Era una di quelle seratine di giugno in cui pareva di poterlo acciuffare per un dito il cielo col suo strapiombo di luce bluviola come le genziane, e il suo frutteto di rondini.

Ormai Rorò era al sicuro sulla carrozzella. Trattenuto in vita da un cinghia che assicurava il corpo abbandonato per via della malattia che glieli aveva mangiati i nervi, infuriandovi come le tarme col mobilio dentro le case abbandonate.

Era una di quelle sere in cui il cielo pareva dovesse andare incontro al mattino invece che alla notte.

Una di quelle sere in cui Sasà pensava che bastasse un soffio del suo petto per spingerla la corolla di nuvolette a un palmo dal suo naso, se solo alzava la testa.

Ma ormai che aveva passato la settantina questi pensieri se li teneva per sé. Al massimo ne parlava solo con Rorò, se non c’era il Cataratta, mentre spingeva la carrozzina dopo avergli levato dal petto – sennò gli faceva umido ai polmoni – l’ennesimo bozzolino di bava.

Guai! questi pensieri a pronunciarli davanti al Cataratta o al Pinna.

Sarebbero stati sfottò e minacce d’ogni tipo, come – era la minaccia che più lo atterriva – quella di lasciarlo solo alla Villa, solo con Rorò nella carrozzina.

Ma Rorò c’era e non c’era, per lo più con gli occhi chiusi che a mala pena pigliavano la luce delle stelle quand’era sereno.

Dormiva? e chi poteva dirlo se dormiva Rorò o se era la malattia quel torpore che lo esiliava dalla vita, dal mondo coi suoi rumori e il suo frastorno. Quel cancello di rovi e spine invalicabile per chicchessia.

Qualche volta Rorò apriva gli occhi, uno spiraglio. Bastava uno scossone alla carrozzina a che le palpebre calassero di botto, proprio come le saracinesche quando si rompono le cinghie. E lui ne restava dentro prigioniero in un buio disperante sconfinato.

Quei suoi occhioni celesti sbiaditi acquosi, che tanta impressione avevano destato a Padova – li credevano neri impeciati, a Padova, i siciliani – quando Rorò c’era arrivato al seguito di Sasà con funzione di spia, scomparivano addietro un telo di pelle rossiccia come un budello di maiale.

La sentivano la prigionia gli occhi di Rorò che, da giovine, luccichiavano come le stelle a mezzanotte, d’estate.

Questa era una domanda che Sasà si faceva spesso, pure se quelle carni incustodite sulla carrozzina, per lo più sfatte, ignare di se medesime, sembravano solo in attesa della morte.

La testa ciondolava sul collo e poi, di colpo, strapiombava giù sino al petto.

Sasà ad evitare che la faccia di Rorò diventasse rossa come il sanguinaccio, subito gli sollevava la testa. Con tutt’e due le mani.

E poi sulla testa, nuda come quand’era nato, senza l’ombra d’un pelo, Sasà ci lasciava una carezza grande grande. Pure se le sue mani s’erano fatte, negli ultimi anni, piccine piccine.

In giro non c’era nessuno, quella sera alla Villa. Nessuno almeno di quelli che Sasà cercava che poi erano tre, il Cataratta il Pinna il Bronzino.

L’Ammazzapreti non era fisso. Si faceva vedere ogni tanto, a seconda di come gli andava la gotta o l’artrite.

“Com’era possibile che non ci fosse nessuno di quei tre alla Villa?” si chiese Sasà.

Poi d’improvviso pensò ch’era santo Vito, e dall’altra parte del paese c’era festa col palco e i cantanti.

Di sicuro quei tre erano là. A lui invece non piacevano i cantanti. Dante gli piaceva, Paolo e Francesca, e l’Infinito del Leopardi.

“Ecco! quella era la sera buona!” pensò rallegrandosene Sasà negli occhi, che in vecchiaia s’erano rimpiccioliti sempre più. Una puntina di spillo appena, che solo una grande pozza di luce riusciva a illuminare.

Era la serata buona per andarsene, finalmente, a sedere sotto l’albero di Giuda, su quella panchina sempre deserta anche quando, tra le sette e le nove di sera, d’estate, la Villa scoppiava di mocciosi mamme e vecchi.

Mai nessuno voleva starci sotto l’albero di Giuda, quell’albero gigantesco con pennacchi arancione che parevano uccellacci o aquiloni, a seconda del punto di fioritura.

Dicevano a Bulàla che portava male l’albero di Giuda, e tutto perché trentanni prima ci s’era impiccato Candeloro Pisanò, professore in filosofia al liceo classico, collega di Sasà.

Era tutta superstizione. Fatto sta che l’albero se ne stava sempre da solo.

Un po’ incarognito forse per le ignobili dicerie, ma rigoglioso come nessun altro, nemmeno il ficus a ovest che aveva centanni almeno, e foglie grandi quanto il pane fatto in casa.

Le madri, per via che l’albero di Giuda portava male, non ci facevano salire i mocciosi, e i ragazzini più grandicelli non ne incidevano la corteccia a sgranarne la fitta tramatura delle vene.

Nessuno ci pisciava allato al tronco, come invece succedeva con tutti gli altri alberi della Villa, che crescevano rachitici attufiti, con certi rami che parevano sterpi e certe foglie che parevano affatturate dal malocchio.

Sasà si chinò un attimo sul cugino Rorò. La bava colava ancora per lo spacco grande non poco ulcerato della bocca. Colava piano però.

Gli occhi di Rorò erano ancora reclusi sotto il telo di pelle trapunto di capillari.

Quegli occhi chiarichiari squagliùsi come gli angeli di zucchero per la festa quando si scioglievano tra le mani accaldate tritrigne dei bambini.

Chiari come l’aria quando inazzurra lieve di prima mattina, tra i picchi dorati dell’alba.

Sasà Azzarello già da quando aveva ventanni, a Padova, formulava progetti di suicidio. Progetti che poi, miseramente, fallivano, perché non lo trovava il coraggio d’ammazzarsi.

Che coraggio ci voleva! un cuore d’elefante ci voleva! Mentre lui, in fondo in fondo, sapeva d’avere un cuore di palombella, di passerino.

Lo dimostrava anche l’affetto che aveva per Rorò. Infatti ogni sera, con ogni tempo, se lo portava fuori dal ricovero in carrozzina e spingi spingi sì che quasi il fiato gli mancava – quel mozziconcino di fiato che bastava a tenerlo in vita – specie se c’erano le basole arrivava alla Villa con gli occhi che gli scomparivano del tutto per la stanchezza, sprofondati dietro le palpebre marroncine.

“E che? forse che la filosofia lo insegna il coraggio?” si domandava retoricamente Sasà da almeno cinquantanni.

No! nient’affatto! La filosofia è un’altra cosa, col coraggio non ha niente a che spartire.

“Quella è una questione di testa, quest’altra una questione di cuore” concludeva Sasà ora che per via dell’età anche le sue ostentazioni declamatorie avevano subito un bel calo.

Stringersi una corda grossa, da pescatori, al collo e penzolarvi tra i pennacchi arancione dell’albero di Giuda che gli strofinavano sul naso, era per Sasà Azzarello, sicuramente, una questione di cuore.

Il suo cuore si doveva convincere riguardo al suicidio, poi che la sua testa n’era convinta, arciconvinta, già da cinquantanni.

Per questo Sasà, quando poteva, andava di corsa a sedersi sotto l’albero di Giuda, coi pennacchi stravolti che infeudavano dove capitava. Nel suo collo, nelle narici, e lo facevano starnutire come al tempo del fieno.

Se voleva trovarlo il coraggio d’ammazzarsi, doveva affezionarcisi all’albero di Giuda. Entrare in intimità con quel gigante che, dietro al chiosco, dalla parte dello strapiombo, ingoiava uno squarcio grande di cielo con quei pennacchi che avevano un che di terribile, pure s’erano di colore allegro festoso.

Sasà Azzarello pensava che ci doveva fare l’abitudine all’idea d’impiccarsi, che era solo un fatto d’abitudine.

E lui riguardo allo strapotere delle abitudini era un maestro.

Che forse non s’era abituato anche a quella tragedia della sua vita ch’era stata Maddalenina, sua moglie?

E a questo punto Sasà riprendeva il vezzo della commiserazione di se medesimo che, affiochita negli anni, mai s’era spenta del tutto.

Non s’era abituato ai suoi comandi? alla sua voce rasposa? alle sue manacce lunghe? al suo occhio bieco, pur s’era celeste turchinello a vedersi?

Turchinello sì ma pieno d’insidie, di tranelli. Niente a che vedere col celeste acquamarina di Rorò, trasparente come quello degli angioli di vetro, a parte le fesserie della gioventù, comunque anche in quelle Rorò era stato impilottato da suo padre Antonino.

Rorò buono sempre era stato. Una pasta di mandorla. Un ragazzone grande massiccio con le spalle da carrettiere, tutto cuore!

Non s’era forse rassegnato lui a Maddalenina, abituato ai suoi modi da arpia, subito dopo l’episodio della frittata in faccia che quasi glielo accecava l’occhio, ad appena un giorno o due dal matrimonio?

Un’arpia Maddalenina. Una furia peggio di quelle che avevano inseguito Oreste matricida!

Ma lui, Sasà Azzarello, non era matricida! Tutt’altro! rispettoso, a suo modo ubbidiente, un buon figlio era stato per sua madre Tommasina.

Non si dava pace Sasà quando pensava che solo da un anno la moglie lo aveva lasciato andandosene al camposanto, e non certo per fargli un piacere.

Il buon Dio, anche se lui non ci credeva al buon Dio, ché d’antica fede laica pagana era, aveva deciso di graziarlo. Di condonargli i pochi anni che gli restavano da vivere, sempre che morisse di morte naturale.

Mentre che poteva trattarsi di mesi o giorni, se gli riusciva sul serio d’impiccarcisi all’albero di Giuda.

Ci si doveva affezionare a quell’albero! dannazione!

Lo doveva pur trovare il coraggio che la natura gli negava.

“Lasciamo stare” si diceva Sasà “il confronto con Aiace, trafitto di sua mano! ché quello un eroe era! un eroe del mito!”

Lui non pretendeva d’essere eroe. Del resto per ammazzarsi non c’era bisogno d’essere un eroe. Bastava essere come Candeloro Pisanò.

Com’era Candeloro Pisanò? un ometto era. Professore di filosofia al liceo, al corso B, con la faccia a chiazze rosa e marroni, come certe gatte per strada quando prendevano la rogna.

Un ometto insignificante era Candeloro Pisanò. Non parlava mai, ma quando s’agitava, s’annirbava, tale gorgo di sillabe gli transitava nel cannarozzo che cominciava a tremare tutto, con gli occhi bovini in precipizio dalle ciglia.

Specie quando gli volevano cambiare il testo di filosofia, il Lamanna, giacché tutto a memoria per filo e per segno lo sapeva. Pure nella punteggiatura, per non dire che a occhi chiusi lo trovava Socrate, a metà del primo volume.

Se lo provocavano, il professore Candeloro Pisanò restava immobile per una decina di secondi, gli occhi fissi come quelli delle salamandre quando si schiacciano contr’al muro.

Poi esplodeva in una cascata di parole a precipizio, farfugliando incespicando morsicando abbrancicando accalappiando sillabe tra lo spasimo delle mascelle che finivano a fuso.

Faceva di tutto il poverocristo ma due parole chiare, sensate, una appresso all’altra, non gli riusciva di spiccicarle in quel gorgo pauroso di grida gridolini strida vaneggiamenti ecc…

Che forse poteva dirsi un eroe Candeloro Pisanò?

Nient’affatto… Eppure s’era ammazzato. Segno che per ammazzarsi non c’era bisogno d’essere eroi. Solo un pizzico di coraggio ci voleva, e lui infine l’avrebbe trovato!

La questione era una e una sola, bisognava prendere confidenza con l’albero di Giuda.

Sasà, che questo l’aveva capito da un bel po’, se lo ripeteva cento volte al giorno, tanto che anche la tartaruga l’aveva chiamata Giuda.

Veramente da che era morta la moglie Sasà ne aveva avute tredici tartarughe, e tutte le aveva chiamate Giuda. A che gli venisse familiare quel nome, a che non avesse più a temerlo quel tronco minaccioso, quei rami calvi disperati da cui snidavano quegli strani ridicoli sbuffi arancione nei lenti tramonti d’estate, come nei tramonti spicci dell’inverno quando il cielo era solo una spoglia inerte arida.

Doveva prenderci confidenza, e già da circa trentanni Sasà si era orientato in tal senso. Da quando Candeloro Pisanò li aveva fatti fessi tutti quanti, impiccandosi di prima mattina e lasciandoli con tanto di naso, ramminchioniti per lo stupore di sì tanto gesto.

Lui, poi, per i suoi infiniti propositi di suicidio, mai realizzati, sempre differiti, aveva pure provato invidia. Tanta.

Pisanò senza tante chiacchiere né proclami né prove generali, c’era riuscito al primo colpo.

E lui, Sasà, che del suicidio aveva fatto la pietra miliare della sua esistenza, le fondamenta della sua vita sgangherata, considerato l’effimero fatale transito del tempo, era ancora vivo dopo mille e più propositi di suicidio.

Dopo infiniti testamenti olografi con le sue ultime volontà riguardo alla sua salma (un po’ voleva essere cremato poi seppellito in una cassa di legno massiccio sotto il padre Cornelio…), dopo averne partecipato parenti e amici, sino con manifesti affissi sul corso.

“Niente ancora, si vede che non è tempo” si diceva Sasà un po’ con aria di rimprovero un po’ con toni di giustificazione. Invocandolo il destino a che potesse infine attuarlo quel sospirato desiato suicidio, perfezionato in tutti i dettagli già da anni.

Dacché era morta la moglie Sasà si esercitava spesso davanti allo specchio grande in camera da letto, a figura intera.

Provava e riprovava per vedere come gli riusciva il suicidio. Come stava con una signora corda attorno al collo.

Anche quand’era viva la moglie Maddalenina provava, ma solo al cesso con lo specchio piccolo, quello per la barba, che pendeva dal rampino sopra il lavandino.

Non gli veniva bene, però, non era la stessa cosa! con quello specchio oltretutto rotto in due e incollato, 15 × 15, gli riusciva a mala pena di vedere il mento a fuso, e un pezzetto di collo color melenzana.

Il labbro, per via del taglio netto che segava in due lo specchio, da su a giù, gli diventava leporino.

Senza dire che non poteva sapere che effetto facesse la corda (3 cm di circonferenza, quella per imbragare il carico delle navi al porto) sul suo collo slanciato infinito come certe figure del Modigliani.

Da quando la moglie era trapassata, lasciando Sasà a miglior vita, era tutta un’altra storia.

Nella camera da letto Sasà ci passava ore, ritto davanti allo specchio dell’armadio, ad acconciarsi la corda al collo, a farlo e disfarlo cento volte il nodo a che gli venisse perfetto.

E gli veniva perfetto! un capolavoro!

(E dire che Sasà non c’era mai riuscito con la cravatta, motivo per cui portava solo magliette girocollo, o polo con tre bottoncini.)

Le rare volte che bisognava averla la cravatta – i funerali le riunioni del collegio dei docenti a scuola – ci pensava suo padre Cornelio a fargli il nodo, perché di sua moglie non si fidava. Il punto del collo era delicato, bastava stringere una puntina in più e…

Sasà, ora che la Tyche l’aveva liberato di Maddalenina, risparmiandogli almeno gli ultimi anni, non voleva più pensarci a quella strega.

Quanto poi all’eventualità che lei potesse strozzarlo con la scusa del nodo alla cravatta era, per fortuna, acqua passata.

Da che lei era morta Sasà era libero d’andare avanti e indietro per tutto il primo piano della sua casa.

Se n’era infine riappropriato della casa. Ci si sentiva un pascià. Niente orari né sgridate né mugugni.

Ci faceva avanti e indietro nel corridoio, affagottato nella sciallina grande di lana, per sentire il ronfo dei suoi passi, solo i suoi passi, e vedere la sua ombra ingigantire sul muro.

Solo del primo piano disponeva Sasà, però; perché al secondo ci stava il primo dei suoi figli: Cornelio, come il nonno, ma del nonno purtroppo non aveva che il nome.

Quanto al resto era un balordo di quarantasette anni, che lo guardava in cagnesco, con occhi ringhiosi, e viveva intanato nelle due camere al secondo piano più cesso, con una trentina di gatti, e un vecchio pianoforte.

Con Sasà non si parlavano mai, né si guardavano. C’era una specie di tregua armata.

Uno di qua, uno di là. A essere precisi uno su, uno giù. Sasà era rimasto al primo piano dove, oltretutto, aveva vissuto con la moglie. Dov’erano i suoi libri di letteratura e filosofia.

Per non parlare del clistere – la stitichezza era uno dei suoi crucci maggiori negli ultimi anni – del rasoio da barba, del suo vaso da notte, e il resto.

Solo che Sasà qualche accorgimento di prudenza nei confronti di suo figlio Cornelio lo prendeva.

Non si sa mai non si sa mai” pensava lui che lo sapeva quant’era maligno quel suo figlio, pieno di rancore.

Quando Sasà usciva sul terrazzino a stendere la biancheria – calzini mutande pigiami – stava attento a camminare accosto al muro, e non oltrepassare mai la copertura della tettoia che copriva meno della metà del terrazzino.

Questo perché temeva che Cornelio – da quando era nato quel figlio lo guardava torvo bieco – gli rovesciasse lo ziretto di terracotta col basilico sulla testa, o qualcuno dei suoi stramaledetti gattacci ad azzannargli la giugulare.

E per la sua giugulare, a quant’era sottile la pelle – bastava un’unghiata. Non più.

Ora Sasà per morire voleva morire. Il suicidio era stato sua unica e massima aspirazione già all’età di ventanni, dopo i fatti di Padova che, per due anni, ne avevano consigliato cauta segregazione tra le mura domestiche a Bulàla.

Sì, è vero che Sasà voleva morire, ma di sua mano, per sua deliberazione, per un fatto di coraggio, di sublimazione.

Non mai per mano d’un balordo che gli rompeva la testa in quattro parti con uno ziretto di basilico!

Eppoi parole come deliberazione volontà arbitrio determinazione erano state il nutrimento spirituale, il concime filosofico di tutta una vita – pensava Sasà che mai e poi mai l’avrebbe messa a repentaglio la sua vita per uno dei tre balordi che aveva disgraziatamente contribuito a mettere al mondo.

Seppure controvoglia e col fatale presentimento di quello che sarebbero stati i suoi tre figli maschi… Tre inetti, tre ombre, tre mosche sul muro. Tre balordi per l’appunto.

“Meno male che gli restava Rorò, il cugino Rorò, il figlio di zio Antonino!” pensò Sasà Azzarello ormai prossimo all’albero di Giuda, proprio in fondo alla Villa.

Il posto più bello, il belvedere, e sotto lo spettacolo d’un mare che poteva sembrare cielo tanto era trasparente.

In fondo, all’orizzonte, qualche lampara principiava a luccicare, a scuncicarle le onde timidette della sera, pur se ancora il cielo non la pativa la notte col suo fardello d’ombre.

“Quello era il posto più bello di tutta la Villa, di tutto il paese, di tutto il mondo” pensava Sasà.

Non c’era anima viva. Solo lui e Rorò in carrozzina sotto l’albero di Giuda.

Ogni rumore ogni frastorno del mondo ne restava fuori da quel recinto sacro che l’albero di Giuda s’era assicurato col fatto delle dicerie.

Altro che malaugurio! Tutta superstizione, cose da barbari!

Con quale coraggio lo diceva il Cataratta, quell’ignorante duro come i ceci prima d’ammansirli a bagno col bicarbonato – che l’albero portava jella!

Giusto perch’era una bestiaccia poteva dirlo, senza viatico di letteratura né filosofia.

“Meglio così… meglio così” ruminava tra i denti Sasà, pensando alla superstizione che teneva i paesani lontani dall’albero di Giuda “ché almeno me lo godo solo io questo paradiso in terra. Anzi ce lo godiamo noi, io e tu, vero Rorò?”

E a questo punto, già seduto sul vecchio sedile, con la carrozzina di Rorò di fronte assicurata col freno, Sasà cominciava ad accarezzare la testa del cugino, una calotta calda rosa come la cute dei neonati. Dove non c’era l’ombra d’un capello, l’ingombro d’un pelo.

La scusa era di controllare se il cugino sentiva freddo, poiché Rorò più non parlava.

La verità era che quella carezza riempiva il cuore più a lui che a Rorò che, la testa china sul petto tra la cascata di bave, sembrava non accorgersene affatto di quei fusoli magri magri sulla testa a lasciarvi una timida carezza.

Come non si accorgeva se c’era freddo, né se c’era caldo, né di quanto fosse bello il mare azzolato, turchino, sotto lo strapiombo.

Quella carezza faceva bene a Sasà più che a Rorò. Il gesto della mano era minimo timido nient’affatto appariscente, ma quello che ci lasciava il suo cuore sulla testa nuda rosellina di Rorò era immenso ineffabile.

Era stata la prima botta, il primo ictus, a ridurre così Rorò. In carrozzina e muto. Col cervello chissà dove… chissà… quello nessuno lo poteva sapere.

La prima botta era stata terribile, una deflagrazione. Le altre due erano state piccole toccatine, ma il danno era stato già fatto.

Stranamente, però, da quando Rorò era sulla carrozzina, in un isolamento totale irraggiungibile, in quella incosciente vegetazione di cui solo la sua carne sfatta beneficiava, Sasà ci andava d’accordo. Come non mai.

Profondamente, come non mai, pure se praticamente i due cugini, per un verso o per un altro, non s’erano separati un solo giorno in tutta la vita (nemmeno la moglie di Sasà, Maddalenina, c’era riuscita).

Sempre però col patto chiaro e sottoscritto da entrambi: intelligente Sasà, cretino Rorò.

Sasà, con la scusa di controllarne la temperatura, fece un’altra fugace carezza a Rorò, di cui solo la testa tonda ventosa affacciava dalla spalliera della carrozzella in tela cerata azzurra.

La faccia dallo strapiombo del collo appruava in mezzo al petto e lì giaceva, nell’inabisso delle costole, come un relitto tra la fanghiglia dei fondali.

Con la destra accarezzava la testa di Rorò, Sasà, mentre con la sinistra cercava di prendere confidenza con uno di quegli spropositati pennacchi arancione che costituivano gli strani fiori dell’albero di Giuda.

Quel fiore arancione in mano a Sasà, che pure sotto sotto una certa diffidenza un che di pauroso l’avvertiva nei confronti dell’albero, era carnoso allegro nel colore.

Però, nonostante fosse acceso sgargiante bello, una certa impressione la faceva.

Era una sensazione sotterranea inspiegabile eppure Sasà, quantunque predicasse la bellezza dell’albero di Giuda, e tuonasse contro la superstizione dei suoi barbari compaesani, non poteva disconoscerlo esiliarlo rinnegarlo quel brivido che gli correva lungo la schiena e gli faceva arrizzare i pochi peli superstiti nel naufragio totale delle costole.

Per questo, quasi certamente, Sasà non mollava la presa della testa pelata di Rorò.

Gli dava coraggio la testa calda calda, come i pulcini sotto la cova, di Rorò.

Pensava che la benignità dell’una compensasse la malignità dell’altro.

E continuava a dire ch’era tutta questione d’abitudine e di tempo riuscire a perfezione un progetto di suicidio, quando uno non ce l’aveva di natura il dovuto coraggio. E lui non ce l’aveva.

Quando avevano trovato morto il suo collega di filosofia Candeloro Pisanò, nel ’65, lui, Sasà, aveva quarantanni e tre falliti progetti di suicidio alle spalle.

Tre modi, tre sistemi per porre fine decorosamente nobilmente alla sua ignobile vita.

La pistola, l’avvelenamento, e in ultimo l’annegamento. Pur se tutti e tre i progetti erano miseramente falliti, per un verso o per un altro, Sasà Azzarello non s’era dato per vinto.

Il fatto era che doveva rimettere ordine nei suoi pensieri, che tanti erano e valenti, però confusi, stretti come le palombelle quando la piccionaia è angusta e ci perdono le piume.

Una volta accomodati e ordinati per bene i suoi pensieri, con la giusta larghesìa, il progetto gli sarebbe senza meno riuscito.

La certezza che su quell’ultimo punto non si sbagliava gliela aveva data proprio Candeloro Pisanò, docente di filosofia al liceo Pignatelli, impiccandosi.

Impiccandosi con una determinazione e una boccacucita che avevano lasciato tutti di stucco.

Lo spazzino, alle sei di mattina, l’aveva trovato, ciondolante, e col suo comodo aveva dato l’allarme.

Pisanò s’era impiccato a uno dei rami più alti indentro all’albero di Giuda. Un ramo vecchio possente prossimo al fusto.

Pisanò doveva esserci riuscito al secondo tentativo, perché, lì a terra, giusto in corrispondenza dei suoi piedi, c’era una pila di cartoni (quelli che usavano nelle botteghe per tenerci le conserve di pomodori pelati), sparsi in disordine qua e là.

Ognuno dei cartoni, poi, aveva un grosso buco al centro, come se una scarpa vi si fosse profondata.

Evidentemente nel momento di passarsi la corda attorno al collo i cartoni avevano ceduto.

Tra l’accampamento dei cartoni rovesciati c’era pure una pila di blocchetti in cemento, salendo sui quali Pisanò aveva coronato con successo il suo proposito d’ammazzarsi.

“Nei paesi – si sa – anche le cose belle ti rovinano, le deturpano ricamandoci sopra con commenti e sproloqui” pensava Sasà pur dopo trentanni a proposito di Pisanò.

Il fatto era che a Bulàla s’era sparsa voce che Pisanò si fosse impiccato per avere l’unica erezione di tutta la sua vita. Poiché da vivo – si diceva – non gli era mai riuscito d’averne una. Di sentirsi uomo come tutti gli altri.

Per avere (una volta un’unica volta almeno!) un’alzata di cazzo… che lo estasiasse sia pure al prezzo della vita.

A Bulàla si diceva che, per effetto della contrazione dei nervi, lo spasimo della morte da soffocamento provocasse come reazione meccanica, del tutto involontaria, l’erezione del sesso nei maschi.

E che questo era il vero motivo per cui Pisanò s’era deciso al suicidio, impiccandosi, per averlo dalla morte quel che la vita gli negava.

Che Candeloro Pisanò fosse meomeo, a Bulàla lo sapevano tutti, anche i colleghi del liceo e gli studenti.

Come sapevano tutti che meomeo indicava il maschio impotente, uno con un nervetto appiluccàto manso asciroccàto…

Fossero femmine belle bellissime nude sensuali cosciadimulùni per il meomeo era lo stesso.

Il suo inguine giaceva, alluppiato, imbalordito, in fatale negligenza di nervi e fermento come la patata quando, sottoterra, appirrugna e non fruttisce.

E lui per animarlo almeno una volta, per vederlo aspro stravolto fero, il suo inguine, da quieto e mollacchiùso qual era, non ci aveva pensato due volte a impiccarsi.

Questa la spiegazione che si dava a Bulàla del suicidio del Pisanò, che così miseramente liquidato, perdeva in coraggio e magnanimità.

Un vero precipizio. Dalle stelle alle stalle. Una ruina.

Non più motivazioni ideologiche, non più tensioni d’un animo vago, non più inquietudini, non più niente. Niente di niente.

Solo una questione di cazzo!

Sasà se n’era costernato non poco di questa spiegazione barbara, di questa maligna eziologia d’un gesto titanico. Assolutamente sublime.

L’unico di cui Pisanò potesse andar fiero, dopo una vita passata a farsi sfottere dagli alunni, a sentirne le reiterate pernacchie alle spalle.

A ingoiare angherie in silenzio poiché, quando ci provava a reagire, tanto s’animava per la furia del torto, che l’ingroppo delle bave pareva ucciderlo.

Gli occhi sgrillavano fuori vitrei, la faccia gli si chiazzava a panna e mirtillo, ch’era uno spavento.

Certo Sasà quando l’aveva visto morto alla Villa, ancora appeso al ramo – con un pennacchio arancione che gli passeggiava sul naso per via che c’era vento di ponente – l’aveva notato un certo sorrisetto di soddisfazione sulla bocca di Pisanò.

Lui, che sempre accucciate le teneva le labbra, e mai un sorriso, sempre ingrugnito, pure s’era un brav’uomo, sempre solitario come i cani quando assaggiano il bastone sulle ossa della schiena.

Certo se il motivo del suicidio era quello che si mormorava…

Il tarlo del dubbio si faceva strada nella testa di Sasà Azzarello con perfidia sottile: … ma forse non lo era e allora… ma poteva anche… sebbene… e in tal caso… che pensare? uhmmmmm… ehmmmmm maaaah…

In simili interrogativi per trentanni Sasà Azzarello s’era mangiuliàto il cervello. Questo di torturarsi, infatti, per poi commiserarsi era uno dei suoi più felici talenti.

Alla fine, però, Sasà se n’usciva riconfermando l’autorevolezza di quella soccorrevole provvida trovata filosofica ch’era il Dubbio, colonna portante di tutta la sua vita. Pietra miliare dei suoi mutevoli aleatori principî.

Principî – politici etici estetici – che comunque vergognosamente ignominiosamente mutassero ogni frazione di secondo, avevano pur sempre una motivazione solenne, un aition nobilissimo, una ragione filosofica: il Dubbio.

E Sasà sulla filosofia del Dubbio c’era campato per una vita.

Per esempio, sempre a proposito del Pisanò, aveva concluso: «… E se anche l’abbia fatto per affermare il suo legittimo naturale talento virile (questa periegetica peripezia di parole valeva a dire: vederselo attisare, il coso), non è un ottimo motivo?»

Questo, dopo avere sostenuto un attimo prima, medesimo il piglio, medesimo il convincimento, ch’era spregevole solo pensarlo.

Ecco come la poetica del Dubbio soccorreva Sasà Azzarello in tutti gli accadimenti accidenti incidenti nei quali la sua debilità d’animo si faceva notare col boato d’un vulcano quando prepara l’eruzione sottoterra…

Sasà Azzarello era per natura così. Sosteneva e negava, affermava e smentiva, implorava e sdegnava, esaltava e disprezzava… Tutto questo a un tempo medesimo.

Non che fosse un fatto di sudditanza alle altrui opinioni, a fargli cambiare idea sic et simpliciter. O un fatto di suggestione. No.

Sasà era stato suddito solo di suo padre, Cornelio Azzarello, e delle sue opinioni ma senza avvedersene, o almeno facendo finta di non capirla quella maledetta dannata inclinazione a obbedirgli, pure se faceva la scena delle ribellioni, delle crisi generazionali.

Quel bisogno assoluto di rispettarli i comandi del padre, d’offrirglisi ubbidiente, come una pecorella che va al macello, un piccolo belato ogni tanto, che lui magnificava chiamandolo conflitto!

Quella sottomissione totale, in ultimo, anche quando aveva dovuto sacrificare l’Ada, la friulana per cui s’era ammattito a Padova. L’unica creatura che avesse amato in tutta la vita.

Del cui ricordo era vissuto, e sopravvissuto alle torture di Maddalenina che lo stimava un verme, un inetto buono solo a dire bestialità, a farsi sfottere.

Ma l’aveva poi amata davvero l’Ada, Sasà?… s’era incaponito poi che l’aveva trovata come l’aveva trovata?… era stato un fatto di pazzia?… un focolaio di schizofrenia?… gli aveva fatto l’incantesimo quella creatura solenne come le statue nelle chiese?… oppure la fattura gli aveva fatto come sosteneva, a suo tempo, la zia Carolina?