Capitolo 13

Erano le dieci meno un quarto quando, dopo essere uscito da casa, andai al garage dietro l'angolo sulla Decima Avenue e scesi la rampa a bordo della spider. Ed erano le undici e tredici minuti quando entrai nel villaggio di Brewster e voltai a sinistra, seguendo le indicazioni che avevo sentito dare a Saul Panzer da Helen Frost. Un'ora e ventotto minuti non era male, considerando le curve sulla strada di Pines Bridge e il tratto accidentato tra Muscoot e Croton Falls.

Seguii la strada asfaltata per poco più di un miglio e poi voltai di nuovo a sinistra, su una strada in terra battuta, stretta come la mentalità di un bigotto. Salii con le ruote sui solchi lasciati dalle altre macchine e ci restai. Alla luce dei fari non vedevo che i rami ancora spogli degli alberi e i cespugli ai lati della strada. Cominciai a pensare che la tirata di Fred sui boschi selvaggi non era stata poi così stupida. Ogni tanto vedevo una casa, ma erano tutte buie e silenziose; continuai a sobbalzare così a lungo - una curva a gomito a sinistra, una a destra e poi di nuovo a sinistra - che cominciai a chiedermi se non avessi sbagliato strada. Poi, finalmente, vidi una luce; seguii i solchi per superare un'ultima curva e capii di essere arrivato.

Oltre alle poche, rapide osservazioni di Wolfe prima che partissi, durante il viaggio avevo fatto funzionare il cervello per un esame della situazione, che non mi sembrava essere particolarmente critica. Comunque sarebbe stato simpatico tenere solo per noi la notizia della spedizione di Gebert, almeno per un po'. Se i poliziotti lo desideravano, potevano benissimo entrare in casa e cercare la scatola rossa, dato che Saul, con tutto il pomeriggio a disposizione per lavorare indisturbato, non l'aveva trovata. Ma Gebert valeva un piccolo sforzo, senza parlare del fatto che avevamo la nostra reputazione da proteggere. Così fermai la spider di fianco alle due auto parcheggiate sul bordo della strada, mi sporsi all'esterno e urlai: ― Venite a spostare questo autobus! Sta bloccando il cancello e io voglio entrare!

Dal portico arrivò un urlo rauco e arcigno: ― Chi diavolo sei?

― Hailé Selassié. Va bene, lo sposto da solo. Se poi ci scappa un'ammaccatura, non prendetevela con me.

Scesi dalla spider e salii sull'auto, che era aperta e con la capote abbassata: un carro da combattimento della polizia di Stato. Sentii, e intravidi appena nel buio, due uomini staccarsi dal portico e scendere lo stretto sentiero. Saltarono il basso steccato. Quello davanti era in uniforme; nell'altro riconobbi il mio vecchio amico, il tenente Rowcliff.

Il poliziotto di Stato era abbastanza deciso a spaventarmi: ― Fuori di lì, amico. Se sposti quella macchina ti annodo.

― Non lo farai ― risposi. ― Mi chiamo Archie Goodwin e rappresento il signor Nero Wolfe. Io ho il diritto di essere qui e voi no. Se uno trova un'auto che blocca il suo cancello, ha tutto il diritto di spostarla, cosa che sto per fare. E se cercate di fermarmi, sarà davvero un peccato, perché sono incavolato da matti. Dico sul serio.

― Va bene, scendi ― grugnì Rowcliff. ― Adesso la spostiamo. ― Mormorò qualcosa al cosacco: ― Tanto vale che la sposti. L'amico qui non scherza.

L'agente di Stato aprì la portiera. ― Scendi.

― La sposti?

― Perché diavolo non dovrei spostarla? Scendi.

Scesi e risalii sulla spider. Mentre gli tenevo i fari puntati addosso, l'agente avviò il motore, spostò l'auto in avanti, sulla strada, e poi al di là dell'entrata. Inserii la marcia, superai il cancello, entrai nel vialetto, mi fermai dietro un'auto, che riconobbi essere quella che Gebert aveva parcheggiato davanti alla casa di Wolfe il giorno prima, scesi e mi avviai verso il portico. C'era una folla seduta sul bordo. Uno di loro fece il furbo, accese una torcia e me la puntò in faccia mentre mi avvicinavo. Arrivarono anche Rowcliff e l'agente di Stato, che si fermarono davanti ai gradini.

― Chi è che comanda qui? ― domandai. ― So che non sei tu, Rowcliff: siamo fuori dai limiti della città. Chi vi dà il diritto di stare qui, in una proprietà privata?

Si guardarono tra loro. L'agente di Stato sporse il mento in fuori e mi chiese: ― E tu ce l'hai?

― Puoi scommetterci la testa che ce l'ho. Avete visto il documento firmato dall'esecutore testamentario. In tasca ho un altro documento simile. Allora, chi comanda qui? Chi è il responsabile di questo oltraggio?

Dal portico arrivò una risatina. Era un'ombra in un angolo. ― Io ce l'ho il diritto di stare qui, vero, Archie?

Sbirciai nel buio. ― Oh, salve, Fred. Cosa fai qui fuori al freddo?

Venne verso di me. ― Non volevamo aprire la porta, perché magari a questo branco di prepotenti poteva venire in mente di...

Emisi un grugnito. ― Quale mente? Bene, allora nessuno comanda qui, è così? Fred, chiama Saul...

― Mi assumo io la responsabilità! ― Un nanerottolo era balzato in piedi. Gli vidi gli occhiali. ― Sono il vice procuratore distrettuale della contea! ― squittì. ― Abbiamo il diritto legale di...

Torreggiai un po' su di lui. ― Voi avete il diritto legale di andarvene a casa a dormire. Avete un mandato, o una citazione o almeno una cartina da sigarette?

― No, non c'è stato il tempo per...

― Allora state zitto. ― Mi rivolsi a Rowcliff e all'agente: ― Pensate che stia facendo il duro? Per niente: sono solo indignato e ho tutti i diritti di esserlo. Avete una bella faccia tosta a presentarvi in un'abitazione privata nel cuore della notte e aspettarvi di poter entrare, senza nessuna indicazione che dentro ci sia, o ci sia stato, qualcosa o qualcuno contro la legge. Cosa volete, la scatola rossa? È di proprietà di Nero Wolfe e, se è qui dentro, me la prenderò io, me la metterò in tasca e la porterò via con me. E non cercate di giocare ad acchiapparello con me, perché sono piuttosto schizzinoso per quanto riguarda i contatti con la gente. ― Passai davanti ai due, salii sul portico, andai alla porta e bussai.

― Vieni qui, Fred. Saul!

Sentii la voce di Saul all'interno. ― Salve, Archie! Tutto bene?

― Certo: tutto bene. Apri la porta! Stai pronto, Fred.

La banda si era alzata in piedi e si era avvicinata leggermente a noi. Sentii girare il chiavistello; la porta si spalancò e una striscia di luce illuminò il portico. Saul era sulla soglia, con Orrie alle spalle. Fred e io ci unimmo a loro. Mi voltai verso il gruppo e dissi: ― Vi ordino formalmente di allontanarvi da questa proprietà. Tutti. In altre parole: squagliatevela. Adesso fate pure quell'accidente che volete, ma, a futura memoria, ormai è ufficiale che vi trovate qui illegalmente. A noi dà fastidio che ve ne stiate lì a scalpicciare sul portico, ma, se provate a entrare, la cosa ci infastidirà molto di più. Dentro, Saul. Andiamo, Fred.

Entrammo. Saul chiuse la porta a chiave. Diedi un'occhiata in giro. Sapendo che il posto era appartenuto a McNair, mi ero aspettato di vedere un altro po' di "delizia dell'arredatore", ma l'ambiente invece era rustico: belle sedie grandi, poltrone con cuscini, un robusto tavolo di legno e un bel fuoco che crepitava nell'ampio caminetto. Mi voltai verso Fred Durkin: ― Maledetto bugiardo! Hai detto che non c'era fuoco.

Fred sorrise, fregandosi le mani davanti al caminetto. ― Ho pensato che il signor Wolfe non doveva pensare che stessimo troppo comodi.

― Non gli sarebbe importato. Il lavoro duro e faticoso non gli piace, neppure per gli altri. ― Mi guardai intorno e parlai a Saul a voce più bassa: ― Dov'è?

Fece un cenno del capo verso una porta. ― Nell'altra stanza. Non c'è luce là dentro.

― Non avete trovato la scatola?

― Nessuna traccia. Abbiamo controllato ogni centimetro.

Dato che era Saul a dirlo, non c'erano dubbi. ― C'è un'altra porta? gli domandai.

― Una sul retro. L'abbiamo sbarrata.

― Bene. Tu e Fred restate qui. Orrie, vieni con me.

Orrie si avvicinò e lo condussi nell'altra stanza. Chiusi la porta dietro di noi e ci ritrovammo nel buio completo; c'erano però due pallidi rettangoli per finestre e, dopo qualche secondo, riuscii a individuare la sagoma di una sedia. ― Canta ― ordinai a Orrie.

― Che cavolo! ― borbottò. ― Ho troppa fame per cantare.

― Canta lo stesso. Se uno di quelli là fuori incolla per caso l'orecchio alla finestra, voglio che senta qualcosa. Canta "Git Along, Little Dogie".

― Non posso cantare al buio.

― Accidenti, vuoi cantare sì o no?

Orrie si schiarì la gola e cominciò a cantare. Aveva una bella voce. Mi avvicinai alla sagoma della sedia, alla quale dissi: ― Sono Archie Goodwin. Ci conosciamo già.

― Certo. ― La voce di Gebert aveva un tono salottiero. ― Siete quello al quale non piacciono le scene.

― Giusto. È per questo che mi trovo qui invece di essere a letto. Perché siete qui?

― Sono venuto a prendere l'ombrello che avevo dimenticato l'autunno scorso.

― Ah, davvero? L'avete trovato?

― No. Qualcuno deve esserselo preso.

― Che peccato. Statemi a sentire un momento: là fuori, sul portico, c'è un esercito composto dalla polizia di Stato, da agenti investigativi di New York e dal procuratore della contea di Putnam. Vi piacerebbe parlare con loro del vostro ombrello?

Vidi il profilo delle spalle alzarsi. ― Se la cosa li può divertire... Credo però che difficilmente possano sapere dov'è.

― Siete un tipo spensierato, vero? Non una sola preoccupazione al mondo... Se è così, cosa ci fate seduto da solo qui al buio?... Più forte, Orrie.

Gebert si strinse di nuovo nelle spalle. ― Il vostro collega... quello basso con il nasone... mi ha chiesto di entrare. Lui è stato molto cortese con me mentre cercavo di aprire la finestra perché ero senza chiave.

― E così volevate essere cortese con lui. Molto gentile da parte vostra. Allora va bene se faccio entrare i poliziotti e li informo che siete stato scoperto mentre cercavate di entrare scassinando una finestra?

― La cosa mi è del tutto indifferente. ― Non potevo vederlo, ma sapevo che stava sorridendo. ― Davvero. Non stavo scassinando, stavo provando una finestra.

Disgustato, mi raddrizzai. Gebert non mi dava niente con cui poter contrattare e, anche se si trattava di un bluff, avevo la sensazione che il francese fosse abbastanza sardonico da portarlo fino in fondo. Orrie smise di cantare; gli dissi di continuare. Le condizioni per un negoziato mi sembravano piuttosto negative. Mi chinai di nuovo su Gebert.

― Sentite, Gebert: vi abbiamo inchiodato, Wolfe vi ha inchiodato, ma siamo disposti a darvi una possibilità. È mezzanotte. Ditemi cosa ne pensate: io faccio entrare i piedipiatti e dico che possono cercare la scatola rossa. So che non la troveranno. Voi diventate un mio collega di nome Jerry; lasciamo qui gli altri soci, voi e io saltiamo in macchina e torniamo a New York. Potrete dormire a casa di Wolfe: c'è un buon letto nella stanza sopra la mia. Il vantaggio è che sarete già là domattina per parlare con Wolfe. A me pare un ottimo programma.

Vidi che scuoteva la testa. ― Io abito al Chesebrough. Grazie per l'invito, ma preferisco dormire nel mio letto.

― Ve lo chiedo di nuovo: venite?

― A dormire a casa del signor Wolfe? No.

― D'accordo. Siete pazzo. Sicuramente però avete abbastanza cervello per rendervi conto che, prima o poi, dovrete parlare con qualcuno della vostra gita di cento chilometri per entrare da una finestra e prendere un ombrello. Conoscendo Wolfe, e conoscendo la polizia, mi limito a consigliarvi di parlare con lui anziché con loro. Non sto cercando di turbare il vostro aplomb: mi piace, penso sia attraente, ma che mi venga un accidente se resto qui in piedi a pregarvi per tutta la notte. Tra due o tre minuti comincerò a diventare impaziente.

Gebert si strinse nelle spalle. ― Confesso che la polizia non mi piace. Mi proponete di andarmene di qui in incognito, è così?

― Sì.

― Va bene. Vengo.

― Passerete la notte da Wolfe?

― Sì.

― Buon per voi. Non preoccupatevi per la vostra macchina: se ne occuperà Saul. Voi vi chiamate Jerry. Comportatevi da duro e da ignorante, come me o qualsiasi altro detective. Allora, Orrie, piantala. Andiamo, Jerry.

Aprii la porta sulla stanza illuminata, seguito da Orrie e Gebert. Chiamai Saul e Fred e spiegai in breve la strategia. Quando Saul si oppose all'idea di lasciar entrare i poliziotti, mi dichiarai d'accordo con lui senza discutere. Il terzetto avrebbe dovuto riprendere le operazioni in mattinata; nel frattempo avrebbero dormito un po'. Stabilimmo che non si doveva permettere a nessuno di entrare e che eventuali scavi all'esterno da parte di estranei dovevano essere assolutamente proibiti. Al mattino avrebbero spedito Fred in paese per prendere da mangiare e per telefonare allo studio di Wolfe.

Andai a una finestra, premetti il naso contro il vetro e vidi che il gruppo era ancora seduto sui gradini. A un mio cenno, Saul aprì la serratura e spalancò la porta. Gebert e io uscimmo sul portico. Dietro di noi, Saul, Fred e Orrie bloccarono la soglia. Arrivammo sul limitare del portico.

― Tenente Rowcliff? Ah, siete lì. Jerry Martin e io torniamo in città. Lascio qui tre uomini, che tengono sempre molto alla loro privacy. Hanno bisogno di dormire un po', e ne avete bisogno anche voi. Come favore personale, vi comunico in tutta franchezza che né Jerry né io abbiamo la scatola rossa. Di conseguenza non abbiamo proprio niente su cui possiate piantare i denti. Dài, Saul: chiudi a chiave. Uno di voi resti sveglio.

La porta si chiuse, lasciando di nuovo il portico al buio. Mi voltai. ― Andiamo, Jerry. Se qualcuno ti dà fastidio, pugnalalo con uno spillone.

Ma nel momento stesso in cui la porta si era chiusa, qualcuno aveva acceso una torcia e l'aveva puntata in faccia a Gebert. Presi il francese per il gomito e lo spinsi avanti, ma dinnanzi a noi ci fu del movimento e un avvertimento: ― Non c'è bisogno di correre. ― Davanti a Gebert c'era un omone che gli teneva la luce puntata addosso. Grugnì di nuovo: ― Guardate qui, tenente. Date un'occhiata a questo Jerry. Jerry mio nonno! Questo tipo era a casa dei Frost questa mattina, quando ci sono andato con l'ispettore. Si chiama Gebert, è un amico della signora Frost.

― Io non vi conosco, amico ― ringhiai ― però dovete essere strabico. Forse è l'aria di campagna. Andiamo, Jerry.

Niente da fare. Rowcliff, altri due piedipiatti e un paio di agenti di Stato ci avevano sbarrato la strada. ― Fermo, Goodwin ― disse Rowcliff. ― Avrai sentito parlare di Bill Northup e dovresti sapere quant'è strabico... Non ti sbagli, Bill?

― Neanche per sogno: è Gebert.

― Non mi dire! Puntagli la luce addosso. Cosa mi dite, signor Gebert? Cosa intendevate fare cercando di ingannare il signor Goodwin e dicendogli di chiamarvi Jerry Martin?

Tenni il becco chiuso. Avevo avuto un colpo di sfortuna, mi stavo prendendo un calcio nei denti e non potevo farci niente. Di una cosa dovevo dare atto a Gebert: anche con la torcia puntata in pieno viso e un branco di gorilla con il mento in fuori, continuava a sorridere come se gli avessero chiesto se nel tè preferiva latte o limone.

― Non ingannerei mai il signor Goodwin ― rispose. ― Assolutamente no. Comunque, come potrei? Lui mi conosce benissimo.

― Ah, davvero? Allora forse dovrei discutere con lui la storia di Jerry Martin. Però voi potreste dirmi cosa ci fate qui, a casa di McNair. Vi hanno trovato qui, eh?

― Trovato? ― Gebert era sempre educato, ma sembrava un po' annoiato. ― Naturalmente no. Mi hanno portato loro: su loro richiesta, sono venuto per indicare dove pensavo che McNair avrebbe potuto nascondere la scatola rossa che cercano. Ma la scatola non c'era. Poi siete arrivati voi. Poi è arrivato il signor Goodwin, che ha pensato sarebbe stato meglio che voi non sapeste che ero venuto ad aiutarli e mi ha suggerito di diventare il signor Jerry Martin. Non avevo alcuna ragione per non accontentarlo.

Rowcliff grugnì: ― Però non avete ritenuto opportuno parlare di questo posto all'ispettore Cramer, questa mattina, quando vi ha chiesto se avevate idea di dove potesse essere la scatola rossa, non è vero?

Gebert trovò una simpatica risposta a questa e a molte altre domande, ma io non lo ascoltai con molto interesse. Ero impegnato nel cercare di trarre un bilancio. Gebert stava facendo un po' troppo il furbo e la cosa mi infastidiva. Il francese, naturalmente, aveva pensato che avrei lasciato passare la sua storia perché volevo portarlo da Nero Wolfe, ma cominciavo a pensare che forse Gebert non valeva il rischio. Non si trattava di un attacco di scrupoli: avrei gettato sabbia negli occhi all'intero dipartimento di polizia, a partire dal commissario Hombert, per qualunque cosa assomigliasse a una pista valida, ma avevo parecchi dubbi che Wolfe sarebbe riuscito a spremere qualcosa di utile da Gebert e, se non ci riusciva, avremmo dato a Cramer un motivo in più per incavolarsi con noi, senza aver niente in cambio. Sapevo che stavo per correre un grosso rischio, perché, se Gebert aveva assassinato McNair, c'erano buone possibilità che alla centrale di polizia sarebbero riusciti a farglielo sputare e allora il nostro incarico sarebbe andato a farsi benedire. Ma io non ero Wolfe: il non sapere se Gebert fosse il colpevole mi metteva in difficoltà. Mentre ero impegnato in queste elucubrazioni, con un orecchio ascoltavo Gebert che abbindolava Rowcliff, e ci riusciva bene: aveva appianato la situazione al punto che lui e io avremmo potuto salire in macchina e andarcene senza che ci prendessero neppure le impronte digitali.

― Fate in modo di trovarvi a casa domani mattina ― gli stava dicendo Rowcliff. ― Forse l'ispettore vorrà parlarvi. Se uscite, lasciate detto dove andate. ― Si voltò verso di me; dal suo alito si sarebbe potuto distillare aceto. ― Siete talmente pieno di trucchetti sporchi che scommetto che quando siete da solo li provate su di voi. L'ispettore vi dirà personalmente cosa pensa di questa storia. È meglio che non vi dica cosa ne penso io.

Gli sorrisi nel buio. ― Pensate che ho un altro trucchetto pronto per voi. Sono rimasto qui a sentire Gebert solo per vedere quant'è in gamba: riuscirebbe a scivolare anche su una grattugia. Sarà meglio che lo portiate alla centrale e che gli diate un letto.

― Ah sì? E perché? Voi avete finito con lui?

― No. Non ho neppure cominciato. Stasera, poco prima delle nove, è arrivato qui in macchina. Non sapendo che c'era qualcuno in casa - le luci erano spente - ha cercato di forzare una finestra per entrare. Quando Saul Panzer gli ha chiesto cosa voleva, ha risposto che l'autunno scorso aveva lasciato qui l'ombrello ed era venuto a riprenderselo. Forse è all'ufficio oggetti smarriti della centrale; sarà meglio che lo portiate a vedere. Come testimone oculare.

― Avevate davvero un altro trucchetto pronto.

― Non ne ho avuto bisogno: la realtà supera sempre la fantasia. Non dovreste essere così sospettoso. Se volete, chiamo fuori i ragazzi e potrete chiederlo a loro: erano qui tutti e tre. Direi che un ombrello per il quale vale la pena entrare da una finestra merita qualche domanda.

― Uhm. E voi lo chiamavate Jerry e cercavate di farlo sgusciare fuori... Per andare dove? Vi andrebbe di venire con noi e dare anche voi un'occhiata a qualche ombrello?

La frase mi disgustò. Non ero comunque troppo soddisfatto di me, dato che dovevo lasciare andare Gebert. ― Puah! Parlate come un piedipiatti che fa il duro con i ragazzini che giocano a palla per strada. Forse volevo la gloria di portarlo personalmente alla centrale. O forse volevo aiutarlo a espatriare mettendolo sulla metropolitana per Brooklyn, dove credo abitiate voi. Adesso Gebert è in mano vostra, no? E potete tenervelo, grazie a un appiglio che vi ho dato io. Puah e puah a tutti voi! Dovrei essere a letto già da un pezzo.

Superai il cordone di poliziotti, spingendoli da parte come mosche, arrivai alla spider, salii, superai il cancello a marcia indietro, feci inversione sulla strada, mancai il parafango della macchina dell'agente di Stato di pochi centimetri e mi allontanai tra solchi e buche. Ero così arrabbiato per com'erano andate le cose che superai di ben due minuti il mio precedente record Brewster-Trentacinquesima Strada.

Naturalmente trovai la casa buia e silenziosa. Sulla scrivania non trovai alcun appunto di Wolfe. Salii in camera mia, al piano di sopra, con un bicchiere di latte. La spia luminosa era una macchia rossa sulla parete e mi informava che Wolfe aveva attivato l'allarme: se qualcuno avesse disturbato una delle sue finestre o si fosse fermato in corridoio entro un raggio di due metri e mezzo dalla sua porta, l'allarme sotto il mio letto avrebbe cominciato a produrre un fracasso tale da svegliare perfino me. Mi buttai sul letto alle due e diciannove minuti.