«È nato è nato è nato…» gridò con quanto fiato avesse in gola Cornelio, ora che la lingua gli scivolava meglio dell’olio sul palato. Ora che aveva ripreso animo.

E più lo guardava quel mostriciattolo, più lo trovava vispo vivace di buon colorito.

Il piano funzionava alla perfezione – non per niente era intelligente Cornelio.

Un attimo e la stanza fu piena. Ora il parapiglia s’era trasferito nella camera di sua moglie, Tommasina, attrunzàta dentr’al letto…

Persino la cognata era balzata di scatto, come niente, con l’utero che perdeva sangue, per la curiosità di vederlo il figlio di Cornelio. S’era maschio bello e grosso come il suo.

Pure se aveva appena partorito, con la placenta insanguinata che le cascava sulla coscia correva quell’asinaccia maligna.

Dello sforzo del parto non le restava che un minimo pallore sullo zigomo – di solito ce l’aveva rosso come il gozzo nei tacchini.

Un pallore pressappoco come quando andava al cesso per il bisogno grande e ci restava ore dopo una mangiata di carrube.

Anche la levatrice era accorsa per tagliare il cordone che legava il bimbo a Tommasina, lasciando Rorò, nudo e solo, in mezzo al letto, nell’altra stanza, che pisciava come lo sgriccio della fontana in Piazza.

Il piano funzionava a meraviglia… Non c’era nessuno in camera se non il bambino, che veramente doveva pesarli sette chili. Enorme, una giogaja di grasso sott’al collo che pareva strutto.

Di sicuro sui nove anni avrebbe avuto il diabete – questa la diagnosi di Cornelio quando, a fronte di quel ben di Dio, ripensò al suo.

Magrino come fosse nato di sei mesi. E chissà che quella scimunita di Tommasina non si fosse sbagliata!

Ma ora quel moccioso con lui doveva vedersela. Altro che collo taurino doveva dimostrargli d’avere!

Ora sì! sì che si sarebbero fatti i conti, ora che non si trattava di fesserie: spalle braccia natiche.

Ora ben altro doveva possedere!

Cornelio accostò il suo mignolo destro all’inguine del bambino, per misurarglielo con la stessa misura che aveva usato per il suo.

A occhio e croce gli sembrava uguale. Invece no. Felicità! Magnum gaudium!

Il mignolo diede a Cornelio conferma del suo sospetto, e con essa, la felicità. La Resurrezione.

Anche se in ragione di qualche millimetro, il suo primogenito ce l’aveva più lungo più vivo più mariuòlo si poteva dire intelligente.

Se poi si teneva conto del rapporto col corpo secondo la scala capitale-peso, il capitale del nipote Rorò in relazione al maialetto che era, non era più grande del pisello d’un beccaccino.

L’uccello, invece, che più serviva a dare l’idea del sesso del suo figliolo Sasà, era il falco o lo sparviero.

Al settimo cielo per questa sospirata conferma che ridava onore privilegio al suo Sasà, Cornelio era rientrato nella stanza di Tommasina.

La levatrice col gozzo a pera che pescava tra i seni sudati aveva fatto il suo dovere: liberare il bambino da quella scimunita di Tommasina che l’attanagliava con le sue coscette grige dalla carne a squama come le triglie.

Del resto la circonferenza della coscia non superava quella d’una triglia quando ha in pancia le uova.

Nessuno fiatava davanti al figlio di Cornelio. Proprio nessuno. Nemmeno nonno Rolando, con tutto che Cornelio era il suo preferito.

E che c’era da dire?

Grosso non era, bello non era, biondo non era…

Ognuno dei presenti guardava sconsolato il bambino nella speranza di trovarvi un qualche motivo di stupore in quell’esserino che pareva partorito da una gatta randagia e con la rogna.

I capelli per esempio… macché! solo peluria aveva… una peluria nera.

Oppure gli occhi… ma neanche gli occhi offrivano appiglio… due occhiellini miserabili.

Cornelio si disse che toccava a lui e forte dell’imperativo cosa non fa un padre per un figlio cominciò sparato dal capitale: «Quello che conta in un maschio non è quello che si vede, ma quello che non si vede a prima vista» esordì con quella parlata furfantesca, col tono di voce di chi la sa lunga.

Antonino che lo sapeva quant’era imbroglione lazzarone furfante Cornelio, al contrario di lui ch’era tutto d’un pezzo, senza riserve mentali, senza trabocchetti, pensò subito: “Qua si mette male.”

E aveva proprio ragione. Ne trovava conferma un attimo dopo con lo sviluppo dell’orazione del fratello, che in quel punto era appena alla fase dell’esordio. Cornelio era una volpe in tema di raggiro. A che non si pensasse ch’era cosa studiata, quella del capitale, per valorizzare il suo Sasà, proseguiva prendendola alla larga.

«Di grosso non è grosso il bambino… ma i grassi si ammalano e fanno il diabete già da bambini… i magri sono scattanti e tutto cervello… Nello sport? magri li vogliono… a dieta li tengono… s’è visto mai un campione grasso?… mai e poi mai… Chi lo veste meglio un doppiopetto: uno grasso o uno magro?… non si discute vero?»

Antonino non lo sapeva dove Cornelio volesse arrivare con tutta quella tiritera.

Già faceva bile, però, e pensava che fosse proprio spudorato Cornelio a magnificare, sia pure in modo ambiguo, non diretto, con strani interrogativi e negazioni, quella cacca di rospo che solo le gambe dicevano appartenere alla razza umana.

Non sapeva, però, il povero Antonino che il peggio doveva ancora venire, di lì a un istante, a intossicargli l’orgoglio di padre, ad avvelenargli la felicità d’un attimo prima di fronte a quel suo figliolo, ch’era il trionfo della bellezza e della salute.

Era chiaro: Cornelio schiattava dall’invidia. Anche i muri lo capivano.

Il peggio arrivò col fragore del tuono quando prima non spara il lampo.

«Avete visto che capitale ha questo mio figliolo… questa sì! che è una gran dote di natura… mica nascono tutti con questa lupara qui.»

Assieme alla parola lupara, che altro non era se non l’inguine del bambino, Cornelio, con gesto plateale, sollevò il panno che ne copriva i genitali, con gesto solenne del braccio, come paladino che sguaini la spada dal fodero.

Lo fece con tale eleganza ed epicità di gesti che il sesso del bambino a fronte del corpo mingherlino pareva davvero enorme. Raddoppiato.

Tutti ne rimasero imbambolati, come serpenti al suono del piffero. Narcotizzati, ma più per un fatto di suggestione di teatralità.

Tanto bastava però a che Cornelio realizzasse il suo fine: ridare al figlio quel primato che il caso o meglio la scimunitaggine di Tommasina gli avevano negato.

L’altro era primo in ordine di tempo? e il suo lo sarebbe stato in ordine di cazzo, primo. Di testa, di cervello d’intelligenza, di tutto.

“Ora che li aveva tutti in pugno, gli occhi ipnotizzati sul sesso ignudo del suo Sasà, ora era tempo di rincarare la dose, di raddoppiare il fuoco” pensò a ragione Sasà.

«… Uno ogni mille facciamo ogni centomila nasce così… che fortuna!… gli altri invece si devono accontentare d’un cosino piccolo come quello dei galletti, specie se sono grassi perché è cosa vecchia, si sa, se c’è grasso non cresce nervo… il grasso se lo mangia il nervo… meglio magri…»

L’allusione al figlio d’Antonino era chiara evidente intollerabile. Una macchinazione bell’e buona, una calunnia da perdersi l’anima.

Che andava a fantasticare quel delinquente pur di far primeggiare il suo livido scarafaggio?!

“Cosa non tramava quel farabutto” pensava inferocito Antonino “pur di sacrificare il suo figliolo ch’era nato per primo, e col vanto d’un sesso speciale… una mitragliatrice… tale che nonno Rolando, intorciniandosi al mignolo i baffetti rossicci crespolini, aveva detto soddisfatto compiaciuto come a me come a me…

Facciadicane facciadintàgghio! come osava calunniare l’onore del suo figliolo Rorò, vanto della razza Azzarello, nato primo?!

Tutta invidia, sicuro invidia… Perché Tommasina una larva di verme solitario gli aveva partorito, non un figlio!

Questa era la verità nuda e cruda. Era solo un fatto d’invidia.

Antonino lo sapeva benissimo che non era capace con la chiacchiera di sposare una causa pur giusta.

Come sapeva di non essere capace di dire due parole, una appresso all’altra, e rischiava, a fronte della favella rutilante di Cornelio, di fare una figura meschina da imbecille. E si rodeva di non essersi preso il diploma, come il fratello.

Solo il loro padre, Rolando, poteva salvarlo, solo la sua saggezza la sua autorità il suo intervento in nome della giustizia poteva ristabilire equilibri e verità, mandati a farsi friggere da quel bandito di Cornelio.

Con gli occhi imploranti Antonino glielo fece capire a suo padre ch’era tempo d’intervenire, ch’era tempo di difenderlo il nipote nato primo, bello e grosso come un angelo. E suo padre intervenne.

Non l’avesse mai fatto!

Intervenne da carnefice del suo Rorò. A tutto favore di quel mostriciattolo che pareva vomitato da un’anguilla.

Intervenne in favore di chi gli faceva perdere l’unico punto di vantaggio di tutta una vita, nei confronti di Cornelio, che aveva avuto la meglio sempre, che aveva deciso – prepotente arrogantaccio – d’ogni cosa della famiglia.

E lo perdeva quell’unico vantaggio solo cinque minuti dopo averlo conquistato.

Non era giustizia quella! un’infamia era!

Anche suo padre si comportava da predone, da vero farabutto nei confronti della sua creatura appena nata, mascherando in modo ignobile la verità, aggrappandosi al piolo che gli offriva Cornelio, il suo preferito.

Tutte menzogne, fandonie, un imbroglio meschino ai danni d’un innocente: il suo Rorò.

Bello come una rosa di maggio, un bocciolo, che ora doveva soccombere innanzi a quel mostriciattolo appirrognato.

Un’ingiustizia bell’e buona, certo!

Però, per capire bene come stavano le cose, bisogna dire che anche il padre d’Antonino, Rolando, la pensava come il figlio Cornelio riguardo al suo Sasà.

Cosa non fa un padre per un figlio!

Cosa disse il vecchio? Due cose, una riguardo a Sasà, l’altra riguardo a Rorò.

Medesimo l’argomento: il capitale.

Riguardo a Sasà, il figlio di Cornelio, nonno Rolando disse testualmente: «Ragione hai Cornelio… è uno sproposito questo tuo figliolo… una meraviglia della natura… fortunato sei stato figlio… proprio una fortuna tutto il paese lo saprà… con un capitale così!!!»

Riguardo a Rorò che pure era nato per primo e portava il suo nome ci fu una ignobile frenata, una retromarcia: «Giusto… normale… un capitale giusto… giusto… ha il bambino… però che spalle da scaricatore di porto!» dove giusto valeva per così così mediocretto se non peggio.

Mentre Antonino voleva sentirsi dire sproporzionato uno sconcerto uno spavento…

“E poi chi se ne fotteva delle spalle del bambino?” si diceva masticando acido Antonino.

Erano grandi da scaricatore, erano così erano colì…

Del capitale voleva sentirli gli spropositi Antonino, altro che spalle!

Che c’entravano le spalle? I punti di vantaggio col cazzz… s’acquistavano, non con le spalle né coi piedi!

Il vecchio questo lo sapeva perfettamente, eppure si rimangiava tutto, con un voltafaccia spaventoso.

Pronto a vendersi l’anima, ad andarci con tutte le scarpe all’inferno.

Pronto a sacrificare insino la sua virilità il suo sesso che attimi prima aveva definito tale e quale a quello di suo nipote Rorò; sesso che ora diventava appena giusto, appena passabile.

Pronto a pestarlo sotto i piedi quel suo trionfo di mascolinità, che pure per tutta una vita aveva magnificato esaltato, trascinando in quello scempio, in quell’assassinio, il suo Rorò.

Un innocente appena nato che col marchio infamante della normalità avrebbe dovuto camparci tutta una vita! E Dio sa quale vita, a Bulàla!

Tutto in nome di Cornelio, profanazioni calunnie menzogne, pur di dare ragione al suo figlio preferito Cornelio.

Antonino non se ne dava pace, rischiava di diventarci pazzo. Pallido come la morte lui ch’era sempre colorito.

Possibile che il mondo si fosse rigirato sotto i suoi occhi da un attimo all’altro?

Ora stava su quel che prima era giù, e viceversa?

Il suo figliolo ora era solo bello grasso biondo, ma aveva perso la supremazia lo scettro l’impero del capitale.

Quell’impero purtroppo passava a Sasà che se lo sarebbe tenuto stretto strettissimo tutta la vita, pure s’era tutto un imbroglio.

Ma poi che lo sosteneva il nonno Rolando, non c’era da fiatare. Battaglia persa per sempre. Senza speranza alcuna di rivincita.

Rolando Azzarello, massima autorità della famiglia, aveva emesso la sentenza con un verdetto terribile iniquo fatale.

Il suo figliolo, Rorò, nato primo, di fatto da quel momento passava al secondo posto, come dire ultimo, come dire: duedimazze. Secondo in quello che più contava sulla faccia della terra: la mascolinità, il capitale.

Quello per cui a Bulàla si facevano le graduatorie di merito.

Quello per cui ci si sfidava a duello sulla piazza, per cui ci si ammazzava, o comunque si faceva la scena.

Essere nato primo rispetto a Sasà non contava più niente, non valeva nemmeno il fatto di portare il nome del nonno, Rolando.

Quel vuccazzaro di Cornelio con la sua parlantina da furfante l’aveva avuta vinta.

Quanto poi al concorso di Direttore didattico che ogni due e tre tirava fuori, lo sapeva benissimo Antonino come se l’era procurato, o meglio come suo padre – Rolando-Giuda – glielo aveva procurato.

Una botte grande di vino, la più grande tra quelle del magazzino, c’era andata di mezzo!

Questi i pensieri d’Antonino che, sbiancato in viso come cera, giù da basso riapriva la rivendita di vino al minuto. Erano pressappoco le cinque del pomeriggio di quel fatidico sciagurato tredici agosto.

Il giorno s’era ormai consumato e il cielo sfrattava l’ultimo sbavo di luce, mentre sul campanile un corteggio di rondoni dicevano prossima la sera.