«Rorò la senti quest’arietta? ora ti copro le spalle ché quello è il punto più debole specie per chi sta fermo come te.»
Sasà faticava non poco nell’adattare la giacca di lana abbottonata sul davanti al corpo morto di Rorò
Sul petto gli poggiava una mano ad evitare che Rorò cadesse in avanti, pure se una grossa cinghia lo tratteneva per la vita alla carrozzina.
Ma Rorò pesava almeno cento chili, e così Sasà prendeva quell’altra precauzione in più. Con l’altra mano, invece, inerpicandosi tra l’ammasso grande delle membra vegliate dalla morte assicurava alla fidata calugine della giacca ora un braccio, ora la spalla, e così via.
Questa operazione era faticosa per Sasà che nelle cose pratiche era uno zero assoluto, e piuttosto lunga per Rorò che però non dava segno di spazientirsene, pure se il suo cuore, sotto alla manina di Sasà a sostegno del petto, batteva forte forte. Più del solito.
Comunque Sasà gli dava voce, mentre faceva vera opera di contorsionismo attorno agli arti superiori di Rorò, pesanti sassificati dall’immobilità.
Pure se la carne, a vedersi, era morbida rosa con tante nuvolette di grasso che ne frastagliavano la superficie.
«Certo Rorò che me l’hai fatta grossa… a Padova con la storia dell’Ada… e tutto perché ti volevi vendicare del fatto della nostra nascita… vero? quello è stato… sicuro… ma quella fu colpa di mio padre Cornelio… con lui te la dovevi prendere non con me… che mi sono rovinato la vita perdendo l’Ada… e tu lo sapevi quanto ci tenevo all’Ada io… sì che lo sapevi eh?»
Sasà ricominciava con la storia dell’Ada e chiedeva a Rorò perché mai avesse rivolto verso di lui inerme indifeso ché Amore inerme rende e indifesi (sic Sasà) la sua letale vendetta.
In realtà Rorò, che non era quel cretino che Cornelio predicava, aveva preso due piccioni con una fava, quella volta.
Nel senso che cantandosela, rivelando ogni cosa sulla friulana e sul cugino Sasà, aveva gettato nella più cupa disperazione, nella più sconsolata desolazione e lo zio Cornelio che gli aveva rovinato la nascita – e anche la vita col fatto di dirgli sempre ch’era un cretino – e il cugino Sasà che con la sua spocchia da principino, con la parlantina da poeta lo comandava a bacchetta.
Solo un telegramma era bastato. Il danno era stato pari al crollo della chiesa madre al tempo della Seconda guerra mondiale.
Quelle due righe incomprensibili (più stop che parole) a stampatello maiuscolo sul cartoncino giallo del telegramma avevano gettato nella disperazione più nera e inconsolabile Cornelio Azzarello.
Un telegramma per se stesso era già motivo di grande apprensione. Un telegramma a Bulàla era un fatto eccezionale. In genere annunciava disgrazie lutti.
E il transumano grido di Cornelio Azzarello subito dopo averlo letto, ancora sulla soglia del portoncino, pareva confermare che di disgrazia si trattava.
Veniva da Padova e quindi (nei paesi una congettura tira l’altra per un nesso di consequenzialità quasi elementare) non poteva che essere morto Sasà.
Cinque minuti dopo tutto il vicinato veniva a sapere della disgrazia abbattutasi sul Direttore Cornelio Azzarello: era morto il suo unico figlio, Sasà. Al Continente.
Dieci minuti dopo tutto il vicinato, a seguito d’ufficiale smentita da parte di Cornelio Azzarello in persona, affacciatosi dal balcone del primo piano, sapeva che non era affatto morto l’unico figlio di Cornelio, Sasà.
E allora? quel grido da vitello orfano? quello strido che rimpallando per l’intonaco dei muri e lo spigolo dei mattoni crudi era giunto alla Piazza e di lì per effetto d’una strana eco dovuta al dedalo dei vicoletti era ripiombato più vigoroso in casa Azzarello?
E la zia Carolina con la brocca della limonata sottobraccio?
E Cornelio accasciato sulla poltrona col cencio bagnato sulla fronte come s’usava per i collassati?
E Tommasina che gli faceva aria col muscaloro?
Il telegramma era arrivato il tre di luglio in casa Azzarello. A mezzogiorno in punto con un sole che spaccava le pietre.
Per ventiquattrore esatte nemmeno la moglie di Cornelio né Carolina erano riuscite a saperlo il contenuto del telegramma.
Riavutosi un poco Cornelio aveva dato ordine tassativo alle due donne di farsi vedere il più possibile dai vicini, a che si quietassero quelle bestiacce dai cento occhi. A che non sospettassero – per amor di Dio! – della sua disgrazia.
Così la moglie aveva passato tutto il pomeriggio a stendere panni in terrazza. Sempre gli stessi. Li raccoglieva dal filo di zinco e dopo un’oretta, con le mollette di legno, li riappendeva secchi come foglie arsicce di pannocchie quando insòlano alla vampa del sole.
Carolina, sempre sul terrazzo, tutto il giorno a girare e rigirare sulle tavolocce di legno la polpa dei pomodori per l’estratto, e preparare anche le chiappe (pomodori a fetta) sott’olio.
Venti chili di pomodori che andavano affettati con cura, salati e disposti in filagno su tavolacci, a che la calura dei raggi li seccasse.
Operazioni che avevano impegnato la zia Carolina per circa otto ore sul terrazzo a un tale sole che per un pelo non ci aveva lasciato la vita.
Un febbrone a quaranta per tutta la notte, la faccia bruciata, e la borsa del ghiaccio in testa.
Solo dopo ventiquattrore Cornelio s’era deciso a dirla tutta la verità.
Era necessario che le due donne la conoscessero per intero in quanto che il piano, nottetempo ingegnato da Cornelio, richiedeva la loro massima collaborazione.
Cornelio Azzarello aveva passato la mattinata a studiare le reazioni del vicinato, a spiarne i più piccoli segni ché quelle bestiacce sapevano fingere meglio dei teatranti che venivano ogni anno in Piazza per la festa dell’Annunziata.
Alle nove in punto era uscito con la scusa del giornale. Sott’occhio controllava, strada facendo, la faccia dei vicini soprattutto nel punto chiave: la mascella.
Se la mascella se ne stava al suo posto, impietrata sotto il telo della pelle, non c’era da preoccuparsi.
Se arrancava stizzita verso la propaggine naso-bocca, fino all’estremo ronciglio del mento, in una contrazione in un ghigno da sileni, era segno che i vicini se l’erano mangiata la foglia. Che avevano capito.
Tutto gli pareva in ordine, anche troppo, considerando il gran parlare del giorno prima.
La strada dall’edicola a casa, però, era troppo poca per dirsi al sicuro, per esserne proprio certi che i vespiglioni s’erano chetati.
Cornelio pensò che per maggiore sicurezza doveva uscire, percorrere un lungo tratto di strada, fare la spesa alla vicina pescheria, e tornare carico tale d’ortaggi formaggi pollame a che nemmeno il più piccolo sospetto potesse sopravvivere.
E in effetti era ritornato dalla pescheria stremato di sudori e involti.
Per non dire che tre mazzi di segale gli spuntavano da sotto l’ascella sinistra, strusciandone la pelle in quel punto sottilissima e smangiata dall’eczema…
Stanco, sì, sfinito sì, ma soddisfatto Cornelio Azzarello. Almeno, oltre alla digrazia che gli si era abbattuta tra capo e collo, improvvisa come quando il lampo spara a sereno, non avrebbe dovuto affrontare i bisbiglii i vocii quel sussurrare sottovoce che tanto sapeva di pettegolezzi, e che lui, peraltro, avendone per anni da vero archegeta retto la matassa e il bandolo, ben conosceva.
Prima di leggere (sussurrare è in verità il termine che più rende quell’asserpolamento della bocca che distillava una a una le parole in un’emissione grama avarissima di fiato) il testo del telegramma mandato dallo sciagurato di suo nipote Rorò, un cretino che aveva trovato la maniera di farglielo mangiare crudo il fegato – e di questo Cornelio non sapeva darsi pace – a mezzogiorno in punto fece chiudere porte e finestre, inchiodandole quasi ai cardini.
Infine, pallidissimo, la mano sul cuore come a impedirgli d’arrestarsi, lesse il telegramma il cui comunicato testualmente recitava:
CARISSIMO ZIO CORNELIO STOP IL LARDO RANCIDO STOP LO SPUTANO I GATTI STOP MEGLIO TORO CHE BECCO STOP SEBASTIANELLO SEBASTIANELLO STOP LE LATRINE DI ACIREALE STOP VOSTRO AMATISSIMO NIPOTE ROLANDO.
Il testo del telegramma era assolutamente ermetico per le due donne, tale che in sincronia perfetta esclamarono:
«Pazzo diventò pazzo sicuro al Continente pazzo diventò… da scimunito che era pazzo.»
Lo scimunito eletto alla condizione di pazzo era logicamente Rorò che mandava, nientemeno dall’altra parte del mondo, un telegramma totalmente incomprensibile.
Ma se pazzo era diventato Rorò non meno lo era Cornelio!
Quel grido, quello spaonazzamento, quella voce tremicchiante che senso avevano, visto che niente diceva il telegramma?
“Niente se non… mmmingggh…” pensavano le due donne senza osare peraltro pronunciarlo chiaro, pure se Carolina era lì lì per sbottare pensando all’insolazione del giorno prima, che quasi quasi la spediva al Creatore.
«… Sul terrazzino… sul terrazzino tutto il giorno ci devi stare… tutti ti devono vedere intesi?… la nostra casa onorata in fumo se ne sta andando e queste bestiacce qua intorno arronfate se la spassano certo della mia tragedia…» questo l’ordine tassativo di Cornelio e lei, Carolina, da vera cretina, gli aveva ubbidito come sempre fino a che il cervello era andato in ebollizione.
Ora, per giunta, dopo tanto sacrificio, si scopriva che i pazzi erano due: Rorò e Cornelio.
Cornelio, un quarantotto aveva fatto, per quella minghia di telegramma. (Carolina lo pensò proprio nel termine citato di minghia, pure se quella parola non uscì dalla siepe scarsa dei suoi pensieri. In ossequio al fatto che la sapeva esclusiva dei maschi, monopolio totale e guai! a toccargliela non se ne parlava proprio.)
Il Direttore Cornelio Azzarello, della cui intelligenza e perspicacia s’è gia detto, subito invece l’aveva capito l’enigma del telegramma che gli aveva perforato il cuore peggio d’un serramanico.
Le femmine non lo capivano ché quelle due cretine erano di nascita e con l’età – si sa – l’asinità ingrassa come un porretto che svasa a verruca o a polpo.
Lui subito l’aveva percepita tra le righe la disgrazia, come aveva capito che Rorò, oltre che cretino, era un gran bastardo.
Non una lettera a quattro facciate che dicesse chiaro e tondo per filo e per segno come stavano le cose ma un telegramma sibillino di appena due righe tali, però, che la disgrazia si poteva intuire benissimo.
Parole oscure di cui solo lui percepiva l’inequivocabile terribile significato.
Roba da ammazzarlo. Con quel popò di danari che gli mandava ogni mese il bastardo, velenoso come la tarantola, sul telegramma andava a risparmiare.
A intuito ci si doveva andare nel testo del telegramma e a un poverocristo di padre in pena, qual era lui, il cuore ci scoppiava con quel tràsiri e nèsciri (si dice non si dice) insinuante ammiccante fatto di parole innocue e d’altre assassine come BECCO BASTIANELLO chiarissime se uno non fa orecchio di mercante!
Cornelio Azzarello non faceva orecchi di mercante! No certo. E poi con quell’unico figlio per il quale stravedeva, pure se stravagante c’era e difettava un po’ ma solo d’esperienza!
«Cretine quale pazzo e pazzo Rorò! Chiaro è il telegramma, chiarissimo. Già solo due parole dicono tutto: BECCO e BASTIANELLO, ché poi la stessa cosa sono. Cretine che significa becco?»
«Cornuto!» fu la risposta all’unisono delle due donne. Una risposta secca sicura senz’ombra di tentennamento.
«E bastianello?»
«Cornuto!» ancor più sicure risposero le due donne con tale lapidaria incisività nella voce come mai se ne ricordava Cornelio.
«Già, cornuto! cornuto!» concluse sottovoce Cornelio Azzarello alzandosi a mettere gli scuri alle finestre, pure s’erano chiuse fitto e l’aria ribolliva d’afa come mosto nel pajuolo di rame.
Cornelio era terrorizzato dal fatto che i vicini potessero conoscerla la verità.
Un conto è sospettare un conto è sapere. E a quel punto sudava freddo pure se era il quattro di luglio e, in tutta la casa, non circolava una fettuccia d’aria e la gatta dava certi sbuffi da moribonda per asfissia.
Bisognava capirlo il terrore del Direttore Azzarello e le precauzioni circa una fuga di notizie sugli avvenimenti ultimi.
La notte poi aveva avuto incubi terribili. Sì, terribili.
La zia Carolina, con quel lampo di genio che talora solo i cretini hanno, statim et immediate aveva decifrato l’enigmatico messaggio del telegramma almeno limitatamente alla parte in cui si parlava di LARDO RANCIDO.
Questa ne era stata la sentenza conclusiva: «Allora Rorò vuole dire che Sasà se la fa con una che non è giusta…»
Il significato dell’espressione essere giusta a Bulàla era chiarissimo per tutti. Traduceva la condizione di illibatezza, di verginità in una femmina.
Sasà dunque al Continente stava con una che non era giusta. Bell’affare! Proprio grossa l’aveva combinata, più grossa non si poteva.
Ora il confine tra essere giusta e non essere giusta era nettissimo. Tra i due stati c’era un abisso.
Perché se una ragazza non lo era giusta (secondo il significato di cui si caricava l’aggettivo) il quesito era questo: quanti uomini aveva avuto? uno, o anche cento o mille.
C’era, per dirla col linguaggio di Sasà, tra le due condizioni l’analogia che correva tra l’essere e il non essere. Il diavolo e l’acqua santa.
Poiché nel telegramma Rorò parlava di latrine, non si concedeva nemmeno il più piccolo spazio al dubbio, a un disperato ottimismo.
D’una buttana col giummo (una puttana di carriera) a Bulàla si diceva: Quella? n’ha visti quanto le latrine di Aci.
Il cosa avesse visto era facile intuirlo, poiché le latrine pubbliche di Acireale – rinomata stazione termale d’acque miracolose sotto l’aspetto diuretico – erano frequentatissime quanto se non più le latrine della stazione centrale.
«Miserabile assassino pidocchio cimicia farabutto» ora Cornelio riprendeva con gli improperi volti a Rorò. «Non poteva scrivere più chiaro con quello che gli passo? Che so? il nome di questa buttana, da quanto tempo l’ha pescato il mio figlio sconchiuduto, le intenzioni assassine che ha.»
Cornelio ovviamente era alla ricerca disperata di tutti gli elementi per potere formulare una diagnosi certa del caso e una prognosi fausta di sicura guarigione, di certa vittoria.
Si poteva forse prenderla alla leggera? o fare ridere i vicini esternandoli, patimenti sofferenze, che gli attanagliavano cuore e midollo, in totale annichilimento di sensi e cervello?
No! mai e poi mai.
«Ladro… ladro sanguisuga a tradimento» proseguiva Cornelio sempre pensando a Rorò «non poteva essere più chiaro? Almeno quel tantino che un cristo possa prepararlo un piano adeguato di difesa?»
A questo punto si sentì sicura decisa come mai la voce di Carolina:
«Di chiaro, chiaro è stato Rorò: Sasà è cornuto e quella è buttana. Buttana col giummo. Questo ha voluto dire, e questo s’è capito.»
Cornelio Azzarello cereo quanto una candela di sego all’ultimo muzzicùni sudava freddo, mentre principiava il tic alla mascella e l’ingroppo della voce che annaspava nella laringe.
Scrollava la testa come a dire no nooooo, mentre il corpo abbatuffolato s’abbandonava sulla poltroncina come un gomitolo di lana vecchia arpionata dall’uncinetto più e più volte…
“Quella cretina di Carolina non aveva capito niente” pensava Cornelio.
La faccenda un’altra era. Spaventosa. E riguardava lui lui in prima persona non suo figlio Sasà.
Cornuto, agli occhi di tutto il paese, lui sarebbe stato, Cornelio Azzarello, emerito Direttore didattico. Altro che Sasà!
Il paese su di lui avrebbe gettato la croce. Lui era l’Uomo di casa Azzarello, lui il pater familias.
Sasà era un minchione (queste confidenze su Sasà Cornelio però le faceva solo a se stesso, a quattrocchi con la sua coscienza come fosse in punto di morte, al cospetto di Dio).
Un minchione che lui padre affettuoso aveva montato come si fa con l’uovo sbattuto a neve e la bustina del lievito.
Che? le capiva queste cose quello sciagurato rintronato che appena messo piede a Padova bell’affare andava a combinare…
La tragedia sua era. Sasà indenne ne sarebbe uscito dalla vicenda perché – Cornelio lo sapeva assai bene – non c’era gusto a Bulàla con uno come lui, sperso tra cogito… sum… ragion pura essere non essere, a infierire sul fattore corna.
Lui Cornelio Azzarello, illustre e onorato Direttore didattico per concorso alle Cavour, rischiava di diventare il capro espiatorio della minchioneria di suo figlio Sasà. Lui la vittima sacrificale!
Sasà per quello che la Piazza valuta d’un uomo per dirlo uomo, un cretino era. Un fissato, un inetto, una vescica piena di sonetti ballate epigrammi madrigali e altre simili fesserie.
Non c’era gusto a torturare Sasà, che non avrebbe mosso ciglio se anche cento mille un milione di volte in faccia glielo avessero gridato in coro con l’accompagnamento delle campane della chiesa madre: cornuto cornuto cornuto cornutooooooo…
Lui, il minchione, all’amore pensava, all’essenza alle fantasie, e delle corna se ne fregava. Se ne faceva un baffo!
Quelle canaglie del paese benissimo lo sapevano tutto questo, come benissimo lo sapeva Cornelio Azzarello che di questa catastrofe avvertiva l’immane peso solo su di sé.
“Un lampo di genio ci voleva. Doveva pur venirgli un lampo di genio a soccorrerlo” pensava accorato con la pressione a trecento Cornelio Azzarello, poi che in casa solo cretini e inetti lo circondavano.
E il lampo di genio venne infine: «Intelligente pauca…» pronunciò come sotto un’ispirazione divina Cornelio Azzarello. Un po’ incerto se si dovesse dire intelligente o intelligenti.
Fece la scelta sbagliata, Cornelio, quella con la e che se grammaticalmente non c’entrava proprio, emotivamente era la lectio che più lo confortava sotto il profilo della sua persona per l’appunto intelligente siccome suonava il proverbio latino.
Il lampo di genio suggeriva in lingua latina (a uno che sia intelligente poche cose bastano) che lui, Cornelio, si concentrasse su poche cose di sicura infallibile efficacia vista la gravità del caso.
Cornelio, che intelligente era, si concentrò su una cosa che da sola bastava, per sua stessa autorevolezza, a risolvere il problema: PEDAGOGIA
Benedetta pedagogia che gli porgeva, ancora una volta, tutti i remedia amoris – Ovidio lo citava spesso, Azzarello, e per questo il titolo del poemetto gli uscì netto netto senza intrùppichi della voce.
Per prima cosa non doveva perdere la testa.
Per seconda fare tornare immediatamente a Bulàla quello sciagurato di Sasà assieme a quell’altra che per comodità d’intesa Cornelio chiamò quella delle latrine forse con un’involontaria analogia, un sotterraneo richiamo, un parallelismo emotivo a quella delle camelie pure se latrine e camelie non sono quel che si dice due gocce d’acqua.
Questo fa comprendere certo quanta e quale ambascia travagliasse Cornelio Azzarello incaprettato in siffatta sciagura.
“Se gli dico… torna immediatamente… ti faccio interdire… cretino… con la buttana ci sei cascato… torna minchione” era una delle mille ipotesi operative di Cornelio Azzarello “quello si va a perdere e pure il pelo se ne perde e io ventanni di balle di sudori di frottole mi perdo… (pensava al figlio di cui lui era stato unico pigmalione)…”
“Se invece gli dico… Sasà, a papà, scendi… che fai lassopra con questo caldo… vieni a farti i bagni a Bulàla… al lido gli ombrelloni hanno messo ti ho affittato la cabina per tutt’agosto… se hai un’amica portala lo sai che ci fa piacere… scendi mi raccomando” mentre al solo pensiero la bile e tutto il fegato gli scoppiava “… ti vieni a fare le ferie… ci vuole un po’ di sole Sasà… Cataratta sempre mi chiede viene Sasà e quando? viene o non viene?”
Questa era la seconda ipotesi d’intervento. La più autorevole perché suggerita dalla pedagogia.
Nelle tre notti passate sui testi di pedagogia del concorso a Direttore didattico, con gli occhi che grondavano sangue, la faccia stravolta tumefatta dalla perdita di sonno, gli occhi che parevano uova sode, ma:
Cosa non fa un padre per un figlio!
Cornelio aveva trovato scritto testualmente: «Il ragazzo protagonista del rapporto educativo, epicentro del dialogo… fulcro…»
Certo quella era la strada e lui così si sarebbe comportato con Sasà come la pedagogia suggeriva. Cioè di farlo contento e gabbato.
Niente improperi né rimproveri a Sasà – sebbene il sangue a grumi ce l’aveva; a grumi tosti come le còcole del mare nelle vene intoppate – niente chiassate.
Mosca e pipa! pur di farlo rinsavire il suo Sasà che figlio di famiglia in fin dei conti era, e a quella baldracca delle latrine una bella lezione gliel’avrebbe data lo stesso.
In modo sottile subdolo come suggeriva la pedagogia. Col sorriso sulle labbra e le paroline dolci gentili prego che piacere! non faccia complimenti come a casa sua prego…
Che lo dicesse a Padova, rientrandovi senza più il suo figliolo Sasà, come si educano i figli in Sicilia! come ci sta di sopra un padre. Sempre in guardia alla creatura, occhio vivo! occhio di furetto! a non farselo fregare un figlio.
Per amore di verità bisogna chiarirlo il punto di vista di Cornelio Azzarello.
Per Cornelio la spina al fianco di tutta la vicenda non era il discorso delle corna né della verginità.
Quella era la minima cosa. Quello era un parlare da siculi idioti barbari, scimuniti col cervello ammarazzàto (ingombrato) da pregiudizi dell’Ottocento, da pregiudizi del tempo dei Borboni.
Cornelio pure se c’era nato in Sicilia, anzi nella Sicilia più siceliota, un uomo di mondo si riteneva.
Aveva passato lo Stretto due volte. Andava ai casini in Palermo e Catania. Si faceva la villeggiatura, con la scusa delle cure termali, da solo a Sciacca. Oltre cento chilometri da Bulàla.
E poi tutta quella pedagogia che aveva studiato per il concorso glieli aveva distrutti i pregiudizi da siciliano. Benedetta Pedagogia!
Il fatto era un altro di natura più sofistica, più intellettuale. Riguardava il suo ruolo di padre, non di padre avventurato ma di padre accorto attento pedagogicamente preparato. Riguardava ventanni di vita al servizio di quell’unico figlio.
Giorno dopo giorno, con la santa pazienza e il suo immenso amor di padre, da un mucchietto di paglia bagnatizza aveva costruito una vera piramide.
Prima, appena nato il suo Sasà, col fatto del capitale, poi l’intelligenza, la genialità, la poesia, l’estro, il talento la… l’… lo… le… gli… eccetera…
Insomma quando Cornelio faceva la lista delle fatiche dell’impegno dello stare sempre sul chi vive che gli erano costati quei primi ventanni di Sasà, la vista gli si appannava.
Gli salivano lacrimoni grandi come nespole e solo per ritegno le tratteneva in pizzo di ciglia come il giocoliere quando trattiene sul polpastrello dell’indice la palla.
In genere gli riusciva, ma in quella circostanza non sempre gli era facile.
Sicché una volta o due, per defluvio di lacrime, tale era stata la pozzanghera ai piedi dell’Azzarello che Carolina aveva dovuto armarsi di tirastracci e pezze.