Ada non si scompose nemmeno un poco a fronte della richiesta di Sasà, che nientemeno la sua vita chiedeva. Il suo suicidio.

Sasà era stato perentorio e determinato al riguardo, solo restava da precisarne le modalità.

Ma Sasà – s’è detto – quanto a perfezionare progetti di suicidio era già allora un vero talento.

Sasà pensò che proprio da quell’assenso immediato dell’Ada, che non muoveva obiezione né batteva ciglio, si vedeva ch’era una continentale quella creatura divina. Mentalità stoica, disprezzo della morte, contemplazione del suicidio.

Creatura perfetta divina celeste unica al mondo. La sola che lui potesse amare, la sola che potesse sposare.

Ma poi che, per come stavano le cose, non poteva sposarla né tanto meno lasciarla – giammai! – non c’era altra soluzione che farla morire, persuadendola a una morte che nella migliore tradizione letteraria – Sasà pensava a Romeo e Giulietta di Shakespeare – li avrebbe uniti per sempre in nome dell’Amore.

Non cesura strappo rottura divisione tra loro due, bensì simbiosi osmosi copula. Quest’ultima, nella periegesi interpretativa di Sasà, depurata da ogni carnale sembiante, andava riferita esclusivamente alle affinità elettive.

Mirabilia! non c’era stato bisogno di persuaderla! Ada finito lo spumantino – aveva detto – solo sì… non s’è miga un problema un deto e un fato.

Una creatura eccezionale, composta… solenne determinata… Altre (Sasà pensava a sua madre sua zia Carolina le femminette di Bulàla) un pandemonio avrebbero fatto.

Strepiti grida suppliche minacce invocazioni imprecazioni e quant’altro a farle restare vive.

Attaccate alla vita come zappaglioni allo sterco caldo d’una vacca.

A respingerla come furie la proposta di Sasà che in fin dei conti non chiedeva una bazzecola, un civettuolo pegno d’amore, ma la vita! Sì la vita.

«È questione di cultura» sospirava Sasà! «quella (alludeva alla cultura dell’Ada) è cultura nordica romantica. È la cultura dello Sturm und Drang…»

(A questo punto dello sturm und drang il Cataratta avrebbe detto minghiaaaate.)

In realtà le cose non stavano proprio come le pensava Sasà.

L’Ada, più che creatura wertheriana, era creatura furba. Una sempliciona tutta d’un pezzo, ma furba. Con una bella noce di sale in zucca.

Non intelligente. Furba. Pensando che quella fosse l’ultima fissazione di Sasà e che poi, Sasà, per esaurimento d’altre pensate si sarebbe calmato, aveva deciso di starci.

Avrebbe fatto finta di suicidarsi gettandosi al fiume, certa com’era di salvarsi, essendo ottima nuotatrice, campionessa regionale con certi muscoli pettorali da fare spavento, e in più quasi infermiera professionale.

“Come modalità del suicidio” pensava serafica l’Ada che a Sasà non ci voleva rinunciare “cosa poteva proporre il suo Sauruccio?”

Canaloni e fiumi con un bel salto nell’acqua giù dal parapetto del ponte oppure veleni o sonniferi.

La prima ipotesi la faceva ridere. Era un giuoco da bambini per lei campionessa stile libero, e abituata a tuffarsi dal trampolino.

Si sarebbe gettata con slancio, la testa a pelo d’acqua, qualche minuto giù in apnea, ché poi Sasà avrebbe fatto il resto per salvarla invocando aiuto a squarciagola.

Pavido com’era, senza un grammo di coraggio, avrebbe strillato tanto che almeno in dieci (su Sasà non ci contava) si sarebbero tuffati a salvarla.

Un po’ d’intoppo al fiato, qualche sputo d’acqua, l’occhio smorto tremulo per un paio di minuti, e poi sana come un pesce.

E viva, soprattutto, viva, con la più grande felicità di Sasà che a quel punto come suo salvatore non avrebbe più potuto rinfacciarle niente.

Anzi avrebbe rinunciato in buona pace, contento e gabbato, alla sua morte.

La seconda ipotesi delegava la morte dell’Ada a veleni o sonniferi.

E anche in quel caso non c’era da preoccuparsene. Lei infermiera professionale sapeva i rischi che si correvano, e certamente non ne avrebbe corso alcuno, seriamente. Solo per finta, solo per scena.

Un batuffolo d’acqua di piombo (quella che usavano per le lavande vaginali in ospedale) sulle labbra – giusto per l’odore! – una bella spruzzata sul petto a che il vestito bagnato facesse impressione, qualche finto conato di vomito, e anche in quel caso era fatta!

Sasà disperato le avrebbe retto la nuca, le avrebbe tirato la lingua in fuori mentre lei in piedi vomitava dentr’al cesso.

Le avrebbe preparato acqua e zucchero, le avrebbe massaggiato il cuore con le sue falangette aguzze come lische, e lei, poco a poco, si sarebbe ripresa quella vita che non aveva mai seriamente rischiato di perdere.

Niente più visioni né cimiteri né tombe con le croci accicognate. Solo il suo Sasà e il matrimonio.

Le cose andarono proprio come l’Ada le aveva pensate. Anzi più semplicemente per quanto riguardava la messinscena del suicidio, ma con un imprevisto riguardo al dopo-suicidio.

Sasà per due settimane la portò su tutti i ponti del Veneto e Ada conobbe fiumi e fiumiciattoli, torrenti e torrentelli sì sperduti che nemmeno le più analitiche carte geografiche segnalavano con quella serpentina blu che, di solito, indica i corsi d’acqua.

Il Bacchiglione, il Po, l’Adige, la Livenza, il Sile, il Brenta per non perderci con i rigagnoli che più scolature di fogna sembravano.

E ogni volta la stessa storia. Era in piena, c’era poca acqua, ce n’era troppa, non c’era abbastanza luce, ce n’era troppa.

C’erano troppi passanti o non ce n’erano affatto, le acque erano limpide o limacciose… calme o troppe agitate e mille altri pretesti per tornarsene ogni sera senza avere concluso niente.

L’Ada, che s’era proprio stufata anche perché continuava a fare i turni in ospedale e quel pellegrinaggio per ponti cominciava a risentirlo nella mancanza di sonno, nella spossatezza, nel gonfiore dei piedi, pose a sorpresa fine a quel calvario.

Senza dirgli niente – una sera che aveva finito il turno di notte e per l’altro turno aveva ventiquattrore di tempo a disposizione per suicidarsi morire (quasi) e risuscitare – pose fine di testa sua alle peregrinazioni fluviali.

Si stese sul letto, un minimo spruzzo d’acqua di piombo sulle labbra, un quarto di litro d’acqua di rubinetto sul petto e in bella mostra sul cuscino, rovesciata, una bottiglietta vuota con la scritta Stricnina.

L’aveva raccolta dal secchio dei rifiuti al laboratorio di farmacologia. In ospedale.

La messinscena era perfetta, non restava che aspettare Sasà che a giudicare dallo scroscio d’acqua nel cesso e dalla catenella arrugginita, doveva essere lì lì per riaffiorare (sì proprio quello era il termine esatto quando Sasà sprofondava nella tazza del cesso in genere in compagnia d’un dialogo di Platone o d’una orazione di Isocrate).

E difatti Sasà non tardò. La canottiera di lana a mezza manica sebbene fosse la metà di giugno, le gambette consunte, non più grosse dello stelo d’un papavero, nude da sotto le mutande a mezza coscia cucite a mano col percallo fino dalla zia Carolina che pretendeva di provargliele, prima d’attaccarci i bottoni, con tutto ch’era signorina.

«Eeeeehhh certe cose (allusione al capitale) le signorine non le devono vedere» borbottava Cornelio terrorizzato che quella cretina potesse accorgersi delle balle riguardo al sesso di Sasà.

Ada, muta immobile se ne stava, abbandonata di schiena a che si vedesse il petto bagnato, e si sentisse quel poco d’odore dell’acqua di piombo. Immobile aspettando la reazione di Sasà che tardava.

Lo sapeva pavido il suo Sauruccio, di niun cuore! quante storie per una iniezione quando aveva fatto l’influenza!

Quante raccomandazioni per le supposte quando aveva fatto l’otite purulenta!

Il suo Sauro quanto a coraggio aveva il cuore d’un passerino.

Altri erano i pensieri di Sasà fuori dal cesso, con la tovaglia di tela grossa avvolta a turbante intorno alla testa, stretta forte sulle tempie.

La sessione d’esami stava per finire e lui niente, nemmeno una materia.

Aveva dato fondo a tutti i vaglia di Cornelio e alle riserve d’emergenza, girando in treno tutto il Friuli e tutto il Veneto.

Senza contare i vari ristori alimentari per la sua Ada ch’era d’ottimo appetito. Cascasse il mondo – grandine fulmini tempesta – mangiava ch’era un vero piacere.

Mentre lui aveva dilapidato quindici chili della sua già misera carcassa senza risultato alcuno che servisse a mettergli il cuore in pace…

Non poteva sposare l’Ada – e come con Cornelio di mezzo? – ma nemmeno lasciarla. In quel caso meglio la morte.

S’era distrutto in feroci taurini assalti sessuali quel modesto capitale che madrenatura gli aveva dato, perché sperava che in uno d’essi con tutto quel trambusto quell’agitazione quei pugni quelle pedate il palermitano che aveva determinato la sua disgrazia ne uscisse morto per effetto delle allucinazioni. Perché, quantunque fossero passati già tre mesi, Sasà continuava a vedere il carabiniere, responsabile delle sue sciagure, a mezzo tra lui e l’Ada, steso come la marmellata di more tra due fette di pane casareccio.

Oh pena oh tormento! Quale godimento? quale orgasmo? tortura solo tortura.

Mentre l’Ada tra sospiri e sussulti ne veniva fuori pacifica, liscia come un velluto. Segno – questo era il momento in cui Sasà diventava Sasà-Cornelio – ch’era una cavalla da letto. E a quel punto la odiava con tutte le sue forze.

Segno che il corpo dell’Ada aveva la meglio sull’anima; anima che lei mandava a quel paese, infischiandosene dei tormenti che aspri aspramente lo sfinivano giorno e notte…

Segno che al cazzz… la friulana c’era abituata come quando uno fa le tonsille d’abitudine ogni inverno… ma quanto c’era abituata? quanto?

E sul quanto si apriva una voragine di sospetti presentimenti intuizioni dubbi allusioni et cetera.

Tardò almeno mezz’ora Sasà prima d’accorgersi della bottiglietta sul comodino con la scritta Stricnina.

Ada fremeva ché già quel poco d’odore d’acqua di piombo sulle labbra era svanito evaporato.

Né poteva inumidirle d’altra acqua di piombo, ché in quel silenzio anche le mosche si sentivano volare.

Non ci fu il grido atteso. Ci fu un piccolo craaackkkk: segno che la bottiglietta s’era ridotta in mille pezzi.

Ada con la coda dell’occhio sommerso sotto la palpebra schiusa appena, ad arte, come ce l’hanno i moribondi, le vide ad altezza di materasso le mani magrine di Sasà, tali tremicchianti quelle dita che nello spolpo dell’osso parevano prese da un fulmine.

“E che? non facciamo che mi muore per lo spavento…?!” pensò l’Ada, sinceramente preoccupata, mentre ormai anche il bagnato sul suo petto s’era asciugato, lasciando uno spiegolio crespato nel tessuto di popeline a fiorellini blu.

Lo spavento che il suo Sauro adorato potesse morirci, pavido e coglione com’era, fu tale da farle emettere un leggiero lamento, rassicurante del fatto che lei non era morta. Che ancora respirava.

Un lamento da gatti sulle prime. Ma dopo, poi che Sasà sembrava cascato in catalessi, cominciò a sollevarsi sul torace, ad agitare le mani contro la bocca come in atto di vomitare.

Possibile che Sasà non s’accorgesse? possibile che fosse morto per lo spavento, mentre doveva morire lei, e solo per finta?

Non era morto Sasà. Solo terrorizzato era sì che la scena del salvataggio non era andata propriamente come l’Ada l’aveva pensata.

L’Ada dovette prendere di peso Sasà, peraltro leggerissimo, una piuma, portarlo fino al lavandino, cacciargli la fronte sotto lo sgriccio d’acqua del rubinetto. Rianimarlo con cinque zollette di zucchero. E amen! Quanto a lei, sputacchiò dentro la tazza del gabinetto, così giusto per rispettare un certo copione perché Sasà stravolto allampanato com’era non poteva accorgersi di niente.

Solo dopo qualche ora, quand’ormai l’alba invadeva la stanza con la luce del giorno:

«Adaaaa Aaaadaaa morto mi vuoi? che mi combini santa creatura? all’improvviso? senza ch’io mi fossi preparato?… e poi giusto la stricnina? la candeggina la varechina almeno… ché si fa in tempo con il lavaggio delle budella… no la stricnina… un miracolo che sei viva Ada mia… un miracolo dopo la stricnina… forse le preghiere delle tue zie in clausura…»

Questo con un fil di voce Sasà e guardava con stupore e maraviglia quella risurrezione che aveva precedenti solo in Prometeo e Lazzaro.