«Rorò siamo arrivati. Hai visto che bella seratina abbiamo passato noi due questa sera alla Villa senza quel Cataratta tra i piedi?… Come ai vecchi tempi, vero Rorò? ah vecchio mio… anzi meglio dei vecchi tempi… però che carognata! ti ricordi quella volta del telegramma? io ti ho perdonato… sicuro altro che! se ti ho perdonato… Roruccio mio… poi ora che della famiglia Azzarello noi due soli siamo rimasti o ci vogliamo bene o ci vogliamo bene è vero?… Te lo ricordi il nonno Rolando che pareva una botte, a quanto puzzava di vino? te lo ricordi che diceva degli Azzarello? “Razza d’oro” diceva “buon sangue… come le querce sono gli Azzarello…”»

Giunto alla similitudine di nonno Rolando, quella delle querce, Sasà giudicava che non c’era paragone migliore. E lì si fermava.

Lui e Rorò, sia pure per accidenti diversi, erano stati sbattuti dalla vita come panni alla fonte. Un colpo qua uno là… la vita non gli aveva risparmiato niente dal sacco dei dolori… mentre più avara era stata con la gerla delle gioie… ma forse neanche questo era vero al cento per cento…

Non era una gioia il cuore del mare che lui, lui solo, Sasà Azzarello poteva sentire a dispetto di quella bestia del Cataratta?

E le glicinie della Villa che davano colore al cielo attorcigliandone i fianchi il ventre e ne reggevano le nuvolette basse aggrondate che minacciavano tempesta pure se a vederle sembravano fatte di zucchero a velo, non erano forse una gioia? uno stupore?

E la roccia bruna sotto la timpa cha da mille anni e più, stretta in un amplesso d’onde, sfidava i raggi del sole offrendogli il proprio corpo, non era una gioia anche quella?

A questo punto Sasà si rivolgeva nuovamente a Rorò cercandone col contatto delle sue dita esili la conferma d’una vita spersa, accucciata in qualche canto. Un’anima che sotto lo sfacelo del grasso del torpore dell’annichilimento doveva pur esserci. Doveva.

«Il fatto è Rorò che da giovani non l’abbiamo capito… da giovani cretini eravamo tutti e due non solo tu… cretino anch’io anch’io…»

Rorò parve esserne contento di quella denuncia di stupidità che Sasà faceva di se stesso, pure se dopo avere passato una vita intera a sentire proclami dell’intelligenza di Sasà, della genialità di Sasà.

Ma forse la contentezza di Rorò era solo un’impressione di Sasà, disposto a definirsi cretino, pur d’averne una minima spia di quella vita inerte sulla carrozzina.

«Eravamo due cretini… io soprattutto Rorò» Sasà incalzava sulla sua stupidità, se mai forse poteva essere terapeutica per Rorò.

«Io asino ero, Rorò, io che pensavo alla felicità e all’infelicità come a due cose distinte e separate. Due mondi a parte che non spartiscono niente. Invece non era così… nella felicità c’è spesso l’infelicità e viceversa… ecco per esempio il mio amore per l’Ada è stato la più grande felicità della mia vita, ma anche la più grande infelicità… Ne sei convinto cugino?»

E andava avanti coi suoi postulati, con le sue analogie, felice del fatto che con Rorò se lo poteva permettere, mentre col Cataratta… lasciamo perdere!

«Quando uno è giovane Rorò ha un solo occhio. E con quello una volta vede il bene, una volta il male. A turno, separatamente. Quando uno è vecchio Rorò mio ci vede con tutti e due gli occhi… Il bene e il male li vede insieme. E così pure il cielo e il mare, insieme. E il fusto e la foglia della vita, insieme. Mi capisci, Rorò?… e allora tutto si spiega… tutto col miracolo di due occhi che ci vedono alla perfezione! Insieme. Gli occhi Rorò… sono gli occhi che contano» Sasà non si riferiva di certo ai bulbi oculari «gli occhi non le orecchie… solo gli occhi… aperti insieme allo stesso momento a che quell’occhio, quell’unico occhio della giovinezza, non la faccia da padrone con la scusa di saperla lunga sul mondo, sulla felicità, e tutto il resto. Quando da vecchi anche l’altro occhio comincia a vederci, il primo non può più spadroneggiare, non può più fare il furbo… evvero? l’hai capito che va così vero Rorò mio?»

Tutte queste domande a Rorò Sasà le faceva davanti al portone chiuso dell’ospizio. Senza avere cuore di suonarlo il campanello, senza averlo il coraggio di dire: – «Rorò ci siamo», diceva invece: «…domani alla solita ora Rorò, intesi? non mi fare lo scherzo eh eh?… lo scherzo che muori prima e mi lasci solo. Ah lazzarone non ti permettere! E che? tutto tu vuoi? la nascita e la morte? Primo nell’una e primo nell’altra?… no! eh?! questa volta a me tocca a me… tu ti sei preso la nascita… io la morte… sennò speriamo insieme tu e io. Lo stesso istante non un attimo prima né uno dopo prometti?… Non mi fare lo scherzo! hai promesso…»

Arrivati alle promesse il portone era già aperto a mezz’anta. Davanti, un tizio, l’ausiliario d’ogni sera, con zoccoli grandi ai piedi e un odore insopportabile di birra addosso.

Ogni sera la stessa storia, pareva dicesse il tizio in attesa di riprendersi la carrozzina e Rorò.

Ogni sera questo pazzo rimbambito che parla parla e mi lascia qui davanti come un minchione…

Ogni sera Sasà si scusava puntalmente con mille convenevoli, tale accorato che il portantino rinunciava a rimproverarlo forse – pensava Sasà – per via che i vecchi nessuno li piglia sul serio.

Lui comunque si scusava con grande riguardo col portantino (chissà la sera appresso glielo faceva stare un minuto in più con Rorò. Quella la speranza).

Di che si scusava infine? di volersi aggrappare a un troncone di vita che se n’andava sempre più lontano da lui, come una conchiglia quando se ne va e sceglie per sé un altro scoglio?

Non poteva più sceglierselo un altro scoglio, non c’era più tempo. Né poteva farlo Rorò. Tardi era per l’uno e per l’altro. Lo scoglio vecchio inerme quello era e quello doveva restare.

Il portone si chiudeva infine con una pedata, con un botto che Sasà sentiva pure dentro l’orecchio sordo.

Per fortuna giusto in tempo a che il piccolo gomitolo di lagrime raccolte nell’incavo delle costole sul torace non gli facesse umido al petto.

Poi per strada continuava sottovoce a parlare con Rorò: «… Rorò domani alla stessa ora alla Villa sicuro vedrai che pomeriggio che sole… il Cataratta d’invidia lo facciamo morire… la carognata… ricordi?… il telegramma… scherzi niente intesi? intesi?»

Qualche volta, quand’era certo che solo la luna potesse sentirlo, alzava la voce mentre le gambe riprendevano forza ormai a metà di via delle Croci, dov’era la sua casa.

Pure se non c’era che uno svaso di luna quella sera in via delle Croci, con gli occhietti da sorcio frastornati da qualche lacrima, Sasà guardò per terra tra le basole nere se mai c’era il guscio o la zampa o la testina della tartaruga Giuda.

No! non c’era! per fortuna non c’era! L’avrebbe vista più tardi o domani sbucare dal lavandino o chissà da dove. Vispa e grassa come sempre.

Sulla tovaglia di plastica del tavolino poggiò il piatto con la lattuga cotta, ci mise un bel po’ a trovare l’olio. La lattuga non sapeva di niente, s’era scordato di mettere il sale nell’acqua della bollitura. Come sempre.

Dal lavandino sbucò un occhio. Poi l’altro della tartaruga Giuda che gocciolava come il vaso di basilico quando Sasà abbondava con l’acqua. Segno che Giuda era stata ad aspettarlo al fresco, sotto il lavandino che perdeva già da un anno.

“Dovrò compiacerlo per un po’ di tempo quel caprone del Cataratta… un giorno o l’altro la casa mi si allaga… e pure un filo elettrico scoperto c’è nel cesso…” pensò Sasà mentre insaporiva con pezzetti d’aglio crudo la lattuga bollita.

Per la lattuga non ci volle che qualche minuto, nemmeno la fatica di masticare. Sotto l’acqua del rubinetto Sasà lavò il piatto che rimase con l’olio addosso, e andò a coricarsi al buio perché la bagiù sul comodino aveva l’interruttore rotto.

Come ogni sera stava per tirarsi sugli occhi la coperta di filo e sparirci sotto col suo mucchietto d’ossa silenziose quando uno spicchio di luna snidando per la tapparella andò ad accucciarsi in quella sua scarda d’occhio nero.

Sasà pensò che, se proprio non gli riusciva d’impiccarcisi all’albero di Giuda, avrebbe acconsentito anche a morire di morte naturale, pure se gli toccava aspettare ancora, a patto però di morire prima di Rorò, anche solo un attimo prima…

«Ma no! che bestialità vado dicendo?» si rimproverò come a rimangiarselo quel cattivo pensiero. «Sempre cretino sono, pure a quest’età?»

No. Voleva rispettarlo l’impegno. Insieme a Rorò voleva morire. Non un attimo prima né uno dopo, ma nello stesso istante. Insieme.