Rorò e Sasà erano nati lo stesso giorno la stessa ora lo stesso mese e anno. Nella stessa casa. Quella del nonno Rolando, padre di Cornelio e Antonino.
Solo che Rorò era nato un secondo prima di Sasà. Proprio un secondo spaccato e per questo portava il nome del nonno rubandolo al suo Sasà, precisava Cornelio ogni volta che si sfiorava l’argomento.
Un nome importante, Rolando. Un nome glorioso solenne da poema, da paladini di Francia e, dopo tre giorni di bile perché non gli riusciva di trovarne uno di pari effetto, infine pensa e ripensa, per quel suo primo figlio maschio – sarebbe stato anche l’ultimo – aveva scelto l’unico nome che per solennità poteva tener testa a Rolando: Sauro.
Lo aveva provato e riprovato con mille intonazioni della voce. Ora acuta ora grave ora rauca ora implorante timida chioccia sussurrata chiassosa squarciata.
Sì era bello come nome Sauro. Non c’era proprio che dire. Restava, però, il fatto che non era Rolando.
Comunque fosse, il nome era fiero titanico. Né veniva intaccato dalla vocetta femminina della cognata Carolina.
Cornelio, anzi, aveva imposto a Carolina due ore estenuanti di pronuncia, con una palla di mollica in bocca grande quanto un mandarino a che ne contenesse le stecche gallinacee della voce.
Per poco Carolina, quella volta, non ci s’era strozzata con quel mandarino di mollica che dentro la sua bocca lievitando per lo schiumone di saliva era diventato quanto un’arancia di Scordia.
La mollica, assicurava Cornelio, serviva a dar corpo alla voce. E quella di Carolina era – a suo dire – più miagolìo più schìgghia che altro.
Quella di mettere Rorò alle costole di Sasà era parsa a Cornelio una bella pensata.
Eccellente, anzi. Anche se quel cannarozzo del nipote pretendeva una paga mensile di tutto rispetto, non tanto per fare lo spione a Sasà (quello gli piaceva, pronto a farlo gratis, lo spione, pur di prendersela qualche rivincita sul cugino che faceva il filosofico!), quanto per le sudate che gli costava scrivere quelle quattro righe sgrammaticate, piene di strafalcioni da asino qual era.
L’accordo, infine, era stato raggiunto. Rorò da Padova avrebbe fatto un resoconto perfetto di Sasà, per filo e per segno, e Cornelio con un po’ di danari si sarebbe pagato la tranquillità.
Del resto questa era la massima di Cornelio da quando, nato Sasà, aveva dovuto metterne di pezze a tamponare i pasticci del suo adorato ragazzo incompreso in un paese di bufali, lui ch’era un genio di natura.
Cosa non fa un padre per un figlio!
Al tempo in cui Sasà e Rorò erano nati, Cornelio e suo fratello Antonino vivevano, con le rispettive mogli, in casa del padre.
Con Cornelio, oltre la moglie, viveva pure la cognata Carolina che un po’ grazie al fatto che lenta di cervello lo era di madrenatura, ma soprattutto grazie alle sue amicizie, dichiarata invalida al 100 per cento, prendeva una buona pensione. Pensione che di regola finiva nelle finanze di Cornelio perché Cornelio sosteneva con fermezza che solo grazie a lui, ai suoi intrallazzi, le avevano assegnato un’invalidità del 100 per cento che a Bulàla avevano soltanto in due.
Uno ch’era nato con due teste e senza mani. E un altro che non ci vedeva non parlava e non raggiungeva i settanta centimetri d’altezza, gambe comprese.
Gli invalidi di guerra massimo arrivavano al 70 per cento.
Questa era l’ennesima prova che Cornelio era, oltre che intelligente, potente a Bulàla. Uomo di rispetto.
Sasà e Rolando erano nati a un secondo l’uno dall’altro. Prima Rorò, dopo Sasà.
«E che?! un secondo, uno solo è stato, non più d’uno! che sarà mai un secondo?» giurava Cornelio che di quella nascita non s’era dato mai pace. Un secondo l’uno dall’altro. Solo che il suo Sasà era nato dopo.
Era stato un bel casino quella volta con quelle due che partorivano in due camere attigue. Solo una paretuccia di gesso fina fina in mezzo.
Urla strilli a destra e a manca. Fornelli a petrolio, a legna, per bollire catini d’acqua e quadàre di rame enormi. Quelle in cui d’estate ci bollivano le conserve di pomodoro per l’inverno.
E la levatrice che correva come una trottola dall’una partoriente all’altra, sebbene avesse l’ombelico di fuori grande come una noce, con un bel saccoccio d’ernia che le pendeva pesante quanto il sacchetto coi confetti nei matrimoni.
Le gambe corte appesantite, poi, insajavano completamente tra i costoloni di grasso della pancia.
Le donne erano entrambe al primo parto. Perciò bisognava controllarne le acque, la dilatazione, la posizione, il braccio, la testa del bambino.
Bisognava insegnargli questo quell’altro a che collaborassero, a che facessero in fretta perché lei col cuore affaticato che si ritrovava, ingrossato peggio del fegato, era sfinita già prima di cominciare, già alle prime doglie di quelle due.
Insomma quel tredici agosto del venticinque era stato un inferno.
I muri della casa, per quanto grandi, trasudavano tanfo di vino perché da basso, nel magazzino, c’erano le botti e la rivendita al minuto di Rolando Azzarello, suocero delle gravide.
L’aria del mezzogiorno rovesciava sulla casa, al primo piano, tizzoni ardenti.
L’afa faceva tale sudare l’ostetrica che tre lenzuoli a metà mattinata erano già finiti nella tinozza, e si potevano torcere.
Una torma di zanzare veniva dalla palude vicino al laghetto, sì che finestre e porte erano state sbarrate come a tempo di guerra. In rispetto all’igiene per il parto non si poteva tollerare quella ronda di zanzare e moschiglioni.
Il bimbo che fosse nato primo sarebbe stato in assoluto il primo nipote per Rolando Azzarello. Il primo per tutta la famiglia.
Ognuno dei due fratelli sperava in cuor suo un maschio per sé e una femmina per il fratello.
Se le grida a destra intensificavano di tono e durata – a destra partoriva la moglie di Antonino – Cornelio vi si precipitava pallido come la luna quand’è nuvolo col terrore che il figlio di suo fratello nascesse prima del suo.
Poi ripreso fiato – falso allarme falso allarme! c’è tempo, c’è tempo! assicurava la levatrice – tornava, pallidetto scontorti gli occhi, da sua moglie Tommasina e gettandosi ai piedi del letto implorava supplicava minacciava di far presto, presto e bene, meglio dell’altra.
Soprattutto, prima dell’altra, che a giudicare dagli strilli da bove sacrificato era lì lì per partorire.
La sua invece niente. Una tronza. Muta come un pesce. Non un grido, macché neanche un lamento.
Di gesso ce l’aveva le carni forse? non le si strappavano le viscere come a quell’altra di suo fratello che si squartava tutta dallo sforzo?
Ah cosa non avrebbe dato Cornelio per sentirla gridare a squarciagola Tommasina con gli occhi di fuori e la bava alla bocca!
Un grido da fare tremare i vetri, da farli rompere! Ma Tommasina niente. Muta muta neanche l’acqua chiedeva.
Ch’era cretina lo si capiva anche in quella circostanza. Di fronte alle minacce del marito, anziché spicciarsi, facendolo esplodere quel ventre immane, quelle inutili budella – come Cornelio le comandava già di prima mattina con l’ingurrìo della voce, con la furia delle pupille limacciose – piangeva muta con occhi ignobili sfocati come i pesci morti quando tornano a galla.
Piangeva la cretina! mentre quell’altra le faceva le scarpe, la precedeva gridando come un toro scannato.
E poi niente… niente… solo lo guardava Tommasina con occhi sbarricati inzuarùti attrunzàti.
Occhiudicapra… rusicaossa… minnappirrugnàta… tisicancanna… cardacòri… mangiafèli, così la chiamava Cornelio sussurrando sottovoce come dicesse il rosario a denti stretti. A che non lo sentisse il fratello, a che non n’avesse certezza della sua disperazione della sua angoscia.
Tommasina, però – disperazione o no – continuava a starsene immobile, con la bocca cucita e l’occhio quieto come quello delle salamandre quando il sole le ’mbriaca… come se il conto non fosse suo… neanche per partorire era buona la scimunìta… non si sforzava… non lo cacciava fuori di botto quel moccioso a costo di squarciarcisi tutta e morirci dissanguata pur di fare presto presto prestoooo!!! E in ogni caso, prima dell’altra.
«Tempo perso Direttore Azzarello» gli diceva la levatrice «… più la guardate più se la trattiene la pancia vostra moglie… Direttore pare che s’incantesima quando la guardate… non sarà che si vergogna nuda com’è dalla vita in giù…?»
“Quale vergogna? Quale?” pensava nella ridda infuocata dei suoi pensieri Cornelio, mentre con occhi minacciosi che parevano dire ti scanno ti scanno scìmia… se me lo fai dopo di quell’altra scimunita… anche un solo secondo dopo ah ti scanno quant’è vero Dio ti scanno…
La guardava? E quando mai? E che ci doveva guardare poi? Schifo tutta faceva.
Le cosce ci doveva guardare? quelle cannappèndere, quei cipressi nel vialetto del camposanto? quei saliscendi arrugginiti?
Il fiorellino (Tommasina chiamava testualmente fiorellino i suoi genitali come le aveva insegnato la madre) ci doveva guardare? Quella favuzza sfatta che rischiava di farci morire i morti? che inabile lo avrebbe reso se, a compenso di quella sciagurata volta che gli toccava farlo il dovere, ogni millài (milleanni) – quando proprio non poteva farne a meno – non si fosse fatto tutte le bottane d’Agrigento Caltanissetta e Piazza Armerina sì da rianimarlo il suo nervo di maschio?
Cosa doveva guardarci in Tommasina? quel mostruoso pertugio vegliato da quattro peluzzi mansi mollacchi, preso d’alopecia a macchie come avveniva in qualche randagio?
Ci voleva faccia e coraggio a chiamarlo fiorellino – e lo scandiva Cornelio poi che non ci poteva pace – f-i-o-r-e-l-l-i-n-o, quella cisterna secca, quel sudario per vermi, quel lippo rosicato dai cani.
Ah! quanto valevano le bottane dei bordelli che partorivano nel tempo d’una pisciata.
Da sole sulla tazza del cesso e s’aiutavano con le mani a che il bambino non ci cadesse dentro, assieme allo sciacquone dell’acqua…
E dopo qualche ora, lavatesi col bicarbonato, amorevoli coi clienti come sempre, come niente fosse.
Questi erano stati i pensieri di Cornelio a fronte di quel cocomero che non voleva saperne di partorire quando ormai ci aveva perso le speranze che suo figlio nascesse per primo. Anche perché dalla stanza accanto grida e urla in sinfonia davano per imminente – questione d’una manciata di secondi – la nascita del figlio d’Antonino.
Pazienza! Ma l’avrebbe pagata amara quella verma di Tommasina, per cui non valeva nemmeno la pena di sprecarlo il maschile a chiamarla verme. No, verma verma verma vermaccia…
Aveva proprio ragione, a quel punto, Cornelio di crederla partita persa.
Passarono due o tre minuti e si sentì – almeno Cornelio sentì con l’ingigantimento che gli procurava la rabbia la delusione – un’esplosione. Sì, un’esplosione!
Come quando spaccano i palloni con un bel botto, nelle feste, se si riempiono troppo d’ossigeno e la pellicola scoppia in mille miserabili avanzi, tra i singhiozzi del moccioso che il suo pallone lo voleva più grosso più grosso.
E l’aria trema vibra trantolìa per qualche secondo come se il mondo intero fosse scoppiato, non un miserabile palloncino…
Fatto sta che Cornelio dalla stanza dove giaceva placida Tommasina, dove lui giaceva rintanato per la vergogna, schiacciato dal suo fallimento, dalla vittoria immeritata di quel caprone ignorante di Antonino a cui quella nascita calava dritta dal cielo, senza un grammo di fatica né una goccia di sudore – l’avvertì quella nascita col frastorno di un’esplosione.
Forse che Antonino aveva messo il suo sviscerato impegno a farla partorire quella stupida che pure lesta era stata come le coniglie?
Forse che aveva rischiato il collasso come lui lo aveva inutilmente rischiato appresso a Tommasina?
Il sangue su e giù giù e su freddo caldo gelato a precipizio a torciglione incagliato aggrumato intoppato… e tutto per niente santiddio!
Ah sofferenza! Ah patimenti! Ah sciagura d’un poveruomo!
Lui li aveva patiti i dolori del parto, non quella mummia in specie di cristiana.
Per questo Cornelio considerava Sasà suo suo suoooo. Suo e di nessun altro. Solo e sempre suo.
La nascita di Rorò, il primogenito di Antonino, per il suo angosciato stato d’animo, Cornelio l’aveva avvertita come un’esplosione.
Certo parlare d’esplosione era esagerato. Anche se l’ultima doglia espulsiva di quell’altra – scema come la sua, ma almeno lesta a partorire e in piena regola con strilla pianti sudori e tutto il resto – era stata per così dire fragorosa irruenta.
Pure i vetri avevano tintinnato – a sentire Cornelio che ne moriva freddo di vergogna e invidia.
Forse però era il fuoco che Cornelio aveva in testa a esplodere come nitrato, mentre i vetri non c’entravano niente.
Per un secondo era stato silenzio. Silenzio assoluto. Tutto era cessato. Un silenzio irreale.
Non si sentivano più pianti strepiti né le esortazioni i comandi della levatrice più forte da brava un fiatone resisti sputa il fiato…
Né si sentiva il vagito del bambino come sarebbe stato logico. Fu una frazione di secondo nella quale, però, transitarono mille pensieri nella testa di Cornelio, la cui intelligenza era un fatto pienamente riconosciuto dalla famiglia Azzarello ad eccezione del fratello Antonino che scoppiava di bile, per via degli iniqui privilegi accordati a Cornelio, con la scusa ch’era intelligente. La mente della famiglia.
Che forse il bambino era nato morto? con il budello attorno al collo? quanti nascevano morti strozzati dal cordone ombelicale, con la faccia viola più delle prugne settembrine!
“In questo caso, se il bambino d’Antonino fosse nato morto” pensò Cornelio “non tutto era perso.”
Una speranza si poteva ancora nutrire… perché morto il figlio di Antonino, il suo, nato secondo, di fatto primo sarebbe stato. Primo primoooo…
Oppure…
Si fece largo dapprima, poi varco, infine breccia un pensiero che veniva in suo soccorso – pensava Cornelio – come sant’Antonio a quelli che avevano la gotta, o i vermi dentro la pancia.
Il pensiero era questo: che fosse stata una finta gravidanza quella di sua cognata?
Quelle gravidanze che le enciclopedie mediche chiamavano isteriche?
Che poi tutto, in un attimo, si risolveva con uno scoppio d’aria dalla pancia gonfia come nelle gravide?
In questo caso ancora meglio!
Suo figlio – anche se quella rusicaòssa di nome Tommasina, là nel letto se ne stava quieta tranquilla senza spasimo di budella, senza scotoliamento di panza – sarebbe stato primo, primo a tutti gli effetti, primo di diritto!
Quanto a mettere in discussione il fatto che potesse nascergli una femmina Cornelio non ci pensava nemmeno lontanamente, un pensiero del tutto estraneo ai suoi pensieri. Assolutamente!
Il sogno di Cornelio ebbe vita brevissima, come tutti i sogni assai vagheggiati.
Interrotto da uno strillo di neonato così assordante vitale che fece – stavolta era proprio vero e non c’entrava per niente il cervello stravolto di Cornelio – tremare i vetri.
Poteva essere mai d’un bambino appena nato quell’urlo bestiale? da giungla?
“Muti nascono i bambini, gli occhi ciechi come i gatti, e tutt’al più un miagolio al posto della voce, uno ’nzirìo da grilli” pensava Cornelio. “A un anno o due i mocciosi strillano tanto perché i polmoni gli si sono già allargati e la fontanella in testa s’è chiusa. Che poteva mai essere dunque?”
Poteva mai essere… forse… ummhhhh?
L’interrogativo di Cornelio ebbe di lì a qualche secondo una risposta univoca che sgombrava il terreno da ogni ombra di dubbio.
Sì, poteva essere, e di fatto era era!
Nel senso che era nato, vivo e per primo, il figlio di Antonino né più si potevano fare ipotesi o congetture, per quanto Cornelio a quel filino di speranza ci s’era attaccato come un polipo allo scoglio.
Era suo quell’urlo da carrettiere! di quel moccioso che se ne stava tra le mani della levatrice, scialaràto, grande come un maialetto con tanta sugna addosso. E tanta pelle rosa proprio come i maialini da latte.
Vivo e vegeto, e di tale colorito che giammai si potevano concepire dubbi riguardo alla sua sopravvivenza. Quello schiattava di salute, e sembrava di tre mesi a quant’era lardicùso nelle cosce nel petto nelle braccia.
Lo guardò un attimo appena Cornelio, giusto prima che tutti, in primis il nonno, gli facessero cerchio a dirne meraviglie.
Diavolo! Era grosso tale che pareva di tre mesi, per questo era nato col botto!
Ce n’era voluta di pressione a che stanasse dalla pancia di sua madre. Una ranocchia di quelle che fanno le squame verdiglie attorno agli occhi.
Rorò continuava a strillare con la possanza d’un torello mentre lo lavavano nell’acqua calda con la spugna per grandi.
Solo un attimo gli riuscì di vederlo a Cornelio, ché subito i suoi occhi incrociarono quelli del fratello Antonino.
Vi lesse un tale trionfo, una tale jattanza in quelle pupille lariulìne indiavolate per la soddisfazione.
C’era un demonietto con corna aguzze in quegli occhi da stupido, da minchione di suo fratello Antonino, che pure, ci voleva coraggio! faceva la risatella, mentre quello spirito lazzarone dentro gli occhi pareva dire: rassegnati Cornelio… mettiti il cuore in pace… scia’ (fiato mio)… per una volta sono arrivato prima io!… ora il nome Rolando spetta a me… a mio figlio ch’è nato prima del tuo… primaaaaa lo vuoi capire? sì o no???
“E ancora quella lucetta intermittente maligna negli occhi d’Antonino, che in quell’attimo mostrava una cattiveria terribile, la più feroce, in assoluto, quella dei minchioni di natura che sono tremendi quando la sorte gli dà spago, gli sorride” pensava sconsolato Cornelio allo stipite della porta.
Più morto che vivo pur s’era grande possente nella figura. Ma pallido pallido e sudato freddo.
Antonino, invece, era mingherlino, di statura insignificante, né bello né brutto. La carnagione colore delle melenzane di scarto. L’occhio bruttino, spitrisciùto, la mandibola triangolare. Ma che figlio però! una meraviglia!
“Eppure lui non poteva avercela con Antonino” si diceva Cornelio cercando inutilmente di convincersene. Con la ragione. Con i ragionamenti.
La colpa non era d’Antonino, anche se lo sfotteva con la risatella pur consapevole della sua sofferenza, ché Cornelio quella sofferenza scolpita in fronte ce l’aveva.
La faccia livida, i lineamenti stravolti angariati come uno che sia appena uscito di malaria.
La lingua poi gli s’era incatramata che non gli riusciva di schiodarla dal palato.
La colpa non era d’Antonino, però. Non c’entrava Antonino. La colpa era unicamente di quella scimunita che se ne stava di là beata, con la pancia all’aria, e chissà! che forse non dormiva pure! Beata, al primo sonno, mentre l’altra, fiera d’averlo fatto per bene il suo dovere, si pigliava i complimenti di tutti, e il brodo di gallina.
La testa le doveva schiacciare col cuscino. Per tempo gliela doveva schiacciare, e prima o poi l’avrebbe fatto pensava Cornelio col cervello infratito come un bruco.
Ora, però, Antonino esagerava con quei risolini. Troppo osava per essere uno che fesso c’era nato.
“E che? gliela doveva fare ricordare la nascita del figlio?” pensava Cornelio col ringhio dei cani idrofobi dentro gli occhi. “Gliela doveva rinfrescare la memoria sul fatto che lui era un cretino universalmente riconosciuto? Che aveva ripetuto tre anni la terza elementare, e lì s’era fermato? Che il padre li manteneva, lui e la moglie, e ora anche il figlio, con la scusa che badava alla rivendita di vino e aceto? Che lui, Cornelio, era Direttore didattico a soli trentanove anni? e lui Antonino puzzava di vino e feccia? Che tutti i problemi (banca tasse…) il padre li affidava a lui? ‘Pensaci tu pensaci tu Cornelio che sei studiato’ gli diceva. E lui ci pensava sempre e per bene. Nell’interesse della famiglia.”
Testa ritta, passo solenne, i capelli spartiti in due sul cranio, bene insellati dietro le sventole degli orecchi tale grandi che lo riparavano per benino dai colpi d’aria, se d’improvviso saliva la brezzolina dal mare.
Cos’altro gli doveva ricordare ad Antonino per rinfrescargli la memoria? Di cose ce n’era un’infinità! ma poteva fargli l’elenco ogni volta? perderci tanto tempo, anche se di tempo oramai ne aveva quanto ne voleva?
Quella scema di Tommasina, attronzata nel letto, di là, poteva partorire col suo comodo oramai quando voleva, quando le diceva la testa, per quello che valeva… Anche fra tre giorni o quindici… non faceva differenza, non più. Il suo figliolo sarebbe stato: secondo. Non primo com’egli aveva implorato.
Non erano passati due minuti (ma i due minuti di Cornelio si potevano paragonare ai duemila anni del gigante Encelàdo tanto e tale cardacìo, subbuglio di pensieri, gli costernava le cervella) che Cornelio, gli occhi ad Antonino alla sua sfacciataggine da scemo col giummo, sentì un miagolìo dal corridoio.
Pensò che fosse la gatta di Carolina, però la gatta era rimasta tutto il giorno nel terrazzino per via del parto delle due donne.
Forse era impressione. Le tempie gli scoppiavano, bummmbumm bumm bummm peggio d’un treno merci quando deraglia.
L’acido gli era arrivato sulla punta della lingua, in pizzinpizzo, e gliela scorticava più della soda caustica.
Le pàpole – nel palato nella mucosa delle guance – non si contavano. Un’eruzione continua, peggio della varicella, peggio della stomatite purulenta.
Qualche altro secondo era passato, e si sentiva ancora una specie di lamento come quando dai nidi, sotto la grondaia, cadeva un passerino appena nato – con la carne rosella senza un pelo si che faceva schifo a prenderlo in mano – e faceva pio pio pio fino a che moriva con la bava ricciolina sul becco schiuso.
Quando si era certi che fosse morto ci pensava Carolina con la paletta a levarlo dal terrazzino, e gettarlo nella secchia dell’immondizia. Poi metteva mano a pulire i broccoli per la cena.
Il piopio che sentiva Cornelio veniva dalla stanza di sua moglie, proprio lì accanto.
Cosa non vide Cornelio quando vi fu entrato! un tale spavento che a momenti un infarto si beccava e di sicuro ci restava secco. (Una giornata davvero memorabile quella.)
Tra le cannappèndere di sua moglie (quelle che solitamente si chiamano cosce nelle femmine normali, cioè quelle femmine che hanno fianchi petto culo ecc…) giaceva una sagoma, una sembiante scura pelosigna accravunàta.
Aveva forma di passero appena nato – di quelli che al tempo della schiusa delle uova, ogni anno, in gran numero precipitavano dal nido sopra la grondaia sul terrazzo. Ciechi implumi con le ossa a vista, a mala pena riparate da una pelluccia tremolante – e facevano piopio proprio come i passeri neonati.
Cornelio, che pure per consenso universale era ritenuto intelligente, anzi intelligentissimo, ci mise un bel po’ a capire che quella sagoma rannicchiata in forma di piopio era il frutto del parto stitico di Tommasina, ovvero Sasà.
E un altro tanto ci mise ad accettare l’idea che quella macchia di mostarda, quel niricùme di cèusa, quel budelletto attufato impeciato arrizzicanàto, all’altezza dell’inguine di Tommasina, fosse suo figlio, il suo primogenito. Nato un pelo di secondo dopo l’altro, il figlio d’Antonino. (Sì perché i due tre minuti da quel momento divennero per bocca di Cornelio: un secondo, uno e uno solo!)
La sciagurata, Tommasina, approfittando del parapiglia nella stanza accanto, dove l’altra scema partoriva, e del fatto d’esser sola, lo aveva partorito in un baleno. L’aveva cacciato fuori a schizzo come un nocciolo di ciliegia, come quando una spina in un dito schizza via per la pressione d’una piccola noce di pus che la stana, infine.
Senza un lamento aveva partorito Tommasina. Senza un dolore. Niente di niente.
E che? del resto non l’aveva sempre sospettato Cornelio che quella scema non aveva sangue?
Proprio come non aveva petto né cervello né carne. Se per carne s’intendeva strappo squarcio vena ferita.
Nella stessa posizione di prima Tommasina lo guardava con occhi medesimi sparati nel vuoto.
Occhi dove niente si poteva leggere giacché – di questo Cornelio ne era arciconvinto – niente c’era, proprio niente, ad eccezione d’un poco di rossedine per la vellicazione delle ciglia puntute come spade.
Niente, neanche a volerci fantasticare a tutti i costi. Impresa inutile e sciagurata!
Da sola aveva partorito, Tommasina, mentre la levatrice stava ancora tenendo a testa in giù, per i piedi, Rorò su cui si sprecavano a fondospunnàto (senza limite) i commenti di tutti come davanti al Bambinello Gesù.
«Quant’è grosso… di cinque mesi sembra… sette chili almeno… che collo! quanto lardo… e quant’è biondo… a suo zio Cornelio assomiglia biondo come lui e con gli occhi celesti… un torello quel torace poi… la camicina l’ascella gli serra… non lo si può fasciare… quasi cammina a quant’è duro nelle gambette…»
E infine, sopra tutti, s’affermava il commento del nonno che trapassava Cornelio peggio d’una sciabolata al centro del cuore.
«Che capitale! tutto suo nonno…» e rideva compiaciuto di quel maschio monumento di virilità. (C’è da specificare che a Bulàla capitale era l’involto dell’inguine nel suo insieme, ciolla e testicoli compresi.)
“Allora proprio morto mi vogliono!” pensava Cornelio coi sudori freddi dell’agonia addosso e i dolori dell’infarto già alla spalla, al capizzo dell’omero.
Quelle parole riguardo al capitale del nipote appena nato minacciavano d’ucciderlo, Cornelio, che quest’ennesima virtù del moccioso – virtù che in assoluto a detta di Cornelio di suo padre di tutta Bulàla era la più grande, la più significativa per un uomo – non gli riusciva di mandar giù.
Troppo era quella del capitale per Cornelio. Troppo per il suo cuore già provato da una giornata d’inferno. Per il suo cuore già nella fatale morsa dell’infarto al ventricolo.
“Un rospo era quella del capitale, e un rospo non si può ingoiare senza strozzarcisi” si diceva sottovoce Cornelio quasi a mo’ di sostegno morale, visto che tutto gli andava storto, visto che tutte le pigne della pineta cadevano in testa a lui.
Che esagerazioni!… sette chili… balle al massimo quattro… di sette i vitelli nascono e ch’è? un vitello è? – e giù constatazioni riflessioni domande retoriche. Tutto a forza di pensiero ché la lingua Cornelio ce l’aveva ancora incatramata di brutto, inchiodata al palato.
E ancora… tutta questa sceneggiata perché è nato primo, perché quella scimunita s’è decisa solo adesso a farlo l’uovo, adesso che è fuori dall’incantesimo…
La scimunita – ovviamente – era Tommasina, sua moglie, che giaceva immobile come niente fosse, con occhi di bufala, del colore del cetriolo marcio.
Intanto Cornelio sudava freddo. Non sentiva più caldo né afa. E neppure le zanzare acciambellate alla caviglia nuda, a sucargli il sangue. Non senza fatica visto che gli ultimi eventi glielo avevano congelato il sangue come una balata di ghiaccio.
Cornelio non riusciva nemmeno a chiamare la levatrice che sciacquava il figlio d’Antonino, tra l’estasi dei presenti, dentro l’acqua della vaschetta.
Cornelio, invece, impazziva pensando che nell’ammollo dell’acqua calda il capitale del moccioso rianimava.
La pelle lievitava gonfiava e i testicoli intostavano fieri tamagni spudorati, pieni come uova sode.
“Il problema era suo” pensava Cornelio mentre che la lingua gli si informicoliava, segno che gli tornava il sangue e la parola.
La spina sua era, e non restavano che pochi secondi a cavarla.
Quella specie implume aveva ricominciato il piopio e si capiva quindi che non era morto, anche perché il budello pallido cinerino che lo legava alla madre cominciava ad agitarsi e, a quel che ne sapeva lui, bisognava targliarlo subito. Sennò c’era il rischio che la madre morisse (ma quello per Cornelio era più una prospettiva che un rischio).
Il problema, il rompicapo un altro era. Come giustificarlo quel cosino implume, pelosetto come le pesche selvatiche divorate dai moschiglioni? quanto pesava? un chilo sì e no! Non un’oncia di più.
E la pelle nera come le sorbe prese dalla peronospera?
E quelle fessure d’occhi che parevano date col coltello, come si fa con le forme di pane mentre lievitano prima d’infornarle?
Non c’era una, una sola cosa che Cornelio potesse vantarne, o che gli altri potessero vantare di quella larvetta. Sia pure con tutta la buona volontà o la sfrontatezza di questo mondo.
Se almeno fosse nato per primo! Intanto avrebbe portato il nome del nonno: Rolando. Poi l’essere poco più che un aborto poteva venire compensato dall’essere il primo nipote… ma invece?!… per un destino tragico maligno non c’era neanche quello… c’era solo una macchia nera, nera come lo spurgo delle lumache tra la segatura.
Forse però qualcosa si poteva tentare. Cornelio ebbe un lampo di genio. Gli occhi gli avvamparono come se tutta la lava del vulcano vi si fosse concentrata.
Prese a misura il suo mignolo e accostatolo al cannolicchio del bambino che dondolava sui testicoli vide che in proporzione al corpo piccino non c’era che dire.
Anzi era proprio grosso, e più s’appigliava a quell’unico argumentum laudis più gli accrescitivi sul capitale di quella creaturina, che ora principiava ad agitarsi dando chiari segni di vitalità, gli fiorivano a fior di labbra: smisurato straordinario disumano gigantesco…
Insomma, a dire di Cornelio, quel bambino era tutto cazzo, solo cazzo. E lui ne era felicissimo.
Se tutto intero il suo corpo pesava un chilo allora il capitale da solo ne pesava mezzo, se non sei etti, superando così, grazie a quel meraviglioso insperato argomento di stupore, il fatto che tutto il resto del suo figliolo si concentrava in quattro miserabili etti.
E che novità è questa? forse che gli occhi contano quanto il cazzzzo? no. Forse che il naso o le gambe? no.
Qualunque parte del corpo considerasse Cornelio la risposta era sempre: NO NO e poi NOOOOO niente contava quanto il CCCCCCAZZ…
Quello era l’unico punto su cui fare leva. Un argomento magnifico che tagliava la testa al toro. E Cornelio, da buon padre, non se lo sarebbe lasciato sfuggire.
C’era solo da verificare se elogiando il capitale del suo figliolo non potesse anche, prendendo così due piccioni con una fava, svilire quello del nipote che strillava come una bestia al mattatoio.
Doveva solo, a tal fine, misurare – sempre col medesimo sistema del suo mignolo – l’appendice del figlio di Antonino.
Nella speranza di scoprirla più piccola, anche di millimetri, solo qualche millimetro, ché poi la sua maestria oratoria avrebbe trasformato in centimetri.
Fino a convincerli tutti che il figlio d’Antonino, tutto sommato, in quella del capitale, che era a Bulàla la più grande delle virtù, difettava un poco.
Come fare? Cornelio, ora che la partita si rimetteva in discussione, sembrava rinato.
La lingua schiodata dal palato si preparava a nuovi agoni verbali, a nuove pugne, aiutata da un torrente di sputi che la spurgava meglio dell’olio di ricino.
Le orecchie s’erano tese di più. A ventaglio, anzi a muscaloro.
Il cuore pompava sangue ch’era una meraviglia, per non parlare del fatto ch’era sparita ogni traccia di dolore al braccio. Dal capizzo del braccio.
Cornelio sentiva d’avere la partita di nuovo in pugno. Doveva solo giocare bene le sue carte, studiare con attenzione le ultime mosse. E lui, quanto a questo, sapeva d’essere uno stratega nato.
La prima mossa era di riuscire a restare da solo col moccioso di suo fratello, e sperare che non l’avessero ancora fasciato.
Tale agitazione era in Cornelio che credette d’avere perduto ogni nozione del tempo.
Diavolone! quanto tempo era passato?
In realtà pochi minuti, ma per il fuoco che aveva Cornelio alle meningi, anche ore potevano essere passate.
Per restare solo col moccioso d’Antonino e prendergli le misure del cazzo… non c’era che un sistema.
Farli uscire tutti, proprio tutti, dalla stanza dov’era Rorò – il moccioso d’Antonino – e concentrarli nella camera dov’era il suo figliolo, che di minuto in minuto acquistava vigore, rianimava nelle carnine, pigliava colore umano.
Le guance parevano meno pelose, la fronte meno raggrinzita.
Il naso del bambino principiava a staccarsi dalla mascella, insellandosi per suo conto ben bene sotto la fronte. Le gambe, poi, s’agitavano ch’era un piacere.
Forse anche sul peso si era sbagliato, mezzo chilo in più doveva pesare, sicuro sicuro. O forse un chilo.
La verità era che grazie a quel punto di vantaggio, il capitale – unico ma speciale! – al suo primogenito Cornelio cominciava ad affezionarsi.
Di un’affezione che negli anni sarebbe diventata divorante devastante micidiale.
Tutto scompariva da un minuto all’altro vertiginosamente!
Le quattrossa, la pelle appirrognata infichita, gli occhietti a fettuccia. Tutto scompariva, a fronte di quell’insperato provvido capitale che ridava prestigio – il prestigio usurpato dall’ignobile moccioso d’Antonino – al suo Sasà.
Cornelio cominciava ad esserne orgoglioso del suo primogenito. Come suonava bene ai suoi orecchi grandi questa parola!
Anzi da quell’istante si può dire principiò la serie infinita d’offensive da parte di Cornelio – trabocchetti tranelli incursioni calunnie ammiccamenti – nel territorio nemico, rappresentato da Rorò, a vantaggio del suo Sasà. Ma:
Cosa non fa un padre per un figlio!