Che, poi, santiddio, quanto scriveva quel figliolo! E che?… cento… duecento lettere al giorno… si poteva sapere? e ognuna… sette… otto anche dieci fogli.
«Sì lo sfogo, sì la disperazione, sì lasciarlo fare ma buon Dio un po’ di controllo!» pensava Carolina, dopo il primo anno di quel suo incolpevole sciagurato errabondare notturno. Di quella sua vita da sonnambula spazzina che le aveva divorato almeno dieci chili tra carne e ossa.
E che? non c’era mica lui solo al mondo!… non era il primo né l’ultimo a soffrire per amore… anche se quell’Ada, alta quanto il campanile della Matrice… mahhh booooo tanta simpatia non gliel’aveva ispirata quando, assieme a Sasà, era approdata a Bulàla… e in ultimo, comunque fosse andata la faccenda, doveva scontarle proprio lei le sue fisime?
«Santo Sasà! un po’ di rispetto per tua zia Carolina» mugugnava a denti stretti Carolina quando dal corridoio sentiva l’ennesimo strappo di carta. E raggricciava nelle carnine incartapecorite al pensiero di fare nottata tra le immondizie e i gatti randagi che parevano pazzi… «Né tu il primo né tu l’ultimo figlio santo!» sussurrava mentre l’ossetto della tibia tremoliziava ch’era un piacere!
Fortuna, però, che la carta la portava a scatoli di mille fogli l’uno, dalla segreteria della sua scuola, il padre di Sasà, Cornelio, perché a comprarla alla tipografia, con quello che costava, sarebbe stato un bell’affare!
“Quella zòllera d’una friulana, quella buttana del Continente glielo aveva guastato il figliolo, distrutto come lo ziretto di terracotta col basilico dentro quand’era caduto dal terrazzino giù in strada sulle basole nere di pietra e s’era ridotto in mille pezzi” pensava Cornelio.
E ora toccava a lui, ch’era il padre, con la santa pazienza che solo l’amore d’un padre detta, rimettere insieme i cocci del suo Sasà.
Non era forse Sasà il suo adorato figlio? il suo unico amatissimo figlio? la luce degli occhi suoi? il faro della sua vecchiaia?
La domanda era retorica e la risposta era sì sì sì sììììììììì.
Questo era Sasà, e molto di più per il Direttore Azzarello. Seppure quel figliolo benedetto di guai gliene aveva rifilati a bizzeffe.
Ma cosa non fa un padre per un figlio?
Anche questa era una domanda retorica che presupponeva come risposta: tutto. Tutto fa un padre per un figlio. Anche rubare la carta della scuola. Che poi non si trattava affatto di rubare, secondo l’opinione di Cornelio.
Non era forse sua la scuola elementare Cavour, vinta con tanto di concorso e sedici anni di ruolo come maestro elementare?
A dire la verità il Direttore Azzarello, oltre alla carta per scrivere, anche la carta igienica prelevava dagli sgabuzzini della scuola (e quella non certo a causa della follia di Sasà). Come pure il disinfettante la candeggina e il diddittì.
Senza rimorso di coscienza Cornelio Azzarello ripeteva sempre d’amministrare la sua scuola come un buon padre di famiglia. Non c’erano orari per lui quand’era il caso! Non si faceva scrupolo di passarci la notte al bisogno.
Altro che rotoli di carta igienica avrebbe meritato per la sua abnegazione, il suo piglio di vero capo, il suo pugno di ferro con tanti delinquenti poltronacci sguallarati talleri laddentro scansafatiche ignorantacci. Per di più, velenosi come tarantole.
E poi chi la voleva cotta, chi la voleva cruda, il broncio per questo, l’occhiataccia da malocchio per quell’altro.
Lui solo, Cornelio Azzarello, ci poteva a metterli in riga col pugno di ferro, a farli marciare come pecorelle al pascolo!
Lui, l’esimio! Cavaliere della Repubblica: Cornelio Azzarello.
La carta igienica era del tipo più scarso che ci fosse. Crespata sottilissima trasparente ruvida, un niente e s’infilava dentro le dita, a mo’ di mezzoguanto.
Poi, di conseguenza, le dita naufragavano, persa la scialuppa, dritte dritte nel culo.
Quando la moglie Tommasina glielo faceva notare che quella carta era fina come un velo di cipolla, Cornelio Azzarello incurriando il petto per darsi tono rispondeva:
«… è che sei tutta scema Tommasì. Il culo ci si asciuga con questa, non la faccia! E per il culo magnifica è te lo garantisco… magnifica…»
Tommasina, se non capiva di Platone e d’intelligenza, di carta igienica ne capiva benissimo.
Poi che le sparate e la prepotenza del marito ben le conosceva, non replicava nemmeno una sillaba, però la carta igienica per lei e per sua sorella Carolina la comprava nella migliore rivendita di Bulàla. Da Nanuzza. Carta che sembrava lino! e ci stava attenta a nasconderla per bene nella cassapanca del suo corredo.
«Lasciatelo scrivere… scrivere male non ne fa… sfoga vi dico… ringraziate la Madonna che ce l’ha voluto salvare… quale tragedia con questo solo figlio che il Signore ci ha dato… meglio morto che saperlo…»
Arrivato al meglio morto che saperlo… il Direttore Azzarello s’arrestava di botto.
La parola che veniva subito dopo il saperlo era impronunciabile. Restava nell’aria sottintesa sibillina minacciosa.
Un macigno uno smottamento della montagna una diga che tracima a valle. Un’eruzione un boato quella parola, anzi più d’ognuno di questi disastri. Più di tutti messi insieme.
Non c’era paragone con niente, nemmeno la sifilide, nemmeno gli orecchioni fatti da grande quando uno ci restava ricchione, frocio, per sempre.
… Meglio morto che saperlo…
Quella parola (un sostantivo? un aggettivo?) gli moriva in gola al Direttore Azzarello, come un polpo che dissangua la laringe.
La voce imperiosa roboante quando diceva meglio morto, come chi declami in civico consesso, subiva subito dopo una picchiata vertiginosa, nel naufragio totale del respiro che diventava asmatico meschinello al punto in cui bisognava pur chiarirla quella condicio quello status al cui confronto la morte era un vero privilegio, una laus coeli.
Il fatto era che proprio quella parola non gli usciva, e, visti vani due tre quattro tentativi a schiarirsela la voce, a farselo tornare il fiato di petto con un quarto d’acquavite e il raspo alla gola, infine Cornelio Azzarello ci rinunciava. Del resto Tommasina e Carolina cui la frase era rivolta la conoscevano benissimo quella parola.
Cotta e cruda la sapevano. Infratita nel cervello a furia di ronzarci attorno, Cornelio, ogni attimo della giornata tale insistente che le sventurate non ne potevano più di padre e figlio, di cognato e di nipote.
Al diavolo tutt’e due! uno più pazzigno dell’altro. Uno più sanguisuga dell’altro. Uno più sciòsciolo dell’altro.
Mangiava il suo Sasà? dormiva il suo Sasà? ce l’aveva ancora con lui il suo adorato figlio integro tutt’intero tale e quale era partito per quella sciagurata città del Continente, Padova? questo contava, questo solo e nient’altro, solo questo, ripeteva cento volte al minuto Cornelio Azzarello quando spazientiva con Sasà e il collo gli diventava rosso cupo come quello d’un tacchino.
Alle donne Cornelio faceva una testa così. Tale le torturava con i casi del suo Sasà, che le poverette meditavano d’andarsene e lasciarli soli, a impidocchirsi, a fare la rogna, padre e figlio. Insieme.
Proprio non ce la facevano più, Carolina e Tommasina. Non tanto per la vicenda dell’Ada in sé e per sé, quella era stata solo una ragazzotta con una fame da lupi, forse per via ch’era alta quasi due metri. E poi la sposasse o no, non faceva loro né caldo né freddo. Non gliene fregava un bel niente!
La filosofia di Tommasina a quel punto della vita – anche lei come il marito ce l’aveva una filosofia – riguardo al matrimonio della friulana con Sasà era: uno di meno!
E dicendo uno di meno pensava a quante notti avrebbe dormito in santa pace senza gli spasimi finti o veri da lupomannaro di Sasà, che voleva a tutti i costi l’Ada, la friulana dai polpacci di cinghiale.
E nello stesso tempo Tommasina pensava agli spasimi – non erano cosa da poco – di suo marito Cornelio, che non gliela voleva dare per moglie a Sasà quella buttana coi fianchi larghi, come le male femmine scasciàte.
Tommasina pensava al silenzio che ormai solo in chiesa dai Cappuccini le riusciva d’assaporare, la domenica a messa. Giusto a non scordarsene di quant’era bello il silenzio!
Mentre quando c’erano quei due in casa, pazzi, padre e figlio, della stessa malapasta, era sempre bordello. Erano sempre schiamazzi urla gemiti minacce implorazioni…
Per Tommasina dunque non era la faccenda dell’Ada, il vero problema, ma tutta la sceneggiata, il melodramma che padre e figlio v’avevano costruito.
Un labirinto di ipotesi, promesse, iniziative minacce. Un casino e loro, lei e Carolina, proprio non ce la facevano più. Allo sfinimento erano, proprio allo sfinimento.
Come si poteva reggere un marito come Cornelio Azzarello e un figlio come Sasà?
Spesso questa domanda Tommasina la faceva al quadro della Vergine Maria, che aveva proprio in cima alla spalliera del letto.
E anche la Madonna pareva darle ragione sul fatto che no, no e poi no! un marito e un figlio così non si potevano reggere.
E allora Vergine bella?
«Allora niente! solo armarsi di santa pazienza!» rispondeva l’Immacolata dal capezzale di gesso «e confidare nella Provvidenza.»
Lui, il Direttore Cornelio Azzarello, il malo presentimento, quando Sasà s’era incaponito che doveva andarci a Padova per l’università, ce l’aveva avuto.
Quella volta bisognava tenere duro, tenergli testa. Chiuderlo sotto chiave, se necessario, come faceva con le forme di pecorino coi vermi che gli appestavano il ripostiglio, dove non c’era un solo soffio d’aria. Non un filino di refrigerio, nemmeno quand’era vento di ponente tale spacchiuso che scoperchiava le tegole delle case una a una e le travi di legno dei tetti, nude atterrite senza il calore della terracotta, cadaveri parevano da lontano. E il vuoto lasciato dalle tegole rugginose disegnava, sulle travi, occhi grandi spaventosi.
Era stato debole quella volta di fronte al ricatto del suo Sasà, Cornelio Azzarello.
Sempre se lo ripeteva, fino a che gli scendeva giù nel cannarozzo, dritto all’ulcera che gli si era aperta. Grande come un’arancia, e non se ne dava pace.
Ma Sasà irremovibile era stato, presa la maturità: «Padova! Padova o niente» aveva detto. Per una volta parco di parole, stringato come non era mai!
Ove niente si traduceva nel pensiero di Cornelio Azzarello: niente laurea.
A spasso a zonzo a scimmiottare alla Villa dal mattino quando aprivano i cancelli, alla sera, quando li chiudevano. A diventare cretino quel suo figliolo, come sua moglie Tommasina. Una tronza!
Cornelio era stato proprio disperato, nei mesi susseguenti la maturità liceale del figlio Sasà. Un vero incubo.
Ci pensava notte e giorno, e non si dava pace, né riusciva a trovarla una soluzione, sebbene se le spremesse le meningi come fossero limoni verdelli.
Pensava rimuginava in assoluto silenzio, però. Tutto dentro come il morbillo quando accottùra le budella. Non una parola sennò Sasà poteva incarognirsi di più, e addio! speranza.
Che fare? a chi chiedere consiglio? che pesci pigliare? da chi avere conforto suggerimento visto che aveva accanto due scimunite, moglie e cognata, che sembravano non accorgersi delle sue ambasce, dell’insonnia, dei sudori freddi e improvvisi come chi ha l’infarto addosso. Né dei suoi chili persi a pensare meditare riflettere programmare, e ancora ripensare congetturare rinviare. Insomma solo come un cane era stato alle prese con quel figliuolo testardo, per questo aveva sbagliato infine arrendendosi al ricatto: Padova o niente!
Niente niente – avrebbe dovuto rispondergli con ostentata fermezza. Anche se arrivato alla parola niente lui sbiancava come i teli a bagno nella candeggina.
Il cuore, poi, gli si fermava. Prima il battito si faceva lento tooooc to o cccc, infine più nulla.
Niente avrebbe dovuto rispondergli, sebbene a quel tempo nemmeno la più pallida idea lo aveva sfiorato circa l’immane pericolo, l’ignobile obbrobriosa trappola tesa al suo Sasà.
Quando, a quel tempo, pensava al suo Sasà solo a Padova gli s’arrizzava il pelo sulle ossa sebbene lontanissimo dal supporre quali spaventosi pericoli in agguato.
Chi mai profeta veggente scrittore avrebbe potuto prevedere i fatti e i misfatti dell’Ada?! le circonvenzioni le ignobili trappole da lei tese a danno del suo ingenuo figlio, di certo destinato a soccombere miseramente se lui… lui… col suo amore di padre e la fermezza di Direttore didattico… non fosse… ah… uh uh ahah uhh sì certo sicuro… giusto giusto in tempo quando ormai… sul precipizio Sasà… sulla voragine… il baratro… quella buttanona…
Che inferno aveva passato quell’estate della maturità liceale del suo Sasà!
Come poteva mandarcelo a Padova? le distanze erano enormi. Padova era dall’altra parte del mondo!
Cornelio Azzarello che la geografia la conosceva proprio bene, ogni mattina con l’indice sulla carta geografica ci saliva a Padova. Da Bulàla.
Su e giù mille volte fino a che il polpastrello non se lo sentiva più. Inzuarùto tutto.
Su e giù sperando nel miracolo che una mattina potesse trovarcela Padova al posto di Reggio Calabria.
Sullo Stretto Cornelio ci voleva Padova, non Reggio Calabria. Padova, a un’ora di ferribbotto (traghetto) dalla Sicilia.
Il suo Sasà a Padova voleva andare. Si c’era fissato, e lui, se fossero bastati amici e intrallazzi pur di piazzare Padova sullo Stretto, cosa non avrebbe fatto?
La domanda era retorica, sottaceva come risposta un immane roboante tutto tutto. Compreso alterare la geografia dell’Italia e, se non bastava, del mondo intero!
Ora il problema era questo: non bisognava contrariarlo il ragazzo. Per nessunissimo motivo.
Ah benedetta Pedagogia! benedetta!
Quante cose sa un padre che ha studiato pedagogia al magistrale rispetto a uno che non ne sappia un accidenti!
Pedagogia benedetta! già solo a pronunciarne il nome, Cornelio si sentiva meglio, rassicurato.
Convinto che nei metodi educativi sperimentati da illustri pedagogisti, di fama internazionale, avrebbe trovato la soluzione a quel problema che minacciava di fargli scoppiare, tutte insieme, le vene della testa.
Cornelio si faceva coraggio pensando che per vincere il concorso di Direttore didattico (che musica quelle due paroline Direttore didattico, che sinfonia!) su tre testi di pedagogia aveva studiato, e perciò l’aveva vinto il concorso. Stravinto.
Giunti a quel punto, ogni volta, suo fratello Antonino, che le frottole le pativa come l’orticaria ai gelsi quand’era ragazzo, borbottava che il concorso Cornelio l’aveva vinto con le botti di vino del loro padre, Rolando.
Benedetta Pedagogia! che gli insegnava come prenderlo quel figliolo con la testa calda dei poeti. Delicato nei pensieri come una viola mammola! intellettuale supremo…
Delicato solo nei pensieri, però! ché riguardo al resto altro che delicato Sasà!
Un toro, un TORO era! Anche se le buttane di via delle Finanze, a Catania, riguardo alla virilità di Sasà giovincello, piuttosto laconiche asciutte erano state, nel riferirne a Cornelio in vera trepidazione sul sofà del salottino:
«Il ragazzo è lento Direttore… lentino timiduccio… stentato… lo fa di malocuore non c’è da sperarci molto…»
A quel punto Cornelio, che da quell’orecchio non ci sentiva – sordo come una campana se solo si metteva in dubbio la mascolinità del suo Sasà – cominciava a tirare fuori dalle tese del cappello, rinculato sopra le orecchie, una pila di banconote.
Certi fogliacci grandi quanto il panno dei neonati per farci la pipì.
Poi, con una botta secca della mano sinistra, si riazzummàva il cappello in testa. Il punto di confine estremo erano le orecchie a muscalòro mentre con la destra allungava banconote alle buttane, che certo dovevano aver frainteso. Che certo l’avevano presa alla leggera, che dovevano essere prudenti e passarsi la mano sulla coscienza prima di comprometterlo per sempre l’avvenire d’un giovane! (C’è da dire che a Bulàla l’avvenire si progettava dalla cintola in giù, a dirlo con eleganza. A dirlo alla carcaràra, lo si progettava in quell’angusto-augusto loco occupato dalla Madreminchia.)
Le buttane, leste di cervello, che l’odore della moneta lo sentivano a tre isolati di distanza, glielo leggevano chiaro chiaro negli occhi di Cornelio – lupigni accravunàti per l’attesa – cosa voleva sentirsi dire, e l’accontentavano.
«… Che ragazzo! all’inizio timido pareva… impacciato… tutta scena… tutta scena e invece? un masculone come non se ne vedono a Catania dal tempo dei saracini, dal tempo dei mori… un toro… Una vera fortuna per un padre! sicuro una fortuna…!»
Gli occhi di Cornelio, a fronte di quel dotto parere – qual più sicuro? più attendibile? – scintillavano spicchiuliàvano come cocci di vetro al sole.
Zampillanti vaguli or qua, agli entusiasmi della prima buttana, or là, alle mirabilia della seconda che, in virtù di qualche strida e stecca della voce, n’ebbe un diecimila in più.
Con grande dispetto dell’altra che, se pure magnanima di menzogne e accrescitivi, non era stata all’altezza della collega, quanto a vocalizzi e intonazione.
Ora col cavolo che Cornelio se lo perdeva quel figlio concimato dai suoi occhi medesimi, istante dopo istante, dacché Sasà era venuto al mondo!
Che estate, quella! e non solo quella!
Quando Cornelio diceva così, pensando a quell’altra ben più terribile estate, quando per un pelo non l’aveva perso il suo, suo sì, suo Sasà per via d’una tripla bottana, il sangue gli attuppava le vene madri del cervello.
Le tempie facevano il verso dei cavalli quando stricano lo zoccolo nuovo.
Le pupille tumefatte si ’nnacoliavano destrrr sinistrrr sinistrrr destrrr come per un bizzarro tic nervoso, o una squatriatina del cervelletto.
Già, la laurea che s’era scelto Sasà era una vera schifezza. Platone Kant Spinoza e altri sminghiati mammalucconi che avevano stretto la cinghia e fatto una fame nera per tutta la vita.
E non contenti la facevano fare a quegli smidollati sognatori – Cornelio Azzarello pensava a Sasà in primis – che gli correvano appresso.
Anima Idea Etica Logica… tutte cavolate! – riguardo a questo pensiero, a questa considerazione, il Cataratta poteva dirsi tale e quale il Direttore didattico Azzarello.
Pure se lui non ce l’aveva il diploma, e nemmeno la licenza elementare.
Quando Cornelio – a capitolo chiuso – dopo la terrificante parentesi di Padova, pensava che lo aveva mantenuto a fior di quattrini, come un nababbo il suo Sasà al Continente – anche se di fatto i quattrini erano per buona parte quelli dell’invalidità di Carolina – quando pensava d’avere in qualche modo con l’unica debolezza di tutta una vita onorata di Direttore didattico procurato la pecora al lupo (la pecora era naturalmente Sasà, il lupo la friulana) l’intossico al cervello gli veniva.
Un cavallo pazzo gli attraversava le meningi, sì che le vene della testa sembravano lì lì per schizzar via, e, fattosi varco come potevano, attraverso le narici l’orecchio l’occhio, lasciarglielo secco imporrito acchiummàto, il cervello. Quel cervello ch’era stato il suo vanto.
Un patrimonio s’era mangiato Sasà a Padova e solo per imparare fesserie su fesserie.
In più la testa gli s’era rivoltata, cambiata di sana pianta, e adesso pure a lui Sasà pretendeva di cambiargli la testa.
A lui, Azzarello Cornelio, Direttore didattico per concorso! Il che era come dire: cambiare tutta la geografia dell’universo, invertire i punti cardinali, i poli, l’equatore gli oceani i continenti ecc…
Ogni volta che tornava da Padova Sasà per Natale Pasqua ne sapeva una nuova.
Se la sparava subito, cento volte la diceva e se la crapuliava la testa a furia di ripetere la stessa cosa. (Era questa una delle cose che avrebbero impedito, in seguito, di ascrivere Sasà alla vecchiaia, anche quando vecchio lo era diventato, inconfutabilmente, per davvero. In quanto che, anche da ragazzo, ce l’aveva il vizio di ripetere la stessa cosa dieci cento mille volte.)
Una volta era la cultura mitteleuropea (di cui si sentiva figlio pur nel suo esilio tra barbari sicelioti).
E giù a parlare straparlare di pensiero occidentale, d’antropocentrismo, d’ascisse e coordinate culturali, mentre la zia Carolina lo guardava sospettosa, timorosa, preoccupata sul serio, convinta che quel figliolo che già in paese giusto non era stato mai, in città s’era guastato proprio, aveva fatto il vermo al cervello in città.
Fare il vermo a Bulàla significava ammattire, dare i numeri, uscire di senno.
E la zia Carolina n’era convinta, soprattutto quando il padre di Sasà, Cornelio, sottovoce dopopranzo, le spiegava in due parole le metafore le prolusioni le orazioni i paradossi le tautologie di Sasà riguardo alla cultura mitteleuropea.
Il discorso si riduceva a quattro parole e pochissimi esempi chiari e lampanti. (Questo di buono ce l’aveva Cornelio, che quando voleva era chiaro come l’acqua del rubinetto.)
«Carolì sta’ attenta… ora te lo spiego. Quando Sasà parla di cultura mitteleuropea sta’ tranquilla. Non è che ha fatto il vermo, un’altra cosa vuole dire. Vuole dire che noialtri non abbiamo il cesso in casa, e loro, quelli della cultura mittellll, ce l’hanno. Noialtri crediamo alla fattura (la fattura a Bulàla era il malocchio) e loro no, ci ridono quei coglioni. Noialtri, gli animali, quand’è sera, li chiudiamo in casa con noi, loro nella stalla. Le nostre femmine stanno a casa, stirano, lavano alla pilozza, fanno i capperi sotto sale, le melenzane sott’aceto. Fanno l’estratto di pomodoro per il sugo, l’uncinetto il tombolo il chiacchierino. Le loro, invece, vanno alla fabbrica, chiamano i diritti, non cucinano si pittano la faccia col rossetto, le unghie con lo smalto come le buttane di via delle Finanze, a Catania. E poi si prendono il caffè alla caffetteria, lassopra lo chiamano bar, in mezzo agli uomini. Comandano i camerieri, tengono il portafoglio come gli uomini, e guai a pipitiare per quei cornuti che se le maritano.»
Carolina lo guardava musca e pipa, cioè dire zittazitta. Frastornata dalle spiegazioni di Cornelio.
Domande, Cornelio non ne voleva quando spiegava le cose.
Lui parlava una sola volta come la radio – precisava – e bisognava ascoltarlo con tanto d’orecchi.
Quando Cornelio diceva loro in contrapposizione a noialtri, Carolina pensava a quelli al di là dello Stretto di Messina, che per lei era il confine del mondo. Come dire le Colonne d’Ercole per Ulisse.
E poi che le sue conoscenze dell’Italia si fermavano a Reggio Calabria, pensava che loro si riferisse a quelli di Reggio.
Cornelio ch’era intelligente e aveva studiato per il concorso più difficile, quello da Direttore didattico, l’Italia la conosceva tutta a memoria. Grazie anche all’atlante, al mappamondo, alle carte geografiche su scala che s’era preso dalla sua scuola elementare proprio come la carta igienica.
Cornelio pareva leggerli come su un libro aperto i pensieri di Carolina, le sue confuse conoscenze geografiche, e ne preveniva ogni quesito.
Ne correggeva ogni suo sbaglio, pure se la poveretta non apriva bocca.
«Più su più su devi salire Carolì… più su assai… assai ti dico, in alto… più ma non è cosa tua… Carolì levaci mano… non ne capisci di geografia… vedi Carolì la geografia è un fatto di talento d’intuito d’intelligenza pura… e tu…» diceva Cornelio alla cognata inseguendo con l’indice l’immaginario profilo d’una cartina geografica della penisola, dalla Sicilia al Veneto.
Aveva proprio ragione Cornelio a pensare che Carolina non ci capisse niente. Lei nella sua testa arrivava sino a Reggio Calabria, e là si fermava.
Pure se il dito di Cornelio non lo perdeva d’occhio un solo istante, sino alla fine del percorso immaginario – dal basso in alto – cosa c’era più su di Reggio Calabria Carolina non lo sapeva proprio.
Montagne? mari? collinette? per lei era uguale. Non faceva differenza dal momento che non conosceva gli uni né le altre.
Cornelio Azzarello ne era arciconvinto che il figlio a Padova non glielo doveva mandare.
Ma quel ricatto niente laurea! non poteva mandarlo giù. Gli sforava la bocca dell’anima peggio dell’ulcera.
Perdere un occhio, al limite anche una mano, e diventare, così, mugnu – come li chiamavano a Bulàla – lo avrebbe in ultimo sopportato, patito.
Che il figlio, però, non prendesse la laurea: mai e poi mai. Non ci poteva pensare.
Anche se come laurea non serviva a niente – una vera cacata! – quella laurea in filosofia che aveva scelto Sasà, pur sempre laurea era.
E lui, infine, avrebbe potuto comunque dirlo che il suo geniale Sasà si era laureato… e che fior di laurea!… sissignori… testa ci voleva per quella laurea lì… e ancora piripirrrrriii andando avanti con simili fesserie.
Quindi aveva ingoiato il rospo Cornelio, dopo tre mesi di guerra fredda col figlio e in ultimo, a fine estate, aveva deciso.
Di mattina, alle cinque, col fresco, quando in strada non c’era anima viva, e lui pigliava fresco sul terrazzino ché l’acido non gli consentiva di dormire.
Voleva Padova Sasà? e lui lo accontentava. Padova Padova una buona volta per tutte.
Aveva così – Dio sa con quanto patimento! – accondisceso per Padova. Sasà sarebbe andato a Padova a studiare.
Agli altri, soprattutto agli itterici maestri jettatori della sua Cavour, invidiosi della sua posizione, del suo potere di Direttore didattico, Cornelio avrebbe fatto un bel discorso: «A Padova il mio Sasà… lui sì che ci può andare a Padova col suo cervello di genio… gli altri si devono accontentare: Catania Palermo… scuolucce di paese altro che università!… e poi, quand’anche cosa ci dovrebbero fare a Padova, coi cervelletti da gallina che si ritrovano, certuni? A calcinculo li piglierebbero a Padova, a nettare cessi li manderebbero… ognuno conosce la sua roba ogni padre conosce la sua… santi e benedetti i denari per il mio Sasà…»
E non contento Cornelio proseguiva: «… a Catania a Palermo li fanno dottori ingegneri con un canestro di fichi, i capretti da latte, il pecorino salato, i cavolicelli di campagna, la soppressata di maiale, il buccellato… a Padova invece un culo così sicuro così!… bisogna farsi ché là lo studio cosa seria è! non barzelletta…»
Il discorso Cornelio ce l’aveva bell’e pronto. Ma valeva per gli altri ché quanto a lui l’Inferno aveva in testa, proprio le fiamme dell’Inferno.
“Ah benedetto figliolo!… ah quali spine benedetto Sasà! Capriccioso, bizzoso, Sasà, come tutti i geni, e sennò che geni sono?” si chiedeva infine Cornelio come a confortarsene dei tormenti che gli procurava il suo Sasà.
Sì a Padova ci sarebbe andato Sasà, ma con Rorò, il figlio di suo fratello Antonino, che s’era diplomato – al magistrale però! – lo stesso anno di Sasà.
Rorò – così da bambino chiamavano Rolando – doveva essere in un certo senso l’occhio di Polifemo su Sasà.
Spiarlo, seguirlo, stargli alle costole, non perderlo d’occhio un istante, e riferire ogni cosa – una volta a settimana, se ce la faceva due – per lettera, con tutto ch’era sgrammaticato e ci voleva tutta la buona volontà d’un padre come Cornelio che non lo voleva perdere il figlio a capirci. A leggerci tra apostrofi di troppo – del tipo al’lora an’dato, tanto per citarne un paio – e sottrazioni continue d’ausiliari – o detto a fatto e via dicendo. E non era il peggio.
Rorò doveva riferire ogni cosa per filo e per segno, riguardo a Sasà.
Anche quelle che, lì per lì, a lui che era un cretino, potevano sembrare innocenti innocue.
Spiarli i movimenti di Sasà soprattutto in tema di femmine che, lassopra, a quanto se ne sapeva erano pròtiche con la faccia tosta. Buttane.
Non che lui ce l’avesse con le buttane: no! tant’è che ci portava Sasà, ma sempre sotto l’occhio suo, s’intende.
Cornelio ce l’aveva con le buttane a forma di santarelline che, tanto dicevano e tanto facevano, riuscivano a farsi sposare da siciliani o calabresi, quando si trovavano soli sperduti fuori dalla loro patria. In terra straniera, al Continente!
I picciotti arrivavano al Continente come pulcini appena nati. Ciechi con gli occhi chiusi. E ci pareva che il Continente era come il paese.
Camminavano senza guardare dove posava il piede: una cazzicatummùla al primo fosso, e ci si ritrovavano dentro, acculati per bene.
Ora per non correre questi rischi col suo Sasà Cornelio doveva pagarlo quel cretino di Rorò, pure se il diploma gli aveva fatto avere grazie alla sua autorità!
Però in compenso tutto gli doveva far sapere: «Scimunito! niente ci fa se sbagli l’acca e non ci metti l’apostrofo quando ci vuole… Rorò se succede qualcosa a Sasà il cuore tuo mi mangio… crudo me lo mangio… basta che ti fai leggere… basta che non scrivi minghiate, intesi? ehhhh? non facciamo che ti metti a fare la bella vita e ti scordi di Sasà…?! euhmmm… bada che il diploma ti faccio ritirare e resti nel magazzino con tuo padre, a vendere vino all’ingrosso col tanfo di mucido che ti mangia sino l’uccello… già tu a quanto ce l’hai grande l’uccello te lo puoi permettere di perderne un poco… già sicuro… certo così lo sai che risate alla Piazza!»
Rorò, quanto a rispondere, non era proprio mestiere suo. Aveva lo stesso intoppo di suo padre.
Solo che il sangue gli fumiàva dentro la testa, le mascelle gli si facevano rosse come il sangue fresco del mattatoio, e la collera gli scutuliàva il grasso sugli zigomi quando lo zio Cornelio ricominciava col discorso del capitale di Sasà.
Fosse stato vero! tutte balle, balle. Sasà aveva un inguinello meschino, ciampennante per giunta.
«Rorò bada che le corna ti rompo se non fai il tuo dovere» minacciava per l’ennesima volta Cornelio, sbatacchiando i pugni sul tavolino insajato nella sua pancia. Tutto mi devi scrivere. Che so? lo vedi preoccupato?… si guarda la carruba (sic a Bulàla il pene) sotto la luce sparata della lampadina? e tu in quel caso un telegramma mi devi mandare… (Cornelio pensava alla cresta di gallo, una malattia che colpiva la carruba, e che lui in gioventù s’era preso in un bordello di Palermo.)
E andava avanti con gli esempi nottate intere mentre Sasà, elegante nella camicia di seta inamidata dalla zia Carolina, l’occhio languido, seduto in piazza al caffè Bellavista, una bella granita di mandorle nel bicchiere, si godeva il fresco.
In lontananza si vedevano le lampare a mare tremoliare per l’inquieto amplesso dell’onda. Esitare come lucciole tra l’erba bagnata.
Se non era la granita di mandorle, era una bibita con lo sciroppo d’amarena, o una brioche alla francese.
Sasà, in attesa di partire per Padova, passava notti deliziose in Piazza godendosi il fresco di fine estate con altri maturati come lui, che a un certo punto, attorno alla mezzanotte, ronfavano con adenoidi grosse come olive, e il collo che gli cascava acciambellato sulla brioche.
Sasà, invece, che sonno non ne aveva, resisteva fresco come rosa aulentissima declamando versi di Cavalcanti e Ciullo d’Alcamo.
Tutta l’estate Cornelio aveva passata a dare istruzioni a Rorò. Col caldo che si soffocava.
Sasà mangiava molto? mangiava poco? dormiva molto? dormiva molto poco? sbatteva contro lo spigolo della porta? non ci sbatteva? usciva con le scarpe slacciate? aveva la stitichezza? aveva la diarrea? gridava di notte? faceva gli incubi? non ne faceva? si grattava la nuca? non se la grattava? gli si chiazzava il collo? gli restava candido? Ognuno di questi gesti che pur sembravano innocui agli occhi d’un sanapone cretino come suo nipote Rorò poteva diventare spia fatale essenziale vitale agli occhi d’un padre.
E lui, nella lontana Bulàla, leggendo e rileggendo sia pure attraverso le sgrammaticature di Rorò avrebbe pesato soppesato intuito valutato, a seconda, caso per caso se c’era da preoccuparsi.