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Bridget

3 agosto 1892

Più tardi quel giorno, mentre spazzavo il pavimento della cucina, sentii delle voci provenire dalle scale sul retro. Il signore e la signora Borden. Mi chiesi se lei gli avesse detto della mia partenza, che cosa ne pensasse. Per lui non sarebbe stato un problema rimpiazzarmi. Ero solo una ragazza che aveva rimpiazzato un’altra ragazza. Ma gli sarebbe importato dei soldi, di certo non avrebbe gradito che io avessi ricevuto più di quanto non mi fossi meritata.

Spazzai i pavimenti, mi accovacciai per passare la scopa sotto la stufa, spinsi le setole di paglia il più lontano possibile, raccolsi fuliggine e pezzetti nero-verdi di cibo marcio sul pavimento di piastrelle dipinte di bianco. Saltò fuori un pezzettino di buccia d’arancia, secco e duro. Me lo misi sotto al naso, agrumato e amaro. Qualcuno aveva banchettato a mia insaputa. Mangiare in segreto, bruciare i resti. Lizzie. Era una cosa da lei. Annusai di nuovo la buccia. Il ricordo di un frutto.

L’estate scorsa, quando il signore e la signora Borden erano andati alla fattoria di Swansea, Lizzie ed Emma avevano comprato frutta del Sud in un mercato di Boston. Arance, pesche, albicocche. Che mangiata si erano fatte, sedute sui gradini della porta di servizio. Il profumo di arancia, un’intensa esplosione di energia, una danza per la lingua e il naso. Come gocciolavano le pesche sulle dita, come bagnavano le labbra. Le sorelle, la testa chinata fra le ginocchia aperte, sedevano in un modo che il signor Borden non avrebbe mai permesso. Sbavavano come poppanti. Emma mi chiese di stare di guardia, di controllare che i vicini curiosi non comparissero per una visita. Ah, quanto ero felice di stare fuori, vicino a quei frutti deliziosi. Emma e Lizzie erano sedute vicine, si urtavano i gomiti. Non sembravano notare che i loro corpi sbattevano l’uno sull’altro.

«È buona quanto l’arancia che ho mangiato a Roma» disse Lizzie.

Emma alzò gli occhi al cielo. «Hai intenzione di parlarne ancora molte volte?» Risero, come si fa tra sorelle. Come avevo fatto io con le mie.

«Fino a quando mi stuferò.» Lizzie prese un’altra arancia dal cestino e la squarciò, affondando le unghie nella pelle. Bucce a terra. Era un colore che avevo visto raramente dalle mie parti. Lizzie la divise a metà.

«Ne vuoi un po’, Bridget?» Succo, dita.

«Siete sicura?»

Emma annuì. «Ne hai mai mangiata una?»

«Veramente no.» In un’altra casa dove avevo lavorato, la proprietaria aveva attraversato una fase di profonda nostalgia del Sud, della sua infanzia in Florida. Si era comprata delle arance e io le avevo preparato la marmellata, il pan di Spagna. Avevo leccato la scorza e il succo d’arancia che mi erano rimasti sulle dita: era stata la volta in cui ero andata più vicina a mangiare quel frutto.

«Oggi sarai nostra ospite» disse Lizzie, come se fossi un’invitata in una villa signorile.

Presi l’arancia e ci affondai i denti. Sembrava zucchero amaro. Avevo le punte delle dita appiccicose. La mangiai tutta.

«Sei mai stata a Roma?» chiese Lizzie.

«Lizzie, non essere maleducata.» Emma si pulì le labbra.

Lizzie spalancò la bocca. «E perché è maleducazione? Sto solo chiacchierando.»

«No, signorina. Non sono stata da nessuna parte eccetto casa e l’America.»

«Be’, un giorno magari.» Lizzie, la voce piatta.

«Lizzie...»

«Magari sposa un uomo ricco.» Lizzie sorrise.

«E dove lo conoscerei? Di certo non in cucina.» Allora risi, risi perché Lizzie credeva che qualcuno della sua classe sociale mi avrebbe notato.

Il sole era spuntato fra la volta degli alberi, un fruscio sulla spalla. Un cagnolino bianco ci passò davanti di corsa e proseguì lungo la strada. In lontananza il cotonificio sbuffava vapore. Il profumo della frutta, un banchetto segreto. Non domandai come si erano procurate i soldi per comprarla. Mi leccai le dita, feci passare il pomeriggio.

Questa volta non ci sarebbe stata frutta del Sud per me. Le ragazze se l’erano tenuta per loro. Il signore e la signora Borden stavano ancora parlando e io raccolsi la polvere e la sporcizia nella paletta, poi le misi nella pattumiera. L’orologio batté le tre e mezza. Le voci dei Borden continuavano al piano di sopra e così mi spostai, un passo dopo l’altro, silenziosamente. Mentre mi avvicinavo alla porta della stanza da letto sentii il signor Borden parlare.

«Presumo che non alleverà mai più colombi.»

«Quando glielo dirai?»

«Fra poco.»

«Andrew, devi farlo il prima possibile. Sarà furiosa.»

«Sono solo colombi! Li può vedere in giro per tutta Fall River, se davvero le mancheranno.»

Lizzie aveva iniziato a radunare quel piccolo stormo durante l’autunno, dopo aver trovato in cortile un colombo con un’ala rotta. Mi aveva domandato di portarle un cestino di vimini e io l’avevo fatto. Ci aveva posato l’animale e si era messa il cestino in stanza. Aveva tagliato un lenzuolo in lunghe strisce e gli aveva bendato l’ala.

La domenica chiese al padre di uno dei suoi alunni del catechismo di costruirle una piccola colombaia. Il signor Borden non era d’accordo. «Ti darà solo dei guai. Sbarazzatene.»

«No! Non essere crudele. Se lo lascio fuori lo mangeranno vivo.»

L’animale guarì e la raccolta ebbe inizio. Sembrava facile: bastava offrire del cibo e aspettare un po’ prima di chiudere la gabbia. I colombi ingrassavano e io me li immaginavo come ottimo ripieno di uno sformato. Ogni tanto lei gli dava il buongiorno cantando: «Per la vita del Signore, non avrai alcuna colpa per questa faccenda» tubava e cinguettava, tubava e cinguettava.

«Non voglio nemmeno pensare a cosa succederebbe se uno di loro scappasse» mi disse una volta Emma.

«Non sarebbe così tremendo, no?» le domandai.

Emma mi trafisse con lo sguardo. «Non conosci mia sorella.» Non sarei mai riuscita a dimenticare la sua espressione, e le sue parole.

Con la schiena rivolta alle porte chiuse la signora Borden disse al marito: «Diglielo. Non sarebbe una sorpresa gradita».

«Come la visita di John per me.»

«Di quella non sapevo nulla, Andrew.» La signora Borden era sulla difensiva.

«Quella bambina certe volte ha una bella faccia tosta.»

«Non puoi vietare alle tue figlie di vedere i loro familiari.»

«Lui ormai non mi sembra più tale.»

«È inutile arrabbiarsi.»

Aspettai sulle scale sul retro ancora un po’, aspettai di sentire il mio nome, di sentire la rabbia della signora Borden; ma non ci fu altro, così lasciai perdere, ritornai in cucina. Una chiave che girava, il suono di una scarpa che sbatteva sullo stipite inferiore della porta principale per aprirla. Sporsi la testa dalla porta della cucina, vidi Lizzie entrare in casa, togliersi i guanti bianchi, appendere l’ombrellino nell’armadio sotto alle scale principali. Mi spostai in sala da pranzo, dissi: «Buon pomeriggio, signorina Lizzie».

«Buon pomeriggio.» Senza sorridere.

«Signorina, c’è qualcosa che non va?»

«Niente. È solo il caldo.» Aveva le guance rosse, rotonde come le mele.

«Desiderate un po’ d’acqua?»

«Volentieri.» Quel modo di dire le cose, tutta austera. Era giù di corda. Le presi l’acqua e una fetta di torta alla frutta. Le porsi l’acqua, tenendo stretto il piatto. «Papà e la signora Borden sono in casa?»

«Sì.»

«Dove sono?»

Indicai con la testa il retro della casa. «Nella loro stanza.»

«E così ora mi toccherà ascoltarli per tutto il pomeriggio mentre sto nella mia.» Il sudore le imperlava l’attaccatura dei capelli. Dove era stata?

«Forse potreste andare nella stanza di Emma.»

«Non ho intenzione di rinchiudermi in quel bugigattolo.»

«Vi chiedo scusa, signorina.»

Mi guardò e trangugiò il bicchiere d’acqua in una sorsata.

Quando ebbe finito disse: «Bridget, non è che per caso hai dell’acido prussico?».

«Non credo, signorina. Perché?»

«Me ne serve un po’ per la mantella di pelliccia di foca. Visto che il tempo è adatto potrei lavarla e farla asciugare fuori.»

Lizzie non era molto brava a pulire cose così delicate. Ah, l’avrebbe rovinata e ci avrei dovuto pensare io a rimetterla a posto. «Dovreste andare in farmacia.»

Le sopracciglia le si unirono. «Non ti viene in mente che ci avevo già pensato?»

«Sì, signorina.»

Lizzie mi strappò il piatto di torta dalle mani. «Sei inutile.»

Salì le scale e sbatté la porta della camera da letto.

La porta si riaprì. «Hai lasciato la tua robaccia in camera mia.»

Gli stracci, il secchio. Me ne ero dimenticata. «Maledizione» sussurrai. Corsi su per le scale.

Lizzie riempiva con il corpo il telaio della porta. «Perché sei stata nella mia stanza?»

Feci un passo avanti, pensando che si sarebbe spostata. Le nostre spalle si toccarono. «La signora Borden mi ha chiesto di spolverare. Sapevo che vi avrebbe dato fastidio, ma lei non mi ha ascoltato.» Non sopportavo quella vicinanza.

«È una donna impossibile.» Lizzie non si mosse. Le nostre bocche si sfioravano.

«Poi vostro zio ha bussato mentre ero quassù e me ne sono dimenticata.»

Lizzie si illuminò. «Zio John è qui?»

«È arrivato prima, mentre eravate fuori. Ha detto che sarebbe tornato questa sera.»

Il sole si spostava lungo il tetto, gettò un’ombra nella stanza.

Lizzie mi spinse via, batté le mani. «Oh, che bello.» Fece un sorriso troppo ampio per la sua faccia.

Mi lasciò entrare e io presi gli stracci e il secchio. Guardai i grembiuli bianchi sul suo bel divano. Lei lo notò. «Ho molto da fare.»

«Va bene.» Guardai di nuovo i grembiuli, non riuscivo a non farlo. Che cosa ci voleva fare?

«Di’ loro che non scenderò per diverse ore.»

Mi diede una spinta sulle spalle per farmi uscire dalla stanza, sbatté la porta.

Sera. Iniziai le mie occupazioni. Il signor Borden sedeva sul divano e parlava del suo dolore al collo e alle spalle. «È come un crampo persistente» diceva alla signora Borden mentre spostava il collo da una parte all’altra. Lei gli si sedette vicino, gli mise le mani sul punto dolente. «Ti fa male se faccio così?»

«No.»

Lei lo massaggiava come si fa con il pane, le dita gli impastavano la pelle. «E se faccio così?»

«Un po’.»

Continuava a massaggiarlo e il signor Borden restò in silenzio, chiuse gli occhi e fece delle smorfie. Gli avrei potuto dire che aveva il mal di collo del taglialegna, quello che viene quando si abbattono gli uccelli, simile al dolore che provava mio padre quando lavorava nelle fattorie e tagliava la legna da ardere, il dolore che provavano i miei fratelli quando lavoravano nella bottega del fabbro. L’unico modo per farti passare quel dolore è evitare che ti venga. Già, ma quante cose dobbiamo fare.

Mi misi a preparare la tavola, a lucidare le posate con estrema cura, finché mi vidi riflessa nel retro dei cucchiai, sulle punte delle forchette. Intravedevo il signor Borden, con la mano sulle ginocchia della signora Borden. Sembrava quasi sospesa, come se fosse lì per sbaglio, ma la signora Borden non la cacciò via e continuò a massaggiarlo. «Magari dovresti andare dal dottor Bowen» disse la signora Borden.

«Forse hai ragione. Potrei andarci domattina.»

Erano d’accordo, la signora Borden mormorava, mormorava, il signor Borden si schiariva la voce e annuiva. Avevo terminato in sala da pranzo e uscii per dirglielo.

«Chiedi a Lizzie di raggiungerci» disse il signor Borden.

Pensai a quando l’aveva schiaffeggiata, non volevo che accadesse di nuovo.

Si schiarì la voce. I suoi occhi avevano qualcosa di strano, sembrava assente. Un brivido mi percorse la schiena. Allora mi sbrigai, andai in cucina e dalla stufa presi la pentola di brodo di montone, distribuendola in scodelle di terracotta. Proprio quando stavo per salire di sopra a chiamare Lizzie sentii qualcuno bussare alla porta davanti. Il mio stomaco sobbalzò e pregai che non mi chiedessero di aprire. Sentii ancora bussare e la signora Borden disse: «È lui».

«Forse avrà avuto un pomeriggio pieno e non avrà voglia di parlare per tutta la sera» disse il signor Borden.

«Lo spero.»

Udii la signora Borden saltellare rapida verso l’entrata e aprire la porta.

La voce di John riempì la casa e, finiti i convenevoli, la porta si chiuse ed entrarono nella sala da pranzo.

«Andrew!» John cacciò fuori il braccio per stringergli la mano.

Il signor Borden ci impiegò un po’ a prenderla, quindi disse: «John».

«È da un po’ che non ci si vede.»

«Sì.»

«Stai bene?»

«Sì.»

Continuavano a stringersi la mano.

«Dateci pure il cappotto, John» disse la signora Borden prima di chiedermi di uscire dalla cucina.

Quando uscii John mi sorrise. Gli vidi i denti, qualcosa incastrato lì in mezzo, poi si abbassò alla mia altezza, così da permettermi di sfilargli il cappotto dalle spalle. Mentre appendevo la giacca, loro continuarono a parlare e, ritornando verso il salotto, mi parve, con la coda dell’occhio, di vedere qualcosa di strano fuori. Guardai verso la finestra, vidi la sera che iniziava a scurirsi riflessa nel vetro, vidi noi quattro, vidi il signor Borden allontanarsi da John e pulirsi la mano sui pantaloni. Mi schiacciai contro la finestra, fuori non c’era niente in realtà, e così restai lì, in attesa che mi dicessero cosa fare.

«Hai passato un buon pomeriggio?»

«Come sempre. Anche se, purtroppo, non sono riuscito a portare a termine tutti i miei affari.»

«Di preciso, cosa stai facendo in città?»

«Un po’ di questo, un po’ di quello.»

«L’uomo del mistero.»

John rise e il signor Borden lo fissò a lungo, intensamente.

«Probabilmente state morendo di fame. Venite, ceniamo» disse la signora Borden.

«Mi viziate, Abby.»

Lei arrossì.

«Proprio come faceva mia sorella.» John le sorrise e lei guardò il tappeto, facendosi piccola.

«Sì, be’, andiamo, fatevi sfamare.»

Allora mi guardò e disse: «Bridget, pensi tu a tutto, vero?».

«Sissignora.»

Si spostarono in sala da pranzo. Io sentii un rumore sordo contro la finestra del salotto, perciò unii le mani sopra gli occhi e le appoggiai sul vetro per guardare fuori. Mi aspettavo quasi di vedere un fantasma. Ma non vidi nulla. «Ohibò!» dissi. «La testa mi sta facendo degli strani scherzi.» Entrai in sala da pranzo. Non erano seduti vicini. John appoggiava i gomiti sul tavolo.

«Come mai ci hai impiegato tanto?» mi domandò la signora Borden.

«Mi è sembrato di vedere qualcosa fuori dalla finestra.»

«Che cos’era?» chiese il signor Borden.

«Niente, credo. Non sono riuscita a vedere nulla.»

«Te lo sarai immaginata.» John sorrise, in quel modo tutto suo.

«No, non credo.» Lo dissi con forza. Lo so cosa vedo, cosa sento.

Il signor Borden si schiarì la gola, come se ne stesse raschiando i lati con un coltello.

«Vi chiedo scusa» dissi. Gli servii quello che volevano. Il signor Borden, brodo di montone, pane; John, brodo di montone, pane; la signora Borden, una fetta di torta, due biscotti al burro. Tutti, una tazza di tè. Trangugiavano, masticavano, il rumore mi si conficcava nell’orecchio. Rimasi contro il muro, aspettai.

«Gli affari vanno bene?» chiese John.

«Sì» disse il signor Borden.

«Quanto bene?»

Il signor Borden bevve un cucchiaio di brodo, e si fece rosso in faccia. «Non esagerare, John.»

«Andrew caro, non era mia intenzione. Facevo solo conversazione. Quindi strinse l’avambraccio del signor Borden e disse: «Siamo parenti. Non vorrei mai farti arrabbiare».

Il signor Borden si allontanò. «Comunque, i miei affari sono affari miei.»

«Certamente.»

Continuarono a mangiare. Il sudore mi appiccicava addosso la biancheria intima. Non volevo sapere nulla di tutto questo. Guardai la signora Borden, chiedendomi dove aveva messo il mio barattolo dei soldi. Lei inspirò ed espirò dalla bocca, come quando è di fianco a me mentre cucino e non le piace che aggiunga troppi odori, facendomi sentire a disagio. Il signor Borden scavò con il cucchiaio nel brodo, facendolo sbattere fragorosamente sulla scodella di terracotta, così forte che pensai che avrebbe scavato il tavolo, e poi un buco abbastanza grande da buttarci dentro John. Mi spinsi contro il muro con più energia di prima e con i piedi feci scricchiolare le assi del pavimento. Tutti e tre volsero lentamente lo sguardo verso di me, come se avessi appena confessato di avergli corretto il pasto con il veleno.

«Non hai niente di meglio da fare? Va’ a chiamare Lizzie» disse il signor Borden.

«Pensavo che potrebbe restare qui e aiutarci con la cena.» La signora Borden si grattò le tempie e il signor Borden chiuse la mano a pugno, spostandola avanti e indietro sul tavolo, e io dissi: «Posso restare qui vicino, in caso abbiate bisogno».

Lei corrugò la fronte. Non capivo se per rabbia o tristezza. Ma non mi interessava. A quel punto ero già uscita dalla stanza, quasi di corsa, richiudendomi dietro la porta. Li sentii parlare un po’, smisi di ascoltare e me ne andai nel salotto, pensando che forse la signora Borden aveva nascosto lì il mio barattolo. Accesi un’altra lampada a cherosene, tossii per il fumo e iniziai a cercare. Mi misi carponi, mi spostai lentamente per la stanza, controllai sotto al divano ma non vidi altro che la carta di una caramella mou. La tirai fuori, strofinando il pollice e le altre dita sulla carta paraffinata, me l’appoggiai al naso. Burro, melassa. Una morbida consolazione. Lizzie si era concessa un altro piacere. Misi la carta nella tasca del grembiule, andai avanti a cercare. Non c’era niente sotto i divani, niente dietro al calicò e ai cuscini di velluto, niente dentro al pianoforte verticale, niente in questa stanza che serviva a mantenere le apparenze. Mi diressi verso l’armadio sotto le scale, lo aprii, illuminai dentro e guardai fra i cappotti. Il barattolo non c’era e allora cominciai a vergognarmi di averlo cercato, pensai che a causa della signora Borden mi stavo comportando come un ladro dei bassifondi, che era stata lei a farmi sentire come il più tremendo dei traditori solo perché avevo deciso di andarmene. Rimisi a posto i cappotti e sfiorai appena la pelliccia della prima signora Borden, che Emma e Lizzie tenevano ancora nell’armadio. Era marrone e ruvida, mi ricordava i cani randagi. Chiusi l’armadio, udii la porta della camera da letto di Lizzie aprirsi e la sentii scendere impetuosamente le scale, venendo verso di me.

«Che cosa stai facendo?» Domandò indicandomi con il dito tozzo.

«Ho perso una cosa. La sto solo cercando.»

«È meglio che la signora Borden non ti veda. Potrebbe pensare che stai rubando.»

«Sono sicura che lo pensa di già.»

Lizzie sorrise. «Oh, Bridget. Non sei più la sua preferita?»

«Non è niente.»

Mi raggiunse, quasi strascicando i piedi. «Dove sono?»

«In sala da pranzo. Vostro zio è di là con loro.»

Lizzie guardò dietro di me, stringendo le labbra. «Di cosa stanno parlando?»

«Ho cercato di non ascoltare.»

«Dai, dimmi qualcosa.» I suoi occhi spenti e azzurri mi guardavano dentro, come se in quel modo potesse estorcermi qualche informazione. Non volevo che mi toccasse, così le dissi: «Vostro zio ha chiesto a vostro padre come andavano gli affari».

Batté le mani. «Bene! Questo dovrebbe movimentare un po’ le cose.»

Era luminosa, sembrava che il suo corpo si stesse rischiarando.

Passammo in soggiorno e Lizzie mi chiese di andarle a prendere qualcosa da mangiare. «Il brodo non lo voglio. Tutto fuorché quell’immondo e vecchio montone che riscaldi da una settimana.»

«Sì, signorina Lizzie.» Nessuno dovrebbe mangiare quell’immondo e vecchio montone.

Si raddrizzò, si rassettò la gonna, si sistemò il colletto, si passò la lingua sui denti ed entrò nella sala da pranzo, dove tutti smisero di parlare per salutarla.

«Lizzie cara!» disse John.

«Salve, zio.»

Fu spostata una sedia e il rumore delle sue gambe che si trascinavano sul tappeto mi fece rabbrividire, allora andai in cucina per preparare a Lizzie la cena. Li sentivo parlare, soprattutto Lizzie, delle cose che avevano fatto quel giorno.

«Sapete, padre, oggi ho incontrato per caso la signora Hinkley.»

«Ah sì?»

«Mi ha chiesto di leggere per lei.»

Le posate tintinnavano.

«È meraviglioso, Lizzie» disse la signora Borden.

«Ad ogni modo le ho detto di sì, quindi occuperò così le mie serate.» Il tono di Lizzie era arrogante.

«Chi è la signora Hinkley?» domandò John.

«Frequenta la chiesa. È una vecchia signora che sta perdendo la vista» disse Lizzie.

«Suo padre si arricchì durante la guerra. Una famiglia abbiente» aggiunse il signor Borden.

Le posate tintinnavano.

«Capisco» disse John.

«Be’, a quanto pare pensa che io sia di buona compagnia.»

«Ti ha sentito leggere?» domandò il signor Borden.

«Papà!»

«Lo sanno tutti che incespichi nelle parole, che sei lenta.» Sembrava che il signor Borden si stesse divertendo, come se avesse speso i giorni precedenti ad accumulare malignità.

«Sono capacissima!»

Scossi la testa. Erano tutti pazzi in quella maledetta famiglia. Pensai di andarmene così su due piedi, ma la signora Borden aveva il mio barattolo. Mi aveva in pugno. Tagliai il pane a grosse fette, ci spalmai su burro e marmellata di lamponi, ne mangiai un cucchiaino anch’io. Il sapore mi ricordava la nonna, quando stava in cucina a casa, quando cantava The Rovin’ Girl e rimestava i lamponi e lo zucchero nella loro pentola, faceva una marmellata che ti faceva esplodere la lingua di felicità. Nonna che cucinava, che cantava, io che ballavo in cucina, che la urtavo mentre mi univo a lei e dicevo: And there she came up over that hill, her rovin’ heart still beatin’ true. I bless the day I got to say, “My girl came home with the love that once was mine”a.

Prima di tornare dai Borden mi mangiai un altro cucchiaino di marmellata. Me lo meritavo. Misi tutto su un vassoio, trattenni il respiro e mi diressi in sala da pranzo.

Stavano ancora parlando del nuovo lavoro di Lizzie. «Be’, per quanto mi riguarda credo sia magnifico che tu ti prenda cura di qualcuno della comunità» disse John. «La carità comincia a casa propria, così si dice.»

Il signor Borden commentò: «Ma certo. L’importante è che Lizzie non si faccia distrarre».

Lei rivolse al signor Borden un’occhiataccia davvero terribile. «Da cosa?»

«Tu ricordati semplicemente cosa è tuo e cosa no.» Il signor Borden sollevò in aria il cucchiaio, Lizzie intrecciò le dita sul tavolo. Le misi il piatto davanti, le versai il tè, lo versai a tutti. L’aria era densa, era difficile respirare. Il respiro di Lizzie era veloce, furente. Morse il pane e marmellata, ne fece cadere un poco sulla tovaglia. Mi faceva sempre pulire più del dovuto. Stavo quasi per uscire dalla stanza quando la signora Borden chiese: «Non rimani?». Mi irrigidii, sentii una fitta al collo ed ebbi la sensazione di essere stata presa a martellate sulla mascella.

«E perché mai?» chiese il signor Borden, salvandomi da una serata assieme a loro.

«Ci potrebbe servire qualcos’altro» disse lei.

«Non preoccupatevi, signora Borden. Se avrete bisogno non avete che da chiamarmi.»

Il viso della signora Borden formicolò, come se le stessero spuntando degli aculei, le labbra strette e pallide. Non le restò che annuire. Ah, con che sorrisone la guardai. Me ne andai da lì, lasciandoli cuocere nel loro brodo.

Cercai il barattolo nelle piccole fessure che salivano fino alla soffitta. Era caldo lassù, il sudore si imperlava sotto ai capelli. Mi tolsi la cuffia, mi ci sventagliai la faccia. Pensai di controllare la stanza da letto del signore e della signora Borden. Girai la maniglia, sapevo che sarebbe stata chiusa a chiave ma lo feci lo stesso. Alcune cose vanno verificate, altre vanno dimostrate. Era chiusa a chiave. Uscii sul pianerottolo, schiacciai la testa contro la finestra, guardai la notte fitta. Volevo essere là fuori, volevo sentire nelle orecchie il suono dei grilli, volevo camminare, vagare senza meta, da sola, o forse persino assieme a Mary. Avremmo potuto incontrare un amico, due amici, i loro amici, dall’odore di tabacco forte, di cucine e di cortili. Saremmo andate in qualche vicolo di Fall River, nei posti dove si poteva scommettere un po’, ballare un po’, come se fossimo in Irlanda, quando ci fermavamo sulla strada dopo la messa della domenica. Avremmo parlato di quello, di quanto ci mancava, un violinista che pizzicava le corde, l’aria fresca ad accarezzarci, la terra smossa negli occhi e sulla lingua, le scarpe di cuoio rabberciate che battevano l’una contro l’altra, tacco, punta, tacco, punta, il violinista che chiamava a raccolta gli strumenti a fiato per aumentare il ritmo, e noi che ballavamo sempre più veloce, e ridevamo, e ci sentivamo vive. Mary e io nei vicoli di Fall River. Era la migliore con cui ballare, per quel suo modo di agganciarsi al braccio, stretta stretta, facendoti credere che avresti potuto volare. «Fammi girare ancora!» avrei detto, e lei l’avrebbe fatto. Ogni tanto la baciavo, perché riusciva a farmi dimenticare i Borden. Lo facevo spesso, bagnandole le guance, come con una sorella.

Un tuonare di porte che sbattevano. Avevano fatto tremare la finestra. Mi allontanai dal vetro e mi rimisi la cuffia. Un’altra porta riecheggiò e la casa vibrò. Per questa sera le ricerche del mio barattolo erano finite. Al piano di sotto trovai il signore e la signora Borden in soggiorno, in silenzio, lui sul divano, lei sulla sedia vicino alla finestra.

«Dov’eri?» domandò la signora Borden. Mi studiò, alla ricerca di un segreto.

«Me ne sono andata nella mia stanza, signora.»

Lei tacque. Cosa avrebbe potuto dire? Mi mossi con calma, entrai nella sala da pranzo, iniziai a impilare i piatti. Mi chiesi dove fossero John e Lizzie. Lei si era lasciata dietro altra marmellata, sulla sua sedia c’erano alcune briciole di pane. Le spazzai via e me le feci cadere in mano, poi me le misi in tasca. Mentre portavo i piatti nel retrocucina notai che la porta del seminterrato era aperta e vidi Lizzie arrivare, come una tempesta. Sembrava che avesse pianto e mi passò davanti veloce come il vento, poi entrò in sala da pranzo. «Vado a trovare Alice Russell» disse con tono sgarbato.

«Si sta facendo tardi» fece il signor Borden.

«Non è mai stato un problema prima d’ora, papà.»

La sentii aprire l’armadio sotto le scale, spostare una gruccia, richiuderlo. Poi uscì dalla porta principale e la casa tremò come durante un lieve terremoto.

«Glielo devi dire che non può sbattere così le porte, Andrew.»

«Uhm.»

Presi uno straccio bagnato, mi rinfilai in sala da pranzo e iniziai a strofinare dappertutto. I Borden erano silenziosi, come capitava sempre più spesso, ultimamente. Non riuscivo ad abituarmi al continuo cambiamento di umore in quella casa, a fidarmi. Mamma e papà erano sempre stati dei chiacchieroni, gente che parlava di sentimenti, che sapeva sempre come stavano le cose. Nel bene o nel male. A questo ero abituata. Il signore e la signora Borden erano così silenziosi che sentii il respiro di John, che risaliva le scale del seminterrato, e allora capii che doveva essere stato fuori e che probabilmente Lizzie gli aveva fatto compagnia. Non mi interessava sapere di che cosa avevano parlato. Lui si fermò sulla porta della sala da pranzo, mi guardò.

«Ti sei dimenticata un punto, Bridget.» Indicò la gamba della sedia di Lizzie.

«Ah.»

«Sarebbe un peccato se attirasse le mosche. È così difficile sbarazzarsene.»

C’erano così tante altre cose di cui era difficile sbarazzarsi.

Dal soggiorno la signora Borden disse: «Ti va di farci compagnia, John?».

Lui entrò e io controllai la gamba della sedia. Una minuscola goccia di marmellata. Mi mossi per pulirla ma poi mi fermai. Visto che la signora Borden mi aveva preso il barattolo per punirmi l’avrei lasciata lì, per vedere che cosa avrebbe attirato quella dolce macchia. Mi fermai sulla porta del soggiorno.

«Scusatemi se vi interrompo, signora, ma laverei i piatti e me ne andrei a letto.»

«Grazie, Bridget.»

John si sedette di fronte alla signora Borden, allungò le gambe e si toccò la barba corta. Lei lo osservò, poi si mise il braccio sulla pancia. «A dire il vero, signori, spero che non me ne vogliate ma non mi sento molto bene e ho bisogno di ritirarmi.» Si alzò in piedi.

«Che peccato, Abby. Speravo di prendermi un’ultima tazza di tè assieme a voi.»

«Sono certa che domani ne avremo occasione.»

«Sì, sicuramente.»

La signora Borden mi richiamò dentro. «Bridget, prima di finire assicurati che il signor Borden e il signor Morse abbiano tutto ciò di cui necessitano.»

«Sì, signora.»

Raggiunse il marito e lo baciò sulla fronte, come quando si dà prova di lealtà, e lui le carezzò la mano e non la guardò andar via, diversamente da John. Mi lasciò lì da sola e quindi chiesi: «Posso portarvi qualcosa?».

Il signor Borden: «No».

John: «Non mi dispiacerebbero dei biscotti in stanza».

Annuii, andai nel retrocucina e presi quanto richiesto, misi su un piatto alcuni biscotti di pasta frolla e li portai nella camera degli ospiti. Gli uomini parlavano, sentivo le loro voci basse salire su per le scale.

«Sei stato alla fattoria ultimamente?»

«Sono riuscito ad andare qualche fine settimana fa.»

«Sono venute anche le ragazze?»

«Sì.»

«Quell’aria sarà stata sicuramente un toccasana per loro.»

«Sì.»

«Non hai mai pensato di trasferirti in collina? Lontano da questi fumi soffocanti?»

«Grazie per l’interesse, John, ma si sta bene qui, da questa parte di Fall River. Sono sicuro che negli anni i polmoni delle ragazze si sono rafforzati.»

«Certamente.»

Terminate le mie faccende lavai il retrocucina e andai dal signor Borden, che era rimasto solo nella stanza. «Io ho finito. Avete ancora bisogno di me?»

Si passò le mani sulle gambe, allungando le dita. «No.»

Vidi una piuma grigia sul suo gomito. «Signor Borden, avete qualcosa addosso.» Indicai, lui la guardò, la prese e la tenne fra le dita.

«Pensavo di averle tolte tutte.» Poi mi fissò, come un bambino nei pasticci.

«Con le piume è così...»

«Sì, sì. Sempre in giro.» Guardò di nuovo la piuma. «Forse non avrei dovuto farlo.»

Gli uccelli, l’ascia. Sapeva che io sapevo. Provai un senso di disgusto. «Avrà sicuramente avuto le sue ragioni, signor Borden.»

«Dovrò darle una spiegazione.»

«Papà mi diceva sempre che non è mai troppo tardi per fare qualcosa.»

Lui annuì. Lo lasciai lì, salii le scale sul retro e sentii la signora Borden piagnucolare nella sua stanza. Pensai di fermarmi ad aiutarla, ma ero molto arrabbiata con lei. La lasciai sola, continuai a camminare verso la mia stanza. Entrai e mi richiusi dietro la porta, ne avevo bisogno. Mi sedetti sul letto, mi misi la camicia da notte. Che giornata era stata. Non avevo voglia di affrontarne un’altra. Spensi la luce, mi raggomitolai nel letto e ascoltai la notte, la casa.

a. E arrivò da quella collina, il suo cuore girovago batteva ancora sincero. Benedico il giorno in cui ho potuto dire: “Il mio amore è tornato a casa con l’amore che un tempo era mio”. [N.d.T.]