signore, non avrai alcuna colpa per questa faccenda». Alzai di più la testa, iniziai a sollevare il petto da terra. A quel punto mi resi conto che era Lizzie. Aveva decisamente dei problemi. Da qualche parte intorno a noi udii: «Santo cielo, cos’era quel rumore?», allora Lizzie si coprì la bocca con una mano e scrutò il cortile, e io fui costretto a sprofondare di nuovo a terra. I grilli martellavano e lei illuminò il tappeto, si mosse per raggiungerlo e raccolse un battipanni di vimini appoggiato alla casa. Lizzie, che mi dava la schiena, iniziò a battere il tappeto, ripetutamente, grugnendo dallo sforzo, le spalle curve e furiose.

«Io non sono così. Io non sono così» esclamò, come un treno merci che attraversa il paese senza che sia possibile rallentarlo.

Mi misi a quattro zampe e iniziai a strisciare lentamente verso di lei, volevo avvicinarmi per annusare la rabbia, per capire quanti problemi avrei dovuto risolvere. Lizzie lanciò un grido, e il tappeto oscillò come un uomo morto. Avevo già dimezzato la distanza quando John era comparso sulla soglia del seminterrato. Alzò in alto la sua lampada e mi vide carponi. Sogghignò, scosse la testa e io rimasi immobile.

«Lizzie, cosa succede?» disse.

«Non lo sopporto più.» Batté il tappeto.

John andò da lei, mise una lampada a terra e poi le appoggiò le mani sulle spalle. «Suvvia» disse amorevole. «Tu puoi sopportare qualunque cosa.»

«Perché mi deve sempre mortificare?»

«Perché la gente fa quello che fa? Non dargli retta.» John guardò oltre, verso di me, e io strisciai lentamente indietro da dove ero venuto. Mi appiattii sull’erba. Le poggiò una mano sulla coscia, cercando di calmarla, le disse: «Ti aiuterò io a stare meglio. Ti farebbe piacere?». John la strinse più forte, sfiorandole il volto con il suo, e lei si fece piccola, come un gatto. «Sì.»

Restarono così per un po’ e dopo Lizzie gli chiese: «Sono una brava figlia?».

«La migliore di tutte, ne sono certo.»

«Cosa devo fare per farlo capire a mio padre?» C’era tensione nella voce.

«Continua a essere te stessa. Ben presto apprenderà dai suoi errori.»

«Forse» disse Lizzie. I grilli martellavano il cortile. «Mi ha sorpreso vedervi oggi.»

«Ti avevo detto che sarei venuto.»

«Pensavo sareste arrivato domani.»

«C’è stato un cambiamento di programmi, avevo degli affari di cui occuparmi. Ho pensato di arrivare prima e magari vedere Emma a Fairhaven.»

«L’avete vista?»

«No. Non era dove mi avevi detto di andare. Era uscita.»

Lizzie alzò improvvisamente la testa. «Dov’era?»

«La sua amica non me l’ha detto. Ho avuto l’impressione che non si fidasse di me.» John carezzò la fronte di Lizzie, un calmante.

«Helen è sempre troppo cauta. È una noia» disse Lizzie.

Si sedettero sui gradini della porta del seminterrato e John la cinse con un braccio.

«È tutto a posto qui? Abby sembra più strana del solito. Sembra voler scappar via ovunque si trovi.» John soffiò fuori le parole.

«Ah sì? Non l’ho notato.»

«Ti fa penare molto?»

«La signora Borden è uguale a papà. A volte penso che faccia apposta a istigarmelo contro.»

John scosse la testa e cullò Lizzie avanti e indietro. «Pensa un po’, mettere un genitore contro il figlio.» Il modo in cui John si comportava con la nipote era strano, tutto quello stringere e accarezzare. Non mi piaceva.

«L’ha sempre fatto. E adesso è riuscita a convincere papà a cedere la casa a lei e alla sorella.»

«Non riesco a capire come abbia potuto acconsentire a una cosa del genere.»

«Dovrebbe spettare a me e a Emma. Sono anche soldi nostri.»

Mi immaginai Abby che sussurrava all’orecchio di Andrew di abbandonare le sue figlie, Angela aveva fatto lo stesso con mio padre, con noi. Avrei dovuto parlare a Andrew di quel tipo di donne.

«Cosa ne diresti se ti dicessi che non ci saranno più problemi?» disse John.

Lizzie lo guardò. «E come?»

«Farò un discorso da uomo a uomo con tuo padre per ricordargli di trattarvi come si deve.»

«Potrebbe funzionare.» Lei s’illuminò.

«Suppongo di sì, Lizzie.»

«Quando gli parlerete?»

«Che ne dici di domani?»

Lei si conficcò un’unghia sotto a un’altra unghia, si spazzò via le pietruzze dalla gonna. «Quando?»

«Che ne dici di quando torna dal lavoro per pranzo? Sarò discreto, così non lo metterò in imbarazzo in casa sua. Tu pensi di riuscire a convincere Bridget e Abby a uscire di casa?» Cercava di facilitarmi le cose.

Lizzie si massaggiò le tempie, chiuse gli occhi. «Potrebbe funzionare. Potrebbe funzionare» disse piano.

John sorrise. «Bene, è deciso.»

«È deciso.»

Si strinse a Lizzie, la baciò sulla fronte. «Cerca di rilassarti questa sera.»

«Sapete, stavo pensando di andare a trovare la mia amica Alice.»

«È un’idea magnifica.»

Lizzie si alzò, salutò ed entrò nel seminterrato, lasciando fuori la lampada. La porta si chiuse.

Passò del tempo. John alzò la voce. «Hai sentito?»

«Sì» dissi, rimanendo nell’ombra.

«Lo vedi quanto è sconvolta.»

«Sì.»

«Fai del tuo meglio, per piacere.»

«Sì.»

John si alzò, scrollandosi la polvere di dosso. «Ora me ne vado.»

«Mi farete entrare in casa questa notte?»

«No. È troppo rischioso.»

«E dove vado?»

Indicò. «Là c’è la stalla.»

Non ero un animale. Mi tirai in piedi e lo sovrastai, sporgendomi verso di lui con tutta la mia mole. I nasi si sfiorarono. «Non mi piace come mi parlate.»

«Non è un mio problema.»

«Potrebbe facilmente diventarlo.» Volevo rimetterlo al suo posto.

Si scostò, dandomi un colpetto sulla schiena. «Ecco, così. Così devi fare.» Sorrise, aprì il seminterrato ed entrò. I grilli martellavano il cortile. Non aveva senso restare fuori ed essere morsi dagli insetti, quegli esseri pieni di odio. Presi la lampada a cherosene di Lizzie, ridussi la fiamma a metà ed entrai nella stalla. C’erano casse di legno accatastate, scatole piene di piatti rotti, oggetti domestici scartati, una colombaia vuota. Salii le scale fino a un piccolo sottotetto e mi sistemai sotto la finestra. Spensi la lampada, guardai la casa, osservai il movimento delle ombre. Sarei diventato una di loro.