La cosa era alquanto strana. Il mare giù, sotto lo strapiombo della Villa Regina Margherita, era calmissimo.
Approdava nella bruna chioma della roccia col polposo frutto dell’onda, odorosa di giovani alghe.
Era una bellezza quella seratina di giugno. Alle otto e un quarto anche il venticello freddo di ponente aveva preso un’altra direzione, e la testa calva di Rorò sotto la mano di Sasà era calda come la cova dei pulcini. Segno che non sentiva freddo.
Un tramonto proprio speciale. A quell’ora un estremo raggio di sole sfruculiando, tosto, tra i rami dell’albero di Giuda, non poco ne inquietava i fioriti pennacchi arancione, che l’intimità del raggio insanguava di lume rosso. Tale e quale il cielo.
Un Paradiso. Quasi, perché a dirlo veramente Paradiso mancava un ultimo dettaglio. Essenziale però.
C’era l’albero di Giuda (Sasà vi prendeva sempre più confidenza ché un giorno o l’altro…).
C’era Rorò, come sempre, sulla carrozzina. C’era quel tramonto bellissimo seppur con tali mestrui sboffi di luce che la sera pareva non dovesse giungere mai, a precipizio dai costoloni rocciosi del Montelungo, dove già fiorivano i capperi con tanta salsedine addosso.
Ma non c’era il battito del mare. Non si sentiva il cuore del mare pulsare con tumulto e singulti a scuoterlo il petto di Sasà come sempre. Anche se il Cataratta a riguardo lo prendeva in giro e lo minacciava di lasciarlo solo alla Villa con Rorò, se non se la finiva di dire scemenze.
La spiegazione arrivò in un istante. Sasà dava al mare il fianco destro, là dov’era seduto. E di conseguenza l’orecchio destro, da cui non ci sentiva più.
Sasà lesto lesto – destrrrr sinistrrr destrrr – offrì al mare, al suo fragore, l’orecchio giusto e il mare in un attimo gli fu tutto dentro. Un secondo, meno forse, e lo sentì forte forte, come quando la mareggiata sfiancava gli scogli.
Sasà lo sentì forte il mare col suo battito di picciotto innamorato, col suo profumo d’alga e si sentì felice, come quando bambino gli riusciva di saltare la corda.
Era solo una questione d’orecchi, anche se quello destro, sordo, gli era caro – proprio perché sordo – non meno del sinistro.
Se, per caso, i discorsi del Cataratta del Pinna alla Villa gli facevano fare bile – cosa piuttosto frequente – o semplicemente quando aveva voglia di starsene solo, di starsene un po’ con le sue fantasie, si sedeva sul sedile della Villa in modo da dare al Cataratta e al Pinna l’orecchio destro sordo, e non farci il sangue amaro delle loro frecciatine velenose.
Viceversa offriva il sinistro quando quei due inseguivano i loro acciacchi e se ne stavano muti.
Purtroppo negli ultimi tempi Sasà si serviva più dell’orecchio destro che del sinistro.
«… Rorò lo senti vero?… anche tu lo senti? lo senti il cuore del mare tu, vero Rorò? non è la mia fantasia eh?» prese a chiedere a raffica Sasà, chiedendo disperatamente al cugino Rorò conferma del fatto che il mare ce l’aveva il cuore.
E chiedeva con l’accanimento e l’orgoglio di quando da bambino gli diceva: «… L’hai visto Rorò, vero che l’hai visto? l’hai visto che l’ho saltata la corda, eh? non te ne dimentichi vero?… non è che fai il Giuda eh…? sennò il cuore ti mangio… o me lo metto sotto spirito nella boccia…»
Tutto preoccupato Sasà che Rorò confermasse con un bel sì, visto che spesso ci inciampava sulla corda e ne restava imprigionato alla caviglia pallidina, per via che le gambe le aveve corte e sottili come il filo della spagnoletta.
«… Eh Rorò! che te ne pare? lo senti? il cuore d’un piccione pare… no… che bestia che sono! il cuore del mondo, del mondo c’è in questo mare qua, proprio sotto a noi, in questo spicchio di mare dove arrivano le radici dell’albero di Giuda… una fortuna da niente eh?!… per questo è bello e grande l’albero di Giuda. Un gigante una meraviglia ché proprio il mare gliela dà la forza… il mare se lo attacca al petto e gliele allatta le radici…»
E forse quest’ultimo non era che un ennesimo argomento per convincersi che proprio ai suoi rami, ai rami dell’albero di Giuda, doveva finirla la sua vita, dondolando tra rossi pennacchi con una bella corda attorno a quel suo collo mingherlino accatramato, che oramai pareva pelle da concia per stivali a quant’era rigido. Scorbutico.
«… Rorò lo senti vero? io lo so che lo senti. Vero?» tornava a chiedere Sasà, depositando l’ennesima carezza sulla testa calva del cugino, che non diceva né sì né no. Gli occhi accasciati sul petto, tenuti dentro la saracinesca di palpebre chiangiulìne allentate dalla malattia.
Eppoi, se anche non lo fossero stati prigionieri, captivi, gli occhi di Rorò, le poche volte che li spalancava, per uno scossone della carrozzina sulle buche dell’acciottolato, erano spersi nel vuoto. Con la pupilla sciallata da una glassa grigia opaca del colore dei polipi dopo la bollitura.
A Sasà faceva piacere pensare di poter dividere quella piccola gioia segreta col cugino Rorò, con cui aveva diviso anche gli istanti della nascita, oltre che tutta una vita.
Se ne confortava Sasà solo al pensiero che Rorò lo capiva, o lo compativa ché già questo tanto era per lui, dopo una vita miserabile passata a edificare progetti, destinati fatalmente a restare tali.
Come quello del grande amore con Ada – la sua sposa ne doveva fare… invecchiarci assieme… un’unica tomba… solo la morte avrebbe potuto separarli… – progetto nato e finito in meno d’un anno.
Quella volta, solo quell’unica volta – si diceva da cinquantanni Sasà come a volersene fare una ragione – era stata tutta colpa sua.
O meglio, colpa di quella sciagurata obbedienza che lo devastava peggio del vaiuolo, e che pure, nonostante tutto, sentiva di dovere più d’ogni altra cosa al mondo a suo padre, Cornelio Azzarello, Direttore didattico alle Cavour.
Suo padre l’aveva cresciuto con gli occhi, concimandolo giorno dopo giorno, istante dopo istante, quando non era che un miserabile scarafaggio tra le cosce di sua madre Tommasina.
E poi una reputazione gli aveva fatto raccontando balle a tutti, a ogni ora, con ogni tempo, pure se aveva mal di petto, pure se la testa gli scoppiava, pure se aveva le tonsille gonfie di pus, con tale sciupio di forze che certo gli aveva accorciato la vita.
Oppure il progetto più antico, fallito anche quello. Mai realizzato. D’uccidersi, di sradicarsi dalla vita senz’affanno, come una piantina di cicoria secca…
Rorò dalla carrozzina, pure se non poteva più spiccicare una parola, lo confortava già solo con la sua presenza, già solo perché c’era lì accanto a lui, in qualche modo.
Di questo era convinto Sasà che ogni giorno, con ogni tempo, da che Rorò si era paralizzato, se lo portava alla Villa Regina Margherita.
A fargli prendere un po’ d’aria poi che non gli riusciva di fargli riprendere la vita in mano, come un tempo, quando si facevano dispetti e ripicche a non finire.
Fino a che la moglie di Rorò era stata viva, Sasà andava a prenderlo a casa.
La vecchia casa col magazzino delle botti, e la rivendita di vino al minuto, quella in cui anche lui Sasà era nato, al primo piano.
Poi, morta la moglie di Rorò, Sasà andava a prenderlo all’ospizio, nel quartiere Calvario, a circa un chilometro dalla Villa Regina Margherita.
E se non ci fossero state quelle due rampe di scale in mezzo, Sasà Azzarello se lo sarebbe preso in casa, ché quanto a mangiare Rorò era rimasto tale e quale prima della botta al cervello.
Solo bisognava imboccarlo. Poi non dava problemi. Mangiava di tutto. Ingoiava ch’era una bellezza.
La malattia non glielo aveva guastato per niente l’appetito, proprio come da ragazzo quando con Sasà se ne andava nell’orto di Cantalaluna.
Un vecchio spilorcio, con una barbetta da Lazzaro, che aveva un albero di gelsi bianchi, grande quasi quanto l’albero di Giuda.
Se uno gli dava cinque centesimi, Cantalaluna lo faceva arrampicare sull’albero e poteva mangiare gelsi fino a scoppiarne.
Rischio che lui Sasà, rimasto sempre minuto nella crescita in proporzione a com’era nato, correva solo dopo averne mangiati una dozzina.
Mentre Rorò, che aveva una pancia immonda spunnata scatasciàta, ci stava ore sotto l’albero. Ci faceva notte, e non voleva saperne di scendere, nemmeno quando la campana del Carmine batteva le nove di sera e Cantalaluna minacciava di sciogliere il cane lupo dalla catena, se non veniva giù subito subito.
Poi per tre giorni se ne stava a letto con la febbre per l’intossico, e la pelle martoriata, peggio della varicella, dall’allergia al succo dei gelsi che ne rapinava il telo fino di carne delicata, tipico di chi ha l’incarnato chiaro.
E lo zio Antonino per giunta a protestare con suo fratello Cornelio ch’era tutta colpa di Sasà se il suo figliolo dava di stomaco giorno e notte, con la febbre che se lo mangiava, e tale doglia di visceri che pareva perderle le budella.
Rorò e Sasà sempre insieme erano stati, anche quando s’era deciso che Sasà andava a Padova per l’università.
Sì, anche in quel caso Rorò e Sasà erano partiti insieme. Stesso vagone letto, stesse cotolette fritte nell’olio d’oliva, stesse arance incartate nella cartavelina. Quella che usavano le ricamatrici di Mirabella per copiare i disegni dalle riviste di città.
C’è da dire che, quanto a studiare, Rorò era stato duro come l’uovo bollito che a Pasqua si metteva sulle forme di pane, assieme alle palombine di zucchero.
C’era voluta tutta l’autorità di zio Cornelio, e il vino di nonno Rolando, per fargli avere un diploma magistrale in un istituto parificato dove anche alle pietre veniva assicurato il diploma.
Per cui chi ragliava, dimostrando di non essere pietra ma asino – il caso di Rorò – era già un genio.
Quello della scuola era stato un cruccio per Antonino Azzarello, il padre di Rorò, perché il ragazzo scappava dai libri come fossero ortiche spinose.
E questo già dalle elementari Cavour, dov’era direttore suo fratello Cornelio.
Cornelio certo lo proteggeva il nipote, più per un fatto di razza, di potere, che per affetto.
E che? si poteva dimenticare che a momenti quella bestia lo fregava per sempre il suo Sasà, se non ci fosse stato lui lì pronto, con l’astuzia della sua favella, a rivoltare la frittata?!
Comunque, poiché lui era il capo, raccomandava Rorò ai maestri, pontificando sulla sua autorità di Direttore; ripassava a suo talento i voti del ragazzo sui registri, e quant’altro serviva a non fargli perdere l’anno.
Così Rorò, alle elementari, anni non ne aveva persi. Anzi alla licenza pure buoni voti aveva avuto.
Sempre per rispetto allo zio Cornelio, ché poi li favoriva i maestri. Chiudeva un occhio sulle malattie, sui permessi ecc…
Ma quanto pesava quell’interessamento di suo fratello Cornelio ad Antonino!
Quel sottostare al suo carnefice, al carnefice di suo figlio che per giunta ne diventava il salvatore. L’angelo custode!
Il sangue amaro si faceva ogni volta che si incontravano, lui e Cornelio, e poi a casa erano tutte pedate per Rorò che lo costringeva ad abbozzare, a mostrare gratitudine al suo boia!
«… Ah questo tuo figlio, Antonino! cose dell’altro mondo…» e giù un sospirone lungo quanto un rutto! «Fortuna che ci sono io! quant’è bella la cultura!…»
Poi Cornelio cominciava a profondere elogi al suo Sasà: «… A scuola un vero portento… che domande intelligenti… che intuizioni… i maestri restano a bocca aperta… buon sangue non mente… buon sangue non mente…»
Logicamente il buon sangue che non mentiva era il suo. Ma di questo se ne serviva anche come arma a doppio taglio contro Rorò.
Perché, se da una parte valeva a riaffermare l’antica incontrastata intelligenza di Cornelio, la sua superiorità sul fratello Antonino, dall’altra rinnovellava la stessa mazurca a proposito di Sasà e del cugino Rorò. Intelligente il primo, cretino il secondo.
Il povero Antonino se ne faceva tutta bile, perché era convinto che Sasà aveva buona parte di responsabilità degli assurdi comportamenti di Rorò.
Ci metteva lo zampino Sasà a che Rorò sembrasse più cretino di quanto non fosse.
In buona o mala fede quel maledetto ragazzaccio continuava a danneggiarlo il suo figliolo, già dal momento in cui, piccola larva nera schifosa, era venuto al mondo tra le cosce d’insetto di sua madre Tommasina.
Pur s’era nato mostriciattolo e secondo, a lui erano andati i complimenti e lo stupore gli accrescitivi e le esclamazioni ché quel bastardo di Cornelio era stato un vero diavolo a rivoltare la frittata a tutto vantaggio del suo insetto primogenito.
E del suo Rorò ch’era nato bello biondo, una vera meraviglia, pezze n’avevano fatto. Pezze.
Mille esempi confermavano l’ipotesi di Antonino riguardo al fatto che il nipote Sasà fosse l’artefice delle infinite cretinaggini che poi si attribuivano al suo Rorò.
Come quella volta che lo aveva trovato (Rorò aveva dodici anni appena compiuti) nel terrazzino dietro casa, coi ginocchi per terra e il cane accanto.
Abbaiavano Rorò e il cane: bau… baubau… bau… baubaubauuuuuuu bau bau bauuuuuu e ancora bauuuuuuu…
Finiva il cane e attaccava il figlio, e viceversa. Alla fine si esibivano in duo, contemporaneamente, con tale frastorno che tutto il vicinato aveva protestato di santa ragione.
Era agosto e per lo più si dormiva con le finestre aperte tra il corteggio spietato delle zanzare e la luna sparata in faccia. Ne entrava un po’ di fresco su dal mare, ne usciva l’agro tanfo di piedi e naftalina.
Quella non era notte di luna piena. C’era sì e no un quarto di luna, ma tale lo scintillio delle stelle come solo d’agosto succede.
Antonino, lì per lì, aveva pensato a una botta di sole presa al mare dal suo Rorò.
… Le teste bionde sono delicate… bisogna starci attenti… il sole lo cuoce il cervello a stufatino… rintrona per la calura!
Antonino pensava che fosse l’effetto di un’insolazione, ma si sbagliava di grosso.
La verità era lì, a un palmo dal suo naso. Diversa e terribile.
Sasà aveva detto a Rorò che la luna faceva i capricci quand’era arrabbiata con le stelle. Per questo s’affacciava dal cielo per un quarto appena.
Che, però, un sistema c’era per farla venire fuori tutta quanta tonda e lucente, pupilla d’argento nel lucernaio del cielo (citazione testuale): bastava chiamarla, solo chiamarla.
Come? abbaiando più dei cani nelle notti di luna calante. Se la voleva vedere tutt’intera, bella tonda, Rorò non doveva fare altro che abbaiare. Solo abbaiare.
E Rorò, che quando parlava Sasà lo ascoltava parola per parola a bocca aperta, aveva abbaiato.
Come sempre in difesa di Sasà era intervenuto suo padre, Cornelio, con tale abundantia e magnificentia d’argomenti che, come sempre, i termini della questione ne risultavano capovolti. Da bianco a nero!
Rorò era il cretino imbecille che prendeva alla lettera – incapace di qualsiasi esegesi (citazione testuale) – le poetiche metafore di Sasà… sbraitava Cornelio concludendo che questo era il ringraziamento per avergli fatto avere ogni anno la promozione.
Di Sasà si disse ch’era un’anima gentile, un vero poeta a soli dodici anni, tanto generoso da perdere tempo appresso a una rapa, a un cretino. Senza tenere conto della distanza che lo separava da Rorò. Un vero abisso!
Anche nonno Rolando prese le difese di Sasà, seppure di poeti e metafore non ci capiva un fico secco.
Lui di vini capiva, di gradazioni alcoliche, di vigneti d’affari e sensalìe.
Che Sasà era un ragazzino eccezionale saltava agli occhi di tutti, senza bisogno d’essere allittràti.
Persino Carolina ne faceva un attributo d’intelligenza del piscio che le accecava tutt’e due gli occhi con l’acrore e l’acido dell’urina, ogni volta che Sasà di pochi mesi, libero dall’impiccio del panno, le pigliava dritto dritto il centropupilla!
«… Lo capisce lo capisce apposta lo fa… quant’è intelligente… approfitta di quel momento… quant’è intelligente…»
Poi regolarmente a tavola Carolina ne riferiva a Cornelio che ne beava e mangiava con maggiore appetito.
Mentre Rorò, che non pisciava in faccia a nessuno, come si faceva a dirlo intelligente? Cretino era, e cretino restava.