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Dall’uscio di comunicazione aperto venne la voce di Wolfe: “Archie, che ora è?”

Guardai l’orologio da polso, che avevo posato sulla mensola di vetro, uscii dallo stanzino da bagno tenendo l’avambraccio teso e fermo il più possibile per fare asciugare la tintura di iodio, e, fermandomi davanti all’ampia poltrona sulla quale riposava il mio signore, risposi: “Sono le tre e ventisei. Speravo che la birra vi rianimasse, ma vedo che non è così. Infatti una delle vostre spiacevoli caratteristiche, quando siete depresso, è che, nonostante la gioia di vivere, vi togliete di tasca l’orologio.”

“La gioia di vivere, eh?” gemette Wolfe. “Con l’automobile sfasciata, con quelle povere orchidee che saranno soffocate…”

“Non saranno soffocate, state tranquillo: ho lasciato tutti e due i finestrini socchiusi di un dito.” Mi guardai il braccio, vidi che la tintura di iodio si era asciugata e lo lasciai ricadere. “Sicuro, la gioia di vivere, ho detto. Insomma, che volete di più? Vi siete fatto male forse, quando la macchina ha urtato l’albero? No. Vi è venuto addosso il toro? No. Anzi, siamo capitati in mezzo a della brava gente che ci ha dato una splendida camera con bagno, e ha fornito voi di birra e me di tintura di iodio. Se poi persistete a credere che avrei potuto persuadere quelli dell’autorimessa di Crowfield a venir qui a prenderci e a rimorchiare la nostra macchina, vi ripeterò quello che vi ho già detto: scendete a telefonare voi, e provate, hanno creduto che fossi pazzo, a chiedere una cosa simile con l’Esposizione aperta e i forestieri che vanno e vengono. Il signor Pratt sarà di ritorno da un momento all’altro, e la nipote ci ha promesso di portare noi, il bagaglio e le piante a Crowfield. Ho telefonato all’albergo dove avevamo prenotate le camere, e mi hanno promesso di tenerle a nostra disposizione fino alle dieci di stasera. E non è poco, con tanta gente che chiede letti a gran voce. Dunque…”

Mentre parlavo mi ero riabbassata la manica della camicia, abbottonandomi il polsino. Presi la giacca e soggiunsi: “Com’è la birra?”

“La birra è buona.” Nonostante la lieta constatazione, Wolfe rabbrividì, si guardò attorno, e borbottò: “Tanta gente chiede a gran voce letti, eh?… Archie, questa camera è veramente piacevole, ampia ariosa, con due grandi finestre… Credo che farò mettere imposte simili anche alle finestre della mia camera, a casa: moderne, comode… Inoltre vi sono due ottimi letti: ne avete provato uno?”.

“No” risposi, guardandolo sospettoso, poiché temevo di capire dove voleva andare a parare.

“Be, sono veramente di prim’ordine. Quando manderebbero quelli dell’autorimessa a rimorchiare la nostra macchina, avete detto?”

“Domani prima di mezzogiorno” risposi pazientemente.

“Benissimo.” E Wolfe sospirò. “Credevo che le case nuove non dovessero piacermi, e invece questa mi va molto a genio. Merito dell’architetto, naturalmente. E sapete da dove è venuto il denaro per costruirla? Me lo diceva la signorina Pratt: suo zio ha aperto una serie di ristoranti popolari, a New York, centinaia addirittura, e li ha chiamati Pratterie, dal suo stesso nome. Ne avete mai visto qualcuno?”

“Certo” risposi: e intanto avevo messo a nudo il ginocchio indolenzito e lo stavo esaminando. “Anzi, vi ho fatto colazione più di una volta.”

“Sì, eh? Come vi si mangia?”

“Così, così: dipende da come si è abituati a mangiare. Perciò state a sentire: se avete in mente di farvi invitare a pranzo qui per evitare un pasto al ristorante a Crowfield, vi dirò che il cibo nelle Pratterie è scarso e inconsistente…”

Bussarono all’uscio, dissi: “avanti” ed entrò un ragazzotto in sudici calzoni di flanella e giacca bianca immacolata, con una guancia unta di grasso, sicché mentalmente gli diedi il nome di “Faccia-unta” Rimanendo sulla soglia, quello borbottò qualcosa in cui capii soltanto che il signor Pratt era arrivato, e che potevamo scendere a nostro comodo. Wolfe gli rispose che saremmo andati subito e Faccia-unta scomparve.

“Il signor Pratt deve essere vedovo” osservai, a caso.

“Ma no!” rispose Wolfe, puntando le mani sui braccioli per cominciare ad alzarsi. “E’ scapolo, me l’ha detto la nipote. E così, vi decidete a pettinarvi, una buona volta?”

Dovemmo cercare i padroni per tutta la casa, e finalmente li trovammo su una terrazza lastricata coperta da tendoni di tela. Le due ragazze erano in un angolo assieme a un giovanotto e bevevano cocktails. Più vicino a noi, seduti a un tavolino, c’erano due uomini che si scambiavano documenti. Il più giovane dei due era lindo e accurato: aveva l’aria di un agente di Borsa; l’altro, un uomo di mezza età, aveva capelli scuri che cominciavano a brizzolarsi, le tempie strette, la mascella ampia e quadrata. Wolfe si fermò, fece un passo avanti, si fermò di nuovo. I due alzarono gli occhi a guardarlo; e il più anziano domandò, aggrottando le sopracciglia: “Ah, siete voi quei tali?”

“Il signor Pratt?” domandò Wolfe, con un lievissimo inchino. “Io mi chiamo Wolfe.”

Il giovanotto si alzò, ma l’altro rimase seduto e rispose, sempre un po accigliato: “Infatti così m’ha detto mia nipote. Naturalmente, ho sentito parlare di voi; ma anche se foste il Presidente in persona vi direi lo stesso che non dovevate entrare nel recinto quando il mio dipendente vi aveva ordinato di andarvene. Che cosa volevate, là dentro?”

“Nulla.”

“E allora, perché diamine vi siete entrati?”

Wolfe strinse le labbra; ma si decise a domandare a sua volta: “Vostra nipote vi ha riferito quel che le ho detto?”

“Sì. E poi?”

“Credete che vi abbia mentito?”

“Ma… No, direi.”

“E credete che abbia mentito io?”

“Neppure” rispose Pratt dopo una lieve esitazione. E Wolfe concluse, scrollando le spalle: “Dunque, non mi rimane che ringraziarvi per l’ospitalità che ci è stata concessa, per l’uso del telefono, e per i rinfreschi che ci sono stati favoriti. La birra, specialmente, era ottima. Vostra nipote ci ha gentilmente offerto di accompagnarci a Crowfield con la vostra automobile: volete permetterglielo?”

“Immagino che dovrò farlo” replicò Pratt, sempre accigliato; e si appoggiò allo schienale della sedia, coi pollici infilati nelle aperture del panciotto. “No, signor Wolfe, non credo che mi abbiate mentito, però mi piacerebbe farvi un paio di domande. Vedete, voi siete un investigatore, e avreste potuto essere incaricato da qualcuno di… Sa il cielo fin dove può arrivare certa gente! E mi secca a morte, proprio. Oggi sono stato a Crowfield con mio nipote per dare un’occhiata all’Esposizione, e mi sono venuti dietro come una muta di cani, tanto che son dovuto ritornare a casa per sbarazzarmene. Ora, vi farò una domanda precisa, e mi aspetto una risposta precisa: siete entrato nel recinto perché sapevate che c’era il toro?”

“Ma no, certo!” rispose Wolfe, fissandolo meravigliato.

“Siete venuto in questa contrada per cercare di far qualche cosa per il toro?”

“Neanche per sogno, signor Pratt. Son venuto qui per presentare delle orchidee all’Esposizione Nordatlantica.”

“Sicché siete entrati nel recinto per puro caso?”

“Si trattava di una questione geometrica: passare per il recinto era la via più breve per arrivare a questa casa.” E dopo essersi interrotto un momento, Wolfe soggiunse, con amarezza: “Almeno, così ci sembrava”.

Pratt annuì, come per dire che comprendeva. Diede un’occhiata al suo orologio, s’alzò, e rivolgendosi al giovinotto che rimetteva i documenti nella borsa, riprese: “Va bene, Pavey, potete ripartire. Dite a Jameson che non c’è un solo motivo al mondo perché la gente non debba mangiare in questo settembre come negli altri settembri, e che quindi stia tranquillo. Quanto alle pietanze, ricordatevi quel che vi ho detto, cioè che…”

E per un po Pratt impartì istruzioni a Pavey, che era senza dubbio un suo agente; poi, quando quello se ne fu andato, si rivolse a Wolfe domandandogli di punto in bianco se avrebbe gradito un cocktail. Wolfe rispose che no, grazie, lui avrebbe preferito della birra, ma senza dubbio il signor Goodwin un cocktail l’avrebbe gradito. Al che Pratt urlò: “Bert! Bert!” e subito apparve dall’interno Faccia-unta, che ricevette gli ordini. Mentre ci mettevamo a sedere, il terzetto in fondo alla terrazza si avvicinò a noi, portando i propri bicchieri.

“Permetti, zio?” domandò la signorina Pratt. “Jimmy vorrebbe far la conoscenza dei nostri ospiti. Signor Wolfe, signor Goodwin, mio fratello Jimmy.”

Mi alzai all’atto della presentazione e s’alzò persino Wolfe: per cui compresi che egli doveva avere un suo disperato piano. Poi ci rimettemmo a sedere, e la bionda Lily si adagiò languidamente su un’amaca di tela, facendola ondeggiare lievemente.

Intanto Pratt aveva ripreso a parlare con Wolfe.

“Certo che ho sentito parlare di voi, come vi dicevo: anche privatamente. Il mio amico Pete Hutchinson, per esempio, mi riferiva che un paio d’anni or sono vi siete rifiutato di aiutarlo in una piccola inchiesta che aveva intrapresa sul conto della moglie.”

“Infatti” annuì Wolfe. “Preferisco impicciarmi il meno possibile in quelli che definirei processi naturali.”

“Il mio motto è “Ognuno fa a suo modo”“ replicò Pratt, sorseggiando il suo cocktail. ”Tocca a voi, ed a nessun altro, decidere come dovete comportarvi in quella che è la vostra professione; così come tocca a me regolare i miei affari a modo mio. Per esempio, ho sentito dire che siete un buongustaio, e che preferite piatti insoliti, purché buoni: padronissimo; ora, il mio mestiere è quello di dar da mangiare alla gente, e io credo nell’utilità di servire le stesse pietanze a migliaia di persone. La settimana scorsa abbiamo servite in media, a New York, 43.392 colazioni al giorno; e secondo me… Dite, quante volte avete mangiato nelle Pratterie?

“Io?” esclamò Wolfe, mentre si versava della birra. “Non vi ho mangiato mai.”

“Mai!” ripeté Pratt, quasi incredulo.

“Mangio sempre a casa” spiegò Wolffe.

“Ah! Capisco, la cucina casalinga ha i suoi vantaggi; ma se vi piacciono le pietanze ”fantasia“ E io ne faccio servire spesso, di queste pietanze, facendo la maggiore pubblicità possibile. Infatti, ho fondato il mio successo su due cose essenziali: primo, sulla qualità dei cibi: secondo, sulla pubblicità.”

“Combinazione insuperabile” mormorò Wolfe; e confesso che in quel momento lo avrei preso a calci, tanto mi disgustava vederlo adulare così bassamente quel Pratt, per qualche suo recondito scopo. Anzi quello sciagurato arrivò persino a soggiungere: “Vostra nipote mi ha detto qualche cosa della straordinaria carriera che avete fatta.”

“Davvero?” E Pratt diede un’occhiata alla nipote. “Caroline, ma il tuo cocktail è finito… Bert! Bert!” Poi di nuovo a Wolfe: “Infatti, lei conosce la mia carriera più di chiunque altro al mondo, perché ha lavorato per tre anni nel mio studio. Poi ha cominciato a giocare a golf, è diventata bravissima, e io ho pensato che per me sarebbe stata buona pubblicità quella di avere una nipote campionessa di golf. E ci è riuscita, infatti; così mi è stata più utile che non rimanendo nel mio studio, molto più utile di suo fratello, comunque. Infatti Jimmy è il mio unico nipote, ma non è buono a nulla. Vero, eh, Jimmy?”.

“Verissimo, zio” e il giovanotto gli sorrise. “Non valgo un fico secco.”

“Uhm! Tu lo dici per scherzo, ma io parlo sul serio. Ti sopporto proprio perché tuo padre e tua madre sono morti che eri ancora ragazzo, altrimenti… Ma perché poi io continui a spendere denaro per te, non riesco proprio a capirlo. E’ forse la mia unica debolezza. E quando penso che nel mio testamento ho lasciato tutto il denaro a te e a tua sorella soltanto perché non ho altri a cui lasciarlo, spero di non dover morire mai. Che cosa farai, tu, con un milione di dollari?… Scusate, signor Wolfe, posso domandarvi le vostre opinioni sull’architettura?”

“Ecco… Per esempio, questa casa mi piace.”

Jimmy si mise a sghignazzare; ma lo zio, senza badargli, proseguì, guardando Wolfe: “Vi piace, proprio? Mio nipote ha fatto il progetto. E’ stata finita appena l’anno scorso. Vedete, io sono originario di questa parte della regione, e sono nato proprio qui, in una vecchia capanna di legno… Ma con l’architettura, non c’è da far denari. Me ne sono accertato. Ora, come diamine un mio nipote possa essersi messo in testa di far l’architetto…”

Pratt continuò per un pezzo, su quel tono, mentre Wolfe sturava, placidamente, un’altra bottiglia di birra. Da parte mia facevo onore ai cocktails, perché non erano fatti certo coi liquori delle Pratterie. Infatti, avevo già bevuto il secondo, e me ne stavo ad osservare la bionda Lily, che si cullava nell’amaca, senza badare minimamente a Pratt ed alle sue elucubrazioni.

Poi, a un tratto, quella piacevole riunione fu bruscamente interrotta da quattro uomini, che, sbucati da dietro l’angolo della casa, irruppero a passo risoluto sulla terrazza. Poiché mi ricordavo confusamente di quel che Pratt aveva detto a proposito di certa gente che l’aveva costretto ad andarsene dall’Esposizione, e poiché avevo l’impressione, vedendo quelle facce, che potesse succedere qualche pasticcio quasi senza accorgermene misi una mano in tasca per tastare il calcio della pistola; ma mi ripresi subito, e finsi di grattarmi il fianco.

Pratt era balzato in piedi, e guardava con feroce cipiglio i nuovi venuti. Quello davanti a tutti, un ometto asciutto e nervoso, col naso affilato e gli occhi neri penetranti, si piantò davanti al nostro ospite, e cominciò guardandolo ben bene in faccia: “Dunque, signor Pratt, credo di aver risolto la cosa in modo da soddisfarvi pienamente.”

“Vi ho già detto che per conto mio sono soddisfatto, e non ho bisogno d’altro.”

“Però non siamo soddisfatti noi.” E gli occhi neri guardarono rapidamente intorno. “Se volete lasciarmi spiegare come avrei aggiustate le cose…”

“Signor Bennett, perdereste il vostro tempo. Vi ho detto e vi ripeto…”

“Permettete!” Si avanzò un altro degli intrusi, saldo, vigoroso, con un vestito sportivo grigio che era una meraviglia e relativi accessori ivi compreso un paio di guanti da autista che in una giornata calda stonavano alquanto. Aveva parlato in tono brusco, e riprese ancora più bruscamente: “Voi siete Pratt, vero? Louis Bennett, qui, mi ha parlato di questa faccenda e mi ha voluto condurre da voi. Devo ritornare a Crowfield, poi partire per New York. Mi chiamo Cullen.”

“Daniel Cullen” precisò nervosamente Bennett.

“Ah!” fece Pratt, interessato e vagamente intimidito. “Questo è un onore per me, signor Cullen. Accomodatevi. Un cocktail? Jimmy, avvicina qualche altra sedia… No, no, rimanete pure, voialtri. Signor Cullen, mia nipote, Caroline Pratt.”

E Pratt continuò a fare le presentazioni, accennando anche alle qualità dei presentati. Seppi così che Bennett era il segretario della Lega Nazionale Allevatori di bestiame, più brevemente “Lega Guernsey”; che un altro dei nuovi venuti, un uomo ossuto, dal viso stanco, dai capelli ruvidi, era l’allevatore Monte Mac Millan; e che Cullen era… era Daniel Cullen, ecco, così come Morgan è Morgan. Il quarto personaggio del gruppo, che pareva anche più stanco di Monte Mac Millan, era Sidney Darth, presidente dell’Esposizione Nordatlantica.

Fu chiamato Bert, alias Faccia-unta, e gli furono ordinati cocktails e bibite. Lily Rowan si raddrizzò per far posto ad altri sull’amaca, e io notai che Jimmy Pratt fu pronto a piazzarsi accanto a lei.

Indi Bennett riprese: “Il signor Cullen ha fretta di tornare a Crowfield, e son certo, signor Pratt, che apprezzerete il suo intervento così come lo apprezziamo noi. Non perderete neppure un soldo; e così si concluderà felicemente una questione che…”

“Secondo me è una vera indecenza!” interruppe Cullen, guardando Pratt come se volesse mangiarselo vivo. “Un delitto, anche! E la legge in questi casi dovrebbe intervenire. Come diavolo…”

“Scusate, scusate” si affrettò a interrompere Bennett. “Io ho considerato la cosa sotto tutti gli aspetti, signor Cullen, e se il signor Pratt non la vede a modo nostro… ebbene, non c’è nulla da fare: è così. Voglio dire, ad ogni modo, che ringrazio Dio che siate venuto voi a risolvere la cosa. In due parole, signor Pratt, si tratterebbe di questo: il signor Cullen ha generosamente acconsentito a ricomperare Caesar Hickory Grindon.”

“Uhm!” fece Pratt. Stette un momento in silenzio, poi domandò cupamente: “Ma che cosa vuol farne?”.

“Come!” E Bennett pareva quasi offeso per tanta ignoranza. “Ma se ha una delle più belle mandrie, qui nel paese!”

“Intendiamoci bene, Pratt” intervenne nuovamente Cullen, accigliato. “Io non ho bisogno di Caesar Hickory Grindon. Il mio toro più anziano è Mahwah Gallant Masterson, che ha generato quarantatre mucche iscritte nel Registro Extra. Ne ho altri tre più giovani, e tutti di primissimo ordine. Se compro Caesar, lo compro perché m’interesso della razza, e per rendere un servigio alla ”Lega Guernsey“.”

“Il signor Cullen dice benissimo, non ha assolutamente bisogno di Caesar” appoggiò Bennett. “Agisce molto generosamente, ma non vuol pagarvi la somma che voi avete pagato a Mac Millan, qui. Lo so, m’avete detto che quella somma gliela avete offerta voi, e gliela avete pagata, e siete contento; ma rimane sempre il fatto che quarantacinquemila dollari sono un prezzo inaudito per un toro, fosse anche il migliore del mondo. Che diamine! Nel 1932 Coldwatrer Grandee fu venduto per trentatremila dollari e Caesar, per straordinario che sia, non è Grandee, che allora aveva procreato 127 mucche e 15 tori Registro Extra! Insomma, la combinazione che vi offriamo sarebbe questa: il signor Cullen vi pagherebbe Caesar trentatremila dollari, e Mac Millan, qui, vi restituirebbe dodicimila dollari sul prezzo che voi gli avete pagato. Insomma, riavreste il vostro denaro. Il pagamento si farebbe subito, con un assegno del signor Cullen, che immagino sappiate quanto valga; e prima di sera verremmo a prendere Caesar, che il signor Cullen vorrebbe esporre giovedì a Crowfield, se, come spero, sarà in forma. Infatti ho sentito dire che lo tenete solo in un recinto.”

Pratt si rivolse a Mac Millan: “Stamattina mi avete detto che ritenevate definito il nostro contratto e che non avreste fatto nulla per ritornarvi su: come va questa faccenda?”

“Lo so, che ve l’ho detto” rispose Mac Millan; e poiché stava prendendo il bicchiere m’accorsi che la mano gli tremava un poco. “Ma mi hanno fatto… sono riusciti a persuadermi… Vedete, signor Pratt, io sono un vecchio socio della ”Lega Guernsey“ e…”

“Dovreste vergognarvi, a dir così!” proruppe Cullen. “Non sapete che per quel che avete fatto vi dovrebbero espellere dalla Lega? Pratt, qui, non sa niente di certe cose, e questa è la sua scusa maggiore; ma voi! Avreste dovuto informarvi, chiedere cosa sarebbe accaduto del toro, prima di venderlo.”

“E’ vero” annuì stancamente Mac Millan. “Ma è facile parlare per voi che siete milionario, signor Cullen! Io, invece, dopo la crisi finanziaria, come mi sono trovato? Avevo la mia mandria, e stop. Poi, un mese fa, è venuto il carbonchio; e che cosa m’è rimasto? Niente, all’infuori del gruppo di bestie Hickory, cioè sei mucche, quattro vitelli, un torello, e Caesar. Ora, che cosa potevo fare io con Caesar, in queste condizioni? Vivere con quello che mi avrebbero pagato gli allevatori che se ne sarebbero serviti per le loro mandrie? Dove sarei andato a finire? Sapevo che nessun proprietario di bestiame avrebbe potuto offrirmi una somma sufficiente, e così mandai attorno dei telegrammi a voialtri che vi occupate di allevamenti. Ma la migliore offerta che ricevetti fu di novemila dollari. Novemila dollari per Caesar Hickory Grindon! Poi, si presentò il signor Pratt, e mi disse chiaro e tondo che cosa avrebbe voluto fare di Caesar. Naturalmente io capivo che era impossibile, anche nella disperata situazione in cui mi trovavo; però la tentazione era forte, e quindi, per sbarazzarmi del signor Pratt, chiesi un prezzo esorbitante, addirittura ridicolo: quarantacinquemila dollari!” Qui Mac Millan prese in mano il bicchiere, vi guardò dentro assorto, e tornò a metterlo giù, soggiungendo quietamente: “Ebbene, il signor Pratt non fece che togliersi di tasca il suo libretto d’assegni e scrivermene uno appunto per quarantacinquemila dollari. Che cosa dovevo fare? Lo accettai. E notate, signor Cullen, che voi non mi offriste neppure novemila dollari; ma soltanto settemilacinquecento, se ben ricordo.”

“Ma io non avevo bisogno del vostro toro!” si scusò Cullen, scrollando le spalle. “Ad ogni modo adesso, restituendo al signor Pratt dodicimila dollari, ve ne restano sempre trentatremila e date le circostanze vi potete ritenere fortunato. Quel che io faccio, in sostanza, lo faccio per riguardo ai nostri allevamenti, non per utile mio. Ho telefonato al mio intendente, e non so neppure se avrò bisogno di Caesar per il mio bestiame. Ci sono stati tori migliori di lui e ce ne saranno sempre.”

“Ma non fra i vostri, maledizione!” proruppe Mac Millan, con voce tremante d’ira. “Non siete che un inetto dilettante, e parlate di…” Ma a questo punto s’interruppe, si guardò intorno, poi si protese verso Cullen e soggiunse, più quieto, ma sempre risoluto: “Insomma, chi siete voi per giudicare tori e mucche? Che competenza avete? Ad ogni modo, fate quel che volete, ma non sparlate di Caesar Hickory Grindon, avete capito? Caesar era il miglior toro che mai sia esistito, nessuno escluso, il migliore fra tutti quelli segnati nei Registri Extra. Intesi?”.

S’interruppe di nuovo, e di nuovo si passò il dorso della mano sulla bocca e riprese: “Ho detto ”era“, sì, perché adesso non è più mio… Ma non è ancora vostro, signor Cullen! Causar discendeva in doppia linea da Audace, di Burleigh; aveva procreato 51 mucche del Registro Extra e 9 tori pure Extra. Quando nacque, rimasi in piedi tutta la notte; e non aveva ancora sei ore, che succhiava queste dita qua, vedete!” E Mac Millan stendeva le dita tremanti. “Prese nove primi premi, l’ultimo l’anno scorso all’Esposizione Nazionale di Indianapolis. Dodici delle mucche generate da lui hanno dato in latte e burro più di ogni altra mucca segnata nel Registro, e ora voi venite a dirmi che non sapete neppure se avrete bisogno di lui per il vostro bestiame! Ebbene, sapete che cosa vi dico? Che sarò maledettamente contento se non riuscirete ad averlo! Per lo meno, non vi aiuterò restituendo i dodicimila dollari, capito?” Infine Mac Millan si rivolse a Bennett e concluse, stringendo le mascelle: “Tenetevelo per detto, Bennett: non fate conto su di me per la vostra combinazione”.

A quelle parole seguì un putiferio. Bennett, Darth e Cullen, davano addosso a Mac Millan, vociferando. In quella confusione non era facile capire i particolari, ma in sostanza si diceva che lui, Mac Millan, si rimangiava vergognosamente la parola data, che c’era in gioco l’onore di tutti gli allevatori e proprietari di mandrie d’America, che se una certa cosa fosse accaduta a poca distanza dall’Esposizione Nordatlantica sarebbe stata umiliante per tutti e che in fondo si trattava sempre di prendere trentatremila dollari per un toro. E via di questo passo. Mac Millan ascoltava, triste ma ostinato, e non cercava nemmeno di replicare a quelle rimostranze e a quelle accuse. Finalmente Pratt intervenne e fece cessate il tumulto urlando: “Ma insomma, lasciatelo in pace! Lui non c’entra più, avete capito? E io non voglio riavere il mio denaro, né dal signor Cullen, né da Mac Millan, né da altri, avete capito? Io ho il toro, e me lo tengo, e ne faccio quel che mi pare e piace. Non c’è altro da dire, mi sembra.”

I tre uomini lo fissarono irosamente per un bel po; poi Bennett replicò, quasi balbettando per l’emozione: “Ma non potete parlare sul serio, Pratt! Sentite… Insomma, vi ho detto che…”

“Invece parlo proprio sul serio” interruppe Pratt, più ostinato che mai. “Ho pagato per Caesar un prezzo altissimo, anche esorbitante, se volete, ma non me ne lamento. Ora è mio, e me lo tengo. I contratti sono contratti. Ho già invitato un centinaio di persone…”

Ma Bennett era balzato in piedi, e agitava le braccia come impazzito; sicché cominciai a temere che, tutto sommato, avrei dovuto rimettere la mano sul calcio della pistola.

Bennett strillava come un ossesso: “Ma come, dopo quel che vi ho detto! Non potete farlo, avete capito? Non potete, vi dico! E non lo farete, per tutti i diavoli! Siete pazzo, se credete di poterla fare franca, e una mostruosità simile l’impedirò io, potete esserne certo! A Crowfield c’è una diecina di soci della Lega che aspettano il mio ritorno, e quando sapranno del vostro bestiale rifiuto prenderanno qualche provvedimento, ci potete giurate!”

Anche gli altri due si erano alzati; e Cullen brontolò, con la sua voce bassa: “Sapete che cosa vi dico, Pratt? Che siete matto da legare, ecco che cosa siete. E, maledizione…”

“Badate che ci sono delle signore, signor Cullen!”

Cullen brontolò qualche cosa, e si rivolse a Bennett, dicendo: “Su, andiamocene. Venite, Darth. Io devo prendere il treno, e non voglio perderlo per un… per un…”

E s’allontanò a lunghi passi, senza completare la frase, seguito da vicino dagli altri due. E in pochi secondi scomparvero dietro l’angolo dell’edificio.

Vi fu un breve silenzio; poi Pratt, un po più calmo, si rivolse all’ultimo rimasto: “Mac Millan, sapete che vi dico? Che la faccia di quel Bennett non mi va a genio né punto né poco; e anche quel che diceva mi pare sospetto. Può darsi che da ora in poi si aggiri intorno al recinto, e l’uomo che ho messo di guardia non vale un gran che. So che dandovi quarantacinquemila dollari non potevo pretendere altro che il toro; ma se non vi dispiacesse di stare un po attento anche voi, che siete del mestiere…”

“Ma certo!” E Mac Millan si alzò. “Terrò d’occhio io Caesar. Anzi… Ecco, ad ogni modo avrei voluto vederlo.”

“Credete di poter rimanere da queste parti per qualche tempo?”

“Perché no?”

E con questo l’allevatore si allontanò.

Eravamo rimasti in sei, come prima: Jimmy e la sorella preoccupati; Lily che sbadigliava di noia; e Pratt accigliato. Wolfe mandò un gran sospiro e vuotò il suo bicchiere di birra.

“Tutto questo chiasso…” borbottò Pratt.

“Una cosa stupefacente” annuì Wolfe. “Già, tutto questo chiasso per un toro! Si sarebbe detto che voleste addirittura mangiarlo.”

“Ma è proprio quello che intendo fare!” replicò Pratt. “Per questo quella gente è così imbestialita”.