Che il suo cervello si fosse inferocito a furia di continue incursioni e aggressioni nel corso di quasi cinquantanni, Sasà lo capiva benissimo.

E che ci voleva un genio a capirlo?

Pure se, a suo modo, lui un genio era. Un genio veramente. Tale che il Cataratta, pure se ormai erano vecchi, se ne marciva il fegato d’invidia per la sua genialità l’intelligenza l’estro.

Quello, però, che Sasà non riusciva proprio a capire era che il suo cervello, con tutte le ragioni di questo mondo, se la fosse presa proprio con lui, col suo infelice incolpevole orecchio.

A un certo punto s’era proprio stancato di quel torpore che gli amminchioniva i nervi, gli rapinava quella vivacità di movimenti che a settantanni era proprio una grazia di Dio, e aveva mandato al diavolo decotti e tisane.

Poi che non c’era verso di guarire, se lo sarebbe tenuto quel zzzzuuuuuuuzzzz che lo ’nzalanìva, lo stordiva già alle sette di mattina quando metteva i piedi a terra e scalzo per prima cosa andava al cesso.

Dopo due anni, quando ormai s’era rassegnato a patirli i moschiglioni nelle segrete del suo orecchio, una mattina che s’era alzato con una punta d’acido, non li sentì più.

Sulle prime non ci fece caso. Sua moglie Maddalenina era morta da poco e gli toccava armeggiare alla rinfusa tra barattoli di timo calendula pepe bianco origano e rosmarino alla ricerca del bicarbonato a quietargli la furia delle budella feroci come non mai.

Nella notte s’era cacciato un dito, poi due, infine tutta la mano in gola per vomitarlo quel fuoco che gli avvampava laringe e gargarozzo, quel veleno che lo intossicava peggio d’una medusa, ma inutilmente.

La sera prima aveva mangiato pecorino coi vermi, una cipolletta rossa, ed ecco spiegata quella vampariglia alla bocca dello stomaco.

L’acido se n’era rimasto acciambellato alla bocca dell’anima e lui, Sasà, stralunito, gli occhi nichinichi in fora sul precipizio delle poche ciglia inseccolite, ci aveva fatto tutta la notte nel cesso con la bocca aperta sulla tazza del gabinetto. Rischiando seriamente d’ingoiarsela la dentiera, come già gli era successo una volta.

Poi, dopo tre giorni, un litro di vaselina, una dozzina di prugne secche, l’aveva cacciata tra la fitta serpaia delle emorroidi, nel vaso da notte.

Forse per via dell’acido, o forse perché non aveva chiuso occhio tutta la notte sulla tazza del gabinetto, in principio Sasà non se ne accorse che il ronzio era sparito del tutto e che nell’orecchio c’era solo silenzio. Un silenzio di tomba.

Sasà se lo toccò l’orecchio, se mai ci fosse ancora quella cartilagine sottile come un’ostia, color melenzana, che ne raccoglieva il padiglione grande a ventaglino. Con la paura di trovarselo in mano poi che non se lo sentiva più dopo due anni di vere torture.

Non sentiva niente. Solo silenzio. Un paradiso, un oceano di silenzio. L’orecchio c’era, al suo posto come sempre. Solo un po’ più spampanacchiato del solito per via dell’età.

C’era anche il lobo, tale sottile che pareva la sfoglia per il cartoccio di ricotta e cannella, quando i panettieri, alle cinque di mattina, se la scordavano in forno e bruciacchiava un po’.

La prima cosa che gli venne in mente fu che il suo cervello si fosse mosso a pietà per lui e che volesse graziarglieli quegli ultimi anni, quegli scampoli estremi di vita, risparmiandogli le torture dentro l’orecchio.

Non fece in tempo a rallegrarsene del miracolo che per il tremolizìo delle mani gli cadde a terra il cucchiaio, seguendo la traiettoria del fianco destro.

Sasà si chinò a raccoglierlo reggendo con una mano i pantaloni del pigiama che aveva l’elastico vecchio sdilabbrato e mentre era piegato in due, con la faccia che quasi toccava la maiolichetta del pavimento, fece una scoperta straordinaria.

L’orecchio sinistro catturava ogni minimo rumore. Le scaglie del pavimento urtate dall’unico bottone del pigiama – gli altri erano saltati nel tempo, uno a uno – il trasalire del cucchiaio contro la tazza, l’onda mansa del latte appena sciacquariata dal transitare del suo pugno. Il cardellino rosso della vicina e tutto il resto.

L’orecchio destro, invece, restava in un silenzio transumano, come una mosca in una tela di ragno. Come se il suo corpo si fosse diviso in due.

Una parte del corpo, la sinistra, lo aveva seguito al cesso, nel cucinino a scaldare il latte sul fornello a gas.

L’altra, la destra, orecchio compreso, era per conto suo. Disgiunta, come fosse rimasta ancora a letto o chissà dove.

Sasà provò con il pentolino d’alluminio dentro cui aveva scaldato il latte, poi con la sedia, in ultimo con lo specchio del bagno.

Uno a uno li scaraventò a terra dal lato sinistro, poi dal destro. Tranne lo specchio che, alla prima e unica botta, si ruppe in mille pezzi.

Il pentolino s’ammaccò irrimediabilmente, con certi lividi tale gobbuti che non si poteva più usare. Quanto alla sedia ci rimise la spalliera.

Il risultato comunque era che dal sinistro ci sentiva benissimo. Tonfi botti sgrigliolii sonagli pendagli pigolii. Sentiva tutto, alla perfezione.

Dal destro no. Non ci sentiva. Proprio niente sentiva. Ecco perché non c’era più traccia di mosconi e di ronzii. Era diventato sordo, non c’era altra spiegazione.

Il suo cervello aveva avuto pietà di lui, poverocristo, e gli aveva donato una celeste sordità.

Gli si dimezzavano i rumori del mondo, il chiasso delle strade, i rantoli del catarro di petto del Cataratta, il gemito delle tortore della vicina di muro.

Persino l’acqua del cesso che perdeva notte e giorno con lo scolo finofino glic glic glic perché la guarnizione s’era spanata e lui non ci pensava proprio a farla aggiustare. Operai per casa – elettricisti idraulici ferraioli – non ne voleva. Trapani pinze bulloni gli mettevano addosso l’orticaria.

Così da quando era morta Maddalenina, la casa era diventata un barcone in disarmo di quelli che marcivano, le assi schidionate al sole, sulla battigia nei dintorni del porto.

Ora che era diventato sordo da un orecchio, tutto questo fastidio del mondo Sasà poteva anche scansarlo.

Sarebbe bastato un piccolo movimento della testa, una minima roteazione del collo e in meno d’un attimo, dall’orecchio sinistro al destro – sinistrrr destrrrr sinistrrrr destrrrr – avrebbe potuto fregarli tutti. Intelligenti e cretini, intellettuali e bestiacce, uomini e animali.

Poteva fregare il Cataratta, con la sua aria di politico tacchinotto, le campane del Carmine, e pure don Cirino che predicava ubriaco, la domenica alla messa delle undici, con aria da sapientone mentre il lezzo del vino si sentiva dalla ventesima fila di sedie.

Il mondo intero poteva fregare, se solo lo voleva, per quell’orecchio sordo. Benedetto e sordo.

Sasà stette un’ora buona a girare la testa sinistrrr destrrr sinistrrr destrrr sinistr prima d’esserne assolutamente certo della sua benedetta sordità.

Non voleva farsi altre illusioni poi che d’illusioni in gioventù c’era quasi morto. Provvedeva da sé ai comandi – destrrrrr sinistrr… destrrrrr sinistrrrr – e ad alta voce.

Prima, comandi militari cadenzati attempati solenni. Come aveva visto in qualche vecchia pellicola all’Arena Bellini.

Poi man mano che aveva conferme della sua sordità, roteava la testa, di per sé malavvitata sul collo sino dalla nascita, così velocemente che da un momento all’altro pareva potesse schizzare via sul terrazzino per lo spiraglio della portafinestra.

Anche la tartaruga Giuda sulla soglia di brutto marmo rattoppata con la colla – soglia che immetteva dalla cucina nel terrazzino – lo guardava fisso immobile.

Sasà, forse preoccupato che la testa gli schizzasse via dallo scarso ancoraggio del collo, forse inferocito dal fatto che la bestia lo fissasse (ora che più non c’era sua moglie a fissarlo con quegli occhiacci divoratori affauciàti trapananti, pure lei ci si metteva?), o forse solo stupito di non sentirci più, solo meravigliato di quella sordità che precipitava su di lui tuttuncolpo, come la cacca degli assioli dalle sequoie nella Villa Comunale, di botto accostò con tale violenza l’anta schiusa del finestrone che per un pelo la tartaruga Giuda non ci rimase schiacciata in due. Il corpo dentro la cucina la testa tranciata di netto sul terrazzino.

Provò e riprovò Sasà Azzarello destrrrrr sinistrrrr sinistrrrr destrrrr fino allo spasimo dei muscoli facciali e dorsali mentre che Giuda, capito il maloverso, s’era intanata tra il sacco delle patate e il lavandino di maiolica.

La verità però era una e inconfutabile. Lui, Sasà Azzarello, era diventato sordo.

Sulle prime – lo spazio d’un secondo – pensò che il cervello lungi dall’avere pietà (che almeno il suo cervello poteva avercela un po’ di compassione, invece niente tutti feroci con lui erano stati, persino il suo cervello!) gli si accaniva e lo faceva sordo.

Per un secondo, la testa triangolare immota coi pochi capelli a sentinella sulle tempie, Sasà non poté fare a meno di commiserarsi con singhiozzi di petto tale prolungati come i tacchini quando gli si ingroppa il gozzo di mangime.

Quando il livello del latte, per la fiumana delle lagrime, ebbe raggiunto il bordo della tazza, minacciando di tracimare sulla tovaglia di plastica a fiori rossi, con un ultimo spurgo di naso, diede fine alla commiserazione – il suo pezzo forte – e principiò, un attimo dopo, a benedirla la sua sordità, i suoi straordinari vantaggi.

Sasà Azzarello alla scena dell’autocommiserazione c’era abituato. Era per così dire il suo cavallo di battaglia, il suo capolavoro.

Gli piaceva – poi che nessuno mostrava di compenetrarsene delle sue sventure del suo avvilimento – una commiserazione teatrale letteraria retorica di sé delle sue disgrazie delle nequizie di cui era stato vittima, ostia sacrificale.

Anzi sentiva d’avere un talento naturale in questo genere di declamazioni.

La voce bene impostata da attore con toni brumosi gutturali un po’ indeboliti dal catarro dei bronchi, anche quella volta, di fronte alla sordità, se l’era dedicata una bella consolatio. Squisita d’ottima impalcatura letteraria.

Sasà era proprio un retore consumato nell’arte della declamazione oratoria. Il gesto della mano ora supplice ora accusatorio ora implorante ora vindice, gli occhi pensosi meditabondi volti all’orizzonte addietro una fuga di nuvolette basse, la voce a saliscendi, un’intonazione da tenore erano stati negli anni tale portati a perfezione che qualche volta, per non perderci la mano, si esercitava a vuoto. Inventandosela di sana pianta una grande smisurata disgrazia, una tragedia immane, su cui il suo naturale straordinario talento potesse edificare una degna consolatio.

Quella d’inventarsi una disgrazia e declamarne letterariamente, secondo la migliore tradizione neosofistica, in realtà avveniva di rado perché la vita era stata generosa con Sasà quanto a patimenti accoramenti persecuzioni sventure.

Gli aveva fornito tali e tanti smottamenti subbugli annirbamenti rimpianti che non c’era proprio motivo d’andarselo a inventare di sana pianta un pretesto per una bella consolatio alla maniera latina.

Pressappoco il contenuto, in tutte le circostanze d’autocommiserazione, era medesimo.

Medesimo il piglio, il cipiglio, il corrusco lampeggiare delle pupille niurolutto come cert’uccellacci che di notte s’adattavano tra le croci del camposanto.

Medesimo il rotulamento dell’avambraccio, dell’anca; medesimi l’impennata e il precipizio della voce, medesimo il nodo alla foce della laringe.

Qualche problema, in gioventù, Sasà Azzarello l’aveva avuto con le lacrime, che dovevano essere tante e al momento giusto. Per lo più invece gli usciva dal ciglione della palpebra qualche lagrimuccia stitica vizza stremenzita avara che stramazzando per l’osso inverdito della mascella si seccava prima d’arrivare al mento.

Sasà a quella deficienza di natura rimediava in due modi. Le cipolle rosse – s’era tempo di cipolle della Piana oppure la segatura bagnata dal piscio delle tartarughe che gli arrossava d’orticaria tutto il corpo, sebbene scarsa e timida dimorasse la carne nel suo corpo.

La segatura che Sasà prendeva dal Cataratta – il Cataratta aveva bottega di falegname – gli scatenava una congiuntivite che neanche al tempo delle fave, con cascata di lacrime a tinchitè. Da quando era vecchio però Sasà non ce l’aveva più la costernazione del pianto, di quei suoi occhi secchi arsicci che mai si lucentavano di lacrime. Di quei suoi occhi sorcigni avaracci.

Da quando era vecchio (benedetta vecchiaia!) bastava un niente per stringergli la gola e ingozzargli gli occhi di lagrimoni a precipizio.

In vecchiaia era diventato chiangiulino. Si commuoveva per tutto, tirava un po’ il naso, e le palpebre sempre bagnatizze. Ma qualche volta era solo rinite.

Un nonnulla (la foto di sua nonna il giorno del matrimonio con tanti pizzi che svettavano dal sottanone color latte. Un petalo secco di rosa assalito dai vermi dentro un libro di liceo…) dava il via libera a un pianto inarrestabile, un’inondazione di lagrime. Un gorgheggio di singhiozzi senza ritegno, anche se era alla Villa in presenza del Cataratta del Pinna e del Bronzino che poi lo sfottevano. Il Cataratta a parole senza pietà. Il Pinna, col silenzio. Muto, le labbra consegnate a spagnoletta.

Sasà che fai? femminella sei diventato? Dov’è il cagnaccio furioso, il mastino che la sapeva lunga, il Gerbero? (il Cataratta che a scuola c’era andato solo fino alla seconda elementare diceva proprio Gerbero…) Dov’è l’ammazzacristiani che sboffava sproloquiava minacciando strage d’uomini come fossero beccaccini quaglie conigli cappellacce?…

E poi che Sasà se ne stava muto, assorto sul sedile della Villa, specie quando il tramonto gli sparava dritto alla pupilla, continuava a gran voce battendo forte con lo scoppio il palmo delle sue mani grandi: «bbbbumma bbumma bbbummmaaaa… bbumma bbumma ti sei scimunito Sasà? t’è calata la babberìa?»

La babberìa era a Bulàla un ingrediente naturale della vecchiaia. Una delle sue tante spie. Come ruttare i denti dalla radica inseccolita infradicita. O anche ingobbirsi o sputare i capelli dalla radice se il grasso non la nutriva più.

Un accidenti che andava a braccetto con la vecchiaia e la vecchiaia – non era un mistero per nessuno – proprio come la varicella da piccoli prima o dopo la facevano tutti.

Un accidenti, suppergiù come la tigna che guastava la faccia e le dava un profilo da ragno smarrito sul muro. Oppure l’insonnia, o lo scolo leggio leggio di piscio che ristagnava nel tessuto pesante dei pantaloni e ne divorava nel tempo la trama.

La babberìa di speciale aveva che, chi non ce l’aveva ancora, la notava negli altri più d’una verruca sulla guancia o un labbro leporino. La scovava anche da minimi avvistamenti, e la stanava con la furia crudele del mastino che insegue l’uccelletto implume fuggito dalla gabbia.

La babberìa d’un amico scatenava in chi ne era immune una ferocia straordinaria travestita però dai panni bonari dello scherzo dello sfottò.

Nessuna pietà nessun compatimento. Solo tanta voglia di vendicarsene in anticipo della babberìa quando ancora non le si apparteneva. Quando ancora la logica dei ragionamenti, il controllo assoluto del proprio corpo della vescica del mento delle gambe davano assieme alla certezza d’esserne immuni il diritto d’accanircisi contro.

La babberìa era per lo più la conseguenza d’una piccola botta al cervello. Un piccolo corto circuito nell’aggroviglio delle vene e venicciuole dentro la scatola cranica.

Qualche goccia di sangue in più o in meno e crachhhh il danno era fatto. Pure se all’esterno non c’erano segni, non c’era sintomo, non c’era niente di niente.

Si respirava come prima, si masticava il pane duro, si passava ai piedi la lozione per i calli e alle mani l’unguento di budella di capre fatto in casa per i geloni.

Insomma la vita in apparenza restava tale e quale quella di prima, anche perché la babberìa arrivava in un secondo tempo. Poco a poco come la pioggerella finafina che non tocca terra, ma per il raccolto è un vero castigo di Dio.

Arrivava quatta quatta, silenziosa, senza sonagli. Poi in un niente cresceva come i pulcini dentro l’uovo, con tale evidenza di manifestazioni – la risatella il pianto per niente la goccetta di siero di naso a precipizio sul mento – che la si riconosceva subito, con la facilità e la naturalezza con cui si riconoscevano le eruzioni del fuoco di sant’Antonio, o l’artrite deformante che rinfichiva attortigliava scontorceva le falangi delle dita.

La si capiva da un giorno all’altro, poco a poco, da piccole spie. Comunque ci volevano tempo e prove per esserne certi.

Il pianto era un segno inconfutabile di babberìa, almeno così sosteneva il Cataratta quando voleva fargli il sangue amaro a Sasà Azzarello che in gioventù – con la sua laurea le sue dottrine filosofiche le sue arrangiate etiche nicomachee i comizi in piazza le stramberie le panzane le profezie con quegli occhiacci del malaugurio – si sentiva un filosofo un Socrate un guru un Prometeo un intellettuale marxista; o per dirla alla maniera del Cataratta, ebanista-restauratore, Sasà Azzarello si sentiva un cazzo e mezzo.

L’allusione del Cataratta riguardo alla babberìa di Sasà era pura malignità. Anzi invidia, nuda e cruda. Solo che Sasà non se li toccava più i coglioni a proteggersi dall’invidia del Cataratta come faceva da picciotto, seguendo per filo e per segno gli insegnamenti di suo padre, il Direttore didattico Cornelio Azzarello. Da sempre fin da quando non aveva che pochi anni, uno scheletro magrino, due guancette verdognole sulfuree da fare spavento, e un profilo da uccello da rapina.

Sì! il pianto per esserci c’era. Sasà per un nonnulla si commuoveva, ma non lo si poteva affatto considerare sintomo di babberìa.

Troppo poco. E tutti gli altri? ripetere le stesse cose, guardare l’orologio ogni cinque minuti, tenere le palpebre a metà immobili (pure se il sole ci sguazzava c’intanava feroce pìulo nella pupilla), patire i mosconi a passeggio sulla fronte sulle pinne del naso senz’animo di volerli cacciare…

Insomma era chiarissimo che Sasà – il suo vero nome era Sauro – non ce l’aveva la babberìa.

Pure se il Cataratta ci provava ogni sera alla Villa Comunale a fargli marcire il sangue, a farglielo scoppiare il saccoccio della bile dentr’al fegato, mettendo in dubbio la piena lucidità della sua mente, il controllo totale dei suoi pensieri, quel dedalo d’idee tracciato a meraviglia d’arte qual era il suo intelletto.

Lazzarone quel Cataratta sciamannato, che puzzava di segatura solo a vederlo di lontano anche se la bottega non ce l’aveva più.

Calunniatore purpo vuccazzaro ciarlatano! Chiedere a lui, Sasà – ch’era stato un genio riconosciuto – se aveva la babberìa!

Facciadiminghia o facciadibottana ci voleva. E il Cataratta ce le aveva entrambe. La facciadiminghia e quella di bottana.

A Bulàla tutti lo sapevano che mente fina era Sasà Azzarello. Che ingegno che artista che poeta!

Lui, poi, andava fiero della sua testa del suo cervello di quella disgraziata sciagurata genialità, come si compiaceva teatralmente di chiamarla.

Fatto sta che geniale e genialità nei discorsi negli sproloqui nelle sconsolate Consolazioni di Sasà Azzarello riguardo a se medesimo non mancavano mai.

Sasà, pure se aveva già settantanni sul groppino stecchito, ne parlava ancora della sua disgraziata genialità, infausta genialità, incompresa negletta sciagurata genialità.

Il termine conclusivo era sempre genialità.

Termine che, paradossalmente, in quella specie d’ossimoro che ne usciva fuori con l’aggettivo appresso, lungi dal restarne minimizzato ne veniva esaltato magnificato ingigantito.

Il Cataratta il Pinna e il Bronzino il fatto che Sasà alla Villa, gira e rigira, parlasse sempre di sé, si ponesse sempre al centro dell’universo coi suoi latinoidi che sparavano come bombe ubi consistam? cupio dissolvi… sidera cervice feram… proprio non lo sopportavano.

«Basta! pure se ci avevano fatto il callo con le fisime di Sasà che in gioventù…» diceva il Pinna, le uniche volte che fiatava con la sua boccuccia a spagnoletta e là si fermava come a sottintendere il finimondo.

«Basta! ora è tempo di finirsela! sennò a che serve la vecchiaia?» faceva eco il Bronzino, un vecchio comunista con la babberìa conclamata.

«Basta! ne avevano fino al collo. Ora ch’era vecchio» gli diceva in faccia il Cataratta con occhiacci tondi schizzanti biliosi «doveva finirsela Sasà d’esaltarsi di magnificarsi usando qualunque mezzo, insino e soprattutto le sue disgrazie.»

Il Cataratta metteva in chiaro che lui non era scemo. Né il Pinna né il Bronzino seppure l’ascoltavano per decenza per pigrizia o per ignavia.

Se la doveva finire Sasà con le sue arie da superuomo, con le balle riguardo al suo grande amore, quand’era studente di filosofia a Padova.

Quando il Cataratta diceva amore pensava in verità a cazzo, termine più appropriato e convincente – questa l’opinione del Cataratta – di quanto non fosse quell’Amore di cui si riempiva la bocca l’Azzarello e che al Cataratta sapeva tanto di sternicchi, di nervetti femminini, d’emicranie, di svenimenti, di cervellini inciuciuniàti, di pellicole in cinemascope all’Arena Bellini, di minghiemolli, e arrivato a minghiemolli poneva fine a proclami anatemi invettive ingiunzioni minacce e ultimatum riguardo a Sasà Azzarello.

Se Sasà non voleva passeggiare da solo alla Villa, restarsene allocchito solo come l’albero di Giuda a nordovest, sotto cui non sostava nessuno mai, nemmeno per un attimo, visto ch’era in un cantuccio fuori mano dentro la Villa (tutti lo sapevano che portava male l’albero di Giuda, o almeno questa era la diceria a Bulàla) – ebbene se non voleva trovarsi come un trunzo scordato nell’orto, doveva proprio finirsela di mettersi sempre in mezzo… Finirsela una buona volta con le sue fisime da ventenne scimunito.

Un po’ erano i tre figli maschi – tre bestie con la pellaccia color tabacco, che lo odiavano a morte.

Un po’ era la moglie – anche se ora, da più d’un anno, Maddalenina era in pace al camposanto – per via che gli aveva lasciato la fibrillazione al cuore, che glielo aveva divorato il cuore a muzzicùna, e anche il fegato con quel suo fare da capitana.

Un po’ i suoi fallimenti di poeta, vicepreside, padre, filosofo. Un po’ le sue tristizie da commediante, insomma gira e rigira si finiva sempre col parlare di lui che sotto sotto gongolava delle sue sciagure, delle onorevolissime disfatte sul campo.

Da cosa si capiva? Si capiva dal fatto che quegli occhietti a saracinesca che a mala pena pigliavano la luce del giorno, d’improvviso s’animavano e le pupille s’allertavano mariuole.

Il Cataratta sosteneva sorretto da unanime consenso che Sasà Azzarello, ora che infine era vecchio, era proprio in tutto e per tutto uguale agli altri. A lui al Bronzino al Pinna.

Si trattava solo di farglielo entrare il concetto in quella testa di mulo sordo, in quelle strammerie di cretino, a costo di spaccargliela in due la testa. Un colpo netto, come si fa con le angurie che si aprono in due.

Tutti alla Villa, il Pinna l’Ammazzapreti il Bronzino l’Azzarello e lui medesimo – proclamava il Cataratta – avevano una punta d’ernia, l’alito che puzzava di mucido, le radiche dei denti ingrommate, la pensione il ventidue d’ogni mese, un pizzico di diabete, e qualche varice per il ristagno del sangue che appaludava nella coscia.

Quindi erano uguali in tutto e per tutto, anche negli acciacchi, nei fastidi dell’età. Anche riguardo all’insonnia, anche riguardo al fatto ch’erano vedovi.

Uno però, il Pinna, non s’era mai sposato. E un altro, il Bronzino, aveva già la babberìa.

Quanto al resto però uguali in tutto e per tutto. Pronti tutti a riconoscerla l’uguaglianza tranne Sasà che, pure da vecchio, aveva le fisime del figlio unico viziato qual era.

E sul discorso dell’uguaglianza non ci sentiva proprio. Sordo da tutt’e due gli orecchi. Il destro e il sinistro.

Questo fatto minacciava la pressione del Cataratta peggio del suo acido urico. Diventava una bestia il Cataratta, anche se Sasà era convinto che bestia il Cataratta lo fosse per virtù di natura.

Il collo gli si gonfiava tale paonazzo che faceva impressione di sanguinaccio e gli occhi itterici, rasoiati dalla congiuntivite, sembravano lì lì per stramazzare.

Però non c’era stato niente da fare. La parola uguaglianza, se riguardava quel bestione del Cataratta, aveva su Sasà l’effetto d’una apoplessia. D’una paresi totale di corpo e di cervello. Una catalessi.

La lingua gli si intisichiva, e gli occhi invetravano come quelli dei pesci quando aggallano morti con la pancia gonfia d’onda.

Sasà era assolutamente certo che, quantunque il Cataratta ci malignasse, lui piangeva (solo negli ultimi tempi di frequente) per un fatto di sensibilità, d’anima fina. Nient’affatto per babberìa.

Le sue lacrime erano per così dire nobili affluenti del suo cuore, e l’occhio non era che il miserabile estuario.

Erano la luce riflettente del suo animo tempestoso inquieto baudelairiano come addice ai pensatori. Nobile e magno a un tempo. Le lacrime erano l’offerta del suo animo agli spiriti eletti che sapessero intenderle e apprezzarle mentre quel raccattatrucioli del Cataratta spirito eletto non era stato mai. Un caprone era stato, un caprone che però sapeva aggiustare tutto. Lo scarico del cesso come lo stucco a precipizio dal lampadario, i fili della corrente, le porte che prendevano di muffa e non volevano saperne di richiudersi. La fermatura, di conseguenza, risultava un inutile orpello tale che nel ritiro dei bisogni, per avere quel tanto d’intimità, Sasà regolarmente puntellava la porta del cesso con una sedia di traverso incagliata sullo stipite.

Uno spiraglio, però, restava sempre giusto perché Giuda la tartaruga ci si infilasse, fissandolo coi suoi occhi immobili che parevano di vetro, tali e quali gli occhi di Maddalenina quand’era viva, mentre lui se ne stava sulla tazza del cesso, in religiosa attesa, con le brache calate e il pelo dell’inguine ammansito dal piscio.